Opinione scritta da liaall
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UNA CASA DI FEMMINE
Una casa di femmine. Tre generazioni di uno stesso albero genealogico: Teresa, Rusì, Flora, Irene e Nina, l’erede. È l’erede in quanto la minore, figlia e nipote, eredità di sangue, di linfa intrisa di magico e superstizioso.
Nella "casa del fico" giunge anche la femmina Pilar, la peruviana, maestra di rituali imposti dai suoi geni indigeni.
Al centro del salotto, un letto pieno di fronzoli e Teresa, che nella sua immobilità muove e smuove tutto e tutti, con quel suo modo un po’ rude accende la miccia del narrarsi, mette in moto emozioni recondite che svelano la storia delle protagoniste.
È un romanzo di sensazioni, di visioni.
Ognuna delle femmine vede, a suo modo. È un vedere attraverso le cose e le persone, è profondo, è guardare alla trama, al DNA, ai fili rossi. Ognuna possiede la propria chiaroveggenza, chi la fotografia, chi i sogni, chi le pagine di un libro o degli amuleti.
“Chi nasceva con dodici dita aveva il dono di vedere […] le tue dita sono ancora lì.”
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Scacco morto
Lo "scapigliato" Arrigo Boito scriveva nel 1867 il racconto “L'alfier nero”: una partita a scacchi, il nero e il bianco della scacchiera, il nero e il bianco della pelle dei due avversari, due mondi che si scontrano, la notte e il giorno, la luce e il buio, sfondo di una partita, di un duello, quello tra la vita e la morte.
A distanza di più di un secolo Paolo Maurensig, dimostrando una conoscenza del gioco degli scacchi da teorico, cattura l'attenzione del lettore attraverso le pagine de "La Variante di Luneburg".
Uno scritto dal ritmo incalzante, dal taglio meravigliosamente descrittivo, dall’intreccio dal sapore cinematografico.
La metafora rassomiglia a quella dell'ottocentesco Boito, ma risulta assai arricchita dalla storia del Novecento, dal peso sulla coscienza degli uomini del mattatoio nazista.
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Ancora un'altra scena supplicò il regista
Un regista ha sempre un altro film da realizzare.
È forse il vizio degli artisti, quello di essere inesauribili: il genio artistico non ha nulla a che fare con il limitato, con il finito, se c’è, ce ne sarà per sempre, diciamo uno di quei giacimenti che se lo scopri diventi infinitamente ricco.
Immaginiamo allora un regista vecchio quasi paralitico, malato, per di più non autosufficiente, che aspetta solo il suo ultimo giorno, ma con la mente e l’ironia di sempre, perché quella non è soggetta a decadimento senile.
La sua carriera è stata bella, lunga e di ricca di riconoscimenti, di denaro, piena di adulazioni, di sesso e di belle donne. E poi arriva Zee.
Unica Zee, la moglie Zee.
Ma Zee è una donna piena di problemi e contraddizioni, che a sessanta anni ha un marito vecchio e disabile da accudire. Ha molti soldi, si, ma la noia? Il sesso? La femminilità?
Entra nell’inquadratura l’attore Eddie, adulatore del regista per mestiere, senza né arte e né parte, una specie di accattone negli ambienti della Londra bene, divorziato e psicologicamente labile, dalla problematica infanzia. Eddie è alla costante ricerca di denaro. La sua equazione è semplice: trova una donna, falla innamorare della tua presenza e del sesso, parlale dei tuoi progetti facendo finta di coinvolgerla e potrai chiederle tutto ció che vuoi.
Eddie vuole fare il mantenuto e Zee puó essere il suo portafoglio.
Il regista osserva attentamente i suoi attori, li ascolta, li perseguita, architetta marchingegni, tutto per il suo film testamento.
L’ultima messa in scena del regista Waldo è amatoriale, i protagonisti sono lui, la moglie e Eddie in un intreccio vietato ai minori.
Solo così può morire in pace, perché ha deciso che nel suo ultimo film il protagonista muore.
Il gusto del voyeur è connaturato allo sguardo del regista o dello scrittore, entrambi spiano incessantemente le vite degli altri, le stendono, le mescolano, le stravolgono, le intrecciano, continuano la scena laddove realmente termina.
La scrittura intrisa di profumo cinematografico tradisce le qualità di Hanif Kureishi, sceneggiatore di alcuni film di Stephen Frears e di Roger Michell:
oltre ad essere pagine di un romanzo, sono scene ben collegate come sequenze di un film.
