Opinione scritta da Laura V.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    04 Aprile, 2025
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Il tragico destino dei vinti

"Folle l'uomo che saccheggia le città, i templi, le tombe e i santuari dei morti: lascia il deserto dietro di sé, ma farà anche lui una brutta fine".

Andata in scena nel tardo V secolo a. C., "Troiane" è un'opera teatrale che commuove e dà molto da riflettere sul nonsenso della guerra.
Sullo sfondo della rocca di Ilio espugnata con il famoso inganno e ormai in fiamme, le donne troiane attendono di essere spartite come parte integrante del bottino di guerra; per loro si prospetta solo un doloroso e umiliante futuro di schiavitù. L'anziana regina Ecuba viene assegnata a Ulisse, la nuora Andromaca a Neottolemo, figlio d'Achille, mentre la figlia Cassandra, già stuprata nel tempio di Atena da uno degli achei, dovrà seguire Agamennone sino a Micene. Il delitto del figlio di Andromaca ed Ettore, il piccolo Astianatte, gettato dall'alto delle mura di Troia, segna il culmine delle atrocità compiute dagli invasori. Tra questi ultimi, un barlume di umanità sembra vedersi soltanto nell'araldo Taltibio, l'unico a esprimere compassione per il destino dei vinti.
Nel complesso, anche se forse non tra i più letti e conosciuti, uno dei lavori euripidei di maggior rilievo che colpisce senz'altro per la particolarità del tema affrontato e il senso di pietà rivolto a donne inermi, destinate senz'appello all'esilio e alla schiavitù, che mantengono tuttavia una dignità invidiabile in un momento tanto drammatico.

"La felicità non dura e crederlo è una follia. La sorte si comporta come i dementi: a scatti inconsulti, ora qua, ora là. E nessuno riesce a conservare la propria fortuna".

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2024
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Teatro antico

Se non fosse stato per un Gruppo di Lettura a cui ho preso parte nei mesi scorsi, a me non sarebbe neanche lontanamente passata per la testa l’idea di rispolverare il buon vecchio T. Maccio Plauto. È stata, in definitiva, una lettura interessante che mi ha rievocato gli anni della scuola, quando questo autore si studiava per letteratura latina.
È da allora, infatti, che mi è rimasta impressa la grande vivacità linguistica (dai neologismi ai doppi sensi, senza tralasciare le battute ben colorite) come caratteristica distintiva del teatro plautina, e infatti nelle “Bacchidi” se ne trova ampia conferma. Il plurale del titolo si riferisce a due sorelle etère, le quali tuttavia non sembrano essere le protagoniste dell’opera in quanto la scena viene presto dominata da personaggi maschili ben precisi, anzitutto i due giovani innamorati e il servo scaltrissimo. L’inizio vero e proprio della commedia risulta perduto e di esso la tradizione ha conservato una trentina di versi piuttosto mutili. Il modello è indubbiamente greco: il “Dis exapatòn” di Menandro, a cui il testo di Plauto, in generale, si mantiene fedele, non rinunciando però a una rielaborazione a tratti contraddistinta da grandi libertà (si pensi anche alla mancanza del coro, elemento invece fondamentale nel teatro greco).
Da un certo punto in poi, forse a partire dal terzo atto, i ritmi divengono più veloci e pressanti e la trama, con il suo intreccio certo complesso, entra nel vivo; la figura dello schiavo furbo e ingannatore (una costante della commedia plautina) non può non andare a segno, rivelandosi molto apprezzata nonché abbastanza divertente: nel suo significativo monologo all’interno del quarto atto Crisalo (o Rubaloro, a seconda delle edizioni in traduzione) paragona se stesso addirittura a Ulisse (e non solo) e la sua impresa truffaldina all’espugnazione di Troia. Molto importante anche il personaggio del pedagogo che, ovviamente, finisce per ammonire a vuoto e il quinto e ultimo atto dimostra che giovani e anziani (in questo caso, figli e padri), alla fin fine, non si discostano affatto nei loro comportamenti. La questione educativa, pertanto, emerge in modo chiaro da questo testo.
Lettura scorrevole e piacevole, forse non sempre pienamente spassosa; sebbene forse non si tratti di una delle migliori opere di Plauto, induce a leggere (o rileggere) anche altro di questo autore.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2024
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Una favola tra mondo greco e latino

Ricordo di aver letto ai tempi del liceo, e forse anche tradotto dal latino, qualche brano tratto da questa favola contenuta ne "Le metamorfosi o l'asino d'oro" di Lucio Apuleio, autore di lingua latina nato e morto in Africa tra i territoti delle attuali Algeria e Tunisia nel corso del II secolo d. C.
Si tratta di una favola a tutti gli effetti, tradotta e celebre nel mondo, che offre una lettura molto piacevole e scorrevole; sono felice di averla finalmente letta nella sua interezza. Le peripezie della povera Psiche, la cui vicenda sottolinea quanto possa essere pericolosa per i mortali la proverbiale invidia degli dei, risultano coinvolgenti, mentre non stona la scrittura spesso squisitamente ironica di Apuleio, il quale non manca, man mano che procede la narrazione, di riportare osservazioni che appunto strappano un sorriso pur nella drammaticità degli eventi in cui precipita la bellissima ma ingenua protagonista; così come sparsi qua e là nel testo, nonostante la chiara ambientazione greca, compaiono riferimenti alla realtà giuridica del mondo romano (si veda, per esempio, il richiamo alla legge che a Roma vietava di dare accoglienza agli schiavi fuggiti dai loro padroni o alla ben nota Lex Iulia sull'adulterio), curiosamente applicata a un mondo di immortali con le virtù e soprattutto tutti i vizi di quello degli uomini.
Epilogo, dunque, che non poteva tradire le aspettative, con il trionfo dell'amore che ha superato qualsiasi infelice prova e la benedizione ufficiale da parte degli inquilini del sacro Olimpo riuniti al gran completo! Voto complessivo: quattro stelle!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Aprile, 2024
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Daddy Long Legs

Pubblicato oltre un secolo fa, "Papà Gambalunga" è un classico per ragazzi che non dispiace leggere (o eventualmente rileggere) anche da adulti.
Queste pagine offrono una storia semplice, ma molto coinvolgente, firmata dalla scrittrice statunitense A. Jean Webster (1876-1916) che affronta temi legati alla realtà sociale del suo tempo: orfanotrofi, istruzione ed emancipazione femminile. Si tratta di un romanzo epistolare la cui protagonista è appunto un’orfana, Judy Abbott, che intorno ai diciassette anni può lasciare l’asilo “John Grier” per frequentare l’università grazie all’interessamento di un assai ricco e misterioso benefattore; la ragazza gli scrive regolarmente per aggiornarlo sui suoi studi, ribattezzandolo fin da subito “Papà Gambalunga”, senza però mai ricevere risposta alcuna. Il mistero si svelerà soltanto alla fine del libro, con un epilogo davvero a sorpresa!
Nonostante il tempo passato, la prosa della Webster conserva una singolare piacevolezza, mentre quello della protagonista / voce narrante del romanzo appare un personaggio molto carino e ben riuscito.
Com'è noto, la vicenda di Judy Abbott è stata oggetto di fortunate trasposizioni teatrali e cinematografiche, persino di animazione. Un classico certamente da riscoprire!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Marzo, 2024
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Misteri e solitudine metropolitani

Arrivato in Italia più di vent’anni fa, grazie alla casa editrice palermitana Sellerio, il romanzo "L’isola nello spazio" apparve in lingua originale nel 1964. Più che un romanzo breve, un lungo racconto la cui lettura si rivela però appassionante al pari di quella di scritti di ben più ampio respiro.
L’autore, Osman Lins (1924-1978), viene ricordato tra gli scrittori brasiliani che contribuirono al rinnovamento della letteratura del paese sudamericano; la sua penna ha dato vita a una trama in cui finiscono per confluire «un enigma degno di un romanzo poliziesco» – come sottolinea il curatore del libro Angelo Morino nell’interessante postfazione – ed elementi riconducibili alla letteratura fantastica. Fin dall'incipit si puntano i riflettori sui due blocchi, entrambi di venti piani, dell’Edificio Capibaribe, divenuto all’improvviso teatro di una misteriosa morìa tra i suoi inquilini, sullo sfondo della grande città di Recife, nel nord-est del Brasile, sull’Atlantico.

«Nel settembre del 1958, la scomparsa di Cláudio Arantes Marinho, sposato, quarantunenne, lasciò attonita la popolazione di Recife. Non per la scomparsa in sé, ma per le circostanze in cui si produsse e che dovevano trasformarsi nel punto culminante degli oscuri fatti di cui stampa e radio, per diversi mesi, si sarebbero occupate, facendo sì che rimanesse in prima pagina il maestoso Edificio Capibaribe, dove Arantes Marinho abitava. All’inizio, si credette che fosse morto […]».

Nello spazio di poche decine di pagine Lins ha saputo esprimere moltissimo, affrontando i temi dell'infelicità e della crisi esistenziale. La profonda solitudine di Antares, il protagonista, e la sua amarezza vengono rese alla perfezione e il lettore non può non restarne colpito. Il piano da lui elaborato per scomparire dalla vecchia vita e andare così alla ricerca di una nuova e più gratificante esistenza sa dell'incredibile; l'idea di fondo ricorda indubbiamente quanto messo in atto anche dal protagonista de "Il fu Mattia Pascal". Quanto all'epilogo, il mistero degli improvvisi decessi all'interno dell'Edificio Capibaribe viene svelato, e si prende amaramente atto che il vile denaro ha fatto la sua parte.
Nel complesso, una lettura scorrevole e di notevole piacevolezza; un piccolo, grande testo che merita di essere (ri)scoperto e apprezzato al pari del suo autore.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Marzo, 2024
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"L'Orrore! L'Orrore!"

Pubblicato nella seconda metà degli anni Sessanta e considerato uno dei più importanti romanzi arabi del Novecento, "La stagione della migrazione a Nord" è un romanzo dello scrittore arabo-sudanese Tayeb Salih (1929-2009).
Notevole la diffusione di questo libro non soltanto all'interno del mondo arabo, ma anche a livello internazionale come dimostra il gran numero di traduzioni (una trentina) e ristampe in circolazione che lo hanno ormai reso un classico della letteratura araba moderna. Inoltre, esso s’inserisce nel filone di quella che è stata definita letteratura postcoloniale; non a caso, di colonialismo si parla abbondantemente in queste pagine, così come di decolonizzazione.
Di ambientazione sudanese, la vicenda narrata presenta diversi personaggi, primi fra tutti quello di un anonimo narratore che, dopo una assenza di sette anni, dall’Inghilterra fa ritorno al proprio villaggio sull'ansa del Nilo, in Sudan appunto, e quello del misterioso, nonché ambiguo, Mustafà Sa'ìd che scompare infine durante una piena del grande fiume; di quest'ultimo si svela a poco a poco la vicenda (sarà lui stesso a raccontarla), attraverso la quale l'autore affronta appunto il tema dell'identità, del ritorno alle radici e del rapprorto Oriente-Occidente o, se si preferisce in questo caso, Nord-Sud.

[…] Le navi hanno solcato le acque del Nilo per la prima volta portando i cannoni, non il pane, e le ferrovie sono state costruite in primo luogo per trasportare i soldati. Hanno fondato le scuole per insegnarci a dire “sì” nella loro lingua. Ci hanno portato il germe della più grande violenza europea di cui il mondo non aveva mai visto l’eguale, quella della Somma e di Verdun, il germe di un male assassino che li ha colpiti più di mille anni fa. Sì, signori, sono venuto a voi da conquistatore fin dentro casa vostra. Una goccia del veleno che avete iniettato nelle vene della Storia. Io non sono Otello. Otello era una menzogna”.

Si tratta di un romanzo duro, inquietante e, senza dubbio, anche molto complesso (sia per i suoi contenuti sia per la struttura narrativa che procede attraverso richiami, anticipazioni, piani temporali sfalsati); nonostante tale complessità generale, l'affascinante scrittura di Salih riesce a mantenere vive l'attenzione e la curiosità del lettore.
Appropriato l'accostamento al celebre romanzo "Cuore di tenebra" e infatti, a mio parere, la nota esclamazione di uno dei personaggi di Conrad («L'Orrore! L'Orrore!») può ben adattarsi anche a quanto a un certo punto viene raccontato; del resto, la storia narrata da Salih - quella di un nero che arriva nel vecchio continente - sembra capovolta rispetto a quella narrata da Conrad ed espone come una sorta di reazione all'imperialismo occidentale, anzitutto sul piano sessuale. Anche la presenza del grande fiume, dispendatore di vita e morte al tempo stesso, finisce per accomunare questi due grandi romanzi.
Nel complesso, un'ottima lettura, anche se, in verità, non la consiglierei come primo avvicinamento alla letteratura araba.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Febbraio, 2024
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En attendant Godot

Titolo celeberrimo del teatro europeo del Novecento, “Aspettando Godot” suscitava in me da tempo molta curiosità. L’autore, Samuel Beckett (1906-1989), era irlandese di Dublino, ma la prima pubblicazione e rappresentazione dell’opera, rispettivamente nel 1952 e nel 1953, si ebbe in lingua francese con il titolo “En attendant Godot”; a Parigi Beckett si era trasferito già sul finire degli anni Trenta, partecipando poi attivamente alla Resistenza francese contro l’occupazione tedesca.
Malgrado le prime reazioni non troppo esaltanti ottenute sia a Parigi che un paio d’anni più tardi a Londra, si tratta del lavoro che ha dato forse maggior fama allo scrittore premio Nobel per la Letteratura nel ’69, al quale si aprì così la carriera teatrale. La trama prende avvio su “una strada di campagna, con albero”, come si legge all’inizio del primo dei soli due atti di cui l’opera si compone. Tale ambientazione interamente sullo sfondo di una strada di campagna alquanto desolata non muta sino al termine della vicenda, rimarcando una staticità (non solo di luogo) che finisce con l’avviluppare i personaggi principali, Estragone e Vladimiro, due vagabondi che aspettano un certo Godot, che non conoscono, al fine di ottenere da lui una qualche sistemazione. Sulla scena compariranno in seguito altri tre personaggi, di cui due in particolar modo bizzarri, ma non il tanto atteso e misterioso Godot che non si presenterà né alla fine del primo giorno né a quella del secondo.
Dramma? Commedia? Molto probabilmente entrambe. Senza dubbio, un’opera di estrema complessità interpretativa, nonché di forte innovazione a livello di struttura. “Sul piano del divertimento” scrive Carlo Fruttero, curatore e traduttore del testo nel 1956 per l’edizione Einaudi “si tratta di un vero gioiello, magistralmente congegnato […]. Ma ci vuol poco ad avvedersi che questa non è una commedia spensierata […]”. Innumerevoli possono essere le interpretazioni: da quella in chiave mistico-religiosa a quella dal sapore di guerra fredda, da quella esistenzialistica a quella sociale. Inutile arrovellarsi il cervello in tal senso, poiché tutto può essere.
Per quanto mi riguarda, la lettura non è stata particolarmente coinvolgente come speravo; nel complesso, ho trovato il testo appunto molto difficile da decifrare e, in verità, in alcuni punti abbastanza noioso da seguire, per non parlare del caos di qualche scena, con il sopraggiungere di Pozzo e Lucky, che più che sorridere induce a triste riflessione. Un libro, per me, su cui ritornare negli anni a venire.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Un giallo degli anni Sessanta

Pubblicato nel 1965, il romanzo "Senza pietà" della scrittrice statunitense Patricia Highsmith (1921-1995) non mi è parso un capolavoro né uno di quelli destinati a restare tra gli indimenticabili del genere in questione; diciamo pure senza infamia e senza lode, dal momento che si lascia sì leggere bene, ma come giallo, alla fin fine, non si rivela eccezionale, almeno secondo me.
Lettura, dunque, abbastanza scorrevole dopo aver superato le lente descrizioni della parte iniziale, propedeutica a mettere a fuoco la situazione, non delle migliori, tra i due giovani coniugi (lui scrittore, lei pittrice) protagonisti di questa storia di ambientazione britannica. A poco a poco, infatti, il ritmo della narrazione si velocizza e se in un primo tempo il personaggio di Sydney appare piuttosto indisponente e forse addirittura inquietante per via del suo atteggiamento nei confronti della moglie Alicia, da un certo punto in avanti tutto si ribalta e quello che avrebbe dovuto essere soltanto un sorta di gioco senza alcuna importanza diviene invece una trappola senza via di fuga per il povero marito. Povero perché nemmeno lui, così assorbito dalla scrittura e dalle storie diciamo movimentate a cui la sua fantasia dà vita nella speranza di sbarcare il lunario, avrebbe pensato di cacciarsi in un guaio del genere.

