Opinione scritta da Flavia Buldrini
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Tutta un'altra storia
Ciò che Evelina Santangelo ci prospetta, ambientato nel prossimo futuro, in un non lontano 2020, è davvero un altro mondo, il quale si affaccia dagli occhi spauriti dei “bambini viventi”, la cui leggenda sconvolge e agita gli animi di una compassata Pianura Padana, come infestata dai fantasmi di quell’infanzia altra che non ha conosciuto altro che il dolore e la morte e mette in subbuglio la tranquilla ordinarietà scolastica, tra maestre e genitori spaventati e le Forze dell’Ordine in continua allerta. Inoltre, queste inquietanti suggestioni popolano la solitudine di un anziano vedovo soprannominato Orso che vive con il suo cane Lupo e sollevano la violenza cieca degli skhinead che danno alle fiamme un campo rom. Frattanto, si seguono a distanza due storie parallele che avranno epiloghi insospettati: un ragazzino, di nome Khaled, che attraversa dal Nord al Sud tutta l’Italia con un trolley rosso che non molla mai, che poi si svelerà in modo agghiacciante contenere il cadavere del fratello Nadir, morto tragicamente in un incidente sul lavoro, che il giovane vuole riconsegnare, dal porto di Palermo, alla sua terra e ai suoi cari; ciò in cui alla fine, nonostante tante traversie, riesce. Poi è il dramma angoscioso di Karolina a Bruxelles, la quale, per inseguire le tracce di suo figlio Andreas scomparso, irretito dalla propaganda jihadista, smarrisce progressivamente le coordinate della propria esistenza, fino a vederla frantumarsi in un’improvvisa detonazione davanti al Palazzo di vetro, ad opera di un attentatore, che si rivelerà essere un povero disperato, Omar, strumentalizzato ai fini della barbarie terroristica, che era stato anche amico di Khaled, aiutandolo a trovare il passaggio per la Sicilia, sfruttando proprio le sue conoscenze e risorse economiche ‘altolocate’. Ciò che si legge dietro le righe è, dunque, che, nonostante le notevoli disparità, tutte queste campionature umane sono accomunate da un’ontologica miseria, che è anche alla radice di ciò che finisce per ipostatizzarsi in strutture di male dietro cui si trincerano inconfessabili paure e debolezze. Inoltre, quello che all’esterno appare come indizio di chissà quale terrificante minaccia, in realtà è solo l’espressione della problematicità e della condizione di precarietà di ogni individuo. Il merito di uno scrittore è, infatti, quello di indagare, in controluce al “vero storico”, secondo l’incisiva definizione del Manzoni, il “vero poetico”, vale a dire la vicissitudine umana, intrisa di lacrime e sangue, che sottentra alla cinica aridità della cronaca.
Affiora, dunque, da queste pagine, attraverso un lucido visionarismo, un’umanità dolente e inerme, atterrita dalla propria stessa immagine che, proiettata sul grande schermo della Storia, assume sinistri riflessi di autodistruzione e di morte, amplificati dalla grancassa della fittizia ideologia che l’avalla, alla stregua di una maschera grottesca che cela la nuda verità che non si ha il coraggio di guardare in faccia.
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"L'amor che move il sole e l'altre stelle"
Questo libro è una minuziosa indagine dell’aspetto più determinante e rivoluzionario della vita, che è anche la principale ispirazione di tutta la letteratura: l’amore. Come in una sorta di romanzo di educazione sentimentale, Alessandro D’Avenia ci conduce per mano per questo affascinante viaggio attraverso l’interpretazione del mito, che contiene sempre molte verità nascoste, in particolare quello di Orfeo ed Euridice e la sua rispettiva incarnazione nelle svariate vicissitudini amorose di celebri artisti. Affida il loro racconto a testimoni che li hanno conosciuti da vicino o a lettere e documenti che descrivono la loro esperienza affettiva. L’amore assume i mille volti che corrispondono alla diversa natura dei suoi attori. Può essere passione distruttiva, come la tormentata vicenda dei poeti Silvia Plath e Ted Hughes, che si conclude con il suicidio di lei, o quella turbolenta di Zelda e Scott Fitzgerald, che finiscono entrambi simbolicamente bruciati dal fuoco, lei in un incendio dopo essersi ricoverata in manicomio, lui mentre cerca di attizzarlo mentre conviveva con un’amante; o ancora Elizabeth e Dante Gabriel Rossetti, il quale “riuscì a conquistarla e a mandarla nella tomba”, avvelenata dal laudano in cui affogava il suo dolore di essere tradita e non amata; poi Camille Claudel, sorella del grande poeta, e lo scultore Auguste Rodin, il quale ne fa materia per la sua arte fino a farla diventare pietra essa stessa, cavandole anche l’anima, per cui finirà al manicomio. Sono relazioni devastanti, quando a prendere il sopravvento sono l’egoismo e l’orgoglio virile, mentre la donna che ama e si sacrifica è la debole vittima che più ne subisce gli effetti. Sono storie maledette, caratterizzate da eccessi come l’alcool, come Dylan Thomas con Caitlin, dalla pazzia, come Van Gogh e Sien, prostituta che invano ha cercato di redimere, Modigliani e Jeanne, la quale, dopo la morte del marito per tisi, si lancia dal quarto piano, con in grembo il suo secondo figlio. O invece amore è cura nella malattia, come Tess con lo scrittore Raymond Carver, che nei suoi ultimi anni di vita è avvolto dalla sua tenerezza premurosa, Anna con Dostoevskij, devastato dal vizio del gioco e dagli attacchi epilettici, che ella cerca di proteggere fino alla fine, Olga con Ezra Pound, di cui si prende cura sino alla morte, Karen con David Foster Wallace, che purtroppo non riesce a strappare alla depressione, trovandolo appeso ad un soffitto. O è anche un’esaltante e duratura intesa di due vite che s’intrecciano e s’amalgamano felicemente nella trama del loro amore, come Bach e Anna Magdalena, sposa fedele e madre di ben tredici figli, consapevole di trovarsi un po’ sulla soglia dell’adorazione dinanzi al mistero del suo talento, di cui lei si fa rispettosa ancella. Inoltre, è la sofferta e appassionata tenerezza di una vita condivisa di Tolkien e Edith, o il perfetto sodalizio tra il regista Federico Fellini e l’attrice Giulietta Masina, tra Alfred Hitchcock e Alma, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Licy. E poi sono amori impossibili e infelici, come quello di Kierkegaard per Regine, che lascerà per amore geloso della filosofia e scrupoli di coscienza, di Pessoa per Ofelia, in cui anch’egli rinuncerà a lei, posseduto dai propri personaggi fino alla follia. È l’amore proibito di Hörderline per Susette, donna sposata, che pagherà lei con la morte e lui con la pazzia, così come Pedro Salinas e Katherine, cui dedicò il più bel canzoniere in lingua spagnola, La voce a te dovuta. È l’infatuazione non corrisposta di Leopardi per Fanny Targioni Tozzetti, che gli ispirerà il ciclo di Aspasia e che farà ammutolire brutalmente il suo cuore; la relazione di Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano, che dopo appena una parentesi di realtà si nutrirà esclusivamente di finzione letteraria; o ancora l’attrazione di Pavese per Constance, la cui disillusione lo porterà al suicidio.
