Opinione scritta da Erich28592

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    01 Agosto, 2023
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Un buon romanzo di formazione con tinte gotiche

La quarta di copertina dell’edizione in mio possesso dei Misteri di Udolpho ospita le seguenti parole: “Sull’apparente struttura del racconto di formazione femminile, Ann Radcliffe modella un percorso attraverso gli spazi sublimi del terrore, nei quali l’eroina si smarrisce in una vertigine noir che la conduce oltre i limiti della ragione e della natura”. Letta infine anche l’ultima delle 1025 pagine che danno corpo ai quattro “volumi” dell’Udolpho, mi permetto di dissentire, almeno in parte, con tale chiave di lettura.
Se dovessi affibbiare un'etichetta a quest’opera della Radcliffe, la descriverei certo come un bildungsroman, che qui è tutto fuorché “apparente struttura”. Il romanzo, infatti, è interamente e inequivocabilmente costruito attorno alla crescita e alla maturazione della sua protagonista, la diciassettenne Emily St. Aubert, che, cresciuta nella tranquilla casa di famiglia nella Linguadoca, una regione montuosa francese, si ritroverà quasi d’improvviso a dover fare i conti con le premature scomparse della madre prima e del padre poi. Rimasta orfana e affidata alle cure di M.me Cheron, l’algida e arrivista sorella del defunto padre, Emily sarà costretta ad abbandonare la propria casa e il proprio paese per seguire la zia in Italia, nel castello di Udolpho, dove sarà prigioniera dell’avido e crudele Montoni, “un uomo sui quarant’anni, bello di una bellezza piuttosto rara, dotato di lineamenti virili ed espressivi, ma sul cui viso in complesso si leggevano più l’alterigia del comando e la prontezza del discernimento che qualsiasi altra qualità”. Orfana dei propri genitori, della propria libertà, e dell’affetto del giovane e affascinante Valancourt, conosciuto durante l’ultimo viaggio affrontato con il padre, Emily cercherà di fuggire da Udolpho, che scoprirà però essere legato a doppio filo al passato della sua famiglia, un passato di cui ignorava l’esistenza. La giovane protagonista si troverà così a dover crescere e maturare nel corso della storia, venendo a cambiare, nel corso della medesima, i suoi stessi presupposti di vita, le sue certezze. Accanto ai suoi continui viaggi fisici, ella compirà un vero e proprio percorso di crescita interiore, riacquisendo infine controllo della propria vita e della propria serenità.
L’epopea della giovane Emily St. Aubert viene narrata dalla Radcliffe attraverso una prosa elegante e raffinata, seppur eccessivamente prolissa: sebbene i ritmi narrativi frenetici cui siamo abituati oggi, un’epoca in cui la nostra soglia di attenzione coincide con la durata di un reel di Instagram, non siano certo paragonabili a quelli del 1794, anno di pubblicazione dell’Udolpho, che al più faceva concorrenza, quale attività ricreativa per le giovani donne borghesi dell’epoca, al ricamo, le vicende in esso narrate avrebbero potuto essere tranquillamente narrate in quasi la metà delle pagine. L’eccessiva verbosità della Radcliffe, che si palesa soprattutto in interminabili sezioni descrittive e nella stucchevole dilatazione temporale delle interazioni tra i personaggi del racconto (in misura perfino superiore al gusto dell’epoca), costituiscono gli unici veri difetti di un romanzo di formazione capace di offrire al lettore un buon intreccio, protagonisti e comprimari ben caratterizzati, una prosa curata, descrizioni paesaggistiche suggestive, e perfino qualche interessante spunto di riflessione sulla natura umana, della quale l’autrice aveva certo una profonda comprensione.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    02 Giugno, 2020
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Una testimonianza da leggere e far leggere

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”

Sarebbe per me impensabile proporvi una vera e propria recensione dei “Sommersi e i salvati”, come del resto di una qualunque opera di Primo Levi, testimone prezioso di una pagina tra le più buie della storia dell’umanità. Proverò pertanto, nella speranza di riuscirvi, a spingere ciascuno di voi a recuperare questo saggio, la cui lettura non può che lasciare un segno indelebile nell’animo di chiunque possa definirsi un essere umano.
Ed infatti, le violenze fisiche e morali di cui lo scrittore piemontese fu testimone e vittima durante la sua prigionia ad Auschwitz furono traumatiche al punto tale da spingerlo a dedicare l’intero primo capitolo di questo suo saggio al tema della “memoria dell’offesa”, rassicurando il lettore circa l’affidabilità dei propri ricordi, più volte setacciati e confrontati con le testimonianze di altri superstiti (“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace.”).
Nel secondo capitolo, invece, l’autore spiega efficacemente come ad Auschwitz il confine tra vittime e carnefici fosse ben più sfumato di quanto si potrebbe pensare: “È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro giudizio”. A tal proposito, l’esempio più agghiacciante che ci viene consegnato è quello dei Sonderkommando, le Squadre Speciali di ebrei che, in cambio di qualche piccolo privilegio, erano chiamati a gestire le camere a gas e i crematori ai quali loro stessi sarebbero stati, infine, destinati.
Coglie di sorpresa, poi, il terzo capitolo dell’opera, dedicato al tema della vergogna che avrebbero dovuto provare i Nazisti, e che invece finirono per provare i prigionieri.
Particolarmente intenso è il successivo segmento, il quarto, dal titolo “Comunicare”, nel quale Primo Levi si sofferma su un aspetto della vita nei campi di sterminio al quale spesso non pensiamo: alle urla, agli stenti, alle privazioni, alle indicibili violenze fisiche e morali subite, sommate lo stordimento legato al non capire dove vi trovate, al non sapere come comportarvi, e al perché state subendo quel che state subendo. È un orrore tanto grande da andare oltre la mia immaginazione.
Il quinto capitolo, “Violenza inutile”, è un vero e proprio pugno allo stomaco, e ci mette di fronte alla furia cieca del Nazismo, quella che i più si rifiutano di indagare e conoscere fino in fondo, consapevoli che farlo li costringerebbe a spingere il proprio sguardo nel pozzo senza fondo della follia umana.
“L’intellettuale ad Auschwitz” precede il settimo capitolo del saggio, dal titolo “Stereotipi”, in cui l’autore risponde alle domande più ricorrenti tra quelle che si è visto rivolgere nel corso degli anni, in occasione dei suoi numerosi incontri nelle scuole e con i lettori.
Chiude l’opera il capitolo “Lettere di tedeschi”, in cui Primo Levi condivide e commenta alcune lettere ricevute negli anni a seguito della pubblicazione in Germania di “Se questo è un uomo”, la sua opera più conosciuta, data alle stampe circa 40 anni prima dei “Sommersi e i salvati”.

Vi prego, recuperate questo saggio, leggetelo e fatelo leggere: è un documento storico di importanza e di attualità straordinarie.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    12 Gennaio, 2020
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Immanenza e trascendenza

“Ci sono scrittori per cui non servono introduzioni. La lettura delle loro opere è un rischio che ogni lettore deve correre in modo individuale, autonomo: troverà sempre una risposta, che nessun altro gli potrà suggerire, ai problemi, ai conflitti posti dalla propria epoca, dal proprio livello culturale.”

