Opinione scritta da Silvia Argentati
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Recensione
OPINIONI DI UN CLOWN di HEINRICH BöLL -
Perdente, disilluso, con la testa incastrata nel passato, senza donna, senza soldi e senza lavoro, con il vizio dell’alcol e del fumo. Le sue uniche forze: l’ironia e il pensiero libero. Questo è Hans, protagonista indiscusso di questo romanzo scritto dal premio Nobel tedesco H. Böll nel 1963. Il romanzo è una lunga riflessione interiore di Hans Schnier, clown in declino che insegue idealmente una donna che non c’è più; una donna che lo ha lasciato per sposare un cattolico e condurre una vita perbene. “I due mali da cui sono afflitto per natura: malinconia e mal di testa. Da quando Maria è passata ai cattolici, la violenza di questi due mali è aumentata”. Il libro è una fervente critica contro le convenzioni sociali e religiose e, al tempo stesso, è una profonda dedica d’amore. La trama è costruita con un intreccio di flashback che permettono al lettore di ricostruire, in modo non lineare, le tappe più significative della vita di Hans e della sua famiglia. La vicenda si svolge nell’arco di poche ore e viene narrata attraverso le telefonate in cui Hans, con il mistico dono di afferrare gli odori tramite il telefono, chiede disperatamente soldi ad amici, conoscenti e familiari. La sua è una ricca famiglia di industriali del carbone; la madre, donna fredda e avara, è presidentessa del Comitato Centrale della Società per la conciliazione dei contrasti razziali e si circonda di ex nazisti ed antisemiti che dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno semplicemente indossato una nuova maschera da portare in società e che, attratti dal nuovo capitalismo e dal fervente boom economico, non hanno affatto preso coscienza degli orrori prodotti dalla loro nazione. Come marionette che “si toccano mille volte il colletto ma non riescono mai a scoprire il filo che le fa muovere”.
L’ipocrisia dilagante viene messa alla berlina da Hans, un uomo che scegliendo di fare il clown si è ritagliato una “zona di sicurezza ideologica” e di indipendenza. Hans, monogamo e miscredente, non si è voluto allineare, ha rifiutato di piegarsi al conformismo e al perbenismo e ciò lo ha condannato ad essere un perdente, un uomo solo, impotente, escluso e allontanato da ogni relazione sociale. L’atmosfera finale è pesante, non c’è riscatto, non c’è barlume di speranza nel futuro ma una condanna inesorabile alla solitudine e all’individualismo.
“Gli attimi bisognerebbe lasciarli così come sono vissuti, mai tentare di ripeterli, di riviverli”…“Sotto il nome di felicità non riesco ad immaginare niente che possa durare più di uno, forse due o tre secondi”.
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Mi soffermo su "MORFINA" di Michail Bulgakov, racconto inserito all'interno di "Appunti di un giovane medico" ma che io ho letto singolarmente in un libro pubblicato per il Sole 24 ore (I libri della domenica). – Bello e terribile. “Andateci piano con i cristalli bianchi, solubili in venticinque parti d’acqua. Io sono ricorso troppe volte a loro, e quelli mi hanno rovinato”. Ebbene sì, Bulgakov era un morfinomane! O per lo meno lo è stato per un periodo della sua vita. Quando lo scoprii, durante i miei studi universitari, ne rimasi sbalordita anche perché la genesi del lungo travaglio è legata ad un particolare episodio della sua vita. Nel 1917, mentre esercitava la professione di medico, Bulgakov succhiò, attraverso una cannula le membrane difteriche, dalla gola di un bambino malato e si ammalò; per lenire i dolori si fece fare iniezioni di morfina e ne rimase stregato. Lo splendido racconto “Morfina”, scritto nel 1927, è il riflesso di questa sua esperienza da tossicomane. Il ritmo del racconto è incalzante, quasi febbrile. Si tratta del diario, o meglio “l’anamnesi di una malattia”, del giovane medico suicida Sergei Poljakov. Il fatto di essere dottore ha permesso a Bulgakov di descrivere con precisione scientifica gli effetti dell’uso e soprattutto dell’abuso del “demone in flacone”. All’inizio del diario c’è, da parte del protagonista, una sorta di compiacimento ed entusiasmo. “Non posso esimermi dall’elogiare chi per la prima volta ha estratto morfina dai fiori di papavero. E’ un autentico benefattore dell’umanità”.