Vi sono vicissitudini amorose che hanno scavalcato e attraversato gli orrori della guerra, che sono sopravvissute al campo di concentramento: quello di Milena per Kafka, di Ingeborg per l’infelice Paul Celan, reduce dal trauma dell’olocausto, che non supererà mai, gettandosi infine nella Senna; di Nadežda per Osip Mandel’štam, il poeta russo inviso al regime che bruciò tutti i suoi scritti, i quali riuscirono a sopravvivere grazie alla memoria della donna che li custodì e tramandò; di Miklòs Radnòti per Fanni Gyarmati, la quale riconobbe il corpo del marito in una fossa comune e riportò alla luce le poesie che egli aveva scritto per lei, ciò che “mostra l’impotenza della Storia sull’amore.” O ancora, hanno sfidato la morte, come Julio Cortàzar e Carol Dunlop, entrambi malati terminali, i quali si concedono l’ultimo viaggio all’insegna dell’avventura e del gioco amoroso.
Sono dunque storie intense, inquiete, travagliate, tutte con un unico filo conduttore, quello di Arianna che non permette che ci si perda nel labirinto dell’esistenza: la forza titanica di un amore che oltrepassa ogni limite, finanche l’estrema frontiera della morte (“E quale amore riesce a farsi storia? Solo quello che non smette mai di avanzare, qualunque sia la tempesta che incontra”). Quando l’amore è dono reciproco, allora la vicenda è armoniosa ed epica (come per lo scrittore Tolkien) e attraversa le stagioni della vita intrepida, mentre se è passione incontrollata dell’ego è fuoco che brucia e distrugge; o ancora, se è unilaterale, uno dei due, solitamente la donna, soffre e s’immola per quell’ideale, sopportando i tradimenti, il cattivo carattere e gli eccessi. “Le storie d’amore tra gli artisti e le loro donne sono infatti tormentate, seducenti, tenere, folli, feconde, distruttive, devote, ancillari, cruente, giocose, eterne… e tutta la tavola periodica di possibilità che l’amore e il disamore offrono, soprattutto perché si tratta di un triangolo, nel quale la donna, in carne e ossa, vuole conquistare un territorio già occupato dalla Musa.”
Alessandro D’Avenia in questo affascinante viaggio nel mondo dell’amore si avvale, come guida, un po’ come Virgilio per Dante, del mito di Orfeo ed Euridice, il quale suggerisce tutte le tappe di quello che è un arduo cammino: dall’idillio iniziale, alla dolorosa perdita dell’amata, all’angosciosa ricerca che si addentra fin negli inferi, alla rielaborazione del lutto attraverso il canto, al trascendimento della morte accettando la propria, per poi ritrovarsi nella condizione di beatitudine assoluta, paradisiaca: questa è la vittoria del vero amore.
“L’amore è un grembo che tutto porta e sopporta, anche quando è una ferita che deve gestare affinché ne nasca un frutto più bello, e lo fa in ogni istante e in ogni centimetro del mondo. Salvarci dalla morte dobbiamo, e c’è solo un antidoto: riceverci dagli occhi e dal cuore di un altro che ci ama in tutte le manifestazioni della nostra mortalità: solitudine e silenzi, egoismo e fragilità, stanchezza e paura…e le ama perché sa che non sono che una piccola parte della verità su di noi. Solo così, almeno nel tempo, la morte è vinta, solo quando è amata in me da un altro. Solo così l’amore salva e si fa storia da raccontare. Ogni donna sa che essere è tessere, far rinascere ciò che sembra morire.” (p.308-309).
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Il sacrificio estremo
Questo romanzo di Yourcenar, che non smentisce il suo genio narrativo capace di incantare e di incatenare il lettore all’avvincente suggestione letteraria, s’intesse intorno a tre personaggi dalla singolare personalità, uniti dalla fondamentale ambiguità dei loro rapporti. La vicenda, ambientata durante la guerra civile in Curlandia, all’epoca dei putsch tedeschi contro il regime bolscevico, intorno al 1919-21, è reale, testimoniata all’autrice da un intimo amico del protagonista maschile che è anche la voce narrante, Eric von Lhomond. Il suo punto di vista, per lo più cinico e disincantato, rimanda di riflesso le posizioni del suo caro amico Conrad de Reval, che come “un bambino” sembra non accorgersi di nulla e di sua sorella Sophie, all’interno del loro castello, in cui vive anche la devota zia Prascovia, trasformato in presidio militare. La guerra ha sconvolto le dinamiche interiori e sociali e questo nucleo affettivo, una sorta di triangolo amoroso, sembra l’unica fortezza, quale baluardo dell’infanzia, intorno ad un mondo in progressiva disgregazione, fra i disagi, i lutti, i pericoli e le ristrettezze del conflitto bellico. Sophie, così, vede nell’amico storico di suo fratello proprio un nostalgico miraggio della stagione felice dell’innocenza, brutalmente profanata dalla violenza di un sergente, in quell’abitazione trasformatasi in caserma, popolata da ‘bruti’ che in altri tempi sarebbero stati galanti pretendenti al ballo. Ella si innamora perdutamente di Eric, con una dedizione assoluta, soffrendo molto, tuttavia, di non essere ricambiata da un uomo prigioniero del suo attaccamento al fratello di lei e di un sostanziale disprezzo per le donne. L’‘eroina’, come la denomina lui stesso, è fedele a se stessa attraverso questa passione fino in fondo: se lo tradisce è soltanto per richiamare la sua attenzione e se, alla fine, disgustata, lascerà il castello per militare nelle file dei bolscevici, per aderire ad una sua personale fede ideologica in contrasto con i suoi due uomini più importanti della vita, sarà per disperazione del suo amore non ricambiato. Il destino vorrà che il suo sacrificio si compia fino all’estremo: una volta abbandonata la fortezza dai tre e smantellato ogni avamposto di quel ‘piccolo mondo antico’, dopo la morte di Conrad durante un assedio, Eric ritroverà Sophie tra i prigionieri nemici e non esiterà egli stesso, per volontà della donna stessa, a darle “il colpo di grazia”, appunto. È un episodio particolare in cui la realtà sembra superare la fantasia: forse nessun romanziere avrebbe inventato un simile epilogo; eppure la storia sconcertante, descritta da Marguerite Yourcenar con notevole finezza psicologica e talento affabulatorio, solleva dall’oblio un intrigo di passioni, velleità, ambizioni, meschinità, perversità che da un lato innalzano la statura della protagonista e dall’altro gettano luce sul degrado morale suscitato dalla guerra e sull’insondabile “guazzabuglio del cuore umano.”
