Opinione scritta da La Lettrice Raffinata
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Avessi voluto un romance, mi sarei letta un romanc
Più di un mese. Ecco quanto mi ci è voluto per venire a capo di "Un piccolo odio", con mia somma vergogna. Non tanto per l'incredibile lentezza con cui ho affrontato la lettura, quanto perché ho desiderato per anni recuperare questa serie (che sembrava scomparsa in Italia) della quale ho sempre sentito parlare in modo molto positivo; e quanto finalmente la posso iniziare, mi passa la voglia!?! Potremmo definirla crudele ironia, ma ci sono anche delle ragioni concrete, che andrò ad analizzare in questa recensione.
La narrazione si colloca vent'otto anni dopo la conclusione della trilogia originale e quindici dopo gli eventi di "Red Country" -l'ultimo dei sequel autoconclusivi-, infatti il cast è composto per una buona fetta dai figli dei personaggi protagonisti nei volumi precedenti. Oltre ai soliti POV occasionali, seguiamo ben sette prospettive divise tra due continenti. Al nord è scoppiata una nuova guerra tra gli alleati dell'Unione ed i Nordici che, sotto il vessillo del futuro sovrano Crepuscolo il Possente, hanno invaso il protettorato di Mastino. Nel frattempo il Midderland è scosso dalle rivolte degli Spezzatori e degli Incendiari, sobillati dal misterioso Tessitore contro lo strapotere di nobili ed imprenditori, che sfruttano le nuove tecnologie per aumentare i profitti a discapito delle classi più umili.
Quello dell'ingiustizia sociale è uno dei temi centrali del romanzo, e devo dire di averlo apprezzato parecchio: posso immaginarlo più rilevante nei seguiti, ma già qui ci sono delle solide basi di malcontento sulle quali costruire i conflitti futuri. Al fianco delle tematiche di maggiore attualità, l'autore continua a dare spazio alle sfaccettature dell'animo umano, parlando di dipendenze (emotive e da sostanze), conflitti familiari e generazionali, elaborazione dei propri traumi e relazioni tossiche. Ovviamente questo viene trattato in modo più o meno approfondito in base alla rilevanza del POV di turno, alcuni dei quali hanno un enorme potenziale (e penso in particolare all'ambigua Teufel) in parte mortificato dal poco spazio a loro disposizione.
Come sempre, la prosa del caro Joe mi ha convinto per merito del suo piglio caustico e pungente, che riesce sempre a mettere a nudo le contraddizioni dei personaggi. Ciò viene reso in modo particolarmente brillante nelle frasi e nelle scene speculari, adottando delle anafore oppure mostrando la medesima interazione attraverso due diverse prospettive. Ritornano anche le scene in multi-POV, tra le quali la mia preferita: il racconto della sommossa a Valbeck, con un intreccio magistrale di caratteri ed esperienze, spesso in netto contrasto a discapito di quanto appare.
Ma allora cosa mi ha reso tanto ostico proseguire in questa storia? a parte il peso fisico del volume, da non sottovalutazione comunque! Per l'ennesima volta mi devo lamentare dell'edizione italiana, che sarà anche impeccabile dal punto di vista estetico ma lascia parecchio a desiderare nei contenuti: tra refusi di battitura, calchi dall'inglese e sviste grammaticali, la traduzione frena inevitabilmente la lettura perché risulta impossibile ignorate tutti questi errori. Sono poi presenti alcuni termini decisamente fuori posto nel contesto in cui è ambientato il libro, come il carnevale o il sabba, che non saprei onestamente se siano da imputare all'eccessiva creatività dell'autore o alla sciatteria del traduttore.
In ogni caso, Abercrombie deve sicuramente rispondere per la propensione a copiare i suoi stessi caratteri (Grosso è un novello Logen tanto quanto Leo ricorda Jezal, giusto per citarne un paio) e per la prevedibilità dei colpi di scena -specialmente dal punto di vista di una lettrice affezionata come la sottoscritta- che si possono azzeccare con capitoli e capitoli di anticipo senza troppa difficoltà. Passando ai difetti più soggettivi, seppur li abbia apprezzati tutti i qualche modo avrei preferito un numero più limitato di POV, mi sarebbe inoltre piaciuto capire meglio come le modernità introdotte abbiano cambiato il modo di vivere dei personaggi, e ho mal tollerato tutte le parentesi romantiche, che in più momenti mi hanno ricordato delle soap opera, sconfinando nel cringe. Dopo il risultato discutibile di "Mezzo mondo", sul lato romance il caro Joe dimostra di avere ancora molto su cui lavorare.