Con il passare dei mesi il giovane medico viene fagocitato in un vortice agghiacciante fatto di brividi, rabbia, menzogne, visioni, paura e dolore fino ad arrivare alla consapevolezza di essersi completamente avvelenato. “…Non è più essere umano. E’ come spento. E’ un cadavere ambulante che soffre e si tormenta. Non desidera nient’altro, non pensa a nient’altro che non sia la morfina. Morfina!”, scrive il medico. Da parte dello scrittore Michail Bulgokav non c’è giudizio morale ma solo la limpida e accorata descrizione di un viaggio negli abissi da cui il protagonista non riesce a risorgere. Il protagonista infatti non riesce a separarsi dall’idolo di cristallo solubile. La vita di Poljakov è in frantumi, così come i pensieri e le frasi che annota sul diario; un diario da cui strappa le pagine fino a quando, completamente annientato, deciderà di strappare esso stesso dalla vita. “Il mondo non mi serve, come, del resto, io non servo a lui”.
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CAMMINARE di HENRY DAVID THOREAU
Raccolta di idee sviluppate dallo scrittore H. D. Thoreau durante le sue passeggiate e peregrinazioni nei dintorni di Concord, nel Massachussetts. Si tratta di pensieri sparsi scritti nel 1862 - usciti postumi nel 1863 e raccolti in questo breve saggio - che invitano all’arte di camminare. Camminare inteso come un’azione fisica e spirituale, di ricerca, meditazione e libertà di pensiero. “Credo di non poter conservare la mia salute e il mio animo se non trascorro almeno quattro ore al giorno – spesso di più – passeggiando per i boschi, sulle colline e nei campi, del tutto libero da tutti gli impegni materiali”.
Opera minore rispetto ai suoi scritti precedenti come “Disobbedienza civile” (1849) e “Walden, ovvero la vita dei boschi” (1854) , questo piccolo saggio ha comunque come tema centrale la riflessione sul rapporto dell’uomo con la natura. La tematica appare chiara sin dall’incipit del libro il quale recita: “Vorrei spendere una parola in favore della natura, dell’assoluta libertà e della selvatichezza che vengono opposte a una libertà e a una cultura meramente civili. Considero infatti l’uomo più come abitante, come parte integrante della natura che come membro della società”.
Camminare è dunque secondo lo scrittore e filosofo Thoreau - divenuto negli anni simbolo letterario del pensiero ambientalista e pacifista - una dimensione selvaggia. “Lasciatemi vivere dove voglio, da questa parte si erge la città, da quella la selvatichezza e mi allontano sempre più dalla città per ritirarmi nella natura”.
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Il grande entusiasmo di tre ventenni italiani alla ricerca del loro scrittore preferito, "il vecchio Buck", lungo i viali di Los Angeles, descritto nell'introduzione firmata da E. Franceschini, vale la letteratura di questo libro.
E poi c'è l'esilarante viaggio di Bukowski in compagnia della sua fidanzata Linda Lee in Europa su invito degli editori francese e tedesco. Un racconto di viaggio fatto di aneddoti, interviste, spostamenti, reading, cene, sbronze, corse ai cavalli e ricerca delle proprie origini tedesche, senza perdere mai il sarcasmo e uno sguardo lucido e tagliente sulla società che lo circonda e su se stesso. Il linguaggio scelto è sempre semplice e diretto senza (al contrario di quello che si potrebbe pensare) volgere alla scurrilita'. Non c'è spettacolo, non c'è farsa o ostentazione. Bukowski, per la prima volta affronta a viso aperto la notorietà e si presenta al pubblico che lo cerca e lo rincorre per le strade e negli studi televisivi, così come è, con tutte le sue debolezze senza bisogno di ricorrere a particolari convenzioni sociali ed ipocrisia di facciata.