Con queste poche, semplici parole Fausto Malcovati apre la sua introduzione alla vita e alle opere di Fëdor Dostoevskij nell’edizione Garzanti in mio possesso del racconto “Le notti bianche”, apparso per la prima volta nel 1848 sulla rivista di letteratura russa “Annali patrii”, e ripubblicato a Mosca nel 1860.
Proprio attorno a questa riflessione vorrei costruire il mio contributo, dal momento che - ve lo confesso - quest’opera di Dostoevskij rappresenta il mio primo incontro con questo gigante della letteratura russa, nonché la mia seconda escursione letteraria di sempre nel Paese degli Zar (fino allo scorso anno, infatti, mi ero cimentato nella sola lettura del “Demone meschino” di un altro celebre Fëdor della letteratura russa, Sologub).
Partirei dunque da qui, dalla riflessione di Malcovati, che condivido in pieno, specie se applicata a questo racconto: immaginiamo per un istante che a leggere quest’opera sia un giovane adolescente - qualcuno che, anche solo per ragioni squisitamente anagrafiche, si trovi sprovvisto non soltanto di una buona conoscenza della letteratura russa (come nel mio caso), ma perfino di una buona infarinatura circa il “mondo Russia”, i.e. storia, forma di governo, società, etc. Ebbene, anche il nostro giovanissimo lettore potrebbe appassionarsi a questo acquerello emotivo di Dostoevskij; la Pietroburgo che descrive - impalpabile e sognante - potrebbe tranquillamente essere la Berlino, la Milano, o la Parigi di oggi. Infatti, l’attenzione dell’autore russo si rivolge principalmente all’animo umano, una realtà trascendente che non conosce spazio né tempo: “In questi angoli [...] scorre una vita, come dire, completamente diversa, che non assomiglia a quella che ferve accanto a noi, ma è come quella che forse si svolge nello sconosciuto reame di qualche favola, e non qui, in questa nostra seria, arciseria epoca.”
Ma di cosa parla questo racconto? Parla di noi, di tutti noi che sogniamo ad occhi aperti, spesso perdendo il contatto con quanto ci circonda, semplicemente fantasticando tra noi e noi, leggendo un libro, o ancora, come è frequente al giorno d’oggi, perdendoci davanti allo schermo di uno smartphone: “Adesso egli nota a malapena la strada di cui prima ogni minimo particolare poteva colpirlo. Adesso la ‘dea della fantasia’ [...] aveva già tessuto con la sua mano capricciosa il suo aureo ordito e aveva cominciato a sviluppare dinanzi a lui gli arabeschi di una vita inaudita e fantastica, e, chissà, forse con la sua mano capricciosa l’aveva già trasportato al settimo cielo di cristallo dall’ottimo marciapiede di granito per il quale stava facendo ritorno a casa. Provate a fermarlo adesso e domandategli all’improvviso dove si trova e per quali vie sta camminando: probabilmente non ricorderebbe nulla, né dove stava andando, né dove si trova adesso e, arrossendo per la stizza, sicuramente inventerebbe qualcosa per salvare le apparenze.”
Dostoevskij si mostra consapevole tanto del fascino di queste esistenze parallele e trascendenti, quanto del pericolo che rappresentano: “E domandi a te stesso: dove sono i tuoi sogni? E scuotendo la testa esclami: come volano via in fretta gli anni! E di nuovo ti domandi: cosa ne hai fatto dei tuoi anni? Dove hai seppellito il tuo tempo migliore? Hai vissuto, oppure no?”

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    15 Dicembre, 2019
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In trappola

Alicia Berenson è ormai da tempo l’ombra di se stessa, la giovane pittrice di successo che era stata fino a pochi anni prima.
Tutto cambiò la notte in cui suo marito Gabriel, rincasato dopo una giornata di lavoro, venne freddato da cinque colpi di pistola, in pieno volto. Le dinamiche dell’accaduto lasciarono pochi dubbi agli inquirenti: ad esplodere quei colpi non poteva che essere stata sua moglie.
Da quel momento in poi, Alicia si chiuse in se stessa, rifiutandosi di interagire - verbalmente o in qualsiasi altro modo - con chiunque; la giovane artista affidò la propria testimonianza ad una tela che dipinse a pochi giorni dal tragico evento, in attesa del processo che l’avrebbe dichiarata colpevole dell’omicidio di suo marito, e che fece spalancare per lei le porte di un ospedale psichiatrico, a seguito del riconoscimento della sua seminfermità mentale.
Ma cos’è successo veramente quella notte? E perché Alicia Berenson si è rifugiata in un mutismo apparentemente impenetrabile?
Theo Faber, un giovane psicologo criminale, si convincerà che la chiave di tutto sia l’Alcesti, l’ultima opera dipinta da Alicia, e deciderà di mettersi in gioco, tanto professionalmente quanto umanamente, per salvare la propria paziente...

*

Era da parecchi mesi che non mi concedevo una lettura così leggera (non tanto per tematiche, quanto per genere letterario e “peso specifico” dell’opera), e devo dire che ho trovato “La paziente silenziosa” un romanzo godibilissimo. I ritmi sono serrati, la narrazione avvincente, i personaggi principali ben caratterizzati; dovessi fare un appunto, avrei forse rafforzato leggermente certi passaggi logici, rendendo la narrazione più fluida, consequenziale e digeribile. Tuttavia, il mio è nulla più che un appunto, che riflette peraltro un gusto squisitamente personale.

L’opera di Alex Michaelides è ben architettata, l’impianto narrativo è originale e solido, ben strutturato; la lettura scorre che è un piacere - questo romanzo è un autentico “page-turner” -, e il colpo di scena che sorprende il lettore nel finale è più di un semplice colpo ad effetto: per metabolizzarlo, ho dovuto alzare gli occhi al cielo per qualche minuto, per riscrivere mentalmente quanto avevo letto fino a quel momento, che sembrava non avere più alcun senso, fino a che, improvvisamente, ha iniziato ad averne più che in precedenza...

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    03 Ottobre, 2019
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Home Is where the heart is

Sally Carrol Happer è una spensierata diciannovenne nata e cresciuta a Tarleton, una tranquilla cittadina della Georgia, nel profondo Sud degli Stati Uniti. Nelle poche decine di pagine di questo racconto, che l'edizione in mio possesso ribattezza "cortoromanzo", accompagneremo la giovane protagonista ad Asheville, nel North Carolina, dove ritroverà Harry Bellamy, un ragazzo di cui si era invaghita qualche tempo prima: "Furono sufficienti un tranquillo pomeriggio e una serata davanti a un fuoco brillante, dal momento che Harry Bellamy aveva tutto ciò che lei voleva".
Giunta nel Nord degli Stati Uniti, Sally Carrol si troverà dilaniata tra il suo amore per Harry - che il giovane non mancherà di mettere a dura prova con esternazioni poco felici -, e la nostalgia per la sua vita in Georgia. Il climax narrativo verrà raggiunto in occasione di una visita della coppia presso un enorme e scenografico palazzo di ghiaccio, tra i cui corridoi Sally Carrol finirà per perdere non solo l'orientamento, ma anche se stessa. Questo spiacevole episodio la convincerà a tornare dalla sua famiglia, in Georgia, dove imparerà ad apprezzare la semplicità della sua vecchia vita, nonché le persone che da sempre le sono accanto.