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Cozy mystery ante litteram
A quanto pare il mio proposito di dare spazio alle serie è sopravvissuto giusto un filino in più delle diete iniziate il 2 gennaio. Infatti, dopo aver letto solo titoli autoconclusivi in febbraio, al momento di scegliere con che libro iniziare marzo ho ignorato la mia tanto agognata copia di "Un piccolo odio" (in lettura da settimane!) per il più rilassante "La quiche letale", primo capitolo nella lunga serie di avventure della detective dilettante Agatha Raisin.
L'ambientazione principale del romanzo è il villaggio fittizio di Carsely, nel Gloucestershire. Dopo aver venduto la sua ditta di PR, la neo pensionata Agatha "Aggie" Raisin decide di trasferirsi qui per coronare un sogno d'infanzia dopo anni trascorsi nel caos della metropoli londinese. La donna fatica però ad integrarsi, in parte per la freddezza dei compaesani ed in parte per la sua indole prepotente; un concorso culinario le sembra quindi una buona idea per aumentare la propria popolarità. Peccato che il giudice muoia dopo aver mangiato la quiche presentata da Agatha alla competizione, portando alla sua porta le forze dell'ordine anziché l'affetto dei vicini.
Potrete facilmente intuire come i rimandi al classico giallo deduttivo non manchino ed in alcuni casi siano incredibilmente palesi, ad esempio la protagonista stessa legge con passione i romanzi della sua omonima Christie. Beaton dà però un tocco di novità al solito murder mystery, grazie ad una prosa fresca ed irriverente -a tratti quasi informale-, che risulta efficacie nelle scene comiche in cui si sfocia in una specie di commedia degli equivoci, senza per questo scadere nel ridicolo: ho trovato l'umorismo valido e ben amalgamato alla storia.
La cara Marion ci regala poi una protagonista che, pur dimostrandosi intraprendente e dotata di intuito, è molto lontana dallo stilema del detective inglese vecchia scuola. Agatha è una donna risoluta e con ben pochi scrupoli quando ha un obiettivo in mente, ma non manca di mostrare anche il suo lato più sensibile e generoso verso gli amici. Nel complesso sono contenta di essermi imbattuta in una personaggia sveglia dopo aver sopportato non pochi protagonisti rintronati nelle mie ultime letture, ed il resto del cast non si dimostra da meno: in particolare, ho apprezzato l'ambiguità di diversi comprimari che rendono più affascinante l'intreccio.
Tra i punti a favore non può che rientrare anche l'ambientazione, perché l'autrice infonde un grande impregno nel descrivere le cittadine, i paesaggi e le abitazioni stesse delle Cotswolds. Un luogo che trasmette serenità, ed influenza così anche il ritmo narrativo, rendendolo allo stesso modo placido. Decisamente un libro da evitare se si cerca una storia maggiormente indirizzata verso il brivido del thriller, ma del tutto adeguato alla sottoscritta che desiderava invece una lettura rilassante sotto ogni punto di vista.
Qualche critica però la devo fare, per correttezza. Innanzitutto, il testo è macchiato qui e là da alcuni stereotipi un po' datati, probabilmente perché negli anni Novanta era normale dipingere i personaggi gay nel modo più effeminato possibile per poi trasformarli in seriosi uomini d'affari non appena trovavano una fidanzata compiacente. Un altro aspetto che avrei cambiato è la risoluzione finale, per i miei gusti fin troppo semplice e priva di complicazioni sul piano pratico: l'arresto e la confessione dell'assassino si risolvono come per magia fuori pagina.
Mi rendo poi conto che questo è solo il primo capitolo in una serie, nel corso della quale immagino una crescita ed un approfondimento per i vari personaggi, ma ho trovato a dir poco inutili alcuni caratteri e linee di trama. Perché mai l'autrice dà tanta importanza a Sheila Barr, scontrosa vicina di Agatha, ed al suo trasferimento? perché introdurre un potenziale interesse amoroso ad oltre metà volume solo per rubare spazio all'intreccio vero e proprio? perché non chiarire mai la sottotrama delle premiazioni ai concorsi? Ma soprattutto perché mettere la parola fine facendoci sapere quale sarà il nome del cottage, ma non quello del gatto? Da brava gattofila ci sono rimasta malissimo!