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TRISTE, SOLITARIO Y FINAL di Osvaldo Soriano – Rocambolesco, divertente, ironico e amaro al tempo stesso. Scritto nel 1973 dallo scrittore e giornalista argentino, rimane a tutt’oggi un libro di nicchia, ma si tratta di “un racconto perfetto”, come lo definì lo scrittore Giovanni Arpino, che sta a metà strada tra il poliziesco e le comiche in bianco e nero degli anni Quaranta. Un pastiche di generi che vede come protagonista il comico Stan Laurel, ovvero Stanlio, il famoso attore che fece coppia con Ollio.
Stan, ormai stanco e invecchiato, sale al sesto piano di un sudicio edificio di Hollywood per assoldare il detective privato Philip Marlowe, il personaggio uscito dalla penna dello scrittore americano Raymond Chandler. Finzione su finzione dunque: cinema e letteratura si incontrano nelle pagine di Soriano. Ma non è finita qui. Philippe Marlowe deve risolvere il seguente caso: perché i produttori cinematografici non ingaggiano più Stan Laurel? Perché nessuno lo cerca più? Perché dopo anni di successi è finito nel dimenticatoio?
Ad indagare sarà Philip Marlowe aiutato dallo scrittore stesso, Osvaldo Soriano, che entra in scena materializzandosi nel cimitero davanti alla tomba dove è seppellito Stan Laurel. Nell’incontro con il detective Marlowe, Soriano si presenta per quello che è, un giornalista argentino interessato a scrivere un libro sulla vita di Stan Laurel. Nel corso della storia i due tentano di rapire Charlie Chaplin, si scontrano con John Wayne, si intrufolano alla cerimonia di consegna degli Oscar, si nascondono tra una comunità hippies e danno il via ad un’incredibile e funambolica fuga che termina di fronte ad una scacchiera dove il re bianco viene sostituito da una pallottola calibro 45. Quello che rimane, al termine del libro, è l’atmosfera fosca da romanzo noir e l’attaccamento a questi due personaggi, Marlowe e Soriano, fumatori incalliti, amanti dei gatti, da sempre soli e solitari, perdenti ed ironici che, parafrasando Guccini, per il gusto della battuta si farebbero spellare.
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Viva la vida! Pino Cacucci
L'alcol, la morfina e la pittura per combattere i dolori del corpo e dell'anima. Attraverso un breve ed intenso monologo - nato dalla penna dello scrittore e giornalista P. Cacucci - la pittrice Frida Kahlo ripercorre i tragici avvenimenti della propria vita. Il libro ha l'impianto di una sceneggiatura teatrale e da' voce a quel "demone" che Frida Kahlo si portava dentro. A partire dal tragico incidente in autobus (nel 1925) che la mutilo' per sempre..."Sono stata al mio funerale nella lieve pioggia di un tardo pomeriggio, su un autobus che mi portava a Coyoacan. Ricordo questa lentezza assurda, irreale: il tram ci schiacciava contro un muro e l'autobus si contraeva, si ritraeva in se stesso, si comprimeva...Un corrimano di quattro metri mi era entrato nel fianco. Mi aveva trafitto come la spada trafigge il toro. Mi aveva impalata. La punta scheggiata mi usciva dalla vagina".
E ancora la solitudine, i tradimenti, la maternità negata, le invettive, i dialoghi immaginari di amore e odio verso il suo compagno e artista Diego Rivera (fonte continua di gioa e struggimento), i corteggiamenti del politico russo Leon Trockij e le battaglie interiori contro la morte. "Ho irriso la Pelona, ho urlato in faccia alla Morte la mia ostinazione a vivere".