"'L'acqua è bollente come quella di una pentola, Sally Carrol. Ti va una nuotata?'. 'Non mi va di muovermi', sospirò pigramente Sally Carrol, 'ma credo che verrò'".

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    04 Agosto, 2019
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Crescere

"Certe volte gli mancava di nuovo il terreno sotto i piedi; si sentiva instabile, come quel giorno a casa quando aveva letto per la prima volta delle enormi ossa: quando l'idea di tutto ciò che non sapeva gli aveva fatto girare la testa, quando aveva capito che a casa non ci poteva restare."

Le vicende narrate in "West", opera prima della scrittrice britannica Carys Davies, si dipanano sullo sfondo suggestivo dell'America coloniale, una manciata di agglomerati urbani e piccoli villaggi che trapuntano vaste pianure ancora inesplorate.

John Cyrus Bellman, il protagonista dell'intreccio, legge su un articolo di giornale che nelle pianure del West sono stati rinvenuti i resti di antiche creature mastodontiche, e finisce per convincersi che tali animali preistorici possano ancora pascolare da qualche parte nell'inesplorato Ovest. L'uomo sente crescere dentro di sé l'esigenza di lasciare la propria abitazione in Pennsylvania, nonché la sua dolce figlioletta - la piccola Bess - ed esplorare l'ignoto, alla ricerca di quelle creature, nella speranza di dare un senso alla propria esistenza e di compiere qualcosa di grande, una spedizione avventurosa che possa essere ricordata negli anni a venire.
Le sconfinate praterie americane e la grandiosità dell'impresa che lo vede coinvolto porteranno il giovane padre avventuriero a interrogarsi nuovamente su cosa davvero gli occorra per essere felice, e su come sia proprio dell'essere umano realizzare quanto sia prezioso ciò che già possiede solo nel momento in cui si trovi ad esserne sprovvisto: il messaggio di fondo di questa fiaba moderna, le cui pagine sono permeate di un'atmosfera sognante, è molto semplice, ma non per questo banale, come non banale, ma anzi totalmente inaspettato è il finale, vera e propria esegesi del dolceamaro.

Con una prosa elegante ed essenziale, Carys Davies ci propone un'insolita "fiaba per adulti", toccando temi delicatissimi - l'amore di una bimba per il proprio padre, le attenzioni perverse di uomini di mezz'età per una bambina, il rapporto tra coloni inglesi e nativi americani, e altro ancora - con intelligenza e senso della misura, trovando sempre le parole adatte e dando loro il giusto peso.

Se chi ben comincia è a metà dell'opera, credo che sentiremo ancora parlare di questa promettente scrittrice gallese.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    24 Luglio, 2019
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Grazie, Maestro

Vigata, la cittadina nata dalla fantasia di Andrea Camilleri, si anima per la (pen)ultima volta.

Il tragico suicidio di Carmine Spagnolo, operaio della Trincanato, fabbrica di scafi del paese prossima al fallimento, cattura l'attenzione del commissario Montalbano: come è possibile che un lavoratore si sia tolto la vita dopo aver perso il proprio posto di lavoro, la fabbrica presso cui era impiegato si trovi sull'orlo di un precipizio, ma il suo proprietario, detto Giogiò, navighi nell'oro? Grazie al suo ormai proverbiale fiuto investigativo, Montalbano arriverà a collegare Giogiò ad una misteriosa imbarcazione che circa sei mesi prima era comparsa per la prima volta nel porto di Vigata...

-

Un Montalbano insolito, quello che ritroviamo nel "Cuoco dell'Alcyon", che si divide tra la sua Sicilia e la Liguria dell'eterna fidanzata Livia: il ritmo narrativo, specie nella seconda metà del romanzo, si fa incalzante e serrato, come mai prima d'ora in un romanzo di Camilleri, che qui compie un'inedita (e godibilissima!) "invasione di campo" nel genere thriller; il celebre commissario di Vigata si troverà coinvolto in una delicatissima indagine internazionale, collaborerà con un agente dell'FBI, ed entrerà perfino in azione sotto copertura: un intreccio degno di una "pillicola 'mericana", per dirla come lo scrittore agrigentino.

*

Leggo i romanzi di Camilleri da quando avevo tredici anni.

Con Camilleri ho imparato un dialetto che non conoscevo.
Con Camilleri ho imparato che delle nostre scelte dovremmo sempre rendere conto a noi stessi prima che a chiunque altro.
Con Camilleri ho scoperto una terra meravigliosa come la Sicilia, ricca di bellezza e contraddizioni, i cui colori, sapori e atmosfere permeano le pagine di questi libri, preziosi affreschi di vita.

Grazie di tutto, Maestro.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    17 Mag, 2019
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Verità

Albertine e Fridolin sembrano una normale coppia coniugale della borghesia viennese di fine Ottocento; conducono una vita agiata e apparentemente tranquilla.
Una sera, però, messa a letto la figlioletta e congedata la governante, marito e moglie si confessano vicendevolmente di aver provato attrazione per degli sconosciuti durante un ballo in maschera cui avevano preso parte la sera precedente; a queste prime confessioni ne seguono altre, simili nei contenuti, a proposito di fatti risalenti all’estate precedente, quando la coppia si trovava in villeggiatura all’estero. Queste reciproche rivelazioni turbano nel profondo i due coniugi, i cui animi vengono segretamente solleticati dal desiderio di abbandonare i costumi borghesi per indossarne di nuovi, slegati da qualsivoglia morale sociale, e che consentano loro di assecondare le proprie fantasie proibite, “vendicando” i reciproci tradimenti; tale desiderio, però, rimarrà tale - potenza che non diventerà atto, per dirla con Aristotele.
Il titolo di questo breve romanzo, “Doppio sogno”, costituisce - il lettore se ne avvedrà a lettura ultimata - la chiave per interpretare queste pagine: mentre Fridolin, il marito, rincorrerà il piacere nel mondo reale, Albertine, la moglie, lo troverà in quello onirico. Di qui, appunto, l’importanza del titolo, che apre le porte ad un elegante dilemma: quali fattori danno struttura alla nostra identità? ”Realtà” coincide con “verità”? O parte della realtà giace in una dimensione trascendente, estranea al mondo reale?

“‘La realtà di una notte, anzi la realtà di un’intera vita umana, non ne rappresentano la più intima verità.’ ‘E nessun sogno’, disse lui con un lieve sospiro, ‘è interamente sogno.’”

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    11 Mag, 2019
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Fatale ineluttabilità

“La natura non dice troppo spesso ‘guarda’ alla povera creatura nel momento in cui il guardare potrebbe portare a una lieta conclusione.”