Non c’è lentezza o monotonia ma un flusso di eventi scorrevole.
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Un sentimento molto comune
«Sono molte le piccole cose che uniscono marito e moglie, tra queste, per esempio, andare da Wilton’s a colazione e ordinare ogni volta le stesse cose, sperare che ci sia sempre la stessa sogliola alla griglia, lo stesso pane nero, la purea di spinaci, lo Chablis gelato, un pezzo di Stilton da mangiare con il sedano e un bicchiere di Porto. Il matrimonio non è la novità, ma non è detto che anche le persone più curiose preferiscano solo la novità. Si è affezionati alle cose usate, rammendate, riparate, perché sono diventate davvero nostre»
Protagonista e narratore del romanzo è l’invidia che si insinua nell’animo dello scrittore nei confronti di un famoso artista: un sentimento che nasce dapprima come curiosità giornalistica e che ben presto evolve in una vera e propria ossessione.
Diventa invidia quando lo scrittore inizia a doversi confrontare con le qualità da artista dello sfuggente Julian Sax: il talento, la libertà, l’effetto sulle donne di Sax mettono in moto il flusso di coscienza dello scrittore, soprattutto nel momento in cui sarà sua moglie a organizzare l’ impossibile incontro con l’artista da Tony’s, una sala da te londinese, dove Sax passa del tempo, spesso accompagnato da donne, figli e amici.
La scrittura di Alain Elkann è dinamica, leggera e realistica così come il suo contenuto, scandito da un tempo letterario estremamente moderno e fluido come quello della vita.
Fermo immagine sui dettagli, anche insensati, ma quelli concreti del quotidiano, senza dilungarsi sulla contemplazione di questioni etiche. Potrebbe essere il soggetto ideale per una sceneggiatura di un film.
Con L’invidia lo scrittore Alain Elkann si aggiudica il Premio Mondello 2016.
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L'esule Jean Lino
“Quando Jean Lino era piccolo, ogni tanto dopo cena suo padre prendeva il libro dei Salmi e leggeva un passo ad alta voce [..] «Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion».”
È il salmo 136 pervaso di dolore e di nostalgia per qualcosa che si è perso, è il canto degli esuli.
Gli uomini hanno sempre perso qualcosa o hanno sempre qualcosa da perdere.
“Non sono i grandi tradimenti a provocare la malinconia, ma il ripetersi di perdite infime.”
Èlisabeth ha un vicino di casa, un marito, una sorella, una madre che muore, spesso soffre della malattia dei ricordi.
Ha dei giorni si e dei giorni in cui subisce la minaccia del tempo, l’ansia di non poterlo fermare o tornare indietro, con la sensazione di averne perso un pezzo.
“Certi giorni, quando mi sveglio, la mia età mi prende alla gola. La nostra giovinezza è morta. Non saremo mai più giovani. È questo mai più che è vertiginoso.”
Jean Lino ha una vicina di casa, una compagna hippie, pseudo vegetariana, cantante jazz e un gatto Edoardo, che come si intuisce dal nome, comprende solo l’italiano.
Un uomo allegro ma non troppo, attento, che vive senza fare troppo rumore.
Una sera, una festa: tartine, cocktail, risate forzate, argomenti mancanti, silenzi imbarazzanti.
Tutti vanno via, la festa è finita.
Un omicidio nella notte, ma senza aloni di mistero, subito confessato.
I due vicini si incontrano e si scambiano bocconi di umanità nuda, senza filtri, istintiva e bestiale, con fuorviante naturalezza.
Una forma delicata e calma avvolge l’intreccio. L’autrice Yasmine Reza sottolinea così l’umana spontaneità dei gesti e delle parole, persino dell’omicidio che è sotto gli occhi di tutti un istinto, seppur moralmente deprecabile, dell’uomo.
Jean Lino è uno di noi: gli scatti d’ira e di impazienza nascono proprio dalle situazioni meno drammatiche e da quelle che appaiono più insignificanti, le classiche gocce che fanno traboccare un vaso bello pieno di vita, di sopportazione e di incomprensioni.
Èlisabeth è una donna che si presenta fin da subito come poco eccezionale ma profondamente portata per l’umanità. Comprende e accetta il gesto di Jean Lino.