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Geni imbecilli ne abbiamo?
Più leggo storie che si concentrano sui viaggi nel tempo, più rimango delusa dal modo in cui un trope così intrigante viene sprecato in drammi strappalacrime e polpettoni sentimentali. Eppure io so per certo di aver adorato diversi titoli rientranti in questa categoria, quindi posso solo ipotizzare che a farmi innamorare non sia stato tanto il concetto in sé quanto la sua esecuzione in determinate narrazioni. Di certo il colpo di fulmine non è scattato con "Tutti i nostri oggi sbagliati", romanzo d'esordio di Mastai che già ad un anno dall'uscita sarebbe dovuto diventare un film, e poi una serie TV; il fatto che ad oggi non sia diventato ancora un bel niente penso sia significativo.
La storia inizia in una versione utopica del nostro mondo, dove l'accensione di un macchinario in grado di generare energia illimitata -noto come Motore di Goettreider- nel luglio del 1965 ha reso possibili incredibili sviluppi tecnologici. Si è arrivati perfino ad un passo dal viaggio temporale, per merito dello scienziato Victor Barren, il padre del protagonista Tom; quest'ultimo non condivide il genio paterno e si sente da sempre in difetto nei suoi confronti. L'improvvisa morte della moglie convince Victor ad assegnare al figlio un posto nella sua squadra, e questo sarà il primo passo di Tom verso un salto nel passato dai risvolti inaspettati.
Pur avendo parecchie critiche da muovere al romanzo, non nego mi abbia anche colpito in positivo in più punti. Ad esempio, ho appezzato il tono volutamente umoristico della prosa e la scelta di un protagonista a dir poco imperfetto: in un cast composto per la maggior parte da geni inarrivabili, Tom è un uomo semplice, che commette tanti errori e cerca di porvi rimedio con i suoi limitati mezzi. La sua voce dà poi un taglio decisamente divertente alle vicende, includendo perfino dei riepiloghi che mettono in prospettiva le sue azioni e contribuiscono a renderlo simpatetico al lettore.
A parte alcuni scambi ironici, i passaggi che ho trovato più validi sono quelli in cui si affronta il tema del lutto, perché ritengo che le riflessioni del protagonista siano genuine ed emozionanti al punto giusto. Forse per questo i numerosi dialoghi preghi di retorica hanno fatto schizzare i miei occhi al soffitto! infatti, capita spesso che i personaggi (e specialmente il protagonista) attacchino con degli pseudo-monologhi del tutto fuori luoghi e per nulla verosimili. Tra i difetti secondari potremmo includere anche la scarsa logica dietro diversi dettagli fantascientifici, la presenza di un sottotesto pro-life non di mio gusto e l'estetica scelta: non si tratta di un problema esclusivo dell'edizione italiana, ma comunque ritengo si potesse presentare meglio questo genere di storia.
Ma perché parlo di difetti secondari? perché i veri problemi di questo titolo sono altrove. Abbiamo infatti una componente romance parecchio prepotente, che a più riprese sembra rivendicare il focus della narrazione; il tutto per regalarci scene di disagio (causate da instalove anacronistici) e di inquietudine, dove l'ossessione viene spesso scambiata per amore e dove ogni comportamento del partner può essere scusato. Neanche a dirlo, nessuna delle dinamiche di coppia presentate mi ha convinto, e questo è dovuto in buona parte alla caratterizzazione superficiale dei coprotagonisti.
La trama banale e artificiosa rappresenta l'altra grande mancanza del romanzo. Innanzitutto, lo spunto è poco motivato: tutto comincia perché Victor inventa una macchina in grado di viaggiare nel tempo, ma perché lo fa? a quanto pare, un po' per vanagloria e un po' per creare un nuovo ramo del turismo per ricconi. Accettato questo pretesto sciapo, ci troviamo di fronte ad un intreccio privo di conflitto, nonostante i buoni spunti non manchino: Tom potrebbe voler salvare la madre, o cambiare il suo rapporto con il padre, oppure ancora avere successo nella vita. Ovviamente, non farà nulla di tutto ciò, eppure il libro si conclude con il più zuccheroso ed immeritato degli epiloghi! Con buona pace di tutti quelli che ci hanno rimesso nel mentre.