La lettura di questo piccolo libro é un modo per capire meglio ciò che si cela o si svela nelle opere dell'artista messicana; artista che l’Europa, ed in particolare l’Italia, sta tributando con varie mostre.
PS. Il Mudec, Museo delle culture di Milano, ospita la mostra "Frida Kahlo - Oltre il mito" dal 1 febbraio al 3 giugno 2018.
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A metà strada tra il claustrofobico e l’irritante, a tratti divertente. L’atmosfera che si respira leggendo il libro di Recami è quella tipica delle Black Comedy inglesi dove paradossi, equivoci, rovesciamenti e tentati omicidi sono alla base della storia narrata. Un umorismo nero portato agli eccessi dove trova spazio la farsa, l’ironia e la cattiveria. Bersaglio prediletto di Recami è il rapporto coniugale. Come può un uomo infelice, depresso, ansioso e stressato fuggire dalle grinfie di una moglie cinica, manipolatrice, arpia e aguzzina, nonché commissario di polizia? Questa è la situazione in cui vive Antonio Maria, maestro di taglio e cucito, seppellito in casa sotto la tirannia della sua consorte Maria Antonietta. In questo rovesciamento degli stereotipi maschili e femminili, al povero Antonio Maria non resta che progettare rocamboleschi tentativi di fuga prima ed ingegnosi progetti omicidi poi. E allora ecco una serie infinita di macchinazioni che si ribaltano contro di lui: dalla cassapanca (evocativo di Morte apparente di E.A. Poe) alle lenzuola annodate, dall’ambulanza ai polli alla stricnina, dalla statuetta di San Pietro Martire alla balestra costruita con le forbici di casa.
Ma non c’è scampo alla propria condizione, tutto torna al punto di partenza, come il personaggio dei cartoni animati che Antonio guarda ossessivamente in tv, cioè come Willy il Coyote che passa l’esistenza (senza successo) a cercare di catturare Beep-Beep. Antonio, perennemente vestito con il gilet di velluto e la giacca da camera di fustagno, dalla propria cucina si ostina nel mettere in atto una serie di esilaranti delitti imperfetti. Le vicende narrate diventano sempre più paradossali in un crescendo che porta velocemente al colpo di scena finale. “I miei libri sono delle parodie – ha commentato Recami stesso alla presentazione del libro in occasione del Festival del noir e del giallo civile 2017 - il mio è un intento provocatorio. Non vado incontro al lettore, la mia non è una narrazione ruffiana e non do al lettore ciò che si aspetta. Quello che rimane alla fine è una risata a denti stretti, come nel film I Mostri di Risi”. Come lo scrittore Vitaliano Brancati, da cui Recami prende ispirazione, con Commedia nera N.1 l’autore toscano vuole infilare il coltello in conflitti drammatici come, in questo caso, la violenza e i maltrattamenti psicologici in ambito familiare, ma lo fa da un’angolazione molto particolare, a metà strada tra la comicità e la claustrofobia.
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Intelligente, ironico, divertente e profondo, questo romanzo del 1972 che ha tutte le caratteristiche della commedia nera. Con uno stile fluido ed elegante Milan Kundera racconta le vicende di otto personaggi invischiati in una cittadina termale, meta privilegiata di donne presumibilmente infeconde. Nell’arco temporale di sole cinque giornate si intrecciano paradossalmente tra loro le vite del trombettista Klima, reo di aver tradito la moglie (di cui è tra l’altro innamoratissimo) in una notte di festeggiamenti e bagordi post concerto, Kamila, la bellissima moglie del musicista accecata dalla gelosia, Skreta, il medico ginecologo “impollinatore” che elargisce il proprio seme a insaputa delle sue pazienti con difficoltà procreative, Ruzena, la giovane e gravida infermiera dello stabilimento termale incerta sulla paternità del proprio figlio ma che ha già scelto il padre a lei più congeniale, Jakub, lo pseudo psicologo prossimo a lasciare il Paese dopo un passato di turbolenze politiche, Bertlef, ricco villeggiante americano nonché saggio predicatore, fervente religioso e donnaiolo, Olga, figlia di un rivoluzionario condannato a morte e Frantisek, ingenuo ragazzo sedotto e abbandonato trasformatosi in stalker.