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"Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è”
Quest’avvincente storia s’intesse tutta intorno ad un incontro tra un adolescente, Federico, liceale pieno di sogni e di ideali, che però non sa come dare loro forma, e il parroco di Brancaccio don Pino Puglisi, che per vie misteriose lo inizia alla realtà autentica della vita. Sullo sfondo vi è Palermo (“Tutto porto per chi arriva. Tutto spasimo per chi resta. Città costruita sul paradosso, città in cui si è sempre in arrivo e in attesa”), col suo fascino malioso che, secondo il “motto terribile” che compare come iscrizione nelle antiche rappresentazioni del Genio palermitano, “conca d’oro, divora i suoi e nutre gli stranieri”, circondata dal mare, nella sua ambivalenza di vita e morte, così abbagliante di bellezza da non saper allontanare il pericolo di essere sfregiata. Poi gravitano attorno tanti personaggi, volti diversi e contrastanti della città; da un lato vi sono i predatori del branco feroce della mafia: il Cacciatore, u’ Turco, Madre Natura, Nuccio, i quali si aggirano come lupi affamati di violenza, sangue e dominio del territorio. Dall’altra parte ci sono le vittime, la gente semplice che deve lottare per sopravvivere, costretta a subire le angherie di Cosa Nostra, a pagare il pizzo, a prostituirsi, come Maria, ragazza madre di Francesco, a subire violenza, come Serena, ragazza punita con lo stupro perché suo padre non ha potuto pagare il suo estorsore, di cui rimane infelicemente incinta. Vi è poi il popolo fragile e innocente dei bambini, di cui P. Pino si prende amorevolmente cura come dei figli, donando la sua vita per loro: la bambina che vaga sempre sola con la sua bambola, a cui è stato ammazzato il padre dai mafiosi; Dario, che nella notte vende il suo corpo e che per riavere le sue ali, dopo la morte del sacerdote si getterà da un palazzo; Totò, che ha l’aspirazione di diventare musicista e questo lo salva dalla deriva; Giuseppe che finisce in carcere perché obbligato dai genitori a rubare; Riccardo che, per la sua avidità di denaro, senza rendersene conto si fa strumentalizzare come spia, complice degli assassini. Su tutta questa carne dolente si china la tenerezza paterna di tale prete di strada; e in tutte queste vite getta un seme di bene che poi, chissà come e chi, vedrà fiorire: “Togli l’amore e avrai l’inferno, mi dicevi, don Pino. Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è. L’amore è difendere la vita dalla morte. Ogni tipo di morte.” Lo stesso protagonista, Federico, proprio dal crudo impatto con la strada tramite la collaborazione con don Pino, imprime una svolta alla sua esistenza, in una direzione che non aveva mai immaginato. Egli, infatti, sarebbe dovuto andare a studiare al college ad Oxford, e invece vi rinuncia perché ha compreso che la vita vera è a pochi chilometri del suo quartiere signorile, intrisa di miseria, ma anche di tanto coraggio e dignità, quali vede splendere in Lucia, di cui s’innamora, dalla numerosa famiglia ben affiatata che affianca l’infaticabile parroco nella sua opera di rieducazione dei ragazzi, (perché “riparare è più eroico di costruire”), attraverso la creatività e la positiva energia dell’esperienza teatrale. Il giovane pagherà caro questo suo impegno a fianco di Puglisi: ne uscirà con il labbro spaccato da un ragazzino dopo aver fatto da arbitro in una partita di calcio, gli verrà rubata la bicicletta; eppure, nonostante anche le rimostranze dei genitori, non si arrende, perché ha preso atto di quanto questa missione affidatagli sia preziosa. Anche l’amore per Lucia gli costerà l’affronto del branco che per intimidirlo e allontanarlo dal suo territorio lo picchia brutalmente e lo minaccia di morte. Pur con le necessarie e dovute misure di prudenza, il sentimento così tenero e delicato dei due aprirà le vele, così come le loro vite, alla dura scuola del sacrificio e del vero amore, dietro il soffio di Dio.
E tutto questo bene così sparso a larghe mani non si disperderà, andrà ad alimentare come una faglia sotterranea le esistenze infrante di questi piccoli, anche dopo l’uccisione di don Pino ad opera della mafia: “se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore, porta molto frutto.” (Gv 12,24). La figura di questo umile sacerdote si staglia con la statura di un eroe del quotidiano, che consuma le strade con le sue suole rappezzate, da bravo figlio di un calzolaio, che condivide sudori e lacrime della povera gente, per la quale si è speso fino alla fine: l’ultimo suo pensiero poco prima di essere assassinato è stato per Maria, la mamma di Francesco, cui telefona per persuaderla a cambiare vita e a cui avrebbe destinato una buona somma di denaro elargitagli da Federico stesso. “Ha cercato di far nascere l’acqua nelle vie dell’arsura, l’albero nel cemento della città, il cielo nella strada, il paradiso nell’inferno.”
Alessandro D’Avenia con notevole talento narrativo e acutezza intellettuale, cattura l’interesse del lettore e lo conduce per mano alla mèta, che è la consegna di un messaggio prezioso, come la scoperta di un tesoro. Così, infatti, a conclusione, auspica nella postilla, in questa sorta di apostrofe: “Spero che le ore che hai dedicato a questa storia siano state riempite da quel che ho ricevuto io nello scriverla: un coraggio più grande verso la vita, anche quando pare ci ferisca a morte. E magari un posto dove scappare dentro, quando si spengono fuoco e parole. Per scoprire che erano intatti, covavano come brace sotto la cenere, insieme ai nostri desideri più grandi.”
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"Impara a morire e così imparerai a vivere"
“Impara a morire e così imparerai a vivere” (dal libro I miei martedì col professore di Mitch Albom): partendo da questo assunto, si svolge l’intero tessuto del libro, una sorta di manuale di istruzioni per l’uso della vita, da parte di chi l’ha imparato sulla propria pelle, apprezzandola nella sua essenzialità, perché per essa ha sacrificato una gamba, un polmone e un pezzo di fegato: “queste pagine sono un compendio di quanto ho imparato dal cancro e delle scoperte fatte grazie ad amici che, come me, hanno lottato contro la malattia.” Così, quello che comunemente è considerato un handicap, diventa un valore aggiunto, capace di spalancare nuovi orizzonti e soprattutto di dare la chiave di volta di lettura dell’esistenza. Ecco, dunque, da buon ingegnere, “una lista di concetti, di idee, di emozioni, una lista piena di felicità. Una lista di scoperte che mi hanno spinto a creare quello che considero il mio mondo.” Dal paradosso del dolore e della morte, intriso delle vicissitudini dei suoi compagni di stanza - i cosiddetti “Capelloni”, come li denominavano i dottori quale parodia della loro calvizie - si eleva un inno di magnificenza alla vita. Quest’ultima, proprio quando è respinta fino all’estrema frontiera, è allora che si rivela in tutta la sua pienezza. Il paziente Albert, che ha trascorso la sua giovinezza, dai 14 ai 24 anni, in ospedale, con l’acutezza che scaturisce dalla sofferenza, è attento osservatore che fa tesoro di ogni insegnamento che gli venga somministrato da medici, infermieri, malati e dalle proprie esperienze personali, ciò che declina in ventitré scoperte. La prima, fondamentale, è: “Le perdite sono positive. (…) Dobbiamo imparare a perdere, visto che prima o poi perderemo ogni cosa.” Allora, per esorcizzare il trauma, ecco l’umoristica quanto grottesca “festa d’addio alla mia gamba”, prima che venga amputata, suggerita da un dottore, ciò che gli permette di rielaborare il lutto.
Dopo quest’ampio ventaglio di suggerimenti, gli ultimi capitoli sono dedicati alla personale visione del “mondo giallo”, vale a dire intinto nell’oro della gioia e dell’amicizia, immerso nella luce calda della vita, in tutta la sua positività che sa trasformare anche il negativo in preziosa risorsa. “I gialli sono il nostro riflesso, colmano alcune delle nostre lacune e, quando entrano nella nostra vita, le fanno fare un salto di qualità”: sono persone che schiudono nuovi spiragli, che ci permettono di guardare dentro di noi, svelandoci verità che ci danno il trampolino di lancio per un’evoluzione.
Infine, l’autore affronta con serenità sorprendente un argomento diventato tabù per la nostra società: la morte. “Bisogna morire per lasciare un’eredità, per finire in bellezza. Devi pensare alla morte come qualcosa di positivo. La gente celebra la vita, festeggia i battesimi; a maggior ragione dovrebbe festeggiare la morte delle persone care, rendendo onore al loro ingresso nell’universo del ricordo. (…) Ma non devi perdere di vista il fatto che la morte in sé non esiste. Quando qualcuno muore, si trasfonde nella gente che ha conosciuto. I suoi ricordi perdurano, la sua vita si divide tra chi gli era vicino, come se si moltiplicasse in tante persone.”