Gran Bretagna, XIX secolo. Tess Durbeyfield è una giovane donna - secondo i canoni sociali odierni, poco più di una bambina - di eterea bellezza; la sua bontà e il suo candore sono commoventi, i suoi sentimenti puri, di una purezza propria solo degli animi più immacolati: “In quel tempo della sua vita era come un vaso colmo d’emozioni non ancora imbevute dall’esperienza.”.
In una tranquilla sera di maggio, un curato di campagna, incontrandolo sulla via del ritorno a casa, rivela a John Durbeyfield, padre della giovane Tess, di avere di recente scoperto che la famiglia dell’uomo vanterebbe nobili origini, discendendo dall’antica casata normanna dei D’Urberville; questo incontro dal retrogusto manzoniano si rivelerà fatale - nel senso più etimologico del termine - per la povera Tess, facendola scivolare, lentamente ma inesorabilmente, tra le braccia di un destino già scritto, che la giovane tenterà di sfidare con commovente determinazione, ma cui tenderà infine la mano, con rassegnata serenità.

“Appoggiandosi agli alveari, col viso rivolto verso l’alto, prese a fare considerazioni sulle stelle, i cui freddi battiti pulsavano in mezzo alla nera vacuità del cielo in un sereno distacco da quelle pagliuzze di vita umana; le chiese quanto quelle luci scintillanti fossero lontane e se Dio si trovasse dietro a esse.”

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Consiglio la lettura di questo romanzo a chi ama ampie e dettagliate descrizioni di paesaggi naturali, nonché riflettere sulla complessità dell’animo umano.
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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    26 Gennaio, 2019
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Amare

Kiev, 1914. La piccola Ada vive nel ghetto ebraico dell’odierna capitale ucraina. La città, infatti, risulta tacitamente divisa in due aree: alla “città bassa” (il ghetto, appunto), popolata dalle classi più povere e disagiate, fa da contraltare una “città alta”, che ospita le élite, gli appartenenti alla ‘intelligencija’ locale.
Sfuggendo ad un feroce pogrom, una delle cieche manifestazioni antisemite tragicamente comuni nell’Unione Sovietica del tardo Ottocento e di inizio Novecento, la piccola Ada cerca rifugio presso la lussuosa dimora dei Sinner, ricchi banchieri residenti nella parte alta della città. Qui rimarrà incantata - ed il suo cuore rapito - dalla visione del giovane Harry Sinner, un bambino ebreo così simile a lei (i due sono perfino lontani parenti), eppure, al tempo stesso, così diverso per condizione sociale e stile di vita.
Diversi anni più tardi, Ada, ventenne e sposata con Ben, amico d’infanzia, ritroverà Harry, il cui dolce ricordo aveva continuato ad albergare nel cuore e nella mente della giovane ragazza: galeotto sarà un quadro dipinto da Ada esposto nella vetrina di un negozio, il cui soggetto e le cui atmosfere riporteranno Harry ai luoghi della propria infanzia, così diversa eppure così simile a quella di Ada; il giovane ne rimarrà colpito al punto tale da domandare al negoziante di poterne conoscere l’autrice...

Ritengo che esistano tre tipologie di romanzo che valga la pena leggere: il romanzo che ti rapisce, catturandoti immediatamente nel proprio vortice narrativo, il romanzo ‘a carburazione lenta’, che migliora pagina dopo pagina, ed infine quegli intrecci apparentemente ‘piatti’, quasi banali nella loro semplicità, seppur stilisticamente notevoli, il cui messaggio arriva nel finale, inaspettato, travolgendoti. È in quest’ultima categoria che colloco “I cani e i lupi” della Némirovsky, le cui ultime pagine raccontano, con un candore e una delicatezza commoventi, di una scelta coraggiosa e sofferta, che molto può rivelare di ciò che significhi amare.

“Fino allora si era limitata a prendere coscienza di ciò che la circondava con la naturale curiosità di una bambina intelligente, ma nessuno sguardo sul mondo esterno le aveva mai procurato un particolare piacere. Ora, invece, una sensazione di piacere, acuta e dolce, penetrò in lei come una freccia. Vide per la prima volta il colore delizioso del cielo, lilla e pistacchio quasi fosse un sorbetto; una luna gialla, pallida, tonda e senza alone, galleggiava nell’aria ancora chiara, e dall’orizzonte accorrevano nuvolette morbide e leggere, che sembravano aspirate dalla luna e come fuse in essa. Ada non aveva mai visto un cielo più bello.”

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Racconti
 
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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    14 Agosto, 2018
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Vivere

“They climbed stiffly from their seats and stood on the ridge peak and looked down into the Pastures of Heaven. And the air was as golden gauze in the last of the sun.”

C’è chi definisce quest’opera una raccolta di racconti, e chi ritiene si tratti invece di un romanzo.
“I Pascoli del Cielo” si compone di dodici parti: un’introduzione, un grappolo di storie, un epilogo.
Ciascuna delle vicende narrate nei ‘capitoli’ centrali del libro è in un certo senso autoconclusiva, e però, al contempo, legata a tutte le altre. Il punto di contatto tra queste storie è l’ambientazione: i Pascoli del Cielo, l’amena valle californiana che, abbracciata dai monti e bagnata dal sole, ospita le anime di una piccola (e pittoresca) comunità rurale, uomini e donne semplici alle prese con le gioie, le difficoltà e i dolori della vita quotidiana.

“I Pascoli del Cielo” è un’opera delicata eppure spietata, che contrappone, semplicemente accostandole, la placidità della Valle ai destini, malinconici quando non crudeli, dei suoi sventurati abitanti. Un’antica maledizione sembra infatti aleggiare sui verdi Pascoli del Cielo, a cui nessuno sembra essere immune.
L’espediente della maledizione consente a Steinbeck di sviluppare il tema, a lui caro in gioventù, del ‘pessimismo deterministico’: gli abitanti della valle, colpiti a turno da una propria, personale sventura, sembrano accettare di buon grado il proprio destino, con dignità e serenità, quasi abbracciandolo, come fosse un vecchio amico.

“Most lives extend in a curve. There is a rise of ambition, a rounded peak of maturity, a gentle downward slope of disillusion and last a flattened grade of waiting for death.”

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    13 Agosto, 2018
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Tra oriente ed occidente

«Considerò la sua identità, una cosa che non aveva mai fatto prima, finché la testa non gli girò. Era una figurina insignificante nel rombante turbinio dell’India, e stava andando a sud, verso un destino sconosciuto.»

Kimball O’Hara, detto Kim, è il figlio quattordicenne di un sottufficiale britannico di stanza in India. Orfano di entrambi i genitori fin dalla prima infanzia, cresce libero e selvaggio per le strade di Lahore, palestre di vita orientale. Un giorno, per puro caso, Kim incontra un anziano ‘lama’, un monaco tibetano alla ricerca del ‘Fiume della Freccia’, nelle cui acque intende immergersi per liberarsi finalmente della ‘ruota della vita’, il ciclo di esistenze terrene nel quale tutti noi siamo imprigionati. Kim, affascinato dal sant’uomo, si offre di diventare per lui una sorta di discepolo, il suo ‘chela’. Durante il viaggio, il giovane O’Hara verrà riconosciuto dal reggimento cui apparteneva il padre e, separato dal suo ‘lama’, verrà istruito presso un collegio britannico, dove verrà iniziato allo spionaggio al servizio della Corona inglese.