"La finzione con la quale si era divertito fino a quel momento era improvvisamente diventata realtà".

A privare la narrazione di fascino e maggior coinvolgimento è questo giocare a carte totalmente scoperte da parte dell'autrice con il lettore, il quale è persona costantemente informata dei fatti, almeno sino al capitolo 27. Certo, l'epilogo di lì a poco è alquanto spiazzante e l'effetto sorpresa stavolta c'è, ma le battute finali, a mio avviso, non sono sufficienti a rendere eccezionale l'intero romanzo che, qua e là, mostra qualche ingenuità, come lo sperare di Sydney che le impronte digitali lasciate nell'appartamento di Tilbury - in definitiva, un altro beffato come lui - non vengano rilevate (è presumibile che a inizio/metà anni Sessanta le tecniche della scientifica non fossero progredite come quelle attuali, ma la polizia qualcosa avrebbe pur trovato anche allora). Quanto alla protagonista femminile, Alicia è un personaggio poco convincente, nonché la vera responsabile, con il proprio comportamento vigliacco, della morte dell'amante e del fatto che il marito diventi un assassino. Tra i personaggi secondari, fa invece una pessima figura quello di Alex, il socio per così dire di Sydney, a cui poco importa né dell'uno né dell'altra dei signori Bartleby e che, pronto a trarre vantaggio personale dalla situazione, mostra soltanto tutta la sua avidità. Carino, e neanche mal riuscito, quello dell'anziana signora Lilybanks; peccato muoia d'infarto nel momento meno opportuno, senza suscitare inoltre grande commozione.
Nel complesso, il voto non supera le tre stelle.

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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Per bambini di ogni età

Un bel volume illustrato per bambini di OGNI età, "Fiocco di neve", pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2020 e apparso in Italia due anni fa grazie al marchio Giralangolo della casa editrice EDT di Torino.
Sia il testo che i bellissimi disegni sono stati firmati da Benji Davies, autore e illustratore londinese (classe 1980, così si legge in rete), i cui libri per bambini sono stati tradotti in oltre 40 lingue con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Vincitore di importanti riconoscimenti a livello internazionale, Davies è anche regista di animazione e di video di diverso tipo.
Quella narrata (e illustrata) in queste pagine è una piccola storia senza tempo sullo sfondo del periodo delle feste natalizie; il protagonista è un fiocco di neve che, volteggiando tra le nuvole, non vuole cadere giù. Il suo, in balìa del vento, sarà un lungo viaggio che lo condurrà sulla punta di un alberello improvvisato, là dove qualcuno, pur senza saperlo, già lo attende.
Si dovrebbe sempre trovare un modo per smettere di cadere, ed esiste per tutti un luogo in cui infine fermarsi nonostante le tempeste della vita.
Da leggere in prossimità del Natale o durante le feste di fine anno, ma non necessariamente.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Febbraio, 2024
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“Bisogna vivere… Bisogna vivere…”

Con “Tre sorelle” sono approdata poco tempo fa al teatro di Anton Cechov (1860-1904), che da tempo suscitava la mia curiosità.
Composta nel 1900 e portata in scena per la prima volta, a Mosca, l’anno immediatamente successivo, l’opera si compone di quattro atti, nel corso dei quali si succedono altrettanti periodi della vita familiare dei Prozorov: Andrèj Sergèevic e le sue tre sorelle (Olga, Irina e Maša), figli di un generale venuto a mancare – quando si apre il primo atto – proprio l’anno prima.
La loro casa viene abitualmente frequentata da un gruppo di ufficiali alquanto variegato al suo interno, mentre l’ambientazione è quella della provincia russa, in un capoluogo di governatorato, come si rende noto all’inizio sotto la lista dei personaggi.
Questo lavoro di Cechov non è propriamente un dramma, ma un vaudeville, secondo quanto precisato nella prefazione da Gerardo Guerrieri, traduttore del testo per l’edizione Einaudi che ho avuto modo di leggere. Il termine vaudeville indica una commedia dai toni leggeri, ma a ben guardare “Tre sorelle” non dà l’impressione di esserlo, non pienamente per lo meno. Al di là di alcuni passaggi che possono suscitare qualche sorriso, la rappresentazione nel suo insieme, per quanto ben lontana dalle atmosfere del teatro del più anziano Ibsen, tocca temi esistenziali che non invitano certo alla spensieratezza. Il tema del tempo che, inesorabile e indifferente, scorre troppo velocemente portandosi via aspirazioni, sogni e illusioni dei personaggi si lega a quelli del lavoro e delle trasformazioni della società che da militare tende a farsi sempre più civile e borghese, come sottintende non solo il trasferimento della brigata cui appartengono gli ufficiali frequentatori di casa Prozorov, ma anche il fatto che una delle sorelle, Maša, sia stata data in moglie a un insegnante di ginnasio e che lo stesso Andrèj, invece che seguire le orme paterne, insegua la carriera da accademico per poi perdersi nel gioco d’azzardo.

“[…] Una volta l’umanità non si occupava che di guerre; la sua esistenza era un seguito d’invasioni, di spedizioni, vittorie. Tutte queste cose adesso sono sparite, e hanno lasciato un vuoto enorme che non è ancora stato colmato; l’umanità è alla ricerca, alla ricerca, e finirà col trovare! Per forza! Chissà quando però: speriamo in tempo! […]”

La penna dell’autore fotografa una società in pieno disfacimento, dove si ritrovano insieme, non senza contraddizioni, nuove istanze e vecchie tradizioni, coesistenza che culmina nel duello finale che si porterà banalmente via il barone Tuzenbach o nello sprezzo arrogante di Nataša nei confronti della servitù. Le tre sorelle Prozorov sono testimoni di tutti i cambiamenti, piegandosi a un destino di infelicità e insoddisfazione che non condurrà nessuna di loro nella tanto agognata capitale Mosca.
Particolarmente filosofici suonano alcuni scambi di battute e considerazioni sul futuro, la felicità e il progresso dell’umanità, nonché a tratti utopistici. Presumo che il ferreo senso del dovere incarnato da certi personaggi dell’opera in questione sia stato rivalutato e apprezzato in un secondo momento dal successivo regime sovietico, dinanzi al quale il teatro di Cechov non godette all’inizio di grande favore.
Nel complesso, una lettura abbastanza scorrevole che, tuttavia, non mi ha coinvolta pienamente.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Febbraio, 2024
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Metafora della teatralità

Dramma romanzesco in cinque atti portato sulla scena nel 1611, La tempesta è un’opera molto complessa dalla trama apparentemente semplice.
La vicenda, che narra fatti drammatici già a cose fatte, trova ambientazione su un’isola disabitata non identificata e ruota intorno all’affascinante figura di Prospero, protagonista del testo e signore indiscusso del luogo, nonché dedito ad arti magiche grazie a cui egli evoca gli spiriti; è stato lui, Prospero, a scatenare la tempesta che ha fatto naufragare la nave su cui viaggiava suo fratello Antonio, reo di avergli usurpato il ducato di Milano tanti anni addietro, insieme ad altri personaggi tra cui Alonso, re di Napoli, e suo figlio Ferdinando. Quest’ultimo incontra sull’isola Miranda, figlia di Prospero, la quale condivide l’esilio forzato del padre, e tra i due nasce un sentimento d’amore. Prospero si rivela anche signore dello spirito dell’aria Ariele e dello schiavo selvaggio e deforme Calibano. L’epilogo non prevede vendetta, ma perdono, e richiesta di essere liberato da metaforiche catene da parte del protagonista.
In queste pagine Shakespeare riprende volutamente temi ed elementi di sue precedenti opere che agli appassionati del teatro del Bardo di certo non sfuggiranno; ad alimentare la complessità del testo contribuisce anche la metafora di cui esso è intrisa: come sottolinea nel suo saggio introduttivo la curatrice dell’edizione Mondadori (1991) che ho avuto occasione di leggere, Anna Luisa Zazo, metafora “della teatralità, rigorosamente intesa come falsità”. La realtà viene negata, rovesciata, in un certo qual modo sovvertita, mentre la maschera amletica di Prospero si impone incontrastata.

“Siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è racchiusa da un sonno.” (IV, 1. 156-157)

Una lettura interessante e scorrevole. Rispetto ad altri lavori di Shakespeare da me finora letti, tuttavia, La tempesta non mi ha entusiasmata né coinvolta particolarmente, e da questo è stato condizionato il mio voto complessivo. Tecnicamente, ovvio, è un’opera notevole.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Febbraio, 2024
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"[...] dov'è che non avvengono sciocchezze?"

Pubblicato per la prima volta nel 1836 e confluito in seguito nella famosa raccolta di Nikolaj Gogol' (1809-1852) dal titolo "Racconti di Pietroburgo", "Il naso" è un racconto la cui trama punta decisamente al sovrannaturale e al grottesco, non priva di venature umoristiche, per via di un naso che... scompare all'improvviso dal viso del suo legittimo proprietario!
Molto ben caratterizzati i personaggi, a partire da quello del barbiere Ivàn Jàcovlevic, che una mattina trovò un naso all'interno del panino caldo che si apprestava a mangiare a colazione, per poi proseguire con quello dell'assessore collegiale Kovaliòv, che aveva perso appunto il suo naso.

"Ecco che genere di storia è accaduta nella capitale nordica del nostro vasto impero! Solo ora, ragionando su tutto questo, noi vediamo che essa contiene molte inverosimiglianze. [...] Ma quello che è più strano, più incomprensibile di tutto, è come mai gli autori possano scegliere simili argomenti. Confesso che questo è proprio inaudito [...]".

Particolarmente apprezzabili e coinvolgenti le considerazioni conclusive dell'autore che, d'un tratto, sembra ragionare direttamente con il lettore in merito al fatto, strano e straordinario, oggetto del suo racconto.
Per me, che con la letteratura russa finora non sono andata troppo d'accordo a parte pochissime eccezioni, è stata una gran bella e piacevole lettura!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Novembre, 2023
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La fine di un'epoca

Secondo tentativo che faccio, a breve distanza dal primo, con il teatro di Anton Cechov (1860-1904), ma anche stavolta non sono stata catturata pienamente dallo stile di questo grande nome della letteratura russa, cosa che mi dispiace molto poiché era da tanto che desideravo leggere “Il giardino dei ciliegi”.
Dopo aver letto questo e, ancor prima, “Tre sorelle”, posso dire di trovare la scrittura di Cechov chiassosa e dispersiva, affollata assai spesso di personaggi che – per lo meno ai miei occhi – tendono a confondersi. E tra i personaggi, appunto, non ne ho visti di memorabili al pari di quelli creati da altri autori che, dal teatro antico a quello contemporaneo, passando attraverso quello del mitico Goldoni, ho amato parecchio.
Tuttavia, dei quattro atti di cui si compone “Il giardino dei ciliegi” ho apprezzato alcune scene, tra cui in particolare quella finale nella quale il cameriere ultraottantenne Firs, ormai malato, si ritrova solo in casa, dopo che tutti sono partiti per sempre, mentre le scuri iniziano ad abbattersi senza pietà sugli alberi del giardino; ed è costui a pronunciare un’amara considerazione, del tutto condivisibile, che sembra rammentare il nostro dramma di esseri umani: “La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta.”
Rappresentata per la prima volta, a Mosca, all’inizio del 1904 (lo stesso anno in cui morì l’autore), l’opera pone al centro della rappresentazione i cambiamenti sociali dell’epoca, con la decadenza di classi un tempo agiate e l’avanzare di quelle che si sono arricchite di recente (impersonate, rispettivamente, da Liubòv Andriéievna con i familiari e il commerciante Lopachin) e ora possono acquistare addirittura grandi proprietà, finite all’asta per debiti, dove gli antenati erano stati schiavi. Insomma, un mondo che finisce per sempre, mentre il nuovo inesorabilmente avanza, preludio dei grandi stravolgimenti che si verificheranno con la rivoluzione anni dopo.

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Ottobre, 2023
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Deserto bianco

Mi fermo a tre stelle piene per quanto riguarda questo lungo racconto dell’austriaco Adalbert Stifter (1805-1868), il quale fu autore di poesie, novelle, romanzi e anche saggi, nonché pittore e precettore; di umili natali, ebbe un’esistenza travagliata e una morte alquanto tragica e impressionante (si cerchi, per curiosità, la sua biografia) che stride con la pace e la grande bellezza naturale affiorante nelle pagine del volumetto in questione.
La sua è una scrittura che si mantiene lontana dagli apici letterari del Romanticismo tedesco, così pure da certe elucubrazioni legate al vivere dell’epoca, mostrando un’attenzione tutta particolare verso la quotidianità umile e semplice, le tradizioni, i piccoli mondi antichi d’atmosfera provinciale distanti anni luce dai fasti (e dal caos) della capitale asburgica o di altre grandi città dell’impero.
Testimonia per bene tutto ciò quanto descritto in “Cristallo di rocca”, dove la dimensione per così dire urbana si riduce a piccoli villaggi sparsi su vallate isolate racchiuse tra le montagne.
Scritto a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento e pubblicato inizialmente su un quotidiano di Vienna, questo racconto comparve in versione definitiva nel 1853 all’interno della raccolta “Pietre colorate” (“Bunte Steine”) insieme ad altri cinque testi, tutti intitolati con un nome di pietra.
Sebbene l’inizio dello scritto si perda in lunghe, minuziose descrizioni anzitutto legate alle feste religiose e all’ambiente montano, risultando in generale ben poco vivaci e ancor meno avvincenti, la narrazione si riprende dal punto in cui il lettore può spingersi meglio tra le case e le attività dei paesini di Gschaid e Millsdorf (in Stiria, nell’Austria sud-orientale) e fa così conoscenza con il calzolaio del primo e il tintore del secondo borgo. La vicenda entra con decisione nel vivo con la comparsa dei due piccoli protagonisti, Corrado e Susanna, figli e nipoti rispettivamente dei sopraccitati calzolaio e tintore; al centro del racconto, la loro disavventura alla vigilia di Natale, quando s’incamminano verso Gschaid di ritorno da casa dei nonni a Millsdorf, lungo il consueto percorso che seguivano abitualmente tra le due valli. Ed è proprio da quel momento che la trama, sotto una nevicata sempre più copiosa e con il buio che avanza, ha il sapore tipico di una fiaba senza tempo.

“Ma intorno non c’era che il bianco abbagliante, il bianco e null’altro, e anche questo tracciava intorno a loro un cerchio che si faceva sempre più piccolo e si perdeva poi in una nebbia pallida e striata che inghiottiva e avvolgeva ogni cosa, e che infine altro non era che la neve che continuava a cadere instancabile.”