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How to giustificare un instalove
Capiterà un po' a tutti i lettori di recuperare il libro di un autore molto popolare, solo per la curiosità di scoprire se sia nelle loro corde o meno. Succede spesso anche a me, con l'aggravante che ho il vizio di lasciare suddetto libro a prender polvere sullo scaffale; quindi se una decina di anni fa (ovvero quando acquistai la mia copia di "Ogni giorno") c'era la possibilità che mi piacesse, la mia attuale lontananza al target YA ha azzerato ogni chance per questo romanzo. Anche perché nel frattempo ho letto "Touch", che gestisce mille volte meglio la medesima premessa narrativa.
Strutturato come un dialogo interiore declamato dal protagonista -la coscienza auto-battezzatasi A-, il volume segue un breve periodo della sua esistenza bizzarra: infatti ogni mattino quest'entità si risveglia nel corpo una persona diversa, senza poter mai rimanere ancorato ad una singola vita per più di ventiquattr'ore. La sua risoluzione ad abbracciare questo destino nomade si sbriciola quando si trova a vivere nel corpo del sedicenne Justin, innamorandosi a prima vista della ragazza di lui, Rhiannon. L'idillio tra i due viene però oscurato da Nathan Daldry, una delle persone abitate da A che riesce ad intuire cosa gli sia successo e non intende lasciar correre.
Mi rendo conto che così descritta la trama, per quanto risicata, sembra dieci volte più avvincente ed intrigante di quanto non sia in realtà. Infatti la maggior parte dei capitoli -ossia delle giornate vissute da A- ruota attorno alle vite quotidiane dei suoi ospiti oppure alla sua ossessione (storia d'amore mi pare eccessivo) verso Rhiannon, oggetto del conflitto di fondo. Se vi aspettate che Nathan o Justin diventino vere minacce per il protagonista, oppure che l'intreccio acquisti un briciolo di verosimiglianza, fareste meglio a desistere. Magari avrete più fortuna nei seguiti, che personalmente non intendo infliggermi neppure se venissi posseduta di un'entità mistica!
L'assenza di una trama in senso lato passerebbe anche in secondo piano, non fosse per le altre gravi pecche del libro: personaggi, stile e romance. Ho indicato per primo quello che reputo il difetto peggiore, infatti ho detestato per l'intera lettura l'atteggiamento giudicante del protagonista; la sua controparte femminile sembra cavarsela un pochino meglio, ma pian piano diventa se possibile ancor più fastidiosa nei suoi comportamenti. Eppure la morale di entrambi non viene mai messa in dubbio -loro sono perfetti e predestinati-, a differenza di quanto succede con i caratteri che gli orbitano intorno. Per ovvie ragioni, risulta difficile interessarsi ai tanti coprotagonisti, ma il modo in cui vengono raccontati è imbarazzante: sembrano le figurine di album, collezionati dal protagonista per avere almeno un esempio per ogni tipo di rappresentazione, dalla malattia mentale al lavoro minorile passando per la dipendenza da sostanze. Tanto i personaggi sono caratterizzati in modo superficiale, quanto queste tematiche: non solo manca lo spazio su pagina, ma il protagonista stesso si sofferma il minimo indispensabile come stesse depennando una data voce dalla sua lista.
Come accennato, la scrittura di Levithan non mi ha fatto impazzire, soprattutto per l'eccesso di retorica e la presenza esasperante di frasi perfette per un biglietto dei Baci Perugina (o per una canzone di Tiziano Ferro). Per quanto riguarda invece la relazione tra A e Rhiannon -vero motore del romanzo, seppur resa inconcludente dall'epilogo- si basa su un instalove, che io non approvo per principio, ma ancor più quando viene giustificato da elementi pseudo-spirituali. Per come è raccontato, l'interesse di A per Rhiannon mi è sembrato più una cotta idealizzata che la base per un rapporto genuino.
Vorrei dire che almeno la rappresentazione di una persona non binaria sia ben fatta, ma mentirei. Parte della colpa va alla CE italiana, che non si è presa nemmeno la briga di includere una nota a riguardo nella traduzione, ma in generale la premessa stessa impone ad A di non avere un genere: così la sua identità sembra più un obbligo che una presa di consapevolezza. Ho trovato più convincente il suo orientamento come persona pansessuale, che viene spiegato in modo semplice e spontaneo.