Quello che il conoscente ha commesso non cancella il ricordo del Jean Lino conosciuto e frequentato, anche piacevolmente, nei giorni precedenti.
Non ha paura, anzi, quasi lo compatisce, non con quel senso di pietà tipico del sentimento comune bensì secondo il significato del termine compatire, soffrire e sopportare insieme.
È come se Èlisabeth dicesse “sarei stata capace di farlo anche io, tranquillo”.
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Agostino non sei più un bambino
Alberto Moravia ha affermato più volte, durante i suoi scambi intellettuali con vari autori a lui contemporanei, che un buon autore che vuol dirsi realista non può prescindere dalla conoscenza di coloro che hanno tolto il velo scuro davanti agli occhi degli uomini: Marx e Freud. Essi hanno destato l’uomo dallo stato di ingenuità torbida nella quale e attraverso la quale vivevano i rapporti familiari, sessuali ed economici.
Sono proprio i rapporti familiari a non essere tanto innocenti poiché celavano macchinazioni inconsce di matrice sessuale.
Nel mese di agosto del 1942 a Capri, Moravia scrive Agostino che per lo scrittore «fu il punto di partenza di tutta la mia opera successiva e la conclusione del lungo travaglio dopo Gli Indifferenti» in pratica «la cerniera che congiunge Gli Indifferenti ai miei libri successivi».
Il romanzo è vittima della censura fascista, viene pubblicato due anni dopo, nel 1944, dalla casa editrice Documento (pubblicato poi da Bompiani nel marzo del 1945) dell’amico Federico Valli, in 500 copie con illustrazioni del pittore Renato Guttuso.
Agostino è un ingenuo, per certi versi goffo, ragazzino borghese, in vacanza con la madre sulle spiagge della Versilia. Sta diventando adolescente e non si identifica più con il ruolo di bambino che la madre continua ad attribuirgli, ma non riesce nemmeno a sentirsi un uomo adulto, a scoprire e ad accettare la sua nuova identità.
In vacanza scopre la sessualità, i propri istinti sessuali ma anche quelli di coloro che lo circondano, che in più di un’occasione non sono così naturali o puliti. Moravia non ha nessun problema a eliminare i filtri “vietato ai minori” dai tabù sessuali, dall’incesto, dalla prostituzione o dal rapporto madre-figlio che non è e che non può essere più inconsapevolmente innocente dopo alcune scoperte di Agostino, più che scoperte, imbarazzanti rivelazioni da parte del suo gruppo di "amici".
"E parlando lentamente e aiutandosi con gesti efficaci ma privi, si sarebbe detto, di volgarità, spiegò ad Agostino ciò che gli pareva di aver sempre saputo e come per un profondo sonno dimenticato. La sua spiegazione fu seguita da altre dimostrazioni meno sobrie."
Anche qui, come in molti romanzi successivi, si sviluppa nel protagonista borghese un’oscura attrazione per le classi inferiori e per i loro atteggiamenti: Agostino è attratto dal gruppo di ragazzini proletari e sottoproletari della banda del vecchio Saro, tanto è che prova in tutti i modi, anche contro la propria volontà, a integrarsi e a emularli.
"Egli era ricco, sembrava che i ragazzi volessero significare con la loro umiliante e spietata condotta; dunque che c’era di sorprendente che fosse anche corrotto? Agostino fece presto a scoprire quale sottile correlazione esistesse tra le due accuse; e comprese oscuramente che pagava in tal modo la sua diversità e la sua superiorità.
Apposta prese a indossare i vestiti più logori e brutti che possedesse […] Apposta smise di parlare di casa sua e delle sue ricchezze; e apposta ostentò di apprezzare e gustare quei modi e quelle abitudini che tuttora lo inorridivano."
Ma non ci riesce.
Si sradica da una classe, quella borghese che gli appartiene per natura, senza riuscire ad entrare nell’altra, il sottoproletariato. Agostino è costretto in una sorta di limbo, quello dell’estraneità, dell’alienazione, dell’esclusione e dell’umiliazione.
"Così si trovava ad avere perduto la primitiva condizione senza per questo essere riuscito ad acquistarne un’altra."