Smarriti tra i ghiacci sullo sfondo di una natura che si fa a poco a poco inquietante, inospitale e pericolosa per la sopravvivenza umana, i due bambini resistono e non perdono la speranza di ritrovare la strada di casa, sfidando con la loro innocenza il pericolo concreto della morte. La minaccia rappresentata dal ghiacciaio e dal crepaccio, a cui essi arrivano, si stempera tuttavia con lo straordinario fascino di sua maestà la montagna, principale protagonista di queste pagine che si ammanta di sfumature, luci e suoni che Stifter ci narra con passione attraverso una prosa – occorre riconoscerlo – molto curata e nel complesso davvero di pregio.
Una lettura che ben si adatta alle atmosfere della stagione invernale e delle feste natalizie. Una piccolo classico che pone al centro il rapporto uomo-montagna, la sfida delle alte cime innevate che va colta con rispetto e responsabilità, la simbologia della pietra, e non meno la pura semplicità di un mondo e dei suoi valori oggi forse scomparsi per sempre.

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Fantascienza
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Ottobre, 2023
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Un classico della letteratura fantastica

Prendendo le mosse dal ritrovamento di un manoscritto da parte di due amici che, per trascorrervi le vacanze, giungono nei pressi di un villaggio “all’estremo limite dell’Irlanda occidentale” (come recita l’incipit), questo breve romanzo dello scrittore inglese William Hope Hodgson (1877-1918) è senza dubbio un classico della letteratura mondiale di genere horror fantascientifico.
Non sapevo niente riguardo all’autore e sono rimasta molto colpita dalla sua vicenda personale, conclusasi tragicamente sui campi di battaglia francesi della grande guerra. Un destino drammatico per un quarantenne che sin dall’adolescenza non ebbe vita facile; sebbene Hodgson sia scomparso prematuramente, la sua è una produzione letteraria cospicua che ha lasciato un solco fecondo.
Il cuore della narrazione de “La casa sull’abisso”, testo pubblicato nel 1908, è rappresentato dal contenuto dello stesso manoscritto omonimo rinvenuto dai due amici tra le macerie, custode di un racconto che sa davvero dell’incredibile.
Mi sono avvicinata alla lettura con grandi aspettative, ma purtroppo – devo riconoscere con franchezza – non ne sono stata rapita e giungo alla conclusione che il genere letterario in questione non faccia per me, pur riconoscendo il valore di una trama ben congegnata e di una scrittura importante ricca di fantasia che non certo tutti possiamo avere. Con tutta onestà, mentre leggevo, non ho sentito il terrore artigliarmi il cuore né sono stata presa dalla impazienza di sapere come andasse a finire la storia narrata, anzi ammetto di aver fatto fatica in più punti a portare avanti la lettura trovando di una grandissima noia quei capitoli in cui il tempo scorre più che rapidamente attraverso anni, secoli e forse millenni e subentra una sorta di glaciazione e la fine del sistema solare. Segnalo, tuttavia, che alcune parti (quelle relative all’assedio della casa da parte degli esseri-suini e alla inquietante presenza che, sul finire del manoscritto, riesce a penetrare e sta per aprire la porta della stanza del vecchio narratore) sono riuscite a tenermi attaccata al libro con maggior attenzione.
Una lettura di sicuro più adatta agli appassionati di letteratura fantastica e dell’orrore; spero in seguito di potermi riconciliare con il povero Hodgson leggendo altri suoi titoli (si accettano con gratitudine eventuali suggerimenti).

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Ottobre, 2023
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“È così breve l’amore, ed è sì lungo l’oblio”

Una bellissima lettura, quella offerta da "Venti poesie d’amore e una canzone disperata" di Pablo Neruda (1904-1973), poeta cileno che non ha certo bisogno di alcuna presentazione.
Tra le più importanti voci della poesia del Novecento a livello mondiale e Premio Nobel per la Letteratura all’inizio degli anni Settanta, Neruda (pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto) pubblicò questa sua raccolta poetica nel 1924, ottenendo uno straordinario successo di pubblico e critica.
L’edizione italiana della casa editrice fiorentina Passigli premette all’opera una presentazione dell’autore sudamericano pronunciata all’Università di Madrid da García Lorca nel 1934, nella quale si consiglia “di ascoltare con attenzione questo gran poeta”. Tra le pagine di questa raccolta del periodo giovanile, venti componimenti senza un titolo effettivo, se non le prime parole del primo verso di ogni singolo testo. Venti poesie che, come anticipa il titolo della pubblicazione stessa, mettono al centro principalmente l’amore, tema ripreso anche dalla breve e conclusiva "Canción desesperada", dove inoltre viene posto l’accento sulla condizione di abbandono e solitudine vissuta dal poeta. Malinconia, tristezza, dolore attraversano i versi in un intreccio sublime, sullo sfondo di un paesaggio marino che si fa paesaggio dell’anima.

“Ah vastità di pini, rumore d'onde che si frangono,
lento gioco di luci, campana solitaria,
crepuscolo che cade nei tuoi occhi, bambola
chiocciola terrestre, in te la terra canta!
[…]”

Questo lavoro viene considerato fondamentale poiché da esso, come sottolinea nella prefazione il curatore Giuseppe Bellini, tra i massimi studiosi dell’opera nerudiana, “prende avvio il rinnovamento radicale della poesia ispano-ameticana successiva al modernismo”, con una notevole influenza esercitata anche sui poeti europei.
Meraviglioso il linguaggio utilizzato, ricco di metafore e immagini affascinanti che dipingono l’interiorità del poeta e non possono non colpire il lettore attento: dalle spighe che si piegano “sulla bocca del vento” alle nuvole che divengono “bianchi fazzoletti d’addio”, dagli uccelli che nella notte “beccano le prime stelle” alle “tristi reti” gettate in un mare che scuote “occhi oceanici” di una lei indefinita.
Una scrittura di notevole profondità. Un classico intramontabile della poesia del secolo scorso, imperdibile per gli appassionati delle letture in versi!
Voto: 5 stelle e lode!

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    04 Ottobre, 2023
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Un anno

Una gran bella scoperta, per me, la scrittura di Aramburu, nome di spicco della letteratura spagnola (ed europea più in generale) odierna, del quale prima d’ora non avevo avuto occasione di leggere niente.
Una lettura, questa de “I rondoni”, che mi ha tenuto buona compagnia per diverso tempo, portandomi nella Spagna e, in particolare, nella Madrid dei nostri giorni. Ad animare le ben settecento pagine del libro, il dramma esistenziale di Toni, un professore ultracinquantenne di filosofia delle scuole superiori che, al culmine della delusione, prende la decisione di suicidarsi pianificando a poco a poco, in modo razionale, la propria dipartita che fissa a distanza di un anno. Dodici mesi per disfarsi di ogni cosa materiale della sua vita pregna di solitudine, ma anche per scavare a fondo nei suoi ricordi; infatti, la narrazione, sotto forma di memorie in prima persona annotate meticolosamente alla fine di ogni giornata per un anno intero, procede su più piani temporali poiché, oltre a raccontare la quotidianità del presente vissuta tra il lavoro a scuola e le chiacchierate al bar di Alfonso con l’amico Bellagamba, torna indietro nel tempo per ripercorrere il periodo in famiglia dall’infanzia alla giovinezza e quello della travagliata quindicina d’anni di matrimonio con l’ormai ex moglie Amalia, prepotente e piena di rancore. Tutti ricordi che, ovviamente, sono spesso assai dolorosi, ma che si rivelano necessari per “tirare fuori tutta la sporcizia accumulata dentro”.
La penna dell’autore è molto abile a intrecciare in maniera armonica piani temporali diversi, rendendo il lunghissimo e dettagliato racconto dell’esistenza del protagonista particolarmente coinvolgente per il lettore che, alla fine, si affeziona a questo aspirante suicida di mezza età e cerca di comprenderne il vissuto tormentato da cui emergono anzitutto affetti e odi familiari. La trama è ricchissima di episodi in cui si muovono personaggi molto ben caratterizzati che, a seconda dei casi, ispirano simpatia, avversione, compassione; tra loro, a pieno titolo, anche la cagnolina Pepa, fedele compagna di Toni alla quale sembra che manchi soltanto il dono della parola.
Un romanzo che cerca disperatamente il senso dell’umano vivere tra gioie (poche) e dolori (tanti), mentre il volo dei rondoni, dopo aver svernato in Africa, solca una volta ancora i cieli dell’anima seppur disillusa e diviene simbolo di profonda libertà.

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Romanzi storici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    04 Ottobre, 2023
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“Noi e Anna Achmatova”

Sebbene più volte l’autore lo definisca un romanzo, man mano che mi addentravo nella lettura de “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” non avevo l’impressione di trovarmi tra le pagine né di questo né di una biografia in senso stretto.
Fatto sta che la più recente pubblicazione di Paolo Nori, uscita lo scorso mese di febbraio con la Mondadori, è un libro sorprendente, potente e di grande originalità che riesce ad andare ben oltre le sopraccitate categorie letterarie intrecciando sapientemente vivacità narrativa e approfondimento storico-biografico, e che sa inoltre farsi amare. Un libro che, come già precisa sin dalla copertina il sottotitolo, pone al centro dell’attenzione la straordinaria figura di donna e poeta che fu Anna Achmatova, ma nel contempo pure noi e questa scellerata, rinnovata epoca bellica che, nostro malgrado, stiamo vivendo. Il titolo riprende un verso della stessa Achmatova, tratto dalla Poesia 5 del ciclo “Nell’anno Quaranta”, tra i cui testi confluiscono il suo destino personale e la profonda tenebra calata con la guerra sull’Europa:

“Ma io vi avverto
che vivo per l’ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò le persone
né visiterò i sogni altrui
con gemito insaziato.”

[citazione dal volumetto “È flebile la mi voce e altre poesie”, a cura e traduzione di Paolo Galvagni, Edizioni Via del Vento, edizione ampliata 2021]

Classe 1963, Nori è un noto scrittore emiliano e traduttore dal russo. Il suo amore viscerale per la Russia, la sua lingua, la sua letteratura pervade ogni singola pagina di questo volume. Nell’inverno del 2022, poco dopo l’inizio del conflitto armato tra Mosca e Kiev, gli venne bloccato, “per evitare tensioni”, un intero seminario di quattro incontri su Dostoevskij che lui avrebbe dovuto tenere all’Università degli Studi Milano-Bicocca; a suo tempo, si parlò a lungo di quel caso, e l’autore medesimo non manca di esporre tale assurdità nel suo libro.
E Anna Andreevna Achmatova, chi era costei? Il suo è stato uno dei grandi nomi della poesia russa del cosiddetto “secolo d’argento” e del Novecento in generale, nonché di quella a livello mondiale, in Italia conosciuto senz’altro dagli appassionati di versi, ma non famoso proprio come quello di Tolstoj o altri autori celebri della letteratura russa. La sua scrittura, così autobiografica e pregna di dignitoso dolore, conduce nelle ferite profonde inferte alla Russia dal regime sovietico. Lei stessa – come moglie, madre e artista – patì in prima persona l'oppressione della terribile epoca staliniana.
Nata nei pressi della città di Odessa nel 1889, l’Achmatova legò la sua vita in modo particolare alla città di Pietroburgo (ribattezzata dapprima Pietrogrado e poi, dal 1924, Leningrado), dove iniziò a prendere forma la sua poesia. Achmatova non era il suo vero cognome (Gorenko), ma lo prese da una nobile antenata tartara quando il padre, venuto a conoscenza dell’attività poetica della figlia, le proibì di disonorarlo in tal modo. L'Achmatova, estremamente colta, si mosse in seno al movimento letterario russo acmeista insieme al primo marito Nikolaj Gumilëv, padre del suo unico figlio, Lev, e giustiziato nel 1921, tre anni dopo la loro separazione. La vita familiare dell'Achmatova sarà segnata anche da altri arresti e detenzioni (anzitutto, quelli del figlio negli anni Trenta); malgrado la lunga censura, il trasferimento in Uzbekistan durante il secondo conflitto mondiale e le gravi difficoltà economiche (era stata privata della tessera alimentare) non lasciò la patria, vedendosi "riabilitata" soltanto a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Morì nel marzo del 1966, all’età di settantasei anni, in un sanatorio vicino a Mosca.
Tutto questo (e anche altro) viene raccontato in dettaglio da Nori attraverso una prosa molto coinvolgente che scivola volutamente nel colloquiale, mentre i paragrafi dei venti capitoli di cui si compone il volume alternano con ammirevole naturalezza passato e presente, la Russia di ieri e quella di oggi, così pure la vita dell’Achmatova scavata fin nel profondo e la vicenda personale dello scrittore stesso ripercorsa spesso con nostalgia, non senza lanciare preoccupazioni e interrogativi in merito al futuro che l’Occidente si sta costruendo con l’insensatezza, l’aggressività e il ritorno alle armi. Un libro davvero molto bello, questo, in cui non può non trovare ampio spazio la letteratura (non solo russa), così come l’orribile guerra sul fronte russo-ucraino (“tra fratelli e sorelle”) che si trascina ancora dopo ben oltre un anno e mezzo di combattimenti e di veleni per così dire mediatici. Leggerlo significa anche acquisire informazioni particolari su ciò che sta accadendo, farsi un’idea più precisa su una realtà molto più complessa di quanto appaia alla miopia del nostro sguardo.
E Paolo Nori, come infine confessa, ha paura: paura che per le generazioni future sia ancora necessario augurarsi la pace come si faceva un tempo; paura che noi, che viviamo per l’ultima volta, “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati.”
Un sentito plauso all’autore, dunque, poiché ha anzitutto il merito di raccontare e raccontarsi con semplicità e umiltà, suscitando curiosità, riflessioni e, cosa notevole, appassionare addirittura il lettore abitualmente poco o nulla appassionato – come la sottoscritta – di letteratura russa. Quella letteratura rivelatasi, a conti fatti, “più forte dell’esercito sovietico, del Politburo, del terrore, della guerra, dei gulag”. La stessa che resisterà anche alla piccolezza e all’ipocrisia dei “poveri burocrati occidentali”.

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... le poesie di Anna Achmatova.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Settembre, 2023
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“It is an ancient Mariner […]”

Nella mia ricerca di classici, ho letto di recente “La ballata del vecchio marinaio”, opera tra le più conosciute, se non la più celebre in assoluto, del poeta inglese Samuel Taylor Coleridge (1772-1834).
Pubblicata nel 1798, la ballata (componimento poetico che segue un preciso schema metrico, genere abbastanza diffuso nella letteratura europea) si suddivide in sette parti, per un totale di seicentoventicinque versi raccolti principalmente in quartine. Il testo in lingua originale, come si può facilmente constatare pur senza conoscere l’inglese alla perfezione, procede con rime per lo più alternate; l’edizione italiana che ho avuto occasione di leggere è quella Einaudi del 1964 con traduzione di Beppe Fenoglio che, come sottolinea nella sua interessante prefazione il noto anglista Claudio Gorlier, mette da parte la rima per dare risalto al ritmo e alla fluidità del linguaggio.
Un’opera senza dubbio complessa, ma anche molto affascinante anzitutto per la vicenda “narrata” in questi versi dallo stesso personaggio principale, l’ancient Mariner dallo sguardo ipnotico: costui, come racconta, si vede costretto a espiare la colpa di aver ucciso senza motivo con la propria balestra un albatros che seguiva la nave su cui egli era imbarcato, e la cui presenza veniva considerata di buon auspicio da tutto l’equipaggio, attraverso una serie di fatti estremamente sfavorevoli e anche irrazionali, con tanto di comparsa di un vascello fantasma, con a bordo la Morte e la Vita nella Morte, e l’apparizione di serpenti marini e addirittura spiriti angelici che rianimano i corpi dei marinai morti. L’abile intreccio di reale e soprannaturale impreziosisce il testo, ricco di vivide immagini e metafore, offrendo una lettura nell’insieme emozionante.