A dominare su tutto è la maestria e lo sguardo profondamente ironico dello scrittore ceco che indaga il rapporto dell’individuo con gli altri e con se stesso, in un turbinio di eventi che lascia spazio a tutte le voci (per questo è un grande romanzo polifonico). Come ebbe modo di scrivere Italo Calvino: “tra tanti scrittori di romanzi, Kundera è un romanziere vero, nel senso che le storie dei personaggi sono il suo primo interesse: storie private, soprattutto storie di coppie, nella loro singolarità e imprevedibilità. Il suo modo di raccontare procede a ondate successive e attraverso divagazioni e commenti che trasformano il problema privato in problema universale, dunque anche nostro”.
Infatti Kundera, con la “leggerezza” che gli è congeniale, ne “Il valzer degli adii” affronta temi come l’infedeltà, l’aborto, la procreazione, la paternità, i progetti eugenetici, la bellezza e il delitto. Sì, il delitto, perché le circostanze e il caso possono trasformare un uomo qualsiasi in potenziale assassino o semplicemente rivelare a se stesso che dentro di sé lo è sempre stato. Procedendo verso il finale dunque, il romanzo prende anche i connotati di un giallo. Si tratta di omicidio o suicidio? Sarà un ispettore giunto alla stazione termale per interrogare i sospettati a svelare la verità? O il caso, a cui nessun essere umano può sottrarsi, si prenderà gioco di tutti?
Milan Kundera nel frattempo sollazza il lettore con un magico parallelismo tra Raskolinkov, il protagonista del romanzo dostoevskiano “Delitto e Castigo” e un personaggio de “Il valzer degli addii” disquisendo ( la voce di chi marra e la voce di chi riflette sono la stessa voce) sul significato intrinseco e personale del commettere un delitto, in quanto anche l’assassinio può diventare un atto di autoconoscenza.
Questa commedia nera intrisa di ironia, narrata nello stesso tempo (proprio come a teatro), dà la possibilità a tutti i personaggi di autoconoscersi, di autorivelarsi. Nelle loro vite c’è un’epifania (come in J. Joyce), cioè un momento speciale in cui un episodio diventa rivelatore del vero significato della loro esistenza. E non è detto che questo disvelamento della realtà sia meno inquietante della falsità.
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"Il ragazzo in soffitta" un giallo/noir tutto italiano scritto dal regista e scrittore Pupi Avati che si svolge su due piani temporali ed ambientali diversi, tra Bologna e Trieste. “Il ragazzo in soffitta” è il primo romanzo di Pupi Avati (scritto nel 2015) ed è la storia di un'amicizia tra due adolescenti, Dedo e Giulio, molto diversi tra loro nel fisico e nel temperamento, che si trovano a condividere un segreto terribile, squallido e allucinante. Sarà proprio questo infimo segreto, a creare un legame indissolubile tra i due coetanei.
Il romanzo è costruito, prendendo in prestito un termine cinematografico, a “montaggio alternato”: in due città, in due momenti diversi (ai giorni nostri a Bologna e negli anni ’80 a Trieste) e con stile di scrittura differenti: narrato in prima persona dal quindicenne Dedo e dunque con un linguaggio semplice, immediato e diretto tipico degli adolescenti nella narrazione che si svolge a Bologna (città di nascita dello scrittore e regista), in terza persona e con un linguaggio più ricercato nella storia di Trieste.