“Kim”, romanzo picaresco di Età vittoriana (fu in realtà pubblicato nel 1901, anno in cui terminò il lunghissimo regno della Regina Vittoria, ma presenta molte delle caratteristiche tipiche dei romanzi di quell’epoca), ruota interamente attorno alla crescita morale del suo giovane protagonista. Vivendo la propria vita a cavallo tra lo spiritualismo orientale e il materialismo occidentale, Kim imparerà presto che le diversità, opportunamente coltivate e bilanciate con sapienza, possono rivelarsi le nostre più grandi ricchezze.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    24 Luglio, 2018
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La verità sulla scomparsa di Stephanie Mailer

Il primo amore non si scorda mai.
Con "La scomparsa di Stephanie Mailer", Joël Dicker torna alle origini della sua produzione letteraria, cimentandosi nuovamente con il genere poliziesco, cinque anni dopo "La verità sul caso Harry Quebert", che lo fece conoscere al grande pubblico.
Essendo questo, appunto, un ritorno al genere che lo rese celebre, ho ritrovato con piacere alcuni elementi di stile che avevo apprezzato nella "Verità sul caso Harry Quebert". Una prosa asciutta, innanzitutto, essenziale, perfetta per il genere: un poliziesco nel senso più tradizionale del termine, ma con i ritmi serrati tipici del thriller.
Ho accennato ad una prosa asciutta. Credo che qualche parola in più su questo punto vada spesa, dal momento che qualcuno potrebbe farmi notare, giustamente, che l'ultima fatica di Dicker sfonda il tetto delle settecento pagine! Ebbene, mi credete se vi dico che scorrono che è un piacere? Ho letto questo romanzo in meno di una settimana; il mio sguardo scorreva agile sulle parole, sfiorandole appena. Ciò è dovuto alla capacità dell'autore di ricorrere a proposizioni brevi e musicali, e all’aver dato vita ad una trama densissima, ricca di colpi di scena -gestiti con sapienza ed equilibrio- che si susseguono incessantemente.
Settecento pagine, di cui non una sola risulti superflua. Questo è il vero punto forte di Dicker: un intreccio ricco e solidissimo, il cui disegno apparirà chiaro solo a lettura ultimata, non una pagina prima.
Sulla trama preferisco tacere, affinché possiate godere appieno di questo romanzo.
Vorrei però sollecitare ulteriormente la vostra curiosità accennando a due ulteriori elementi tipici dello stile di questo giovane autore: la coralità e l'analessi.
I romanzi polizieschi di Dicker, ormai è chiaro, sono splendidi intrecci corali: non esiste un protagonista, ne esistono decine. E vi affezionerete a tutti (o quasi!), vi do la mia parola. Capita sovente, anche agli scrittori più famosi che, portando avanti più narrazioni parallele, una o più tra queste risultino deboli, sottotono: a Dicker questo non accade, mai.
Quanto all'analessi, è forse il vero biglietto da visita del giovane autore francese: tanto nella "Verità sul caso Harry Quebert" quanto nella "Scomparsa di Stephanie Mailer", infatti, le indagini presenti richiamano un'indagine passata, considerata chiusa decenni prima.

E in tutto ciò, sapete qual è la cosa migliore? Che alla fine tutto torna, a dispetto di ciò che troppo frequentemente accade in romanzi di questo tipo.

Appagante.

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Fantascienza
 
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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    20 Mag, 2018
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Una voce fuori dal coro (la mia)

Negli ultimi anni, raramente mi sono avvicinato alla letteratura di genere. Spesso me ne sono chiesto il perché, eppure non ho ancora maturato una risposta solida, convincente. Le sue limitazioni più significative rispetto alla narrativa generale credo possano essere compendiate in un’unica (seppur generica) riflessione: la letteratura di genere ha mani e piedi legati, è ostaggio di un elevato tasso di prevedibilità, primariamente in termini di trama e stile narrativo. “Fahrenheit 451”, classico del genere distopico-fantascientifico, ahimè, non si è rivelato essere l’eccezione alla regola che speravo di incontrare.
Partiamo dalla trama. Montag è un pompiere, il che, nel mondo in cui vive, comporta appiccare incendi anziché domarli. Ciò allo scopo di bruciare i libri, banditi dalla società in quanto portatori, grazie alle idee in essi contenute, di tensioni e conflitti sociali. Stando a quanto descritto da Bradbury, eliminando i libri, ci trasformeremmo tutti in esseri apatici, freddi, insensibili e pure smemorati (ad esempio, Mildred, moglie di Montag, il pompiere protagonista del romanzo, non ricorda neppure come sia avvenuto il suo primo incontro con il marito).
Bene.
Anzi no.
Un giorno, tornando a casa dopo una lunga giornata di lavoro, Montag si imbatte in una giovane ragazza, la figlia dei suoi vicini, la quale gli appare fin da subito diversa da chiunque altro: osserva il cielo, coglie fiori, parla con le persone.
Questo incontro farà scattare qualcosa in Montag, qualcosa che lo porterà a mettere in discussione la società in cui vive e lo scopo stesso della sua esistenza.
D’accordo: ora che Montag ha incontrato questa ragazzina, le sue certezze cominceranno lentamente a sgretolarsi...
E invece no.
No.
Accade tutto dall’oggi al domani: Montag nota questa ragazzina accarezzarsi il mento con un fiore, le parla per qualche minuto, e decide ex abrupto di tramare contro il mondo intero.
Mi fermo qui, perché non amo fare spoiler, a prescindere dal fatto che una lettura mi abbia entusiasmato o meno: credo che chiunque abbia il diritto di leggere qualunque opera con ‘mente vergine’, almeno quanto ai suoi contenuti.
Passando brevemente allo stile, l’ho trovato irritante e inopportunamente pretenzioso: da un romanzo di fantascienza non mi aspetto certo la prosa di Steinbeck. Mi aspetto che sia semplice, con ritmi ben diversi da quelli di un grande classico di narrativa generale, ma coerente con se stessa sì, questo me lo aspetto.
E invece no: si passa da voli pindarici e metafore ardite (troppo ardite) ad una prosa per ragazzi.
No, così proprio non va.

Scuserete, spero, il tono di questa recensione, inusuale e un po’ sopra le righe, ma era uno ‘sfogo’ che sentivo di dover fare. Me lo sentivo, perché credo che “Fahrenheit 451” costituisca una clamorosa occasione mancata: ogni volta che prendo in mano questo libro, vengo assalito dal nervoso; ogni volta che rifletto sulla sua trama, penso che l’idea di fondo attorno a cui è stata costruita sia in realtà più che valida: qualche elemento in più, una migliore caratterizzazione dei personaggi, una maggiore attenzione ai dettagli, ed uno stile più coerente, è ciò che a mio parere manca a questo romanzo per spiccare il volo.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    08 Mag, 2018
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Una sinfonia interrotta per sempre

“Le vie erano deserte. I negozianti abbassavano le saracinesche. Nel silenzio si udiva soltanto il loro rumore metallico, quel suono che nelle città minacciate, all’alba di una sommossa o di una guerra, colpisce con violenza l’orecchio.”
Le strade di Parigi si svuotano, intere famiglie fuggono in cerca di salvezza: l’esercito del Reich è alle porte.
“Temporale di giugno”, il primo dei due componimenti che danno vita a “Suite francese”, è uno scorcio sull’esodo di alcune famiglie parigine, che dall’oggi al domani si trovano costrette a sciamare verso le campagne, assicurando vite intere ai bagagliai delle loro automobili: “Era quasi notte, ma la macchina dei Péricand era ancora ferma davanti alla porta: sul tetto era stato sistemato il morbido e alto materasso che da ventotto anni guarniva il letto coniugale”.
“Dolce”, il secondo componimento della ‘Suite’ (la Némirovski ne aveva previsti cinque, ma la cieca furia nazista pose prematura fine alla sua esistenza), offre invece uno sguardo sorprendentemente delicato sull’occupazione tedesca di un villaggio della campagna francese nell’estate del 1941.