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"Tra un'isola e l'altra c'è sempre il mare"
Questo suggestivo romanzo racconta il faticoso passaggio dalla stagione inquieta e incompleta della giovinezza a quella della maturità e della pienezza della condizione adulta, espresso metaforicamente attraverso il passaggio da un’isola, quella di Arturo, il protagonista, che evoca l’omonimo del capolavoro della Morante - la cui partenza definitiva da Procida segnerà l’abbandono del mondo incantato della fanciullezza – a quella di Atlantide, che è come una magione fatata in cui dimora la beatitudine perfetta, quale iridescente miraggio che balena attraverso una figura femminile incrociata una sola volta e ossessivamente vagheggiata come l’ambita mèta di tutte le aspirazioni e della sua realizzazione armoniosa di uomo. “Che se c’è una cosa certa, nella vita, è che fra un’isola e l’altra c’è sempre il mare”: con la sua altalena indomita di bonaccia e tempesta, in balìa dei flutti dei capricci, delle passioni, dei timori, delle fisime, dei vizi incorreggibili, della voluttà di morte che assale. E su questo sfondo si staglia il dramma di Arturo: “Arturo si era convinto di potere una vita speciale, ma poi non muoveva passi, verso l’ignoto, per paura di una vita vera. Il risultato era una vita fasulla, come quella delle formiche rimaste inoperose. Arturo era un divano rimasto con la plastica addosso, messo in quelle stanze in cui non si entra per paura di sporcare, e di rovinare. Che certe vite, poi, invecchiano così: senza mai essere state usate.” L’intero tessuto narrativo si giostra nella spola tra “andata” e “ritorno”, in cui, a segnare lo spartiacque, è proprio il mito di Atlantide, incarnato in quella ragazza magnetica che, fin dal primo sguardo, sembra intuire tutto di lui e metterlo a nudo di fronte alla verità: per esempio, che fare l’attore non è il suo mestiere - e infatti, di lì a poco lo lascerà per il lavoro più stabile e rassicurante del calzolaio – e che, piuttosto di passare da una banale avventura all’altra, sarebbe ora che cercasse una solida compagna di vita. Allora, l’andata è caratterizzata da questa ricerca affannosa di lei che un bizzarro scherzo del destino – il tram guasto e il telefonino scarico – non gli farà incontrare, probabilmente perché non si sentiva ancora pronto ad abbracciare il cambiamento e le paure diventavano ostacoli insormontabili, ributtandolo, così, in mezzo ai marosi dei conflitti interiori irrisolti, alla sua prostrante inadeguatezza, fino a rasentare la morte, quella sera stessa del mancato appuntamento con la sua felicità, trovando rifugio nella droga, “a un passo dal coraggio; a un passo da un tentativo nuovo che non vuoi fallire, ma che non sai fare. A un passo da Atlantide, che se allunghi una mano ti pare quasi di poterla accarezzare. I dottori non lo sapevano mica, il male che fa una cosa bella, quando sembra così vicina, e invece è lontanissima. Come Capri, vista da Procida, quando sta per piovere. Come Atlantide, ammesso che non l’abbia solo immaginata.” È una travagliata lotta con se stesso, “inetto, pauroso, ingrato nei confronti di una vita che lo aspettava, mentre lui appositamente ritardava”, il quale non trova pace, impigliandosi in fugaci relazioni con innumerevoli donne, senza amarne nessuna, a parte Celeste - di cui si accorge troppo tardi, però, quando ormai la rottura è irrimediabile -, oltre all’immaginifico fantasma di Atlantide. In realtà, alla fine questa icona femminile si svelerà essere quale donna schermo, come nello Stilnovo dantesco, vale a dire che tutta quell’aura di idealizzazione che l’avvolgeva finirà per dileguare, lasciando posto alla sana concretezza di una ragazza, Alessandra, con cui vive due notti d’amore e che, paradossalmente, proprio in una circostanza così casuale, le darà un figlio: “Non era tanto la morte mancata per un soffio, quanto la tragedia della vita aspettata che non combacia mai con quella reale. Arturo, per esempio, aveva fatto di Atlantide un posto immaginario: perfetto per approdare, perfetto per scappare.” Il ritorno, dunque, si profilerà, dopo dieci anni di turbolenza e inadempienza di sé, in un viaggio sullo stesso tram, che lo porterà, stavolta, verso la A. di Alessandra, per sapere se è lui il padre di quel bambino che non voleva e di cui pure, vedendolo una sola volta, pensando al suo personale rapporto con la figura paterna, non potrà fare a meno di innamorarsi perdutamente. In questo modo, quasi a forza e all’improvviso, giunge al suo approdo, alla sua Itaca - ovvero Procida, che è l’isola felice dove idealmente è stato concepito da sua madre quando doveva decidere se sposarsi, legata ai ricordi più belli di una serena affettività -, dove si assume le proprie responsabilità e si acquieta nel modus vivendi che il destino gli ha assegnato, diventando finalmente adulto. La lezione, quindi, che Valentina Farinaccio ci consegna, attraverso un geniale gioco ad incastri - che alimenta abilmente la suspence - ed uno stile fluido ed accattivante, è che “le poche cose certe” sono che la vita ti sorprende sempre e sbaraglia tutte le pianificazioni e fantasticherie con il suo impeto selvaggio che annega le vane chimere per depositarti sulla nuda riva della realtà, in tutta la sua incandescente scabrosità: “Atlantide annegò. Accadde quando i suoi abitanti trasformarono la quiete in guerra e la bellezza in orrore. Se la mangiò il mare, e dell’isola rimasero solo tracce presunte, storie immaginate, nessuna certezza, nessuna geografia. Perché la bellezza finisce, e sfinisce, e Arturo era rimasto a guardarla da lontano, pauroso, come si fa con gli animali, durante un safari.”
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"Cronache dai sepolcri"
Questo libro è il monumento alla letteratura funebre per antonomasia, con l’originale intuizione di dare la voce a chi non ha più voce, vale a dire ai defunti, affondando le sue radici nell’antica tradizione degli epitaffi e degli epigrammi che ha il suo archetipo speculare nell’Antologia palatina. Immaginandosi di visitare un cimitero di un villaggio del Middle West americano, denominato Spoon River, sostando presso ogni sepoltura, è come se dall’iscrizione di quel nome s’affacciasse un volto, si profilasse una storia che la stessa anima evocata tratteggia con pennellate immediate e impetuose, in tutta l’evidenza della verità che ora non si ha più motivo di nascondere, con la virulenza ironica di chi ormai non ha niente da perdere, con il crudo disincanto di chi non ha più pudore nello svelare il proprio errore. Perlopiù sono vicende meschine, legate agli interessi materiali o a colpevoli passioni, che nella maggior parte dei casi sono state la causa della fine; o ancora sono esperienze dolorose, di frustrazione e di umiliazione che hanno portato alla tomba; vi è posto, tuttavia, anche se più raramente, per sprazzi di serenità di chi è stato felice di aver vissuto laboriosamente e onestamente, nello stato di grazia dell’amore.
L’affabulazione è prosastica, ritraendo i personaggi nella loro nuda scabrosità, senza sacrificarli all’idealizzazione o all’infingimento letterario, nella concisione e nella mordacità dei versi, tralasciando considerazioni morali o esistenziali, ma esclusivamente in funzione di un intrigante racconto – quasi uno scoop -, in controtendenza alle sublimazioni romantiche, sulla scia del realismo della corrente narrativa americana.
“Tutti, tutti dormono sulla collina”: adesso, a vegliare sugli affanni e i travagli trascorsi, resta un silenzio di universale assoluzione, spezzato soltanto dal ricordo affidato a questo visitatore di passaggio, che, come per Dante – anche se con un altro intento -, ha l’ambizione di raccogliere tale sorta di “cronache dai sepolcri”, come per sollevare il velo dell’oblìo di ogni identità, ascoltandone sussulti, velleità e rimpianti, da questa distanza siderale che confonde le ombre in un unico respiro di dolente umanità.