"Alone, alone, all, all alone,
Alone on a wide, wide sea!
And never a saint took pity on
My soul in agony."

(Solo, solo, me solo,
Solo, solo in mezzo a un mare immenso!
E non un santo che prendesse pietà
Dell'anima mia moribonda.

- traduzione di B. Fenoglio -)

Un'annotazione: pochi mesi fa, leggendo il bellissimo romanzo a fumetti “Il porto proibito” di Teresa Radice e Stefano Turconi ho trovato qualche richiamo a questa ballata di Coleridge che non avevo ancora letto. Doveroso colmare il vuoto.

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... "Il porto proibito" di Teresa Radice e Stefano Turconi.
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Arte e Spettacolo
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Agosto, 2023
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Ombre del passato

Come già in “Casa di bambola” (1879), anche in “Spettri” (1881) Henrik Ibsen (1828-1906) lancia un attacco audace e impietoso contro il perbenismo e l’ipocrisia della società borghese dell’epoca. E lo fa attraverso un’altra figura femminile che, al pari dell’indimenticabile Nora Helmer, destabilizza e suscita scandalo per la propria ribellione agli schemi sociali e allo stesso ruolo che essi le impongono: la signora Helene Alving, vedova del capitano e ciambellano Alving in memoria del quale è stato costruito un asilo che sta per essere inaugurato.
Lo sfondo è quello remoto della campagna norvegese della seconda metà dell’Ottocento nelle vicinanze di un grande fiordo (più di una volta, si fa riferimento a un collegamento col piroscafo), dove il rispettabile ed elogiato defunto ha condotto in realtà una vita tutt’altro che irreprensibile. Schiacciata dal peso della menzogna, soprattutto nel momento in cui, a causa di quest’ultima, si rischia concretamente di sfiorare l’incesto, la signora Alving rivela quanto accaduto in passato dietro il miserabile velo dell’apparenza; a redarguirla, nonostante tutto, il reverendo Manders che le ricorda i suoi sacri doveri di sposa poiché “una moglie non può farsi giudice del marito”, nonché la necessità di portare la propria croce per non mettere a repentaglio buon nome e reputazione familiari. Alla vedova, che vive oramai per suo figlio Osvald, giovane artista da poco rientrato da Parigi, spetta l’ingrato compito di raccontare tutto sino in fondo, una verità sconfortante e tragica per più di un personaggio durante una terribile notte di fiamme la cui tenebra, tanto è profonda, non potrà essere dissolta nemmeno dal sorgere del sole con cui si chiude il terzo e ultimo atto dell’opera.
Tra i lavori più famosi e significativi del teatro del grande drammaturgo norvegese, “Spettri” venne messo in scena per la prima volta a Chicago nel 1882; per diverso tempo, la rappresentazione in patria trovò seri ostacoli a causa del contenuto allora giudicato scandaloso, se non addirittura osceno. Di certo, si tratta di un testo, oltre che coraggioso per aver affrontato determinati temi (incluso quello della malattia), di particolare complessità in cui si muove una notevole figura di madre; nel complesso, forse, una lettura meno coinvolgente rispetto a quella di “Casa di bambola”, ma dalla drammaticità più intensa e angosciante.

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

"Aprile è il più crudele dei mesi [...]"

Un'opera molto, molto complessa, questo celebre poema dell'anglo-americano Eliot (1888-1965) che venne pubblicato per la prima volta nel 1922, al principio di un drammatico dopoguerra già carico di cattivi presagi. La "terra desolata" (o "devastata", secondo una più recente traduzione dell'aggettivo "waste") è infatti il vecchio continente uscito dallo shock e le atrocità del primo conflitto mondiale; non meno “desolata” apparirà ritratta la Londra dell’epoca con le sue atmosfere decadenti e un Tamigi da cui le ninfe sono ormai partite.
Il testo si compone di 433 versi in totale e di cinque sezioni, ognuna delle quali porta un titolo diverso: I. "Il seppellimento dei morti"; II. "Una partita a scacchi"; III. "Il sermone del fuoco"; IV. "La morte per acqua"; V. "Ciò che disse il tuono". La prima parte si apre con il ben noto incipit "Aprile è il più crudele dei mesi [...]" che incuriosisce e affascina.
Un libro dal contenuto poetico decisamente suggestivo, ma - come dicevo sopra - anche di non semplice comprensione in quanto ricchissimo di richiami importanti (a partire da quelli dell'Antico Testamento sino a quelli letterari che addirittura non escludono il nostro Dante); in queste pagine si intrecciano voci e temi diversi che, nel complesso, rivelano da parte dell'autore, premio Nobel nel 1948, una cultura sconfinata.
Recensire in modo approfondito un'opera di tal genere sarebbe impresa ben ardua; chissà se la critica stessa abbia terminato di "scavare" all'interno di questo classico del Novecento, vista la complessità che si concentra nella scrittura di Eliot.
Per poter cercare di comprenderne almeno il significato generale, le note conclusive di questa edizione (Einaudi, 1965) non sono state sufficienti e ho dovuto cercare altro materiale. Non posso nascondere di essere stata messa a dura prova da questa lettura; conto di affrontarla ex novo in futuro, poiché - considerata appunto la sua difficoltà - essa richiede (per lo meno a me) un necessario ritorno. Intanto, felice di questo primo avvicinamento che attendevo da tempo.

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Fantasy
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Fantasy su sfondo storico

Caratterizzato da una trama e da uno stile di scrittura particolarmente coinvolgenti e convincenti, “Signora Madre” si rivela senza dubbio un libro molto bello e sorprendente.
Sebbene esso porti l’etichetta di romanzo fantasy (come subito precisa la copertina), per gran parte della narrazione l’elemento storico si percepisce come quello predominante.
La vicenda narrata, infatti, trova ambientazione sullo sfondo di un’epoca (tra la fine dell’Ottocento e il principio del ventesimo secolo) che, sotto diversi aspetti, ha un sapore per così dire vittoriano. L’autrice, l’abruzzese Morena Sterpone, dimostra davvero grande talento nel dar vita a una storia come quella racchiusa tra le pagine di questa pubblicazione, creando oltretutto personaggi molto ben caratterizzati, a partire proprio da quello della giovane Ruth Bolton, unica figlia del ricco vedovo Edmund che, nella zona, possiede terreni e bestiame in grande quantità. Il denaro, tuttavia, non può tutto e Villa Fondi Aria, la grande dimora di famiglia, diviene teatro, fin dalla prematura morte della madre di Ruth e dalla successiva comparsa di una matrigna, di eventi tutt’altro che felici. Anche tutti i personaggi che ruotano attorno alla protagonista risultano costruiti ottimamente – dall’amorevole padre alla tremenda e gelida Mrs. Eliza, dalla sempre affezionata tata Katy alla misteriosa Gwenda – e persino quelli minori trovano ruolo e collocazione perfetti nell’intreccio del romanzo che, fin da subito, ha il merito di saper catturare l’attenzione e la curiosità del lettore.
In tutto questo, l’elemento fantastico riesce a non stonare e, nella parte conclusiva, si amalgama bene con quanto accade a Ruth, rimarcando anzi la potenza salvifica del perdono che emerge tra i temi affrontati dalla penna dell’autrice. Pubblicato circa un anno fa, “Signora Madre” merita una lettura e, nel complesso, un voto di quattro stelle più che abbondanti.

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Fumetti
 
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4.3
Sceneggiatura 
 
4.0
Disegno 
 
4.0
Originalità 
 
5.0
Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Agosto, 2023
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Quando scorre l’acqua

Primo romanzo a fumetti firmato da Tiziano Sclavi, “Le voci dell’acqua” è un libro pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli nella sua collana di Comics quattro anni fa.
Un’opera meritevole di lettura, la cui vicenda si svolge sullo sfondo di una non bene identificata città inzuppata di pioggia incessante.
Creatore di Dylan Dog, tra i personaggi senza dubbio più famosi e longevi di casa Bonelli e, in generale, del mondo dei fumetti nostrano, Sclavi, che ha lavorato anche per altre serie ben note (quelle di Ken Parker, Zagor e Mister No) e si è distinto inoltre come giornalista, sceneggiatore televisivo e scrittore di narrativa, dà vita in queste pagine a una storia fortemente drammatica e pregna, come afferma la quarta di copertina, “di umorismo nero”, nonché “scritta con potenza visionaria e impeto narrativo straordinari”; in essa, mentre l’acqua continua a scendere senza dar segno di placarsi, l’inquietudine sembra divenire palpabile ed esplode in follia. O, forse, in una lucidità estrema che si rassegna alla durezza della vita. Stavros, il protagonista, si porta dietro un bagaglio familiare difficile e voci simili a lamenti che gli fanno compagnia quando scorre l’acqua; a detta del proprio neurologo, soffre di schizofrenia. L’uomo lavora come impiegato presso l’ufficio di una compagnia di assicurazioni, dove non si è altro che pezzi da sostituire rapidamente con efficiente e crudele indifferenza.
Quella de Le voci dell’acqua è una trama angosciante, dal ritmo a tratti incalzante, il cui primo impatto potrebbe spiazzare un poco il lettore, ma che pian piano si rivela di gran pregio, così come notevoli, nel loro suggestivo bianco e nero, sono le tavole del disegnatore Werther Dell’Edera; quest’ultimo, classe 1975, fa parte a sua volta della Sergio Bonelli Editore, vantando inoltre collaborazioni con la Marvel e altre importanti case editrici americane del settore fumettistico.

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    09 Agosto, 2023
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LA POESIA IMMORTALE DI ANNA ACHMATOVA

Quello di Anna Achmatova è uno dei grandi nomi della letteratura russa del secolo scorso, nonché di quella a livello internazionale. La sua poesia, così autobiografica e pregna di dignitoso dolore, conduce nelle ferite profonde inferte alla Russia dal regime sovietico. Lei stessa - come moglie, madre e artista - patì in prima persona l'oppressione della terribile epoca staliniana.
Nata presso la città di Odessa nel 1889, l'Achmatova, di nobili origini familiari ed estremamente colta, si mosse in seno al movimento letterario russo acmeista insieme al marito Nikolàj Gumilëv, padre del suo unico figlio, Lev, e giustiziato nel 1921, tre anni dopo la loro separazione. La vita familiare dell'Achmatova sarà segnata anche da altri arresti e detenzioni (anzitutto, quelli del figlio negli anni Trenta); malgrado la lunga censura, il trasferimento in Uzbekistan durante il secondo conflitto mondiale e le gravi difficoltà economiche (era stata privata della tessera alimentare) non lasciò la patria, vedendosi "riabilitata" soltanto a partire dalla metà degli anni Cinquanta. La morte giungerà nel marzo del 1966.
Questo bellissimo volumetto delle Edizioni Via del Vento, a cura e traduzione di Paolo Galvagni, era già stato pubblicato nel 2012; in anni recenti ne è stata proposta una nuova edizione ampliata che si rivela una pubblicazione di gran pregio che conquista il lettore, ponendosi eventualmente come ottimo punto di partenza per scoprire l'autrice in questione, la cui voce, per quanto flebile, è ben forte e vive ancora.
I versi dell'Achmatova, diretti e di efficace concisione, testimoniano un lungo, travagliato percorso; da essi emergono vivide immagini che si stagliano su sfondi ora di gelo e neve ora di colori più intensi che però sembrano spesso evocare la morte. Del resto, "[...] tutto era in lutto, tutto avvizziva per le sventure,/ ed erano fresche solo le tombe."

La morte del poeta

S'è azzittita ieri la voce irripetibile,
ci ha lasciato l'interlocutore delle selve.
Si è tramutato nella spiga che dà la vita
o nella sottilissima pioggia, da lui cantata.
E tutti i fiori, che esistono al mondo,
sono sbocciati incontro a questa morte.
Ma è subito calato il silenzio sul pianeta
che porta un nome modesto... Terra.

(1957)

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Arte e Spettacolo
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Agosto, 2023
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“Cosa odiosissima è la vendetta”?

Sarà pure “cosa odiosissima” la vendetta, come afferma l’autore nelle sue pagine di premessa al testo, ma la serva Corallina, protagonista di questa ambigua commedia goldoniana del 1753, diviene un personaggio di assai alta levatura morale rispetto a tutti gli altri che animano i tre atti dell’opera.
La sua è una figura dal carattere che lo stesso Goldoni etichetta come “tetro”, un’eroina in verità più da tragedia che da commedia (non a caso, a un’attenta lettura, non mancano le analogie addirittura con la “Medea” di Euripide), una donna furiosa e vendicativa che, al fine di ottenere giustizia per il torto subito (l’inganno da parte del giovane Florindo che si serve di lei e punta invece a Rosaura, figlia del padrone Ottavio), non esita a ribellarsi apertamente all’ipocrisia di una società dominata da menzogna e violenza che non si fa scrupolo alcuno di calpestare i subalterni; quella di Corallina – lei che vorrebbe convolare a nozze con il figlio di un mercante – è altresì una ribellione all’ordine sociale costituito, nonché alla propria condizione che non si rassegna a vedere come definitiva e dalla quale non intende affrancarsi sposando il vecchio padrone (“voglio un bel giovinotto” dichiara in apertura della commedia).
Nonostante la lucida freddezza dei propri calcoli, la vendetta non andrà in porto e la scena finale dell’ultimo atto, dopo un gran buio concitato, farà luce sulle conseguenze non positive delle azioni della protagonista, la quale, nonostante tutto, riconoscendo e ammettendo le sue colpe prenderà congedo dal pubblico a testa alta (l’unica fra tutti a poterlo fare).
Meno famosa e meno rappresentata della ben più fortunata “La locandiera” e di altri titoli importanti, “La donna vendicativa” rappresenta senza dubbio un caso particolare nell’ambito della produzione del grande commediografo settecentesco.
Il testo, caratterizzato da una trama coinvolgente e racchiuso in una edizione molto ben curata e interessante per l’analisi che ne viene fatta (Marsilio, 2021, a cura di Giulia Tellini), offre una lettura scorrevole e godibilissima.

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... altre opere di Goldoni, ma non necessariamente.
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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Luglio, 2023
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Dal mondo arabo con amore

Un piccolo gioiello editoriale, questo volume che fin dalla copertina spicca per i suoi disegni e colori pastello davvero accattivanti, destinato anzitutto ai giovanissimi lettori ma consigliato (come si può leggere in quarta di copertina) anche agli adulti sino al novantanovesimo anno d’età.
La casa editrice romana Gallucci, specializzata in libri per bambini e ragazzi (e non solo), ha portato in Italia “I tre gatti” della scrittrice marocchina Amina Hachimi Alaoui, con le illustrazioni della pluripremiata artista libanese Maya Fidawi; da lungo tempo attivamente coinvolta nella vita culturale del suo Paese, l’autrice ha fondato, e dirige, la casa editrice Yanbow al-Kitab con sede a Casablanca.
L’opera è stata pubblicata nel 2020, con traduzione dall’arabo di Giacomo Longhi e il sostegno della Fiera Internazionale del Libro di Sharjah, mentre l’edizione in lingua originale risale al 2016 con il titolo di "Alya' wa-l qitat a-thalath" (“Alya’ e i tre gatti”).

I tre piccoli felini in questione, Minush, Amir e Pascià, vivono nell’accogliente casa della coppia Sami e Maryam e amano acciambellarsi sulla pancia di quest’ultima, fino a che, proprio attraverso quella stessa pancia, un fatto nuovo e del tutto imprevisto non arriva a “turbare” la loro abitudinaria quiete domestica.
Una trama semplice, ma di grande significato che, in poche decine di pagine, dona a grandi e piccini una lettura godibilissima e ricca di spunti di riflessione su temi importanti (come l’accettazione dell’altro e il rispetto per tutte le creature) e che, nel caso specifico dei lettori occidentali più giovani, può contribuire a rendere meno lontana una cultura che qui da noi ancora viene spesso inquadrata attraverso la lente deformante del pregiudizio e dell’ignoranza.
Un testo dalle splendide illustrazioni che ci conduce nelle affascinanti atmosfere arabo-maghrebine, facilmente riconoscibili, per chi abbia esperienza di quel mondo, da tutta una serie inconfondibile di dettagli (la porta, i tappeti, il giardino interno della casa, etc.).