La scoperta del sesso lo allontana da sua madre, il rapporto muta da uno stadio di affetto, ingenuità, inconsapevolezza e attaccamento alla figura materna
"Agostino provava un sentimento di fierezza ogni volta che si imbarcava con lei per una di quelle gite mattutine. Gli pareva che tutti i bagnanti della spiaggia li osservassero ammirando sua madre e invidiando lui; convinto di aver addosso tutti gli sguardi, gli sembrava di parlare con una voce più forte del solito, di gestire in una maniera particolare, di essere avvolto da un’aria teatrale ed esemplare come se, invece che sopra una spiaggia, si fosse trovato con la madre sopra una ribalta, sotto gli occhi attenti di centinaia di spettatori. […] Ma ancora a lungo restavano nel suo animo il turbamento e l’infatuazione di questa sua filiale vanità."
ad uno di malizia, gelosia, imbarazzo, rabbia e perversione.
"Gli sembrava talvolta di essere il bambino di un tempo, pauroso di qualche rumore, di qualche ombra, che ad un tratto si alzava e correva a rifugiarsi presso il letto materno; ma nel momento stesso che metteva i piedi in terra, pur tra la confusione del sonno, si accorgeva che quella paura nient’altro era che curiosità maliziosamente mascherata e che quella visita notturna avrebbe presto fatto, una volta che si fosse trovato nelle braccia della madre a rivelare i suoi veri nascosti scopi."
Se lo si legge nelle sue pieghe più profonde, il romanzo, più che essere classificato nella tradizione dei riti di passaggio o del “Bildungsroman”, è qualcosa di più: l'esplorazione dell'esistenza declinata e vissuta secondo i sensi di un adolescente, appena affacciatosi alla pubertà, che spera ancora in futuro diverso.
"Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse."
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Quando l'azione non è più una soluzione
"La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente […]; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere."
Secondo Alberto Moravia la noia è la mancanza di rapporto tra l’uomo e le cose, l’incomunicabilità con la realtà circostante e Dino, il protagonista del suo romanzo, ne soffre da quando era bambino.
"Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; […] sopraffatto dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto."
Dino è nato in una famiglia romana ricchissima e nella sua vita ci sono essenzialmente tre cose: sua madre, la pittura e i soldi di famiglia. Ma come tutti i protagonisti delle opere di Alberto Moravia, sta stretto nei suoi panni di ricco borghese romano e allora si traveste, rifiuta il denaro e la villa di sua madre, va a vivere in un appartamento in via Margutta, la via romana dei poeti e degli artisti, indossa vestiti da squattrinato e si rifugia nell’arte della pittura. Presto si rende conto che quel travestimento non significa altro che continuare a tradirsi: Dino deve uscire a tutti i costi dalla sua condizione che pesa come un macigno sulle sue spalle borghesi di nascita. Smette di dipingere, negli ultimi tempi lo aveva fatto per noia, frequenta una ragazza del popolo, una modella di un vecchio pittore defunto, Cecilia, pensando che lei rappresenti in qualche modo la purezza e l’ingenuità del popolo e del proletariato, che badi agli istinti naturali e non alle costrizioni borghesi, che non guardi al denaro o al sesso ma amaramente scopre che anche il popolo ha le stesse “malattie” dei ricchi borghesi. Cecilia ama a modo suo Dino, Cecilia appare e scompare, gli sfugge così come la realtà, le piace l’odore dei soldi che Dino le regala ogni volta dopo il sesso, dove lei si rivela una dominatrice e non una dominata, e in questo Dino, sotto consiglio di Freud, che è onnipresente nell’opera di Moravia, ci leggerà che quella giovane ragazza del popolo è affamata più di quanto potesse pensare, tanto è che si stanca presto di Dino, povero per finta, che cercherà di comprarla fino alla fine riscoprendo il valore dei suoi soldi, della bella villa, della madre assillante. Ormai Cecilia è innamorata di un attraente attore romano che la corteggia animatamente, che le promette belle cose. Magistrale per modernità e integrazione tra le arti, in questo caso tra pittura, cinema e letteratura, è la scena simbolica in cui Cecilia, nuda sul letto, viene ricoperta interamente di soldi da Dino, una sua idea da pittore «scaturita dalla somiglianza del suo atteggiamento con quello di Danae».
È bene tener conto anche della stranezza del sentimento amoroso di Dino nei confronti di Cecilia: continuamente si intuisce una contraddittorietà di fondo in quello che forse è l’amore che prova, ma che non si sa se è amore.
"Capivo infatti che, fino a quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi e soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato."