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I volti del dolore, lo sguardo dell'amore
I volti del dolore
Lo sguardo dell’amore
“Si parli, semmai, di fragilità, di esseri nati con la pelle più sottile, un bassissimo numero di anticorpi a ogni bene e male del mondo, dal dolore alla tenerezza, malinconia e amore compresi. Persone che le inchiodi con poco, basta un fiore per bucargli la pelle.” Questo è il dramma che Daniele si porta dentro e che, a distanza di anni e in forza del suo faticoso quanto miracoloso superamento, ha il coraggio e la lucidità di mettere a nudo con spietata sincerità tra le pagine di questo avvincente romanzo autobiografico. Nella quotidiana guerra della sopravvivenza, che la sua intensa ‘sensibilità’ (termine a lui dichiaratamente inviso) non riesce a sostenere, l’alcool diventa il suo alibi, il suo essere ‘altrove’ rispetto ad una realtà troppo cruda da guardare in faccia, trasformandolo in un ‘altro’ affrancato dai freni inibitori e dal “demonio” della paura: allora ben venga la sospirata “dimenticanza” che le pantagrueliche sbornie gli procurano, salvo poi ritrovarsi, non ricordando neanche come, tutto ‘ammaccato’, vittima di qualche pestaggio per i suoi eccessi, e senza sapere nemmeno dove la sua auto sia finita. Per i genitori è uno strazio avere un figlio di 25 anni - a cui vogliono molto bene - ridotto in questo stato, tanto che la madre, una sera, per la disperazione si sarebbe gettata dal ponte (dopo averlo fin là accompagnato) insieme a lui, se non fosse stato egli stesso ad avere il ‘buon senso’ di ricondurla a casa. Ed è soprattutto per l’affetto che Daniele nutre nei loro confronti che, una mattina, si risolve a fare una telefonata ad un suo amico poeta che si rivelerà essere la sua salvezza. Nonostante il suo disagio, anzi probabilmente particolarmente in virtù di questo, infatti, il protagonista si cimenta con successo nella scrittura - tanto da aver già pubblicato come autore in influenti riviste e da essere invitato ad una prestigiosa lettura - e questo sarà il gancio che lo trarrà fuori dal baratro. Così, troverà lavoro in una cooperativa di servizi per l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e, paradossalmente, proprio un impatto così duro – che comprensibilmente spaventava la madre – gli rivelerà, attraverso quella galleria di nude sofferenze che denominerà “la casa degli sguardi”, appunto, l’autentico volto della vita, che è come un’erma bifronte nel suo terrificante dualismo di bene e male, laddove, tuttavia - se si guarda attentamente -, l’orrore viene vinto dalla potenza trascendente dell’amore, come insegna Cristo sulla croce. A questa consapevolezza Daniele arriva per gradi, dopo aver toccato il fondo dell’abisso al culmine dell’afflizione per aver appreso della morte inaccettabile di un bambino che egli tra sé chiamava Toc Toc, perché, ogni volta che passava sotto la sua finestra, il piccolo malato cercava un contatto bussando sul vetro e gesticolando, come una tacita richiesta di amicizia. Dopo una colossale sbronza per affogare il suo patema nell’alcool, con tutti gli effetti collaterali inclusi, tra cui l’ennesimo pestaggio, trovandosi ad interrogare il Crocefisso in una chiesa, di lì a poco, come in un misterioso disegno divino, otterrà la risposta agognata in una sorta di epifania che risolverà definitivamente il suo tormento, materializzata nel gesto a tutta prima incomprensibile di una suora, capace di vezzeggiare un bambino sfigurato nel volto, laddove egli era passato accanto inorridito. Meditando lungo la riva del Tevere, improvvisamente gli si squarcerà il fitto velo di tenebre che gli impediva di guardare in faccia la realtà. È stato un po’ come il bacio del lebbroso di S. Francesco, da cui poi ha intrapreso il suo cammino di santità: è accogliendo finanche il male che questo si trasfigura in un bene ulteriore, così come il popolo d’Israele, dopo essere stato morso dai serpenti velenosi, trovava rimedio mirando l’asta con il serpente di bronzo innalzata da Mosè, e così come nostro Signore, assumendo su di Sé tutti i peccati, ci ha redenti, avvolgendoci della Sua luce sfolgorante di resurrezione.
“Improvvisamente, mi fioccano davanti agli occhi gli ultimi anni della mia vita. Quante parole, nomi di droghe e malattie, soltanto per dire che mi manca il coraggio per vivere e veder vivere le persone che amo, accettando la scure del destino, perché solo così può essere, consumandomi nella vicinanza, nell’accettazione di ogni orrore possibile vivendolo per quel che è veramente: un diaframma. Un velo nero da strappare. Dietro quel velo resistiamo bambini, tutti. Sempre.”
Da questo momento, infatti, Daniele rinascerà come uomo nuovo, comunicando ufficialmente ai suoi di aver chiuso con l’alcool - e questa volta sarà sul serio -, perché attraverso il lavoro, che pure ha avuto un ruolo determinante nella sua guarigione, distogliendo il pensiero dalle fissazioni alle immediate esigenze pratiche, oltre al cameratismo dei suoi colleghi così spontanei (nel loro pittoresco dialetto romanesco) quanto leali - pronti anche a coprirlo per le sue ‘indisposizioni’ -, realizzerà la sua serenità interiore, potenziando anche la scrittura, mettendola a servizio proprio dei volti del dolore incontrati all’ospedale, proponendo al presidente un’antologia di poesie che sarà accolta favorevolmente, ciò che gli consentirà di custodire quanto di prezioso vissuto, un’antitesi a quella ‘dimenticanza’ cui anelava tanto in precedenza: “Loro dentro l’ospedale, un mucchio di bambini sudati, ansimanti per il gioco sfrenato, belli di tutta la bellezza, di tutte le terre del mondo. Io fuori, bucato dai loro sguardi, ognuno inchiodato nella memoria. «Voglio ricordare tutto»”.
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Sulle orme dell'amata
Questo libro è una quête struggente quanto lucidamente raziocinante dell’autore sulle orme dell’amata, madre dei suoi tre figli, prematuramente scomparsa in seguito ad una grave malattia. Il giornalista Yari Selvetella, come un ‘segugio’, speculare di quel “cane pastore” che difende la propria famiglia in cui volentieri più volte s’identifica, ‘fiuta’ ogni minima traccia di lei, nei luoghi più frequentati della memoria, in quelli abitati in cui ha lasciato il segno, avventurandosi in un labirinto interiore che trova fisicamente espressione nell’ospedale, nei suoi fitti meandri in cui l’ha persa e in cui si sta smarrendo anch’egli, rischiando di non ritrovare il filo di Arianna, il bandolo della matassa per evadere dalla prigione di una vita incatenata alla sua assenza. L’architettura di questo romanzo autobiografico è improntata all’allegoria, alla galleria di ‘stanze dell’addio’, appunto, di cui si varca la soglia man mano che questo percorso spirituale volto al superamento del trauma progredisce: dalla realistica presa di coscienza di quanto è accaduto, aggirando i tentativi di rimozione o l’edulcorata consolazione dell’illusione, alla graduale elaborazione del lutto, tra tenere reminiscenze che affiorano sulla scia di una sensazione o di un sapore - un po’ come la madeleine di Proust – e i blocchi di iceberg nelle distese gelate di un dolore sommerso, fino alla rivalsa della vita sulla morte con il successo professionale e una nuova creatura che nasce, rivendicando il proprio ‘sacrosanto’ “diritto ad amare.” Gli stessi protagonisti sono allegorici: di nessuno di essi - neanche della stessa donna o dei figli - viene evocato il nome, quasi a lasciarli fluttuare nella loro libera quintessenza che rimanda a qualcosa di troppo ineffabile e sfuggente per essere sclerotizzato in una definizione. Alcuni, poi, hanno precipuamente una funzione allegorica, come i personaggi chiave de “l’uomo coi baffi” e del “ragazzo del bar”, una sorta di guide dantesche quali Virgilio o Beatrice che iniziano al viaggio nel tortuoso dedalo esistenziale, in cerca di una via d’uscita: il primo, mostrando, con la sua caricatura di una parvenza vitale inchiodata alla perdita della moglie, l’assoluta improrogabilità di reagire per non restare invischiati nella bava dei rimpianti e dei rimorsi che paralizza la vita; il secondo, invece, indicando la necessità di abbandonare l’irresolutezza giovanile per abbracciare una matura determinazione. Anche i luoghi assumono connotati metaforici, come le stanze che custodiscono la memoria dell’amata nei diversi trascorsi e che allo stesso tempo inducono a trascenderla, quali anelli ad incastri e, ciò che è l’archetipo dominante cui viene affidata la conclusione del romanzo, l’onnipresente mito del mare che sembra cullare l’intera vicissitudine, i protagonisti, le idee, i sentimenti, i ricordi, trovando compimento all’ombra dell’icona del Moby Dick, a suggerire il mistero del proprio destino.