Di quest’opera, oltre che in italiano, esistono edizioni anche in inglese, francese e polacco (la mia personale ricerca si ferma a queste, ma non escludo che possano ormai essercene persino in altre lingue). Dai titoli in catalogo, quello dell’editore Gallucci risulta un lavoro particolarmente interessante e di alta qualità assolutamente meritevole di attenzione.

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Luglio, 2023
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"Di che reggimento siete/ fratelli? [...]"

Libro molto ben curato che ripropone i testi della prima edizione in assoluto de "Il porto sepolto" di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), pubblicata a Udine nel 1916 in sole ottanta copie, mentre l'autore indossava la divisa militare e conosceva il fango delle trincee della grande guerra.
Le trentadue poesie di questa sua prima raccolta, infatti, fanno esplicito riferimento al conflitto in corso, sebbene ci sia spazio anche per altro, e la voce protagonista racconta il dramma e la desolazione di quel preciso momento storico, ma anche un tenace attaccamento alla vita e un senso di umanità che danno speranza malgrado la guerra.
Quasi una sorta di diario poetico che, come racconterà poi lo stesso autore, racchiude l'esperienza del primo anno in trincea (1915-1916) diventandone preziosa testimonianza, oltre che raccolta innovativa sul piano stilistico e metrico. Le poesie, annotate su foglietti sparsi, cartoline, margini di giornali che venivano infilati dentro il tascapane, inizialmente non erano destinate ad alcun pubblico; sarà poi l'interessamento da parte dell'amico ufficiale Ettore Serra a portarle in stampa.
Rispetto alla versione definitiva di queste poesie confluita poi nella grande raccolta dell'intera produzione lirica di Ungaretti, "Vita d'un uomo" (1969), esiste qualche differenza, più o meno marcata a seconda dei testi, ma anche dalle pagine del 1916 affiora subito la straordinarietà della scrittura in versi di un poeta a cui, purtroppo, non venne mai assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.

"Di che reggimento siete
fratelli? [...]"

***

"Una intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
[...]
Non sono mai stato
tanto attaccato
alla vita"

***

"[...]
L'aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come lumache nel loro guscio
[...]"

(G. U.)

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"Vita d'un uomo" di Ungaretti.
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Storia e biografie
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Luglio, 2023
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Dalla Hofburg di Vienna alla Conciergerie di Parig

È stata una lettura davvero molto interessante e appassionante, quella offerta dal saggio biografico che Stefan Zweig dedicò a Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena (1755-1793), regina di Francia e moglie di Luigi XVI.
Pubblicata nel 1932, tale opera del celebre autore austriaco si basa - come lui stesso ci tiene a sottolineare nella sua lunga nota finale - sulla documentazione ritenuta storicamente affidabile che emerge dalla sovrabbondanza di materiale saltato fuori all'improvviso molto probabilmente per trarne lucro (lettere falsificate, memorie di cameriere, personale di servizio a vario titolo, etc.). Il ritratto che scaturisce da queste pagine è quello di una donna che scoprì di essere regina quando ormai non lo era più. Al pari di innumerevoli sovrane per nulla famose, la figura di Maria Antonietta, infatti, non avrebbe lasciato traccia nella Storia se non le fosse toccato un epilogo tanto drammatico; frivola e mediocre, non dedita a letture e restia a prestare attenzione alle questioni serie e importanti, questa figlia della grande Maria Teresa d'Austria non fu, per gran parte della sua breve vita, neanche la lontana ombra della figura materna.
Maria Antonietta, "questa bimba troppo presto venduta alla politica", si ritrovò suo malgrado a vivere per davvero un'esistenza involontariamente eroica a partire dal 1789, quando, abbandonata da consanguinei e aristocratici, dagli sfarzi di Versailles precipitò a poco a poco negli abissi più cupi della Rivoluzione che avrebbe finito per reclamare a gran voce la sua testa e quella del consorte. Libro consigliatissimo!

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Libri per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Mag, 2023
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“Jung”

Mi capita spesso, in biblioteca, di fermarmi a curiosare tra le novità e i titoli esposti nella sezione ragazzi (ragazzi che, purtroppo, non si precipitano certo a prendere libri in prestito a giudicare dagli allestimenti perennemente "intonsi"). È stato lì che ho trovato questo bel volume dal titolo e dalla copertina, per me, piuttosto invitanti.
Pubblicato lo scorso anno da Mondadori, “Il ragazzo contro la guerra. Una storia di Gino Strada” è un romanzo destinato ai lettori più giovani e firmato da uno scrittore milanese mio coetaneo, Giuseppe Catozzella, di cui finora non avevo mai letto niente.
Un libro che permette appunto ai ragazzi (e, in verità, anche a qualche adulto) di conoscere la straordinaria figura di Gino Strada attraverso una lettura scorrevole e coinvolgente che ci trasporta di colpo nell'Afghanistan delle infinite, maledette guerre, sino a quella del 2001 quando, dopo i fatti dell'11 settembre, il paese, già ostaggio, dell'orrore talebano, entrò nel mirino dei B-52 americani al fine di divenire destinatario (bontà loro) del dono della beneamata democrazia a suon di bombe.
Un romanzo di fantasia per quanto riguarda il personaggio del tredicenne Yanis (protagonista e voce narrante di queste pagine) che, rimasto orfano e solo al mondo, lascia a un certo punto le rovine incenerite del suo villaggio nella Valle del Panjshir, a nord di Kabul, terra del comandante Massud; non sono invece frutto di invenzione le vicissitudini che il ragazzino vive a causa della guerra (“jung”, forse in lingua tajika; non a caso, tra le primissime parole che là i bambini imparano a pronunciare), condivise da chissà quanti suoi giovanissimi connazionali, così come sono reali – come del resto sottolinea l'autore nella sua nota finale – tutti i racconti e gli aneddoti relativi alla vita di Gino Strada (1948-2021), il grande medico e chirurgo fondatore di Emergency che, dal 1994 a oggi, è presente in vari stati (Italia inclusa) curando gratuitamente milioni di persone.
Il ragazzo contro la guerra del titolo, dunque, non sarà soltanto Yanis, ma anche lo stesso Strada che, fin da giovane, aveva ben compreso l'importanza di pace e giustizia nel mondo, consacrando poi tutta la sua esistenza a ciò che sappiamo e dimostrando che anche i sogni si possono infine realizzare "perché nessuna destinazione è irraggiungibile per chi si mette in cammino".

Un libro da tenere presente in caso di eventuali regali a bambini/ragazzi tra nove/dieci e quattordici anni, con la speranza di indurne almeno qualcuno alla lettura. Parte del ricavato delle vendite verrà devoluta a Emergency.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Mag, 2023
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Non del tutto convincente

Premetto di essere una grande ammiratrice dello scrittore maghrebino Tahar Ben Jelloun, del quale ho letto finora numerosi libri, tra saggi, poesie e romanzi. Non avevo ancora letto "Creatura di sabbia" e, in verità, mi aspettavo molto da questo suo romanzo che, dalla pubblicazione intorno alla metà degli anni Ottanta, ha riscosso nel tempo uno straordinario successo.
La vicenda narrata è senza dubbio molto interessante per la particolare tematica affrontata (legata alla condizione femminile in Marocco), ma l'ho trovata meno coinvolgente rispetto a quella di qualche altro romanzo di Ben Jelloun (come, per esempio, il bellissimo "Partire"). La drammatica storia di Ahmed, in realtà una donna fatta passare per maschio alla nascita in modo da non disonorare il padre a causa della presenza di sole figlie femmine, mi ha catturata sino al momento dell'abbandono della casa di famiglia e della accettazione del proprio corpo e della propria identità sessuale femminile (grande punto di rottura e ribellione vera e propria - anche a livello sociale - a quanto imposto dalla ferrea volontà paterna); poi la trama si perde nelle voci di più narratori, tutto diviene confuso e cosa sia in realtà accaduto successivamente al personaggio protagonista del romanzo non è dato sapere.
Un'opera sen'altro interessante per il complesso intreccio delle voci narranti, ma per me un po' deludente; mi aspettavo ben altro da uno scrittore come Ben Jelloun, soprattutto da un suo libro così famoso. Proverò poi a leggere il continuo in "Notte fatale", sperando di ritrovare la penna convincente dell'autore.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Marzo, 2023
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La scomparsa di un mondo

Una lettura molto bella e scorrevole, quella offerta da “La Cripta dei Cappuccini” di Joseph Roth (1894-1939), autore nato nella periferia dell’impero asburgico, lo stesso impero di cui egli si rivela un grande cantore.
Scritto e pubblicato nel 1938, il romanzo narra la rovinosa vicenda di Francesco Ferdinando, appartenente alla famiglia Trotta di recente nobiltà. Fa da sfondo la Vienna dell’ultimissimo periodo della Belle Époque, poco prima che scoppi la grande guerra che, come noto, porterà allo sfacelo non solo dell’impero in sé, ma anche al venir meno di un’epoca e di un mondo di certezze, quelli in cui si muove inizialmente il giovane protagonista dedito a ozio e frivolezze; nella narrazione subentra la parentesi legata agli scenari bellici dei confini orientali per poi ritornare a una città spenta dove niente è più come prima e i titoli nobiliari non salvano da debiti e ipoteche.
L’idea della morte e del disastro aleggia fin dall’inizio in queste pagine caratterizzate da una prosa coinvolgente e di grande piacevolezza, in cui, oltre a quello di Trotta, perfetta voce narrante, s’incontrano personaggi molto ben riusciti.
E la Cripta dei Cappuccini del titolo? Essa è il luogo che, nella capitale asburgica, accoglie le tombe imperiali, inclusa quella del vecchio Francesco Giuseppe, scomparso nel 1916 con il conflitto ancora in corso: superba metafora del tramonto di un impero e di una società di cui, come ben esprime la conclusione del libro, resta infine un grande vuoto e un’indicibile nostalgia per chi vi ha vissuto.

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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Marzo, 2023
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“Ai leoni! Ai leoni!”

Una gran bella sorpresa si è per me rivelata la lettura di questo breve romanzo del francese Alphonse Daudet (1840-1897), che m’incuriosiva da diverso tempo.
Pubblicato nei primi anni Settanta del XIX secolo, il libro aprì una trilogia i cui due successivi titoli non ebbero forse la stessa fortuna del primo. Penna particolarmente prolifica, quella dell’autore, la cui opera spazia dai romanzi alle novelle, dalle poesie ai testi teatrali. Al centro dell’opera in questione, un personaggio molto originale le cui (dis)avventure colorano queste pagine di autentica e irresistibile comicità: Tartarino è un uomo del sud (come lo stesso Daudet), della città di Tarscona, in Provenza. È un inguaribile spaccone, nonché bramoso di viaggi avventurosi, possibilmente lontani dalla patria. Il suo giardino è pieno di piante esotiche in miniatura, compreso un baobab che ha ormai preso comoda dimora in un vaso da geranio, mentre in una delle stanze della sua abitazione si trovano in bella mostra armi di ogni tipo e dimensione.
È talmente assetato d’avventura – e tale è la fama di grande cacciatore di cui gode nella sua città – che all’improvviso si ritrova, suo malgrado e armato di tutto punto, a bordo di una nave in partenza alla volta dell’Algeria, terra di non bene identificati “turchi” e, all’epoca, già da tempo in mano francese. Obiettivo del viaggio: andare a caccia dei temibili leoni dell’Atlante!
Attraverso una prosa fluida e molto bella, Daudet ci racconta di un eroe in verità tragicomico il cui animo si sente spesso diviso tra un don Chisciotte e un Sancho Panza. Mettendo piede per la prima volta in Africa, ecco Tartarino d’improvviso faccia a faccia con un mondo, quello arabo-islamico, che, sebbene “contaminato” dalla presunta civilizzazione europea, esercita ancora un notevole fascino derivante anzitutto dalla vaga idea di un Oriente fiabesco che finisce per estendersi anche a ovest. Colpisce la descrizione dettagliata di Algeri, con la sua caratteristica Casbah dalle viuzze strette, i mercati, i minareti delle moschee da cui i muezzìn chiamavano i fedeli musulmani alla preghiera, le donne velate, la società coloniale che, impigrita, sostava ai café e nelle piazze. Un brulicare confuso e tumultuoso di mori, neri subsahariani ed europei, un crocevia di popolazioni e culture che lo scrittore nativo di Nimes, essendo stato in Algeria anni prima, sa cogliere con un’abilità a mio avviso davvero degna di nota; il tarasconese, dopo l’iniziale timore e sospetto nei confronti degli abitanti del posto, finisce addirittura per prendere casa nella città vecchia di Algeri, per via di una liaison imprevista, in mezzo ai musulmani che prende a frequentare, al punto che lui stesso viene chiamato sidi Tart’ri (signor Tartarino). E la caccia ai leoni? In realtà, come il nostro eroe scoprirà amaramente, le nobili belve di un tempo si sono estinte in Algeria; l’unico leone di cui lui riuscirà a portar via la pelle come trofeo sarà quello di un povero felino malandato praticamente addomesticato.
L’epilogo sarà pieno di sorprese, tra cui la più scontata e triste si rivelerà la disonestà europea ai danni dell’ingenuo Tartarino; tuttavia, il ritorno a Tarascona non sarà privo del tappeto rosso, come del resto si conviene agli eroi. Un romanzo godibilissimo, ancor più nella bella traduzione di quasi un secolo fa di Aldo Palazzeschi.

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Romanzi storici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Marzo, 2023
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Romanzo monumentale

Cinque stelle e lode per questo romanzo di Ivo Andric pubblicato nel 1945!
L’autore, Premio Nobel per la Letteratura all’inizio degli anni Sessanta, nacque nella Bosnia del 1892 già sotto occupazione austro-ungarica da quasi una quindicina d’anni; anche i bosniaci, dunque, hanno fatto parte a pieno titolo – come non a caso lo stesso romanzo racconta – dell’impero di Francesco Giuseppe, all’interno di uno sconfinato melting pot in cui erano presenti differenti nazioni e confessioni religiose. Di tale commistione di popoli relativa alla propria terra Andric parla ampiamente in questa sua opera, e lo fa tornando molto indietro nel tempo: la narrazione, infatti, prende avvio dalla prima metà del XVI secolo, quando la zona era in mano ai turchi ottomani, per giungere infine sino al principio della grande guerra con il fatale attentato di Sarajevo e le iniziali operazioni armate tra Austria e Serbia, mentre tutta l’Europa veniva inevitabilmente risucchiata nel vortice di un conflitto disastroso che si sarebbe protratto per anni.
Fanno da scenario al lungo racconto la cittadina di Visegrad e le sponde dell’impetuoso fiume Drina, dove per iniziativa del visir Mehmed Paša Sokolovi? nella seconda metà del Cinquecento venne costruito un maestoso ponte di pietra a cui finiscono per legarsi in modo indissolubile le sorti di tutti gli abitanti della cittadina, slavi e turchi (e non solo) indistintamente .
Ed è proprio lui, il ponte sulla Drina, solido e pressoché immutato nei secoli, il protagonista assoluto di queste meravigliose pagine caratterizzate da una prosa che riesce a coinvolgere e incuriosire il lettore dalla prima all’ultima riga; pagine in cui s’intrecciano la grande Storia e le piccole storie, spesso drammatiche, di coloro che, generazione dopo generazione, per centinaia d’anni transitarono sul ponte, lo stesso che vide passare due giganteschi imperi (quello d’Istanbul e quello di Vienna), entrambi destinati a scomparire sotto i colpi della prima guerra mondiale, e su cui s’incontrarono Occidente e Oriente, Cristianesimo e Islam.
Un romanzo capolavoro!