Sfogliando le pagine dei quaderni su cui la Némirovski era solita annotare idee e spunti per la stesura delle sue opere, un appunto in particolare ha catturato la mia attenzione: “Non dimenticare mai che la guerra finirà e che tutta la parte storica sbiadirà. Cercare di mettere insieme il maggior numero di cose, di argomenti... che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052”.
Tanto in “Temporale di giugno” quanto in “Dolce”, in effetti, la guerra altro non è che un’eco lontana, affievolita da emozioni e sensazioni quasi palpabili, e da una natura commovente, raccontata con un lirismo garbato e melodioso.

“Suite francese” è una raffinata sinfonia, di cui, purtroppo, non conosceremo mai il finale.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    26 Aprile, 2018
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Il testamento spirituale di Steinbeck

In questo romanzo ho trovato me stesso, chi mi circonda, e perfino voi.
In “East of Eden”, pagina letteraria tra le più ispirate del Novecento, Steinbeck si muove con sapienza tra le pieghe più intime dell’animo umano, seguendo da vicino le storie di due famiglie, gli Hamilton e i Trask, mentre sullo sfondo scorre oltre mezzo secolo di storia americana.
Nell’affresco letterario di Steinbeck risaltano su tutti due personaggi: Samuel, capostipite della famiglia Hamilton, grazie alla sua bontà, alla sua integrità morale e alla sua saggezza, e l’indecifrabile Kathy Ames, grazie alla sua freddezza, al suo cinismo, e alla sua crudeltà.
Nel microcosmo di “East of Eden” Kathy Ames e Samuel Hamilton rappresentano due prototipi di essere umano agli antipodi; nel mezzo, idealmente, si collocano tutti gli altri attori dell’intreccio, ciascuno dei quali gioca un ruolo ben preciso nell’economia del medesimo: “La valle dell’Eden” è un romanzo corale, e Steinbeck gestisce con maestria i diversi binari narrativi su cui, parallelamente e simultaneamente, corre la narrazione, dando vita ad un intreccio strutturalmente complesso, eppure di semplice comprensione.
Se dalle sue opere di gioventù (“The Pastures of Heaven” su tutte) emerge ciò che venne definito ‘pessimismo deterministico’ (l’uomo non è artefice del proprio destino, ma è destinato a subirlo), dalle pagine di “East of Eden” si leva un messaggio di speranza: timshel, ‘tu puoi’ in lingua ebraica. ‘Noi possiamo’ e ‘possiamo non’, siamo liberi di scegliere:

“Samuel disse: ‘[...] Perché questa parola è così importante?’. La mano di Li tremava mentre riempiva le sottili tazzine. Bevve la sua d’un fiato. ‘Ma non vedete?’, esclamò. ‘La traduzione americana della Bibbia ordina agli uomini di trionfare sul peccato, e il peccato si può chiamare ignoranza. La traduzione di Re Giacomo fa una promessa con quel ‘tu avrai’, intendendo che gli uomini trionferanno sicuramente sul peccato. Ma la parola ebraica timshel - tu puoi - implica una scelta. Potrebbe essere la parola più importante del mondo. Significa che la via è aperta. Rimette tutto all’uomo. Perché se ‘tu puoi’, è anche vero che ‘tu non puoi’.’”

‘East of Eden’ è il testamento spirituale di John Steinbeck:

“E questo credo: che la mente del singolo individuo, libera di esplorare ovunque, è la cosa più preziosa del mondo. E per questo sono pronto a battermi: per la libertà dell’intelletto di imboccare qualsiasi direzione desideri, senza dettami. E contro questo devo battermi: qualsiasi idea, religione o governo che limiti o distrugga l’individuo. Questo è ciò che sono e ciò che voglio. Capisco bene perché un sistema costruito su uno schema ripetitivo tenti di annientare il libero pensiero: perché la mente indagatrice è la sola cosa capace di distruggerlo.”

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    08 Gennaio, 2018
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Tratto da una storia vera

“Si trattava senza dubbio della più perfetta pietra che avessi mai visto, tagliata perfettamente nella più brillante ametista dal colore viola profondo.”

Qualche settimana fa stavo sfogliando il vasto catalogo online della casa editrice “Mattioli 1885”, la raffinatezza delle cui edizioni è una delizia per il tatto e per la vista.
Dopo qualche decina di minuti, il titolo di questo agile racconto di nemmeno cinquanta pagine (al netto dell’ottima introduzione di Gianluca Salvatori e dell’interessante biografia dell’autore incluse nel volumetto) ha catturato la mia attenzione, senza alcun reale motivo; leggendone oggi il contenuto, non ho potuto fare a meno di lasciarmi suggestionare dall’oscuro fascino che lo permea. È utile precisare, a tal proposito, che le vicende elegantemente narrate in questo racconto sono ispirate da una storia vera, che coinvolse in prima persona l’autore di queste pagine.
La pietra preziosa che dà il titolo a questo racconto ne è a tutti gli effetti la sola protagonista.
La gemma, in virtù della sua straordinaria bellezza, venne sottratta da un tempio durante le rivolte indiane del 1855 e portata in Inghilterra da un ufficiale della Cavalleria del Bengala. Lo zaffiro viola, però, trafugato con la forza dal luogo sacro cui apparteneva, portò con sé una potentissima maledizione: chiunque l’abbia posseduto da quel momento in poi ha vissuto un’esistenza dannata, senza pace; vari e vani sono stati i tentativi di disfarsi del misterioso oggetto, che ha sempre trovato un modo per tornare tra le mani del suo proprietario.

Edward Heron-Allen, l’autore di questo racconto (il nome riportato in copertina non è che uno pseudonimo) visse a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, e fu senza dubbio una delle menti più sorprendenti del suo tempo: fu ciò che gli anglosassoni definiscono “a polymath”.
Per dare un’idea della sua poliedricità, egli fu un rispettabile avvocato, un brillante traduttore, un romanziere, un poeta, un giornalista, un archeologo e un paleontologo; scrisse di storia e di preistoria, si occupò con profitto di musica (la sua opera “Violin making as it was and is” è considerata ancora oggi la più completa per avvicinarsi all’arte di costruire violini), fu un chiromante di fama internazionale, nonché un grande appassionato di orticultura.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    05 Gennaio, 2018
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Il coraggio di comprendere

“Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede.”