Yari Selvetella adotta uno stile moderno, di notevole arguzia e fluidità intellettuale, che spazia dal flusso di coscienza di Joyce al surrealismo di matrice kafkiana, tra continui flashback che sovrappongono un piano temporale all’altro, per cui, come all’autore, così pure al lettore sembra di essere sulla nave, in balìa delle onde, ciò che è il punto di osservazione privilegiato per affacciarsi sull’ignoto: “Il mare è una grande mente e penso che potrei esplorala davvero molto a lungo (…) È la nave stessa, ho pensato, che rende il mare liquido, lo apre, lo tritura nel motore e lascia alle nostre spalle un tumulto d’acque. (…) Siamo noi, è la nave, che modifica tutto, che droga gli organi, che inquina, ma a stretto contatto con un altro tempo. (…) Lo sfiato di un cetaceo celebra il suo dominio sull’elemento. Il capodoglio spruzza. (…) Spunterà di nuovo, un grande saluto con la pinna caudale che sbatte, sulla superficie dell’acqua? Si può solo cacciare o adorare un simile animale. Invece no, non l’ho più visto e come sempre accade in queste storie da quando ti ho conosciuto, non so più se quello che ho così intensamente vissuto è poi veramente successo.”
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La vera sapienza viene dall'alto
Questo testo è un prezioso saggio di grande attualità e notevole rilevanza, che affronta un tema quanto mai edificante per il viaggio della vita e per un indispensabile orientamento nella dominante confusione dei nostri giorni, vale a dire il discernimento tra il bene e il male nelle scelte quotidiane e nella prospettiva esistenziale. È un ampio trattato che scandaglia a fondo l’animo umano, gettando luce sulle sue contraddizioni, zone d’ombra, illuminate dalla sfolgorante verità di Cristo, la quale mette a nudo la realtà attraverso la trasparenza della coscienza la quale “suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare” (Sir 37,14) - come recita la Sacra Scrittura - ed “è il primo di tutti i vicari di Cristo”, secondo l’incisiva definizione del cardinale Newman.
Partendo dall’assunto che la sapienza viene dall’alto, si scruta il vivere umano secondo la rivelazione divina, a cominciare dall’eziologia del racconto biblico della Genesi, in cui si decifra la catastrofe originaria del peccato della disobbedienza e della sfiducia dell’uomo verso il Creatore, che l’ha allontanato da Lui e l’ha defraudato del Paradiso Terrestre, con tutte le nefaste conseguenze del dilagare del male e della sofferenza di generazione in generazione. Quindi, si contempla il mistero di redenzione messo in atto dall’Onnipotente per salvare le Sue creature attraverso la potenza benefica del Verbo incarnato Gesù Cristo, il quale ha assunto su di Sé l’umana miseria e l’atavica maledizione, riscattandola con il supremo sacrificio della croce. Allora, è soltanto in hoc signo che l’uomo può vincere la battaglia della vita, ancorandosi saldamente alla roccia della fede, speranza e carità, attingendo a quella rigenerante sorgente di misericordia che zampilla dalla Chiesa, Sposa amata che scaturisce dal costato trafitto di Cristo, figura della nuova Eva tratta originariamente dalla costola di Adamo immerso nel torpore, che nella Madonna, docile allo Spirito Santo e in tutto obbediente al Padre, trova il compimento della beatitudine e della perfezione dell’umana progenie, lavata dal sangue del Salvatore. Nella Madre del Signore, infatti, si può ammirare quel capolavoro di grazia e di bellezza in cui può specchiarsi ogni creatura, la quale può realizzare anch’essa, secondo i suoi doni, i talenti, la propria specifica identità, quel meraviglioso sogno di Dio vagheggiato fin dall’Eternità: “L’uomo è stato creato «capace di Dio» e radicalmente orientato a lui. Essendo Dio il Sommo Bene, ne consegue che, raggiungendo Dio, l’uomo ottiene la perfetta felicità.” Ciò è possibile in virtù dei sacramenti, in particolare del battesimo con cui si riceve l’adozione a figlio di Dio, della comunione eucaristica con cui si sigilla l’unione nuziale dell’anima con l’Altissimo, della penitenza con cui, ogni volta che si cade, ci si riconcilia con il Creatore infinitamente misericordioso, oltre alla vocazione del matrimonio o della consacrazione dell’Ordine, secondo la propria opzione fondamentale. L’autore, forte della sua esperienza sacerdotale di confessore e padre spirituale, invita a riconoscere gli inganni e le insidie del maligno, che purtroppo nella Storia opera instancabilmente con la sua tenebrosa scia di malvagità, violenza, menzogna, perversione. Padre Livio istruisce con rigore logico e speculativo su come evitare le trappole tese dal grande falsario, che proprio nel camuffare il male con il bene confeziona l’esca appetibile che poi si svela amaramente quale veleno mortale: “Tuttavia, per quanto esposte alle seduzioni del maligno, le società imbevute di cristianesimo hanno tenuto fermo il giudizio sul bene e sul male, sapendo distinguere le tenebre dalla luce e le azioni buone da quelle cattive. Oggi invece l’uomo cede all’eterna tentazione del serpente di essere lui colui che stabilisce quali sono le norme morali, decidendo ciò che è bene e ciò che è male. Mettendosi al posto di Dio, l’uomo fa di se stesso la misura di tutte le cose. Ne consegue che il male non solo è compiuto, ma viene presentato e non di rado elogiato come un bene. Mai come oggi il cristiano deve formarsi un giudizio illuminato e sicuro su ciò che è il bene da compiere e il male da rifuggire, evitando l’insidia mortale dell’accecamento spirituale.” Il discernimento riveste, quindi, un’importanza determinante per assicurarsi la salvezza dell’anima e la vita eterna, che è la massima posta in palio che ci giochiamo in quest’avventura terrena, senza poter avere un’altra chance, oltre alla buona riuscita del nostro cammino, così irto di ostacoli e asperità. Per questo in tale tremendo dramma della dialettica tra bene e male insorge l’urgenza di governare saldamente la nostra esistenza, affidandosi innanzitutto ai lumi della verità rivelata attraverso la Sacra Scrittura e la Persona di Gesù (“Essa deve essere compresa e approfondita nella fede e nella preghiera, in modo tale che diventi carne della nostra carne e sangue del nostro sangue.”); avvalendosi, inoltre, delle testimonianze dei santi e della vigilanza della coscienza. Allora, la sapienza acquista un valore essenziale per poter discernere ciò che è giusto e ciò che non lo è, che direzione sta imboccando la nostra vita; infatti, se vogliamo giungere felicemente alla sospirata meta, è necessario risalire alla nostra origine di filiazione divina: “La radice profonda da cui germoglia la religione è la dimensione spirituale dell’uomo, il quale non è riducibile alla materia. L’uomo, prima ancora di essere corpo, è spirito. Il suo io è autocoscienza e luminosità inafferrabile. Col suo pensiero può abbracciare tutte le dimensioni dello spazio e del tempo, racchiudendole e superandole in uno slancio verso l’infinito. I grandi filosofi dell’Oriente e dell’Occidente hanno giustamente sottolineato che il pensiero di Dio, di cui l’intelletto umano è capace, manifesta la sua trascendenza e la sua misteriosa somiglianza divina.”