“E così, in mezzo a tutta quella nuova tempesta che si riversò sulla città, […] il ponte continuò a stare in piedi, bianco, duro e invulnerabile, come era stato da sempre.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Febbraio, 2023
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Dopo la Trilogia

Fortunato personaggio nato dall’abilissima penna dello scrittore Roberto Costantini, Michele Balistreri, commissario dall’animo tormentato e i modi spicci non sempre poliziescamente ortodossi, riappare in questo romanzo pubblicato nel 2016 dopo la bellissima e più che appassionante “Trilogia del Male”.
Rispetto alle vicende narrate nei volumi di quest’ultima, incentrate come sono sulla storia personale e familiare di Balistreri (in particolare quelle de “Alle radici del male” con tanto di ambientazione libica), non c’è paragone, i toni risultano decisamente diversi. Anzi, in verità, la prima parte de “La moglie perfetta” è pressoché monopolizzata dalle voci dei personaggi che animano i casi attorno ai quali ruota la trama, tant’è che, inizialmente, si potrebbe avere il sospetto che al nostro commissario sia stato stavolta assegnato un ruolo marginale legato giusto alle indagini in corso. Quella del dottor Giovanni Annibaldi, detto Nanni, psicologo dedito a terapie di coppia, è una di queste nuove voci che raccontano e si raccontano ampiamente; sembra quasi essere lui il protagonista del libro, sino a quando non inizia a parlare anche la moglie Bianca Benigni, pubblico ministero a Roma. Ma, da un certo momento in poi, il buon vecchio Mike si riprende con decisione la scena, il suo io narrante se ne fa di nuovo padrone, accompagnandoci a poco a poco verso l’epilogo di un thriller/poliziesco che, ancora una volta, non mancherà di coinvolgere e sorprendere il lettore.

“E l’ho imparato da ragazzo, da mia madre, che a volte la follia è l’unica forza che può staccarci da ciò che conviene spingendoci verso ciò che è giusto”

Mi è piaciuto molto ritrovare tra queste pagine Balistreri, anticonformista e ribelle nato (e ne dà l’ennesima prova), come l’avevamo lasciato al termine della sopraccitata trilogia con la scoperta di un legame di sangue davvero inaspettato; vedremo poi dove porteranno gli ultimi sviluppi della sua vita privata. Nel complesso, dunque, un romanzo ben riuscito che ci parla non solo di malavita organizzata, violenza e avidità, ma anche di sentimenti e di come troppo spesso si finisca per voler diventare a tutti i costi – e non senza fatica e infelicità – partner perfetti di relazioni imperfette.

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... la "Trilogia del Male", ma non necessariamente.
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Febbraio, 2023
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“Una vita nuova è possibile”

Pubblicato nel 2014, “L’ablazione” è un breve romanzo in cui lo scrittore maghrebino Tahar Ben Jelloun affronta con disinvoltura e franchezza di linguaggio che gli sono proprie un tema di certo non semplice da trattare: il tumore alla prostata e la rimozione di quest’ultima, con tutte le conseguenze che ciò comporta.

“Ablazione, s.f. - Asportazione chirurgica parziale o completa di un organo… Togliere, tirar fuori, sottrarre, al fine di eliminare la malignità del male, curare e godere delle conseguenze. Dopo, sarò un uomo senza qualcosa. Un uomo un po’, un pochino ridotto. Ma non si vedrà. […]”

L’autore racconta la vicenda del protagonista, un matematico affermato, dietro sua espressa richiesta, dopo aver preso parte alla vita del paziente, ascoltandolo, accompagnandolo in ospedale e familiarizzando così con gli ambienti sanitari da lui frequentati. Verità o pretesto narrativo che sia, il risultato è un libro assai diretto, ma non scandaloso, che si addentra anche in riflessioni di grande profondità. La penna di Ben Jelloun, sebbene stavolta si allontani dalle consuete questioni maghrebine, si conferma abile a tratteggiare un personaggio convincente, coinvolgendo il lettore sin dalle prime pagine attraverso la voce di un io narrante che non risparmia i dettagli degli esami medici più imbarazzanti o di atti sessuali pre e post intervento chirurgico.
La narrazione si addentra nei pensieri più intimi, espone timori e preoccupazioni di un uomo che, all’improvviso, si vede costretto a fare i conti con la poco piacevole esperienza del cancro e ad adattare di conseguenza a essa la propria vita, intima e non solo. La depressione si va viva anch’essa senza preavviso, così pure un terribile senso di vergogna si fa strada nella mente condizionando i rapporti con gli altri; ogni risvolto psicologico della questione viene analizzato con attenzione. Niente viene tralasciato da Ben Jelloun. E così, tra erezioni mancate e una sessualità diversa e ridimensionata rispetto a quella vissuta in passato, il protagonista giunge alla consapevolezza che pure “la vita senza libido è vita” e “una vita nuova è possibile”, senza più farne un dramma.
Un romanzo, questo, che parla anzitutto di tumore, di intimità maschile e in un certo qual modo pure di sentimenti. Tahar Ben Jelloun, con la sua consueta scrittura garbata e accattivante, ci offre una lettura tutt’altro che pesante né volgare. Da leggere, seppur – a mio parere – non come primissimo avvicinamento a questo autore.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    27 Gennaio, 2023
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Il fascino del male

Pubblicato nel 1782, "Les liaisons dangereuses" si rivela fin dalle prime pagine un romanzo epistolare a dir poco coinvolgente.
L’autore, Pierre- A.-F. Choderlos de Laclos (1741-1803), era un militare con la passione letteraria; passione che, tuttavia, per quanto sincera, non andò al di là di una produzione rimasta assai modesta, eccezion fatta per quest’opera che, dopo decenni (forse addirittura un secolo!) di aperta condanna sociale e censura da parte dei tribunali, è stata finalmente riconosciuta come il suo capolavoro.
In centosettantacinque lettere, di cui si compone il libro, s’intrecciano le voci di diversi personaggi (tra i quali spiccano da subito due nobilastri, la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont, ex amanti e degni compari di libertinaggio) che danno vita a una narrazione ricca di intrecci e relazioni appunto pericolose; man mano che essa procede si svela il marciume e la dissolutezza di un’epoca, incarnati proprio dai due protagonisti che, cinici e spietati, travolgono e calpestano tutto in nome del vizio più sfrenato; sono presenti alcuni passaggi in cui, sebbene il linguaggio utilizzato non sia di certo esplicito né tanto meno volgare, si resta sconcertati per ciò che viene espresso dal momento che si è di fronte anche all’abuso sessuale reiterato al punto di circuire totalmente la vittima (Cécile, un’adolescente da poco uscita dal collegio).
Attraverso una trama e uno stile di scrittura che catturano il lettore, Laclos punta severamente il dito contro la corruzione dei costumi e l’ipocrisia dell’alta società del suo tempo. Alcuni passaggi risultano forse un poco pesanti, ma nel complesso, si rimane stupiti dalla straordinarietà di questo romanzo di fine Settecento, per lungo tempo bollato e liquidato come scandaloso senza riconoscerne l’intento moralistico.
Lettura molto consigliata, soprattutto agli amanti della letteratura francese!

"Per quel che serve un marito; uno vale l'altro;
e il più scomodo è sempre meno fastidioso di una madre."

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    23 Gennaio, 2023
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Un mondo al tramonto

Una bellissima novella, questa dello scrittore austriaco Stefan Zweig (1881-1942), pubblicata nel 1929.
E bellissimo appare subito il protagonista di questo prezioso libriccino: Jakob Mendel, un bibliomane di origine ebraico-galiziana che, quand'era ancora ragzzo, aveva abbandonato lo studio da rabbino per stazionare fedelmente, per oltre trent'anni "tutti i giorni da mane a sera", a un tavolo del Caffè Gluck, vecchio locale della Vienna asburgica che, al pari dell'antico impero, dopo la grande guerra del '14-'18 subì uno stravolgimento generale non soltanto negli arredi e nella tappezzeria.
Poche decine di pagine davvero straordinarie in cui l'autore immortala un personaggio indimenticabile nella propria unicità, rievocato dalle parole di un io narrante che riapproda al caffè in questione a distanza di due decenni per pura casualità in una giornata di pioggia improvvisa. Un mondo, quello del vecchio ed eccentrico Mendel che viveva per i suoi libri, tramontato per sempre.

"[...] cauto e delicato, cominciava a sfogliare con immenso rispetto la rarità, pagina dopo pagina. Nessuno poteva disturbarlo in un momento simile, così come non è consentito disturbare un vero fedele in preghiera, e in effetti il suo osservare, toccare, odorare e soppesare, ciascuno di quei singoli gesti aveva un che di rituale, ricordava la sequenza degli atti regolati dal culto in una cerimonia religiosa."

Una storia drammatica, struggente e affascinante che sa proprio di un'altra epoca, ricordandoci che "i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall'inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l'oblio."

Da leggere, consigliatissimo!

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Romanzi autobiografici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    25 Dicembre, 2022
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Cara mamma

È una lunga, sofferta, a tratti straziante lettera quella che la nota scrittrice di origine ungherese Edith Bruck affida a queste pagine destinate idealmente alla propria madre ormai persa, al pari di milioni di vittime innocenti, nell’indicibile inferno dell’Olocausto sullo sfondo degli anni del secondo conflitto mondiale. Una lettera che, da monologo, sembra farsi via via dialogo dai toni sempre più serrati e intimi tra due persone – madre e figlia, per l’appunto – il cui legame sia stato, bruscamente e brutalmente, interrotto per sempre.
Apparsa già sul finire degli anni Ottanta e ripubblicata da La nave di Teseo all’inizio di questo 2022 con una breve nota introduttiva firmata dall’autrice stessa oggi più che novantenne, l’opera in questione non è un romanzo, come si potrebbe pensare stando a quanto riportato in copertina; non si tratta infatti di narrativa nel senso più classico del termine, non è “fiction” ciò che viene raccontato, semmai una prosa di carattere senza dubbio autobiografico in cui la fantasia deve farsi da parte a favore di una realtà nuda e cruda che ancora oggi atterrisce, ma della quale occorre conservare memoria.

“Come si faceva a diventare così presto nemici anche fra noi e tirare un sospiro di sollievo quando toccava all’altro seguire il selezionatore? […] Tutta la nostra speranza era di trovare qualcosa da mangiare, un boccone non troppo magro e non troppo marcio tra i rifiuti. Per sopravvivere, mamma, bestie feroci, altro che pensare a nostra madre! Non mi chiedevo più nemmeno se eri morta o se eri viva. Non sentivo più altro che fame. Non desideravo altro che mangiare […]”.

L’esperienza terribile vissuta ad Auschwitz e in altri campi di concentramento, nonché l’esserne superstite e testimone, ha segnato la vita della Bruck e di ciò parla buona parte di questo testo; in esso, però, trova spazio anche il rapporto con la propria identità ebraica, nella quale confluiscono lingua, religione, fede che hanno continuato nel tempo a essere problematiche, in verità fin dall’infanzia, prima ancora che la famiglia venisse sradicata a forza, nel ’44, dal suo piccolo villaggio in Ungheria.

“Non so, mamma, perché vivo proprio io e non tu che avresti pregato per tutti?Per me eri tu la fede […]”

Come ne “Il pane perduto”, uscito lo scorso anno sempre con la medesima casa editrice, anche in questa Lettera ci s’imbatte nel ritratto di una figura materna troppo spesso dura e in apparenza poco amorevole nei confronti dell’Edith bambina. Una donna chiusa nelle proprio rigido credo di ebrea osservante che non perdeva occasione per rimproverare quella figlia dall’animo sognatore che lei stessa si chiedeva da dove fosse giunta, tanto si mostrava diversa dagli altri, e che, invece di pregare, amava già allora leggere poesie e “cose inutili”.

“Ah, mamma, senza la poesia, senza l’arte la natura, la vita sarebbero insopportabili, l’aria irrespirabile. Tu non sai quanta verità può contenere un solo verso, una sola parola.”

Ecco, quindi, che l’Edith adulta, ripercorrendo quelle memorie familiari lontane ormai decenni, all’interlocutrice confessa con candore – lei che mangia quel che è proibito e non sa tenere a mente le date delle feste comandate – le sue mancanze in fatto di osservanza religiosa e ribadisce la ferma convinzione delle sue scelte di vita. Il dolore interiore di chi scrive è palpabile, affiora tra le righe a più riprese, così come il desiderio bruciante, rimasto tale, di un’approvazione e un amore da parte materna liberi da condizioni unilaterali.

“Come avresti vissuto tu il dopo, mamma? Avresti ancora pregato? […] Noi due avremmo litigato sempre? Tu non mi avresti mai approvato in niente, io avrei fatto ciò che ho fatto soffrendo il doppio. Non mi rivolgeresti più la parola come da piccola. Ed era peggio dei rimproveri, delle minacce, di qualche scapaccione o schiaffo per colpa mia, perché l’avevo provocato io, no? Nei tuoi silenzi c’era qualcosa di cattivo. Di pericoloso. […] Mi addossavi tutti i tuoi guai di madre, di moglie, di ebrea. Dietro la tua bocca chiusa per me c’erano cinquemila anni di storia brutta.”

Quel “dopo”, purtroppo, non ha avuto possibilità di aver luogo e il loro rapporto pieno di contrasti non ha potuto avere alcuna evoluzione, né in un senso né in un altro. Non resta, dunque, che l’amarezza del rimpianto per l’amore non ricevuto, o comunque molto diverso da quello bramato. A cornice di tutto ciò, non mancano considerazioni sull’essere ebrei in generale e israeliani in particolare; le parole verso Israele e ciò che lo Stato ebraico compie non sono tenere, al lettore trarne le proprie conclusioni.
Attraverso una prosa di notevole profondità che è probabile sia stata infine catartica, Edith Bruck ci consegna un’opera molto bella (pur nella indubbia drammaticità dei suoi contenuti) che da subito coinvolge e merita di essere letta. I morti chiedono pace, allo stesso modo i vivi chiamati a seppellirli seppure non fisicamente; in questo caso, a dare occasione di riconciliazione con il passato è la scrittura stessa, ancor prima delle parole rituali del Kaddish conclusivo.

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Consigliato a chi ha letto...
... "Il pane perduto" della stessa autrice.
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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Dicembre, 2022
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C'era una volta...