Atticus Finch è un padre di famiglia paziente e di rara sensibilità, nonché un integerrimo uomo di legge.
Un uomo di colore, Tom Robinson, viene ingiustamente accusato di violenza carnale nei confronti di una giovane ragazza bianca, e ad Atticus viene assegnata la difesa d’ufficio dell’imputato afroamericano.
Siamo in Alabama, uno degli stati più conservatori d’America, negli anni bui della Grande Depressione. Nonostante queste cupe premesse, il romanzo risulta carico dell’entusiasmo e della curiosità della piccola Scout, figlia minore di Atticus, nonché voce narrante dell’intreccio.
“Il buio oltre la siepe”, a ben vedere, è soprattutto una finestra sulla fine dell’infanzia della piccola Scout, che passerà ben presto dai pomeriggi trascorsi a giocare con il fratellino Jem e l’amico Dill all’aula di tribunale dove il padre tenterà in tutti i modi di evitare al povero Tom Robinson una fine orribile: è in questo luogo che la piccola si renderà conto, grazie alla semplice ma disarmante logica tipica dei bambini, che c’è qualcosa di profondamente ingiusto nella doppia morale di chi le sta attorno.

-

L’ignoranza genera pregiudizi, i pregiudizi generano paura; le nostre paure cessano di essere tali nel momento in cui siamo disposti ad affrontarle: “Non riuscirai mai a cambiare le persone limitandoti a parlare bene, bisogna che siano loro a desiderare di imparare”.

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    19 Novembre, 2017
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O lo si ama, o lo si odia

Meursault vive la propria vita con assoluta indifferenza, abbandonandosi al flusso degli eventi: prende parte quasi forzatamente al funerale della madre (di cui non ricorda con esattezza neppure l’età), svolge le proprie mansioni lavorative con inerziale diligenza, vive quasi apaticamente la relazione con la fidanzata Marie, non prova rimorso neppure dopo aver ucciso un uomo su una spiaggia assolata; quest’ultimo episodio lo porterà, imputato di omicidio premeditato, a dover affrontare un processo in tribunale, nonché a (non) dare un senso alla propria esistenza.
L’apatia di Meursault è opportunamente sottolineata dalla penna di Camus, la cui prosa risulta volutamente piatta, quasi noiosa, almeno fino ad una ventina di pagine dalla fine del romanzo.
Il finale, appunto. Condannato alla ghigliottina, Meursault giunge alla conclusione che il modo in cui ha condotto la propria esistenza sia il più logico possibile: ogni essere umano è destinato a spegnersi nel giro di qualche decina d’anni, motivo per cui vivere intensamente, affannandosi per raggiungere qualsivoglia obiettivo sarebbe di fatto fatica sprecata.

Mi sento quasi in imbarazzo nel criticare uno scrittore dello spessore di Camus, ma questa lettura non è stata in grado di trasmettermi alcunché: mi ha lasciato -ironia della sorte- indifferente. Inoltre, l’idea stessa che tanto valga vivere nell’indifferenza, non avendo la nostra esistenza alcun senso (premessa già di per sé opinabile), è a mio parere sterile: qualora foste costretti ad affrontare un viaggio con persone diverse da quelle con cui avreste preferito affrontarlo, chiudereste aprioristicamente le porte ai bei momenti che quel viaggio potrebbe in ogni caso regalarvi, o provereste piuttosto, nonostante tutto, a vivere la miglior esperienza possibile?

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    11 Novembre, 2017
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Parte del tutto

Joseph Wayne, un giovane agricoltore del Vermont, parte alla volta della verde e rigogliosa California, ove intende stabilirsi per iniziare una nuova vita.
Giunto a destinazione, Joseph avverte fin da subito un legame profondo, quasi mistico con la sua nuova terra, che abbraccia con tutti i sensi, e che giura a se stesso di proteggere, quasi fosse una donna bellissima (“It’s mine, and I must take care of it.”).
A pochi giorni dal suo arrivo in California, Joseph Wayne riceve una lettera dal Vermont, con la quale i suoi fratelli lo informano della scomparsa del padre. Lo sgomento di Joseph, però, si esaurisce nel giro di pochi istanti; egli, infatti, si convince ben presto che lo spirito del genitore risieda ora in un’imponente quercia, a lato della quale deciderà di erigere la propria fattoria.
Joseph farà ben presto la conoscenza di Juanito, un giovane di origini indiane, che gli sarà amico leale e sincero per l’intero arco della narrazione.
Un giorno, cavalcando assieme a Juanito, Joseph giunge in una radura lussureggiante e silenziosa, al centro della quale si erge imponente e misteriosa un’enorme roccia ricoperta da un generoso strato di muschio, che nasconde in parte una cavità frontale dalla quale sgorga un ruscelletto. La visita alla radura scuote l’animo di Joseph, che percepisce una strana atmosfera in quel luogo, un sentimento non meglio definibile.
Joseph viene raggiunto dai fratelli che, seguendo il suo esempio, si stabiliranno nelle verdi valli della California; oltre ai fratelli del contadino giunge in paese anche la bellissima Elizabeth, una giovane ragazza tanto semplice quanto raffinata.
Joseph se ne invaghisce e riesce ad averla in sposa dopo un breve e goffo corteggiamento.
Tornando a casa dopo le nozze, Elizabeth e Joseph vengono raggiunti a cavallo da Juanito, che confessa al giovane sposo di aver involontariamente ferito a morte Benjy, fratello di Joseph, avendolo sorpreso in intimità con sua moglie, non avendolo però riconosciuto, nell’oscurità, come il fratello dell’amico. La reazione di Joseph è tutt’altro che collerica: decide di proteggere Juanito, facendo apparire l’atto delittuoso come una tragica fatalità. Joseph vive con un certo distacco tutto ciò che è, per così dire, “secolare”. Niente è più importante del suo legame con la natura; egli è portato a mettere in relazione la morte del fratello (come qualsiasi altra cosa) con tale legame: come spiegherà in seguito, avere dei morti da piangere crea un legame indissolubile con il luogo ove essi sono sepolti (“It takes graves to make a place one’s own.”).
Questa è solo la prima di una serie di prove crudeli che la vita ha in serbo per Joseph, prove che lo porteranno lentamente a rendersi conto che il legame con la sua terra rappresenta il senso stesso della sua esistenza.
Infatti, quando un terribile periodo di siccità colpirà la sua valle, Joseph si renderà conto che la sua stessa vita è legata a quella della sua terra, e viceversa. Di più, egli si convincerà di essere tutt’uno con la natura che lo circonda.
Quando l’assenza prolungata di piogge porterà la misteriosa radura scoperta grazie a Juanito ad essere l’unica macchia verde nell’intera valle, Joseph vi si rifugerà, allo scopo di preservarla (“This is the heart of the land, and the heart is still beating.”), fino al tragico finale dell’intreccio, che travolgerà il lettore grazie alla sua potenza evocativa.