Le due narrazioni viaggiano in maniera distinta e parallela per poi incontrarsi ed intrecciarsi a metà libro. La narrazione è scorrevole e coinvolgente e nel libro compaiono molti dei temi cari a Pupi Avati quali l'indagine dei disturbi della mente umana, l'amicizia tra coetanei e i fulgidi anni dell’adolescenza, l'iniquità della vita che si prende beffa degli uomini distribuendo gioie e dolori in maniera arbitraria, la paura come elemento formativo della propria identità, l'attesa di un risarcimento per chi si sente defraudato dalla vita. E poi, come nel suo bellissimo film "La casa dalle finestre che ridono" (diretto nel 1976) non manca il colpo di scena finale.
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Un piccolo capolavoro italiano. Si tratta di un romanzo breve (o racconto lungo) crudo nel linguaggio, crudele nella storia e spietato nella sua interezza. Per raccontare le vicende della famiglia Vivaldi, Cerami utilizza uno stile narrativo asciutto ed essenziale. L'incedere è incalzante. Le poche descrizioni degli ambienti interni rispecchiano la miseria e lo squallore dei sentimenti dei personaggi; mentre vengono alla luce alcune realtà del costume italiano: il concorso truccato, la subalternità della figura dell'impiegato, i cittadini assuefatti, l'individualismo, l'opportunismo, la ruffianeria... A proposito del libro Italo Calvino scrisse: "qui di fatti ne succedono parecchi. .. da un'incongrua cerimonia d'iniziazione massonica a una cruenta irruzione nella cronaca nera quotidiana, a un'allucinata, truce vendetta. Ma anche i fatti appena successi, vengono inghiottiti dalla sorda, vischiosa continuità dell'esistere".
Ps. Nel 1977 il celebre regista Mario Monicelli ne ha tratto un film omonimo interpretato da Alberto Sordi.
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Fante supera Bukowsky e Carver supera Fante in fatto di racconti. O forse, è solo l'ultimo in ordine di scoperta, personalmente parlando.
La raccolta di racconti (17 per l'esattezza, di cui il penultimo dà il titolo al libro) esercita una forza di attrazione magnetica. Una sottile tensione pervade ogni racconto, qualcosa di indefinito domina le vite e e le storie dei personaggi.
I protagonisti, uomini e donne comuni della piccola provincia americana, sono per lo più anime confuse prese nella loro quotidianità e nella loro dimensione privata. L'alcol, l'insoddisfazione, la fatica di vivere, i progetti non realizzati e gli errori, sono delle costanti, dalla prima all'ultima pagina. Il tutto si consuma all'interno della routine di rapporti familiari, di coppia e di amicizia.
Carver mostra qui (nella sua veste originale non stravolta dai pesanti tagli imposti dall'editore Lish) una scrittura magistrale: pulita, limata, cesellata, essenziale, nonché efficace ed incisiva. Le emozioni, piuttosto che essere descritte, vengono evocate. Il narratore scompare per dare spazio a dialoghi reali, presi dal vivo; conversazioni tra vicini di casa, conoscenti e amanti. Nella sua scrittura non c'è retorica né falsità. Carver mette in atto la pratica dell'omissione, cioè esclude tutto ciò che non è fondamentale raccontare e questo affinché - afferma lui stesso - la prosa risulti "trasparente e cristallina". Ricchi sono anche i rimandi autobiografici (l'alcol, il lavoro in segheria del padre e il lavoro di cameriera della madre), il tutto per sottolineare come i suoi personaggi vanno a "grandi passi in nessun posto"; di fronte ad un bivio qualsiasi strada imboccata lascia in mezzo al nulla. Un nulla fatto di disagio, perdita e spaesamento esistenziale. I personaggi sono impantanati, invischiati in situazioni che non riescono a risolvere. E alla fine non ci sono conclusioni definitive, sensazionalistiche, è un defluire continuo, come nella vita più comune e prosaica dell'essere umano.