C'è qualcos'altro da salvare in questa lettura? sicuramente la scorrevolezza della prosa -caratterizzata da frasi quasi telegrafiche- e la presenza di alcuni spunti validi sul tema della crescita individuale e delle relazioni interpersonali; messaggi teoricamente positivi che nel mio caso di sono un po' persi in una narrazione troppo artificiosa e priva di un reale crescendo emotivo, nonostante le tantissime scene teoricamente strappalacrime.
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Thriller al gusto incel
Nelle mie ricerche librose mi piace guardare oltre gli onnipresenti autori britannici e statunitensi per esplorare altre nazionalità; non si può dire che i risultati siano sempre incoraggianti, ma con la Danimarca finora avevo avuto decisamente fortuna. Ecco perché mi sono interessata ad "Il successore", attratta senza vergogna dalla bella copertina realizzata per la pubblicazione in Italia. Peccato che i miei elogi non si possano estendere anche alla sinossi scelta dall'editore nostrano, che fornisce informazioni non necessariamente false, ma formulate in modo tale da lasciar intendere dei presupposti narrativi errati. A quanto pare, anche questa volta tocca a me illustrare la trama in modo chiaro!
La narrazione è divisa tra due linee temporali: nel passato vediamo un gruppo di aspiranti scrittori di mystery - l'insicuro Laust Troelsen, lo spigliato Flemming "Flemmingway" Karlsen, il nervoso Poul Hansen ed il metodico Jørgen Brink- incontrarsi ad una masterclass a tema, mentre nel presente seguiamo principalmente Laust, che ha accantonato le sue velleità artistiche per dedicarsi all'insegnamento. Nel frattempo Jørgen, adottato lo pseudonimo di William Falk, è diventato un famoso giallista; proprio il giorno in cui viene pubblicato il suo nuovo romanzo, l'uomo si introduce nell'appartamento di Laust per suicidarsi, ma non prima di averlo inserito nell'elenco dei candidati che ultimeranno il volume conclusivo della sua saga.
Questo passaggio di testimone è sicuramente l'elemento che da subito ha catturato la mia curiosità, e continuo a ritenerlo un valido spunto anche a lettura ultimata. Nonostante la storia di Laust non mi abbia convinto su una quantità di fronti, le idee alla base sono buone ed offrono (almeno sulla carta) degli appigli adatti ad una narrazione ricca di mistero ed azione, nonché accattivante nell'ottica di un lettore appassionato visti i tanti rimandi al mondo dell'editoria. Un altro aspetto che confermo di apprezzare è senza dubbio la cover: a conti fatti è molto generica, ma rimane esteticamente stupenda. E per concludere questa purtroppo breve disamina dei pregi, devo menzionare lo stile di Birkegaard, che non mi ha fatto urlare al miracolo ma si può considerare promosso con un voto ben oltre la sufficienza.
Ho parlato tanto di potenziale perché l'intreccio ottenuto dagli elementi mesi in gioco dal caro Mikkel non rispetta le aspettative create, proponendo una trama farcita di eventi fortuiti e scene inutili, che tra l'altro fatica molto ad acquistare un ritmo accettabile. Una volta scoperte le carte in tavola, interi capitoli sembrano non avere senso, e così personaggi ed ambientazioni: a cosa serve creare tanto mistero attorno alla tenuta di Falk se poi lì non succedere letteralmente nulla di rilevante? quale ruolo svolge il personaggio di Versal nel grande schema della storia, così come nella sua sottotrama personale? In realtà, tutti i personaggi sembrano delle semplici pedine, non perché siano particolarmente stereotipati quanto per la loro mancanza di autonomia. E per assurdo il finale pare confermare l'insensatezza di questi caratteri e della narrazione nella sua totalità, infatti la risoluzione è talmente rapida e semplice che viene da chiedersi perché Falk abbia messo in piedi l'intera baracca.