Una prosa magistrale, passaggi descrittivi di struggente bellezza, personaggi ben strutturati ed un protagonista indimenticabile, quasi messianico, fanno di questo romanzo un classico della letteratura americana da riscoprire; un autentico gioiello narrativo, che fa riflettere, emozionare e commuovere, e il cui tema principale è il rapporto tra l’uomo e la natura: Joseph Wayne ama profondamente la propria terra, e si rifiuta di abbandonarla, perfino quando le speranze di salvarla si riducono al lumicino; al fratello che lo invita a seguirlo verso una zona più ospitale, Joseph risponde: “Questa è la mia terra, ed io ho il compito di difenderla.”.
Questo romanzo dovrebbe servire a noi, donne e uomini del ventunesimo secolo, per meglio apprezzare la bellezza che il mondo mette a nostra disposizione, e per capire quanta scelleratezza sia necessario chiamare a raccolta per decidere di distruggere tale bellezza con le nostre stesse mani.
Come scrisse Don Henley in una meravigliosa canzone toccante questo stesso tema: “There is no more new frontier, we have got to make it here” (“Non c’è più alcuna nuova frontiera, dobbiamo salvarci qui ed ora”).

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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    08 Settembre, 2017
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Quando il ricordo è tutto ciò che ci rimane

Un anziano scrittore si aggira malinconico per le strade di una Parigi dai contorni incerti, sbiaditi, nel tentativo di mettere ordine tra alcuni confusi ricordi di gioventù, di cui è rimasta traccia tra le pagine di un vecchio taccuino ("Sí, era come se avessi voluto lasciare, nero su bianco, indizi che in un futuro lontano mi avrebbero permesso di chiarire ciò che avevo vissuto sul momento senza capirlo del tutto. Segnali morse trasmessi alla cieca, nel caos più completo. E sarebbe stato necessario aspettare anni e anni prima di riuscire a decifrarli.").
Dalla memoria nebbiosa di Jean, lo scrittore protagonista del racconto, emerge nitido il ricordo di Dannie, una ragazza misteriosa e, forse per questo, pericolosamente affascinante. Dannie non manca di sedurre anche il lettore, che riesce a stento a metterla a fuoco, grazie alla descrizione, volutamente abbozzata, quasi distratta, che di lei fornisce Modiano: "Dietro la vetrina, sotto la luce troppo violenta dei neon, i capelli di Dannie non erano più castano chiaro, ma biondi, e il suo incarnato era ancora più pallido del solito, latteo, cosparso di efelidi.".
Jean conosce Dannie alla caffetteria della Cité Universitaire di Parigi, dove si recava spesso "a cercare rifugio"; scopre così che la ragazza risiede temporaneamente in una camera dell'ateneo, presso il padiglione degli Stati Uniti, pur non essendo né una studentessa, né americana.
La frequentazione di Dannie (che si scoprirà non essere neppure il vero nome della ragazza), porterà Jean a ritrovarsi nel mezzo di delicati rapporti diplomatici tra il governo francese e quello marocchino, a doversi confrontare con individui loschi, a soggiornare clandestinamente con la giovane in un'isolata casa di campagna, ad introdursi furtivamente in un appartamento, finanche a rimanere invischiato in un caso di omicidio.
Nonostante il romanzo sollevi numerosi interrogativi, il lettore non dovrà stupirsi se il finale non porterà con sé (quasi) alcuna risposta: questo, in fondo, a Modiano non è mai interessato.
Molti romanzi dello scrittore francese Premio Nobel ("Perché tu non ti perda nel quartiere" e "Incidente notturno", per citarne un paio) hanno la medesima impostazione del racconto oggetto di questa recensione: un vecchio taccuino, degli appunti annotati su di esso decenni addietro, delle dinamiche poco chiare da ricostruire.
Perché mai scrivere una serie di romanzi così profondamente simili tra di loro? La mia è solo un'ipotesi, basata sulla mia esperienza di lettore: di norma, leggendo un romanzo, tendo a concentrarmi sulla trama e sui suoi sviluppi, e provo a mettere in fila le informazioni fornite dall'autore per dare un senso alla vicenda narrata, onde trarre delle conclusioni, delle riflessioni. In Modiano, però, la trama è molto spesso nient'altro che un pretesto per sviluppare il tema del ricordo come antidoto all'oblio ("Avevo bisogno di punti di riferimento, [...] come se temessi che da un momento all'altro le persone e le cose si dileguassero o sparissero e fosse necessario conservare almeno una prova della loro esistenza."), alla solitudine ("Scrivo queste pagine per trovare linee di fuga e scappare attraverso le brecce del tempo."), ad una malinconia che consuma l'anima. Lentamente, allora, ho maturato la convinzione, romanzo dopo romanzo, che forse stavo sbagliando approccio; forse non avrei dovuto curarmi più di tanto della trama (i fatti raccontati da Modiano non sono mai cristallini, ma sempre annacquati da punti di vista soggettivi, vuoti di memoria, sogni, dal passato che si confonde con il presente: tendono a sfuggire, a non costituire solidi appigli per il lettore).
Quando lessi il mio primo romanzo di Modiano rimasi rapito dalla sua maestria nel mettere in fila le parole, nel creare immagini evocative, nel ricavare una riflessione poetica e malinconica a partire dagli oggetti più comuni o insignificanti: "Sono certo che nella casa di campagna abbiamo lasciato una luce accesa da qualche parte. [...] Oggi sono convinto che non si trattava né di dimenticanza né di negligenza, ma che al momento di andarcene ero io ad accendere di proposito una lampada. Forse per scaramanzia, per scongiurare la malasorte e soprattutto perché rimanesse una traccia di noi, un segnale che indicasse che non eravamo davvero assenti e che un giorno o l'altro saremmo tornati.".
Alla lettura del mio secondo romanzo di Modiano ho imparato ad attendere con curiosità e ad accogliere con gioia queste sue riflessioni agrodolci e piene di poesia; ho inoltre cercato di prestare maggiore attenzione ai dettagli, a quelli che normalmente trascurerei (il nome di un hotel o di una via, la descrizione di uno stato d'animo,...), nella speranza che potessero aiutarmi a trovare l'altro capo del filo, perso chissà dove, chissà quando.
Questa volta, la mia terza, ho deciso di affrontare la lettura del romanzo oggetto di questa recensione, "L'erba delle notti", utilizzando il medesimo approccio della volta precedente, senza però l'ossessione di voler trovare una risposta a tutti i miei interrogativi.
Ebbene, soffermandomi anche sui dettagli più insignificanti, ho scoperto una bellezza sottile, nascosta tra le pieghe della quotidianità, ed ho trovato in essa conforto (quando non anche rifugio). Dando importanza ad ogni piccola sfumatura, inoltre, sono riuscito a farmi un'idea, inaspettatamente e quasi senza volerlo, di ciò che è accaduto, delle vicende che ossessionano il protagonista del racconto. Un'idea generalissima, sbiadita, che lascia ancora scoperti molti interrogativi, ma tanto mi basta, e tanto basta in realtà anche a Jean, che conserva così un pretesto per continuare a ricordare, per lasciare accesa una luce mentre fuori è buio: "Il bosco, i viali deserti, la massa scura dei palazzi, una finestra illuminata che ti dà la sensazione di aver dimenticato di spegnere la luce in un'altra vita, oppure che qualcuno ti stia ancora aspettando... Tu devi essere nascosta in quei quartieri. Sotto che nome? Prima o poi troverò la via. Ma, ogni giorno, il tempo stringe e, ogni giorno, mi dico che sarà per un'altra volta.".

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consiglio la lettura di questo romanzo a chiunque abbia un animo sensibile.
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90
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