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Il sangue del povero ovvero l'ingiustizia assoluta
“Il sangue del Povero è il danaro. Di esso si vive e si muore da secoli. È la sintesi espressiva di ogni sofferenza. È la Gloria, e la Potenza. È la Giustizia. È la Tortura e la Voluttà. È esecrabile e adorabile, simbolo flagrante e grondante del Cristo Salvatore, in quo omnia constant.” Così esordisce la penna audace e vigorosa di Léon Bloy, capace d’impugnare i luoghi comuni (di cui ha scritto l’Esegesi in una sua opera) e di gettar luce su verità scomode, temprata nel crogiuolo della sofferenza, con il raro pregio di essere libera a prezzo della propria miseria. Avendo vissuto in prima persona la terribile condizione della povertà, tanto da perdere due figli per il disagio economico in cui versava la sua famiglia, lo scrittore francese, il quale, convertito da un feroce anticlericalismo, si dichiara “è vero, cattolico veemente, indipendente, ma un cattolico assoluto, che crede tutto ciò che la chiesa insegna”, può con cognizione di causa trattare l’argomento, schierandosi dalla parte dei poveri e dando loro voce; ciò che non accade spesso: “Il diritto alla ricchezza, negazione assoluta del Vangelo, antropòfagica derisione del Redentore, sta scritto in tutti i codici. È impossibile strappare questa tenia senza strappare anche le viscere; e l’operazione è urgente. Ci penserà Dio. – Tu non hai il diritto di godere quando tuo fratello soffre! – Urla, ogni giorno, sempre più forte, la sterminata folla dei disperati. Questo libro sarà l’eco di questo clamore.” Attraverso una penetrante analisi storica e sociale del suo tempo, Bloy addita la contraddizione tra il disegno degli uomini, monopolizzato dai potenti, come Napoleone che aveva interdetto la mendicità, e quello divino, che invece segue vie nascoste, oscure al buon senso dei più, come l’inconfutabile assunto per cui “Il Verbo di Dio è venuto in una stalla, per odio del Mondo; lo sanno anche i bambini; e tutti i sofismi demoniaci non muteranno nulla di questo mistero: che cioè la gioia del ricco ha come sostanza il Dolore del povero. Chi non capisce questo, è un idiota per il tempo e per l’eternità. – Un idiota per l’eternità!”
Il vero scrittore ha la lungimiranza di guardare il mondo dall’alto, secondo la stessa prospettiva del Creatore, e non seguendo la miope logica umana. E lo sguardo di Dio si posa là dove l’uomo lo ritorce inorridito, vegliando su quei bassifondi dove soltanto la Sua pietà arriva, da cui prorompe un grido inascoltato che nella Grande Sera del Giudizio Universale, dell’Indignazione di Dio, si leverà a condanna di tutti coloro che avranno ignorato il povero, in cui si nascondeva Cristo stesso, il grande Mendicante d’amore, che ha fame e sete di misericordia, che erra per le strade come Pellegrino che attende d’incontrarti sulla via di Emmaus, facendosi compagno della tua stanchezza e delusione, sostenendo i tuoi passi fino all’eterno convito, che poi è anche quel Prigioniero nel tabernacolo, ostaggio dell’indifferenza delle creature, e l’Infermo che dalle Sue stesse piaghe, dal Suo costato trafitto, trae la consolazione per le anime.
L’autore passa in rassegna tutte le vessazioni che sono costretti a subire i poveri, dal morso della fame, per cui “Il Sangue e la Carne del Povero sono gli unici alimenti che possono nutrire”, ed “è una necessità igienica che il povero sia divorato dal ricco”, fino al più grande abominio che ha fatto sudare Gesù nel Getsèmani che è la profanazione e l’usurpazione del “diritto all’innocenza.” La bilancia della giustizia sancisce inesorabilmente che il superfluo di cui gode il ricco è una sottrazione del necessario al bisognoso: “Ogni uomo che possiede oltre l’indispensabile alla sua vita materiale e spirituale è un milionario, e quindi è un debitore verso coloro che non possiedono nulla.” Stupisce l’ottusa insensibilità del ricco: “La ricchezza ha un tale potere di avvilire e di idiotificare che sarebbe il più sorprendente miracolo se simili parole non andassero del tutto perdute. Possiamo immaginare l’anima del ricco sotto banchi di tenebre, in un abisso paragonabile al fondo dei mari più profondi. È la notte assoluta, il silenzio inimmaginabile, infinito, l’abitacolo dei mostri del silenzio. Tutti i tuoni e i cannoni possono scoppiare o rumoreggiare alla superficie. L’anima rannicchiata in quell’abisso non ne sa niente. Anche nei più bui luoghi sotterranei, si può supporre che ci siano dei fili pallidi di luce venuti non si sa donde e vaganti nell’aria come d’estate in campagna i ragnateli sfatti. Finanche le catacombe non sono infinitamente silenziose. Per l’orecchio attento, c’è qualcosa che potrebbe essere le lontanissime pulsazioni del cuore della terra. Ma l’oceano non perdona. Luce, rumore, movimento, vibrazioni impercettibili, tutto viene inghiottito da esso e per sempre.” (p.100). Di contro, la strenua pazienza dei poveri è un miracolo che non si spiega se non con un dono divino: “Ma quel che c’è di più incomprensibile è la pazienza dei poveri: medaglia nera e miracolosa della Pazienza di Dio nei suoi palazzi di luce. Quando la sofferenza diventa eccessiva, sembrerebbe semplicissimo ammazzare o sventrare la bestia feroce. Ne abbiamo esempi. Anche nella storia sono numerosi. Però queste rivolte furono sempre dei moti di convulsione e di poca durata. Subito dopo lo sfogo, il Sudore del Sangue di Gesù ricominciava a scorrere silenziosamente nella notte, sotto i placidi ulivi dell’Orto, mentre i discepoli continuavano a dormire. Gli è necessario continuare questa Agonia per tanti sventurati, per uno stragrande numero di creature indifese: uomini, donne e soprattutto bambini!”