Come scrive Elda Bossi, traduttrice dell’opera per questa bella collana della Giunti uscita in prima edizione nell’ormai lontano 1984, “La rosa e l’anello” è un libro per lettori d’ogni età.
“Una novella per grandi e per piccini da raccontare accanto al fuoco la notte di Natale”, recita non a caso una sorta di brevissima premessa; considerando il clima natalizio già imperante, perché non concedersi tale lettura?
Pubblicato nel 1855, “The rose and the ring” è uno dei tanti titoli che nell’arco di circa due decenni diede alle stampe William Makepeace Thackeray (1811-1863), scrittore britannico dell’epoca vittoriana che nacque in un sobborgo di Calcutta da cui fece ritorno in Inghilterra quand’era ancora bambino. La sua attività letteraria, affiancata a quelle di giornalista e caricaturista, fu pervasa da una vena satirica che ci mise un po’ di tempo prima d’incontrare il consenso dei lettori; tra le sue opere più note, “Le memorie di Barry Lyndon” (1844) e “La fiera delle vanità” (1846-48).
“La rosa e l’anello”, che non sembra in verità avere la stessa brevità di una novella (e infatti consta di ventidue capitoli) né un intreccio narrativo minimale, è impreziosita (per lo meno in questa edizione della Giunti) da alcuni disegni originali dell’autore. La vicenda conduce il lettore dentro un testo dal sapore chiaramente fiabesco, per le antiche strade e i sontuosi palazzi dei paesi di Paflagonia e Crim Tartaria, reami dove s’incontrano teste coronate e vili usurpatori di troni, nonché tutta una serie di personaggi (buoni e cattivi) ben tratteggiati, alcuni dei quali persino molto buffi, che animano una trama particolarmente ricca di avvenimenti e retroscena con cui il lettore dovrà da subito fare i conti. In queste pagine, ovviamente, non poteva mancare la presenza dell’elemento fantastico che si presenta attraverso la misteriosa quanto affascinante figura di Bacchettanera, fata “di gran scienza” domiciliata tra i due regni sopraccitati; la rosa e l’anello da lei donati a due sue nobili figliocce faranno la propria parte nel corso della narrazione, dando, a ragione, il titolo all’opera. Come da miglior tradizione, nonostante la malvagità, l’avidità e gli imbrogli da parte di qualcuno, verità e giustizia infine trionferanno, e l’amore pure.
Nel complesso, una piacevole lettura, forse non straordinaria né memorabile, ma comunque simpatica e di certo assolutamente diversa da quelle solite, in grado di far riscoprire e apprezzare – soprattutto ai lettori non più giovanissimi – il valore e l’incanto senza tempo della fantasia.

Inoltre, grazie a questo volume ho potuto scoprire Elda Bossi (1901-1996), traduttrice, poetessa e autrice particolarmente versatile e prolifica del Novecento italiano della quale oggi, purtroppo, non si sente più parlare. La sua traduzione di quest’opera di Thackeray, risalente al secondo dopoguerra, appare molto scorrevole e vivace; per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Elda_Bossi

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    28 Novembre, 2022
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"Attendere e sperare"

Un superclassico, senza alcun dubbio!
Per recensirlo per bene forse non basterebbero fiumi d'inchiostro, vista la vastità dell'opera. Tuttavia, proprio come nel caso di tanti altri celebri classici, che cosa mai si potrebbe aggiungere a ciò che è già stato detto e scritto finora in merito a tale romanzo? Niente di importante, credo.
Riporto soltanto che questa lettura (in verità, alquanto impegnitiva per via della mole del volume) è stata per me molto coinvolgente a partire dall'incipit sino a quando il protagonista riesce a trovare e a fare suo lo strabiliante tesoro nascosto nell'isoletta rocciosa di Motecristo. Nel complesso, la vicenda narrata in queste pagine è appassionante, Alexandre Dumas (1802-1870) è abile nel descrivere situazioni e personaggi, rivolgendosi più di una volta quasi in modo diretto al lettore; occore però riconoscere la pesantezza di alcune parti del romanzo, prima fra tutte quella relativa al carnevale e ai banditi romani in cui - lo confesso - mi sono quasi impantanata.
Ecco perché, tenuto conto di questo, procedendo verso la fine, pensavo di attribuire al romanzo un voto compreso fra le 4 e le 5 stelle; poi, giunta finalmente all'epilogo, mi sono commossa e allora ho optato per il voto massimo. Sì, mi è piaciuto molto il modo in cui Dumas chiude la lunga e tribolata storia di Edmond Dantès, personaggio affascinante con il quale il lettore entra ben presto in empatia. Colpisce, inoltre, il messaggio che l'autore sembra voglia trasmettere: al di là di ogni possibile desiderio di vendetta, umanamente comprensibile a seconda dei torti subiti, esiste pur sempre un limite oltre il quale è bene non spingersi per non rischiare di precipitare nell'abisso senza ritorno di una disumanità che non farebbe altro che danneggiare noi stessi. Alla sete di vendetta, pertanto, subentra infine il perdono, se non la compassione. Insomma, quando tutto sembra ormai perduto, come ci insegna a più riprese questa vicenda, la vita potrebbe ancora offrire un'altra possibilità. Del resto, per riprendere le parole che riecheggiano in chiusura, all'uomo cos'altro resta se non "attendere e sperare"?
Un romanzo ottocentesco forse con i suoi limiti, ma senz'altro un'opera fondamentale della letteratura mondiale.

"[...] Occorrono le sventure per scavare certe miniere misteriose nascoste nell'intelligenza umana; occorre la pressione per far scoppiare le polveri. [...]" 

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Ottobre, 2022
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Il Piccolo Amico di tutto il Mondo

Pubblicato nel 1901 e comparso in traduzione italiana a distanza di dodici anni, “Kim” dello scrittore inglese Rudyard Kipling (1865-1936) è un romanzo ambientato sul finire dell’Ottocento sullo sfondo del “tumultuoso turbinio dell’India” sotto il dominio dell’impero britannico. Un romanzo di formazione, destinato però non soltanto ai lettori più giovani. Per curiosità, l’autore, Premio Nobel per la letteratura nel 1907, è tra quelli che il nostro Antonio Gramsci, nelle sue lettere dal carcere, consigliava ai suoi figli di leggere.

Al centro della trama, la storia di un ragazzino, Kimball O’Hara, di origine irlandese da parte di padre, cresciuto orfano a Lahore come un indiano, sebbene fosse bianco… “un bianco povero fra i più poveri”. Fatta improvvisa amicizia con un lama del Tibet, ne diviene il “chela”, cioè il suo discepolo, e in compagnia di quell’alta figura avvolta in drappeggi e dallo strano, enorme cappello inizia una sorta di vagabondaggio alla ricerca del “Fiume della Freccia”, nelle cui acque il santone desidera raggiungere la liberazione dalla Ruota delle Cose, e di un misterioso Toro Rosso su un campo verde. Prende così avvio un lungo e avventuroso viaggio che finirà per intrecciarsi alle attività di spionaggio legate al “Grande Gioco”, come viene chiamata di continuo la contrapposizione di britannici e russi in Asia centrale (tale espressione fu resa popolare proprio da Kipling attraverso queste pagine), e lo stesso giovane protagonista verrà coinvolto dai servizi segreti di Sua Maestà per il tramite di alcuni insospettabili, primo fra tutti Mahbub Ali, il mercante di cavalli sul libro paga degli inglesi. La narrazione procede ricca di scenari e personaggi, offrendo nel complesso un grande affresco dell’India dell’epoca, crogiolo di lingue e religioni, un territorio immenso ricco di colori e umanità variegata in cui ci si imbatte a ogni passo; proprio per questo, è molto probabile che il testo possa affascinare gli appassionati di quell'area geografica e della sua cultura (in particolare, induista e buddista), delle quali Kipling, nato a Bombay e vissuto per diverso tempo sul posto, non a caso dimostra di avere ottima conoscenza.

Purtroppo, ho spesso trovato la trama abbastanza caotica e la lettura a tratti un po’ pesante; in verità, mi aspettavo qualcosa di più dalle pagine di questo romanzo, soprattutto un maggior coinvolgimento nelle vicende narrate. Tuttavia, vi ho trovato qualcosa di bellissimo che l’autore mette in bocca al musulmano Mahbub Ali (tra i personaggi meglio riusciti) e che, soprattutto in questo nostro tempo preda di facili fanatismi ed estremismi religiosi che insudiciano il significato autentico delle grandi religioni, trasmette un messaggio di profonda tolleranza e accettazione dell’altro senza condizioni:

“[…] Tu sei senza alcun dubbio un miscredente, e perciò sarai dannato. Così dice la mia Legge… almeno credo. Ma tu sei anche il mio Piccolo Amico di tutto il Mondo e io ti voglio bene. Così dice il mio cuore. […]”

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Settembre, 2022
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scienza contro fanatismo

"E la forza non può fare che un uomo non veda ciò che ha visto".

Una lettura che mi incuriosiva da diverso tempo, questa "Vita di Galileo" di Bertolt Brecht, e che non ha deluso le mie aspettative. Un'opera teatrale in quindici scene che coprono un arco temporale compreso tra il 1609 e il 1637, una buona e importante fetta della vita di Galileo Galilei, uomo di Scienza tra i più importanti della Storia. La sua vicenda è nota e il grande drammaturgo tedesco la immortala - tra Padova, Firenze, Roma e infine di nuovo Firenze - in uno dei suoi lavori più noti e importanti.

La figura del protagonista viene ritratta da Brecht in tutta la sua umanità, forte e fragile allo stesso tempo (si pensi a quando, nella parte conclusiva, egli ammette di aver temuto di affrontare il dolore fisico, motivo per il quale ha abiurato dinanzi all'Inquisizione), prestandosi probabilmente a diverse interpretazioni, anche alla luce del particolare contesto storico in cui queste pagine furono scritte (la prima versione si colloca nel periodo a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale). Dunque, un testo in un certo qual modo complesso e non semplice da analizzare; esso, oltre a dar prova della grandezza drammaturgica di Brecht, mette in luce il contrasto - tanto per cominciare - tra ragione e fede, scienza e fanatismo, libertà di pensiero e censura.

L'opera offre anzitutto una lettura di piacevole scorrevolezza, ricca com'è di dialoghi e di personaggi, tra cui spicca in modo particolare quello del giovane Andrea Sarti, figlio della governante che, in principio, entra in scena addirittura giovanissimo. Senza dubbio, una figura singolare, quella di Galileo, la cui rappresentazione - come scrisse lo stesso autore nelle sue note riportate alla fine dell'edizione Einaudi che ho avuto occasione di leggere - "[...] non dovrebbe mirare a stabilire l'immedesimazione e la partecipazione del pubblico; si dovrebbe anzi lasciare il pubblico libero di assumere piuttosto un atteggiamento di stupore, di riflessione, di critica."

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    28 Settembre, 2022
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Il Nobel mancato

Un'opera immensa, in ogni senso!
Risulta molto difficile scrivere una recensione vera e propria, considerando appunto l'ampiezza e il contenuto di questo libro che raccoglie non soltanto la produzione poetica completa di Ungaretti (1888-1970), ma anche diverse parti in prosa, tra cui studi critici a firma di studiosi come Leone Piccioni, già curatore del volume, e Piero Bigongiari, e soprattutto una lunga nota dello stesso Poeta che risulta di grande interesse poiché egli vi racconta anzitutto le tappe principali della sua vita e della sua formazione culturale.
Mi è piaciuto moltissimo, in particolare, leggere i suoi ricordi legati all'infanzia e alla prima giovinezza trascorse ad Alessandria d'Egitto, città dove Ungaretti nacque da genitori toscani. E proprio la sua Africa, non a caso, si ritrova in vari componimenti di grande fascino.

Per quanto concerne la parte strettamente poetica, si va dalle raccolte "L'Allegria" (1914-1919) e "Sentimento del Tempo" (1919-1935) sino alle poesie disperse e a quelle di "Derniers jours" (1919). In genere, si è abituati a pensare alla poesia ungarettiana come caratterizzata da uno scrittura molto breve e di forte impatto, sullo stile dei celebri "Si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/ le foglie" ("Soldati", 1918) o "M'illumino/ d'immenso" ("Mattina", 1917); in realtà, agli anni e decenni successivi appartengono anche testi ben lunghi ed elaborati con tanto di metrica e rima, nonché alcuni dai versi decisamente prosastici.
Insomma, nell'insieme un'opera davvero ricca e variegata, quella di Ungaretti, affascinante e sorprendente! Un gigante tra i poeti del Novecento, e non solo a livello nazionale! Un autore da leggere e rileggere, imperdibile per tutti gli amanti della Poesia!

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    31 Agosto, 2022
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Racconti tra il fantastico e il reale

Un racconto - al di là della vicenda narrata quasi inverosimile - forse non eccezionale, ma che comunque si presta a una lettura anzitutto scorrevole, piacevole e, a tratti, non priva di qualche nota poetica di grande profondità. Colpisce molto la figura della giovane protagonista, figura "anfibia" che si divide tra terra e mare, sullo sfondo di una piccola isola greca e di un angolo del Mediterraneo, già di per sé affascinante e carico di miti antichi, in cui i delfini accolgono nel loro mondo, ancor meglio degli esseri umani, la piccola orfana.
In verità, più della "Storia di Irene", ho apprezzato ancor di più gli altri due racconti brevi racchiusi in questo stesso volumetto: "Il cielo in una stalla" e "Una cosa molto stupida": il primo è ambientato tra Sorrento e Capri sullo sfondo della seconda guerra mondiale ancora in pieno svolgimento con tutti i suoi orrori, attingendo alle memorie familiari dello scrittore medesimo; il secondo, a mio parere ancor più bello e toccante, trova invece ambientazione in una Napoli dove miseria e fame si rivelano spietate, mettendo in scena il dramma di un uomo anziano, magro e senza denti che ormai per la propria famiglia, insieme a cui abita, finisce per rappresentare soltanto un peso che sottrae risorse. Un bellissimo racconto, quest'ultimo, nel quale, malgrado il freddo pungente dell'inverno e complice una noce piovuta dal cielo, un po' di sole dona l'ultimo, insperato respiro di felicità.

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Libri per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Agosto, 2022
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Incompreso e vittima degli eventi

Pubblicato più di un secolo fa, "Il giornalino di Gian Burrasca" rientra a pieno titolo in quel genere di letteratura, destinata a un pubblico giovanile, che dall’Ottocento in poi, ebbe grande diffusione e fortuna. Si pensi alle avventure di Pinocchio di Collodi e a quelle di Ciuffettino di Yambo.
Anche Vamba, al secolo Luigi Bertelli (1860-1927), proprio come i due autori citati, era uno scrittore toscano; questo libro, uscito dapprima a puntate su una rivista per ragazzi, gli diede notevole fama e si rivelò un successo non soltanto in Italia. Tra queste pagine, la vicenda viene narrata in forma di diario e chi scrive in prima persona porta il nome di Giannino Stoppani, detto in famiglia Gian Burrasca a causa delle reiterate birbanterie che, una dietro l’altra, finiscono per costellare un’infanzia vissuta molto intensamente e senza possibilità alcuna di annoiarsi. Un vero tormento per i genitori e le tre sorelle più grandi, ma anche per gli altri parenti, inclusi quelli acquisiti! Ovunque vada e si giri, il bambino – di estrazione borghese – riesce a fare danni certi, mostrando una naturale e insanabile propensione a cacciarsi nei guai e a combinarne, come si suol dire, di tutti i colori, tant’è che qualcuno, a un certo punto della storia, gli urla contro quanto lui sia “peggio di Tiburzi”, il famoso brigante maremmano dell’Ottocento. Il padre prende così la decisione di schiaffare il figlio in collegio e poi, dopo ulteriori disastri, medita addirittura di rinchiuderlo in una casa di correzione. Ma Giannino si reputa incompreso e vittima degli eventi poiché agisce spesso a fin di bene, convinto che verità e giustizia debbano sempre trionfare; in effetti, diverse sue considerazioni stupiscono non poco in bocca a un ragazzino di nemmeno dieci anni e non mancano di mettere in luce la costante ipocrisia del mondo degli adulti.

"[...] Ma l'esperienza, purtroppo, mi avvertiva che i piccini, di fronte ai più grandi, hanno sempre torto, specialmente quando hanno ragione. [...]"