A peggiorare la situazione contribuiscono gli scontatissimi colpi di scena (vi sfido a non azzeccarli tutti con pagine di anticipo!), l'assenza di tensione per buona parte del romanzo e la descrizione a dir poco ridicola del mondo editoriale: se non sapessi che questo autore ha diversi romanzi all'attivo, penserei che si tratti di un esordiente autopubblicato per come parla idealisticamente di questa realtà. Il mio vero tallone d'Achille è stato però il protagonista, che ho mal sopportato sia a livello caratteriale -per l'atteggiamento lamentoso e la prospettiva sessista- sia a livello narrativo, infatti la sua indolenza è quasi sempre causa della lentezza con cui prosegue la trama. Sarete d'accordo che in un thriller mantenere viva l'attenzione del lettore con una storia adrenalinica è vitale!
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Ma che tenerezza la coppia razzista e grassofoba!
Nel 2024 non sono stata particolarmente produttiva su diversi fronti letterari: ho cominciato pochissime serie, ho scovato più delusioni che capolavori ed ho a malapena raggiunto l'obiettivo della Reading Challenge su Goodreads. Su un proposito però mi posso dire soddisfatta, perché ho continuato con profitto il recupero delle opere della cara Agatha; sono arrivata quasi alla fine con le indagini di Miss Marple, mentre per quanto riguarda le avventure di Poirot sono ancora in alto mare (ci credo, con più di trenta romanzi ed una quantità di racconti!) ma nondimeno andiamo avanti, in questo caso con "Delitto in cielo".
Dopo aver rischiato la vita in "Tragedia in tre atti", il buon Hercule qui mette a repentaglio addirittura la sua fama! L'investigatore si trova infatti a bordo dell'aereo Prometheus sulla tratta Parigi-Londra, quando l'anziana usuraia francese nota con il nome di Madame Giselle viene assassinata e -per una serie di coincidenze ed indizi fuorvianti- i sospetti ricadono su di lui. Toltosi senza sforzo dall'elenco degli indiziati, Poirot è determinato a capire chi abbia cercato di incastralo; il suo non è però l'unico POV del romanzo, dove troviamo anche le prospettive degli altri passeggeri, con tanto di intrighi sentimentali da telenovela.
E già qui posso togliermi un sassolino dalla scarpa, perché non ho mai fatto mistero del mio scarso apprezzamento delle romance imbastite da Christie. Qui sono presenti ben due triangoli, soltanto in minima parte collegati alla trama mystery, nonché del tutto privi di appeal dal momento che l'approfondimento psicologico e relazionale di questi individui è rasente lo zero. In generale, la caratterizzazione non spicca come punto di forza in questa narrazione: dopo una decina di avventure, la personalità di Poirot è ormai consolidata, ma i suoi comprimari fanno parecchia fatica da accattivarsi il lettore.
Come i personaggi, anche le ambientazioni peccano della cura necessaria per renderle più che fondali insignificanti. Pur scegliendo location molto diverse tra loro -dalla cabina di un aereo all'aula di un tribunale inglese, fino alla hall di un hotel parigino- la cara Agatha non si impegna granché nel distinguere l'una dalle altre, e questo toglie parecchia potenza all'elemento atmosferico, che in altri suoi lavori era centrale ed affascinante. Mi sento di includere tra i difetti anche la presenza di alcuni commenti decisamente infelici (senza dubbio figli dell'epoca storica in cui il romanzo è stato scritto) e la poca cura dell'edizione; questo potrebbe non significare nulla se avete una copia diversa, però io ho trovato molto spiacevoli l'assenza dei titoli nei capitoli e della piantina dell'aereo, oltre alla scarsa attenzione complessiva della traduzione.
Ma bando alle delusioni e parliamo degli elementi che funzionano meglio. Come sempre, la personalità di Poirot ha saputo conquistarmi, tanto con le sue bizzarre abitudini quanto con il suo piglio risoluto ed appassionato, verso il giallo da risolvere ma non solo. È stato indubbiamente piacevole ritrovare al suo fianco l'ispettore Japp, una spalla meno ottusa del capitano Hastings e perfino più spiritosa; più in generale, il testo presenta diversi momenti genuinamente divertenti, oltre ad un paio di guizzi stilistici niente male nella prima parte. La presenza dell'uomo di legge inglese non è poi l'unico riferimento agli altri capitoli della serie poirotiana, tutti molto apprezzati dalla sottoscritta.