Dino sull’orlo del precipizio decide di farla finita, non dovrà più guardare a quello spettacolo amoroso e soprattutto non dovrà più vestire panni che non sono i suoi. Qualcosa però non funziona e quello che doveva essere un suicidio liberatorio, si rivela uno stupido incidente che lo costringerà a pensare ancora e ancora, fino a quando concepisce l’unica via d’uscita dal suo dramma: la contemplazione passiva della vita che scorre poiché l’azione non è una soluzione vincente.
È questa la scappatoia per un uomo che nasce nella borghesia e non ci vuole rimanere, non ha via di scampo, non si può scappare da quella classe.
Dino scopre che il rapporto tra lui e le cose è offuscato dai valori sociali che complicano i comportamenti umani, amplificandone la falsità e l’ambiguità, che la cultura, portatrice di quei valori, è solo un ostacolo alla vera conoscenza delle cose e della realtà, diventa d’intralcio e di conseguenza anche l’intellettuale borghese, che la diffonde e la rappresenta, non gioca più nessun ruolo.
Dino è riuscito paradossalmente laddove non ce l’aveva fatta Michele Ardengo de Gli Indifferenti e forse dove non riuscirà nel 1978 neanche Desideria nonostante La vita interiore sia l’enciclopedia di tutti i casi umani immaginati da Alberto Moravia.
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La voce di Marianna Ucria
È una lunga vita quella di Marianna Ucria, nobildonna siciliana, scandita da un tempo fisico, quello proprio degli stadi fisiologici dell’esistenza di qualsiasi specie, e da un tempo metafisico, che va aldilà dei suoi anni e degli spazi in cui Marianna vive.
La peculiarità di Marianna Ucria, che riecheggia nelle pagine come la sua “mutilazione”, è il suo sordomutismo, che nel XVIII secolo è una menomazione insormontabile.
Le derivanti difficoltà non sono ciò che si percepisce leggendo il romanzo o comunque non è il focus della storia.
Il lettore è fin da subito colpito dall’intensità emotiva delle descrizioni, dai sentimenti, dalle impressioni di una Marianna bambina, figlia, donna, madre, moglie.
Una mancanza evolve in un’aggiunta, in un surplus ai suoi sensi, alla sua capacità di essere umana: la mente di Marianna si perde nelle voci e nei pensieri di chi la circonda, li scruta e così li vive.
Il fatto che non possa ascoltarli, comprenderli, non è un ostacolo ma un’abilità attraverso cui Marianna strappa il velo dell’ipocrisia, toglie la maschera con cui gli altri si presentano e il mondo degli uomini le si offre privo di filtri.
Dacia Maraini scrive un romanzo che possiede l’oggettività di una pagina da manuale di storia senza però avere la pretesa dell’insegnamento e la pesantezza dell’erudizione: la storicità del periodo viene rispettata ed esaltata dalle scelte della scrittrice, non c’è l’ombra di esagerazione o di sentimentalismi.
L’amore è vissuto in una certa maniera, senza cadere in romanzeschi intrecci.
Grazie ad una infallibile accuratezza nei dettagli e ad un gusto per l’etnografia e per il viaggio, Dacia Maraini disegna i paesaggi e gli interni attraverso un quadro perfetto tanto che il lettore riesce a rivedere tutto con i propri occhi.
Come la lente di un antiquario, la penna dell’autrice si poggia sui dettagli culinari, sulle ricette, sui rimedi, sugli abiti, sulle abitudini della gente nobile e povera della Sicilia della prima metà del 1700: il contenuto è racchiuso in una forma stilistica aderente ai tempi, alla lingua e al dialetto siciliano, è un lessico reale “verista”.
Ricorrente è il tributo alla filosofia e alle idee dell’inglese David Hume, incoraggiamento per la nobildonna a non essere fedele alla religione della credenza.
Ma la prova concreta della storicità del romanzo sta proprio in un fatto della trama: non svelare a Marianna della violenza subita, dell’incesto perpetrato dallo “zio marito” quando era molto piccola, un segreto custodito da un padre tanto amato, che ha causato il sordomutismo alla piccola Ucria.
L’incesto così come l’omertà familiare erano fatti comuni a quel tempo e svelarli avrebbe tradito la veridicità di molti avvenimenti del periodo.
L’unico fatto romanzesco è inconfutabile: il silenzio di Marianna lascia spazio alla voce del cuore e di una mente con le prospettive e i desideri di una donna del Duemila, perché l’universo dei sentimenti umani non conosce i limiti del tempo.
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