Fa da sfondo a questa narrazione molto movimentata e divertente, di ambientazione toscana (a eccezione di una parentesi romana), l’Italia d’inizio Novecento, quando le idee socialiste circolavano pian piano nella società (uno dei due cognati di Giannino ambisce a diventare deputato proprio con il partito socialista) e così pure le automobili e altre modernità dei nuovi tempi; la Grande guerra non aveva ancora fatto capolino nel vecchio continente stravolgendo la vita di tutti né si preannunciava il disastro dei decenni successivi al conflitto.
Una prosa scorrevole e coinvolgente seppur a distanza di oltre cent’anni, quella di Vamba. Una trama ricca di episodi scoppiettanti (è proprio il caso di dirlo!), alcuni dei quali particolarmente esilaranti e memorabili, nonché di personaggi d’ogni risma. Una lettura gradita tanto ai più giovani quanto agli adulti; del resto, fu lo stesso autore a dedicare l’opera “ai ragazzi d’Italia… perché lo facciano leggere ai loro genitori”. Un classico che sarebbe davvero un gran peccato perdersi!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Agosto, 2022
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L’Iran tra anni Cinquanta e Settanta

È l’Iran tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, con la sua storia da Mossadeq a Khomeini, a fare da sfondo alla vicenda narrata in questa bella opera prima di Nazanine Hozar, autrice della diaspora persiana che, nata a Teheran nel 1978, vive sin dall’infanzia in Canada.
Quello compreso tra l’ultimo scià e la Rivoluzione islamica, e tutto ciò che è seguito da allora sino alla più stretta attualità, è un periodo indagato da diversi autori iraniani, e non solo; il pensiero corre a Marjane Satrapi e al suo indimenticabile fumetto autobiografico “Persepolis”, ma anche all’americana Betty Mahmoody e alla sua drammatica testimonianza riportata nel noto best seller di fine anni Ottanta “Mai senza mia figlia”. La Hozar s’inserisce ora in questo lungo filone letterario e la sua Aria si rivela subito come un personaggio in cui sembra rispecchiarsi un Paese, la Persia appunto, in bilico fra tradizione - spesso culminante in arretratezza e degrado - e modernità, miseria e opulenza, Islam e altre culture religiose. Un ritratto ben riuscito che, attraverso una prosa corposa e coinvolgente, si presta a una lettura molto interessante per chi abbia la curiosità di approfondire la conoscenza di altri mondi.
La trama prende avvio dalla nascita e dal successivo abbandono della protagonista nell’inverno del 1953. Una piccola vita inerme buttata via tra neve e spazzatura a cui il destino, tuttavia, non nega un’opportunità di sopravvivenza e un nome insolito, anche se il percorso che la bambina dovrà affrontare, soprattutto nei primissimi anni, sarà irto di difficoltà. Fame e maltrattamenti, inframmezzati dal commovente amore di chi l’ha raccolta dalla strada e da un’amicizia sincera, scandiscono all’inizio un’infanzia trascorsa tra un balcone e le vie polverose della Teheran più popolare, per poi proseguire in altri scenari e con altre compagnie. Molto ben caratterizzati i personaggi che animano queste pagine, da quello della protagonista stessa a quelli (“buoni” e meno buoni) che, seppur non principali, giocano comunque un ruolo importante nello svolgimento della storia; in particolare, tra i vari, spiccano le figure rassicuranti di Behruz e di Massumeh che, a mio parere, risultano tra le più significative e degne di nota, così come, in un certo qual modo, lo è pure quella di Zahra.
L’esistenza di Aria e del suo microcosmo procede, anche con un inatteso colpo di scena all’inizio della terza parte, mentre tutt’intorno la situazione politica e sociale diviene a poco poco intollerabile scivolando sempre più verso una rivolta che sarà infine inevitabile e tragica come non mai. Questo romanzo, non a caso, mostra per bene come la sacrosanta reazione al dispotismo intollerabile (sostenuto dall’immancabile ipocrisia statunitense, non lo si dimentichi) della dinastia Pahlavi abbia finito per prendere una piega diversa da quella che ci si aspettava e come le aspettative di una larga parte degli oppositori siano state deluse quando hanno avuto la meglio le forze più retrograde e oscurantiste tra quelle scese in campo. E così la violenza dello scià e della sua temuta Savak viene sostituita, dopo il ritorno di Khomeini in patria, da quella teocratica degli ayatollah e dei loro pasdaran indottrinati sulla base di un Islam (di matrice sciita) rivisto e corretto che mette al bando la cravatta e impone il nero del chador. Una rivoluzione tradita, dunque, che anche per i personaggi di questo romanzo avrà esiti diversi e, a seconda dei casi, a dir poco drammatici.

“[…] Come possono arrestare noi quando sono loro che stanno in una prigione? Eh? […]”

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... altre opere (romanzi, fumetti, saggi e testimonianze) di ambientazione iraniana, ma non necessariamente.
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Romanzi autobiografici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Agosto, 2022
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La madre

Rachid Benzine è uno scrittore marocchino cresciuto in Francia, oggi cinquantenne, docente, islamologo e rappresentante di spicco dell'Islam francofono.
Anche il protagonista di questa sua prima opera di narrativa, pubblicata in Italia dalla casa editrice milanese Corbaccio nella primavera del 2021, è di origini marocchine e il tema dell'immigrazione tra queste pagine, non a caso, ha il suo imprescindibile peso; i genitori, diversi decenni addietro, hanno lasciato Zagora, nel centro-sud del Paese maghrebino, a ridosso del deserto (l'autore, invece è nativo di Kenitra, lungo la costa atlantica settentrionale). Al pari di Benzine, inoltre, fa il professore; con i libri ha iniziato ad avere a che fare sin dalla più tenera età, quando il padre rincasava con massicce quantità di carta sotto forma di pubblicazioni varie, forse destinate al macero, che raccoglieva al lavoro. D’improvviso, la madre si ritrova vedova e deve così lavorare il doppio, a casa e fuori, per sbarcare il lunario, mandare a scuola i numerosi figli e offrire loro un’esistenza dignitosa.
E proprio tale figura materna, l’altra indiscutibile protagonista, viene posta al centro di questa bella e coinvolgente narrazione: una povera donna araba, purtroppo analfabeta, spesso in difficoltà a capire e a esprimersi in lingua francese (lo scenario di ambientazione non è la Francia, ma il Belgio), profondamente umile e di nessuna pretesa, generosa e altruista nonostante la vita con lei sia stata durissima. Malgrado le difficoltà di tipo linguistico incontrate nel Paese d’accoglienza, ama la musica e impara le canzoni interpretate da artisti dell’epoca; con l’avanzare dell’età si appassiona, sorprendentemente, anche alla letteratura, in particolare a un romanzo ottocentesco che il professore, il solo a occuparsi di lei in quanto l’unico a non aver creato una propria famiglia mentre gli altri fratelli hanno tutti abbandonato il nido già in passato, inizia a un certo punto a leggerle regolarmente. Un appuntamento fisso, questo con la lettura ad alta voce, al quale l’anziana donna non sa rinunciare e che il figlio non se la sente di negarle.

«La pelle di zigrino di Balzac è il titolo del libro. Una vecchia edizione, così consumata che l’inchiostro dei caratteri si è sbiadito. Mia madre non sa leggere. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra opera. Chissà perché questa? Non lo so. Non l’ho mai saputo. Del resto, non lo sa nemmeno lei.»

Più che un romanzo, un lungo racconto “toccante – secondo il giudizio di Le Monde – e pieno di dolcezza”. Un vero e proprio canto d’amore, da parte di un figlio ormai adulto, nei confronti di una madre che, seppur analfabeta, si è rimboccata le maniche per dare a lui l’opportunità di studiare e vivere di letteratura. Un libro che regala un’ottima lettura, decisamente scorrevole grazie a una prosa molto bella, in cui l’io narrante cattura fin dalla prima pagina, e carica di riflessioni che alla fin fine, al di là della vicenda narrata, riguardano un po’ tutti; inaspettato, poi, e degno di nota il piccolo “scherzo” giocato in conclusione al lettore che sembra essere un invito a non sprecare e ad assaporare ogni singolo istante del tempo – non infinito, ahinoi! - a nostra disposizione
Una piacevole scoperta, per me, questa di Benzine, autore interessante la cui conoscenza è senza dubbio da approfondire!

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Luglio, 2022
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Ostafrika

Dopo “Sulla riva del mare” e “Paradiso”, prosegue la ripubblicazione dei romanzi di Abdulrazak Gurnah da parte della casa editrice La nave di Teseo. Ora è la volta di “Voci in fuga”, con cui ritorna in libreria nel nostro Paese il sorprendente Premio Nobel della Letteratura 2021, di nuovo tradotto da Alberto Cristofori.
Al pari dei precedenti due titoli dei mesi passati, anche quello uscito lo scorso giugno propone un’ambientazione swahili, sullo sfondo di quell’Africa orientale tanto cara all’autore non a caso originario di Zanzibar. La narrazione prende avvio intorno all’inizio del Novecento, quando l’area era in mano alla Germania imperiale che manteneva il proprio ferreo controllo sulla sua Ostafrika attraverso la spietata violenza della Schutztruppe, un vero e proprio esercito coloniale costituito da mercenari indigeni denominati askari e posto sotto il comando diretto di ufficiali tedeschi.

“[…] da quando hanno occupato questo territorio, i tedeschi hanno ucciso tanta di quella gente che il paese è costellato di teschi e di ossa e la terra è inzuppata di sangue.”

Tra i protagonisti del romanzo, Ilyas e Hamza si arruolarono volontari proprio nella Schutztruppe allorché pure nel continente nero la prima guerra mondiale reclamò i suoi assurdi teatri di morte. Dei due giovani uomini (che non si conosceranno mai in maniera diretta, ma avranno un punto di contatto in Afiya, sorella di uno e infine moglie dell’altro) soltanto Hamza tornerà per così dire a casa riemergendo dalle devastazioni della vita militare, mentre di Ilyas si perderanno del tutto le tracce e la sua scomparsa rappresenterà un mistero che aleggerà pesante sino alle pagine conclusive del libro, dove si potrà conoscere la sorte dell’askaro dopo la fine del conflitto e l’uscita di scena dei tedeschi con pronta sostituzione, in quegli stessi luoghi, da parte dei britannici. La trama abbraccia a poco a poco diversi personaggi, tra principali e secondari, le cui vicende finiscono per intersecarsi e restare indissolubilmente legate le une alle altre.
Pubblicato per la prima volta nel 2020 in lingua originale con un titolo, “Afterlives”, ben più evocativo rispetto a quello scelto in sede di traduzione italiana, “Voci in fuga” non è, a mio parere, tra i migliori scritti di Gurnah. Al lettore attento che abbia già avuto modo di appassionarsi alle storie narrate nelle due sopraccitate pubblicazioni non passerà inosservata, nell’incipit in senso lato, qualche nota stonata che rende la prosa a tratti un poco confusa, lontana dal fascino di quella a cui lo scrittore tanzaniano ci aveva abituati; inoltre, si registra l’assenza di un glossario che avrebbe potuto essere, come in “Paradiso”, un valido aiuto per comprendere con esattezza numerose parole ed espressioni in swahili disseminate qua e là nel testo. La narrazione, procedendo, si riprende a poco a poco e finalmente, dopo qualche decina di pagine, inizia a diventare più coinvolgente a partire dal racconto di Afiya bambina, finché non cattura del tutto man mano che si seguono dentro e fuori la Schutztruppe le vicissitudini di Hamza (nelle quali si ritroverà, non senza sorpresa, quelle dell'indimenticabile Yusuf protagonista di “Paradiso, sin dove lo avevamo lasciato). Allora si riconosce il vecchio stile di Gurnah, il suo modo di narrare ordinato e suggestivo, degno di antichi cantastorie, che d’improvviso ci trasporta in un mondo ricco di echi culturali davvero interessanti. Intanto, la storia prosegue, accompagnata dalla grande Storia che scivola in modo sempre più inesorabile verso nuove invasioni e nuovi conflitti; sarà a questo punto, a solo una cinquantina di pagine dalla conclusione, che si comprenderà il significato profondo del titolo originale inglese, quando inizieranno i “sussurri” del piccolo Ilyas, il figlio di Hamza e Afiya chiamato con lo stesso nome dello zio scomparso anni prima della sua nascita.
Purtroppo, l’ultimissima parte, quella che – come preannunciato – conduce infine a svelare quanto accaduto all’Ilyas askaro, cade in una sorta di esposizione fredda e frettolosa che stride decisamente con tutto quel lungo, precedente intermezzo molto ben riuscito dallo stile inconfondibile dell’autore. Nel complesso, un libro che merita comunque di essere letto, seppur non la miglior prova di Abdulrazak Gurnah. Un romanzo, “Voci in fuga”, che a sua volta non manca di puntare il dito contro la brutalità del colonialismo e della guerra in generale, arricchendo senza dubbio le conoscenze dei lettori occidentali su quell’affascinante zona dell’Africa orientale e la sua variegata storia.

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Libri per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Luglio, 2022
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"quando si nasce cipolle, le lacrime sono di casa"

Pubblicato per la prima volta nel 1951 dalle Edizioni di Cultura Sociale, questo romanzo di Gianni Rodari prese nel ’57 il titolo definitivo "Le avventure di Cipollino" presso la casa editrice romana Editori Riuniti che lo ha ripubblicato anche in anni recenti.
Quello di Cipollino, personaggio decisamente originale nato dalla fantasiosa penna di Gianni Rodari (1920-1980), fu un vero successo a livello internazionale poiché il libro è stato tradotto in numerose lingue, tra le quali russo, cinese, giapponese e addirittura armeno e mongolo. In particolare, nei Paesi al di là della Cortina di ferro, la fortuna di cui poté godere il romanzo fu enorme, tant’è che, nell’URSS, dov’era giunto già nel 1953, da esso venne tratto un cartone animato di lungo metraggio e persino una commedia.
Al centro della elaborata trama dell’opera, soprusi, avidità, sfruttamento e brama di potere sullo sfondo di una curiosa società di tipo vegetale popolata d’ogni sorta di frutta e ortaggi (limoni, mandarini, ciliegie, pere, zucchine, piselli, prezzemolo, pomodori e, naturalmente, cipolle, etc.), senza escludere alcune figure animali come nella migliore tradizione favolistica. Il desiderio di riscatto e giustizia porta a una vera e propria rivolta al fine di sovvertire l’iniquo e aristocratico ordine costituito e costruire pertanto un mondo più giusto per i ceti popolari; dunque, la lotta di classe e altri concetti cari al comunismo non sono estranei a questo significativo lavoro di Rodari, il quale, come noto, ancor prima della fine del secondo conflitto mondiale, si era avvicinato al Partito Comunista italiano.
Un classico destinato principalmente ai giovanissimi lettori, che non potranno non restare colpiti da personaggi come quello del medesimo protagonista, lo scaltro Cipollino, o quelli del Cavalier Pomodoro, Ciliegino, sor Zucchina e tanti altri. Una bella e piacevole lettura, tuttavia, anche per gli adulti interessati a (ri)scoprire Gianni Rodari.

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Fumetti
 
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4.0
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Luglio, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

Romanzo a fumetti

Veramente molto carino questo fumetto, trovato per puro caso mentre curiosavo in biblioteca!
Non conoscevo l'autrice, Vera Brosgol, fumettista russa, classe 1984, che vive in America fin dall'infanzia.
E di nazionalità russa, non a caso, è la protagonista del suo libro, Anya, un'adolescente alle prese con i problemi della sua età (anzitutto, l'ossessione legata al peso e al corpo, la mancanza di amicizie) a cui si aggiungono quelli che riguardano le proprie origini straniere vissute in un altro paese; tra le righe, dunque, si parla anche di integrazione.
E poi c'è Emily che spunta all'improvviso dall'abisso del tempo: un'occasione preziosa, per Anya, per confrontarsi con se stessa, accettarsi e maturare, anche se, talvolta, verità terribili si nascondono dietro un'apparente innocenza.
Personaggi molto ben caratterizzati, quello di Emily incluso, e tavole davvero belle da cui emerge la potenza comunicativa della Brosgol. Storia coinvolgente che cattura fin dalle prime pagine, adatta a un pubblico giovane, ma - secondo me - non certo giovanissimo, e forse ancor di più a uno già adulto. Da leggere!

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