Léon Bloy scoperchia il vaso di Pandora delle ingiustizie di ogni tempo e di ogni costume sociale perpetrate nei confronti dei poveri: dall’oppressione degli indigeni nelle miniere alla ricerca di perle preziose per la gioia delle superbe signore, il cui “tenero collo porta attorno foreste e isole”, secondo la folgorante definizione di Tertulliano, allo sfruttamento coloniale, dopo la scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo, le cui buone intenzioni di evangelizzazione sono state tradite da spietati assassini e voraci speculatori. Poi vi è la scandalosa avidità dei proprietari che esigono il prezzo dell’affitto per una miserabile stamberga, senza curarsi se quei poveretti lavorano senza neanche permettersi di mangiare per dover pagare, “se gli uomini diventano ladri o omicidi, se le donne si prostituiscono e prostituiscono i loro figli”: “Non vogliono vedere le lacrime che fanno versare, non vogliono sentire i profondi singhiozzi o le urla di disperazione causate dalla loro avarizia. (…) Tutte queste cose non li riguardano, ed esse non devono in nessun modo alterare la loro serenità, purché il denaro delle scadenze sia scrupolosamente intascato.” Ma alla resa dei conti, chi non ha voluto sapere, saprà: “La vostra scienza, orribilmente universale, orribilmente irreparabile, sarà semplicemente l’Occhio di Dio, lo sguardo dell’Occhio di Dio, per tutta l’eternità!” (p.92). O ancora è il cosiddetto famigerato “sistema del sudore”, per cui operai, tra cui anche donne e fanciulli, i quali s’affaticano dalla mattina alla sera, senza un attimo di tregua, non godono neanche del frutto del loro lavoro, che raccolgono invece i ricchi che si fregiano delle vesti finemente confezionate: “Impossibile, con una simile parola, non pensare al Getsemani, non pensare a Mosè e all’Egitto tutto inondato di sangue per prefigurare l’Agonia del Figlio di Dio. Dunque in questo modo ha sudato sangue Colui che posa sopra di sé tutte le pene immaginabili e tutte le pene inimmaginabili? Il Sudore di Sangue per sistema! Il Sudore del Sangue di Gesù calcolato per fruttare carestie e massacri!” (p.105). E poi vi è la slealtà del commercio: “In fondo, il commercio consiste nel vendere a caro prezzo quel che è costato pochissimo, ingannando il più possibile sulla quantità e la qualità. In altri termini, il commercio prende la goccia del Sangue del Salvatore donata gratuitamente a ogni uomo e fa di questa goccia più preziosa che tutti i mondi insieme, spaventevolmente moltiplicata da addizioni e miscele,un traffico più o meno redditizio.” E, oltre il danno, la beffa: la Derisione della Carità, per cui all’occasione di ogni calamità le dame ingioiellate si precipitano a far bella mostra di sé nelle serate di gala che ostentano di raccogliere proventi per i bisognosi, quando questi in realtà non ne vedranno neanche l’ombra. Infine, che dire dell’idiozia per cui i cani dei ricchi sono sepolti in cimiteri di lusso, mentre un povero cristiano viene gettato senza troppi complimenti in una fossa comune?
Tutti questi volti della povertà minuziosamente esaminati dallo scrittore sono come allegorie che illustrano una verità evangelica troppo a lungo soffocata nelle coscienze e che, alla fine dei tempi, finirà con l’esplodere insieme alle trombe del Giudizio Universale: “Vi dico che, se costoro tacciono, le pietre grideranno.” (Lc 19,40).
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L'intensa vicissitudine umana del Salvatore
Diversi autori si sono cimentati nell’interpretazione letteraria della vicissitudine di Gesù, probabilmente perché, come affermava il Manzoni, il “vero poetico” ha il potere di compenetrare il “vero storico”, illuminando quelle zone d’ombra dello stato d’animo - ovvero quel “nodo di vipere” - che si contendono il bene e il male, indagando le pulsioni interiori e le dinamiche psicologiche che determinano le scelte e i comportamenti. Da scrittore esperto conoscitore dei moti dell’animo, Mauriac offre una lettura della vicenda storica di Gesù quale “personaggio-chiave della tragedia umana di cui già da tempo si era fatto cronista e interprete”, come scrive Carlo Bo nell’introduzione. Infatti, come sottolinea Maurice Zundel in una citazione de Le poème de la Sainte Liturgie apposta ad epigrafe del libro, “Il Cristianesimo risiede essenzialmente nel Cristo. E meno nella sua dottrina che nella sua Persona.” Allora, ripercorrendo i testi evangelici, l’artista francese ci fa conoscere un Gesù impregnato di questa calda umanità, torchiato in tale tremendo impasto di lacrime e sangue, immerso nell’agone di questa tragica dialettica di gioia e dolore, luce e tenebre, fino a sfidare l’estremo limite della morte, con la pienezza di vita ulteriore della Resurrezione. Così, incontriamo un Salvatore che si china a fasciare le piaghe dei lebbrosi, che rivolge le Sue tenerezze ai reietti, ai bambini, ai “piccoli” cui è destinato il Regno dei cieli. È un Messia scandaloso, che delude le aspettative degli scribi e dei farisei, dei sommi sacerdoti che ritengono di detenere il monopolio del culto e che faticano ad accettare questo sedicente Re che si attornia di ladri, gabellieri, prostitute ed altra gente di ‘malaffare’: “Così il Cristo si formava, sotto l’apparenza del suo immenso scacco, una clientela nei bassifondi. Egli accumulava un tesoro segreto con quei cuori di scarto, coi rifiuti del mondo.” (p. 127). Tutti gli incontri di Gesù con la miseria umana sono costellati dalla sublimità della Sua Misericordia che si abbassa al livello della creatura finita, della sua sconfinata debolezza raccattata pietosamente dall’Onnipotente nell’Amore: quello con la samaritana al pozzo, con l’adultera (anche le donne rientrano nella categoria degli esclusi e discriminati che invece Egli riscatta nella loro dignità), il paralitico, il pubblicano Matteo, la Maddalena cui “sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato.” (Lc 7,47). Poi vi è il rapporto costante con i suoi apostoli, improntato ad una divina tenerezza, come con i devoti amici Lazzaro, Marta e Maria, quello controverso con la folla ambivalente, pronta a incoronarlo quando viene prodigiosamente sfamata, per poi ritirarsi atterrita quando ode da Lui quelle inconcepibili stravaganze che invitano, per esempio, a cibarsi di Lui: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.” Tra la sapienza autorevole del Suo insegnamento e la meschinità umana si apre sempre di più quel divario che gli spianerà la strada al Calvario, mentre in questo muto deserto di solitudine si staglia l’ombra lunga della croce, innalzata principalmente dai suoi nemici accecati dall’orgoglio e dall’invidia, i quali non sopportano di essere scardinati dalle loro false sicurezze e soprattutto dai loro ruoli di potere religioso. Ecco, dunque, compiersi il destino per quel Figlio dell’Uomo che “passò beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” (At 10,38) e in cambio n’ebbe il supplizio atroce riservato ai peggiori malfattori. Il Cristo ha conosciuto questa desolata abiezione pur di acquistarsi le anime, una sola delle quali vale tutto il prezzo della Sua Passione. Dalla terribile agonia del Getsemani, dove la sua carne, presentendo l’orrore delle torture, sanguina e il suo spirito geme, all’ignobile tradimento di Giuda con quel bacio che è uno sfregio al Suo amore, all’avvilente rinnegamento di Pietro, all’estremo abbandono di tutti gli amici – tranne i fedelissimi -, alle feroci umiliazioni e violenze cui è sottoposto, fino ad essere ridotto a “una vivente piaga”, così si consuma la sua Passione su quel Golgota - descritta dall’autore con intenso pathos quanto con crudo realismo - fino all’ultimo grido (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) e all’estremo respiro con cui accoglie l’intero creato nell’abbraccio trasversale della croce: “Tutto è compiuto”.
Eppure la vittoria, contro tutte le apparenze, gli appartiene, e definitivamente, con la primavera della Resurrezione che assicura la palingenesi dell’universo, con la conquista perenne di anime -come l’agguerrito persecutore che incontrerà sulla via di Damasco che trasfigurerà nel grande apostolo delle genti S. Paolo -, con la sua insistente corte alle creature nei secoli dei secoli: “D’ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato.” (p.225).
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