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Duro, spietato, crudele e agghiacciante, come le circostanze e il caso che nella via si fanno beffa dell’essere umano. Una trama investigativa, quella messa in piedi da Dürrenmatt che stravolge gli schemi del giallo deduttivo. Lo scrittore si allontana dall’ottimismo positivista dell’investigatore infallibile e rifugge la divisione manichea tra male e bene. Dürrenmatt gratta la superficie dell’idilliaca e perbenista della società elvetica per far muovere i suoi personaggi nei bassifondi della svizzera orientale. Al centro della vicenda c’è il detective Matthai (senza una vita privata e con il vizio del fumo) ossessionato dall’idea di giustizia e dal bisogno di scovare la verità dopo la promessa fatta alla mamma della piccola vittima trovata morta sgozzata nel bosco vicino Magendorf. Un’ossessione che lo porta a credere nell’innocenza di un colpevole e in cerca di un assassino inesistente. Ma se l’assassino inesistente esistesse? Questo il dubbio che si insinua nella mente del lettore. Il commissario Matthai, uomo donchisciottesco, mette in gioco tutto se stesso per cercare all’interno dell’impianto poliziesco–investigativo le bambine dalle trecce bionde e il vestitino rosso (elementi che ricordano la favola di Cappuccetto Rosso) e il terribile il gigante dei porcospini. Ma “un fatto non può tornare come torna un conto”; come afferma un altro personaggio del libro “la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa….i fattori di disturbo si intrufolano nel gioco…e ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande”.
P.S. Nel 2001 il regista americano Sean Penn ha realizzato un film omonimo con Jack Nicholson e Benicio Del Toro tratto dal libro di Dürrenmatt.
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Sfugge ad ogni etichetta e ad un genere preciso, e questa molto probabilmente è la sua forza. "La musica del caso", scritto dall'autore americano nel 1990, inizia come un romanzo on the road - i motel, le strade infinite da percorre con una Saab 900 rossa, il viaggio, la scoperta, il fascino dell'ignoto, la libertà assoluta - per poi stringersi come un imbuto in una storia claustrofobica, asfissiante e surreale che tiene incollato il lettore fino all'ultima pagina.
Un cambiamento di registro che nel giro di 200 pagine passa, volendo fare un paragone letterario, da J. Kerouac ad E. A. Poe.
Pochi i personaggi in campo, in questa storia dalle simmetrie perfette: i due protagonisti Nashe e Pozzi (ex vigile del fuoco il primo e giocatore di poker il secondo), Stone e Flower (eccentrici milionari con hobby maniacali), Murks e Floyd (i guardiani) e l'unico personaggio femminile, la prostituta Tiffany.
Qui, come non mai - forse in Italia solo Tommaso Landolfi fu maestro in questo - il normale e il quotidiano si aprono alla dimensione del mistero. In tutta la seconda parte del libro domina qualcosa di insolito, di perfido e di ossessivo.
L'atmosfera cupa prende il via da una partita di poker in cui in palio c'è la libertà dei protagonisti. La scrittura è diretta ed incisiva e l'intreccio è costruito benissimo. Il protagonista dovrà superare una prova, quasi un paradosso: erigere un muro con pietre di un vecchio castello irlandese per conquistarsi la libertà; un'esperienza concreta che darà il via all'evoluzione interiore del personaggio e che prende i connotati del grottesco e del metafisico.
Nell'arrivare all'epilogo il lettore si pone quesiti in merito al potere sconfinato del caso,al libero arbitrio, al destino, alla sorte e alla solitudine. Come nei film di David Lynch, la ricerca della verità non trova risposte, si rimane in bilico tra realtà e menzogna. Alla fine le domande rimangono inevase e ciò che resta è un senso di incognita e profonda ambiguità.
PS. . Nel 1993 il regista statunitense Philip Haas ne ha tratto un film omonimo.
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