Come capita quasi sempre nelle opere christieane però, il pregio maggiore del volume è rappresentato dall'intreccio. L'autrice si è dimostrata particolarmente abile, sia nell'assegnare qualche dettaglio sospetto ad ognuno dei passeggeri che nel palesare le sue stesse false piste al momento migliore per stupire il lettore. Lettore che avrebbe comunque tutti gli indizi necessari per seguire l'indagine, ma non può neppure tentare di indovinare l'identità del colpevole perché è del tutto avvinto dal ritmo incalzante della narrazione: le scene si susseguono senza nessun momento morto, fino alla brillante risoluzione finale. Rimane solo da capire perché durante le filippiche di Poirot gli assassini non provino mai a scappare, ma aspettino buoni e tranquilli di essere smascherati.
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Il principe pora stella
Nel 2024 non solo ho letto molti meno libri in senso lato, ma sono stata particolarmente improduttiva sul fronte delle serie letterarie. Mi sembrava quindi una buona idea rimediare cominciando Il Popolo dell'Aria, sia per la popolarità di cui gode questa trilogia (a dispetto dei pareri altalenanti) sia perché l'ho lasciata fin troppi anni a stagionare in libreria, perfino per i miei standard! Con la mente priva di informazioni pertinenti ma stipata con più fanart del necessario, ho quindi affrontato "Il principe crudele".
Prima di iniziare la lettura, l'autrice sembra chiederci di fare uno sforzo di immaginazione per accettare il modo alieno di pensare delle creature fatate, che essendo immortali e dotate di poteri magici non possono ovviamente avere gli stessi valori degli umani. Con questa premessa approdiamo al prologo, in cui assistiamo all'omicidio dei genitori della protagonista Jude Duarte da parte dell'essere fatato Madoc -un tempo marito della madre-, che poi porta lei e le sorelle Taryn e Vivienne "Vivi" nella Terra degli Elfi, per occuparsi di loro. Le ragazze crescono così tra i membri del Popolo sull'isola di Insmire, fino a quando la rinuncia al trono del Sommo Re Eldred Greenbriar porta alla luce le animosità tra i suoi figli, l'ultimo dei quali è il tormentatore della stessa Jude, il principe Cardan.
I preamboli da fare sarebbe molti di più in realtà, perché Black introduce una buona quantità di sottotrame più o meno rilevanti, ma diciamo che il fulcro della vicenda è rappresentato dagli intrighi alla corte di Faerie, nella quale troviamo emissari degli altri regni fatati, umani più o meno consenzienti e le spie della Corte delle Ombre. Tra tanti caratteri risulta impossibile non sviluppare delle preferenze, ed io ammetto di essere stata colpita in particolare dall'ambiguo Madoc e da Vivi, per la propensione a preferire il lato mortale della sua esistenza. A conti fatti, tutti i membri del Popolo avrebbero in fondo del potenziale per risultare intrigati, per merito della loro natura così diversa e degli escamotage che devono inventare per sopperire all'incapacità di mentire.
Anche per questo motivo, mi sento di includere tra i pregi il sistema magico, nonostante non sia granché approfondito; vediamo a sprazzi come gli umani siano vulnerabili alle parole ed al cibo fatato, ed assistiamo ad alcune piccole magie di ispirazione folkloristica davvero affascinanti. Questo perché l'estetica in generale è molto curata, e mi riferisco ovviamente alle descrizioni (ad esempio, quelle dei particolari cibi o dei ricchi abiti indossati dai personaggi) ma anche al volume in sé: dalla copertina alle illustrazioni ad inizio capitolo, fino alla stupenda mappa, tutto è gradevole ed in linea con il tema.
Il world building rientra quindi tra i punti a favore del romanzo? non proprio, perché la cara Holly arricchisce il suo mondo con tantissimi esseri bizzarri, senza però fornire alcuna descrizione. Ad esempio, quando Jude incontra un goblin pensa tra sé di non potersi fidare così su due piedi, ma non chiarisce se la ragione della sua titubanza sia la natura dei goblin in generale o la poca fiducia che le ispira questo in particolare. La Terra degli Elfi sembra poi meno magica di quanto ci si potrebbe aspettare, tanto che ci sono molte scene in cui i protagonisti seguono delle lezioni scolastiche come in un teen drama qualunque.
E tutto questo viene mostrato al lettore tramite la voce di Jude, che adotta un lessico estremamente informale e spesso infrange la quarta parete senza alcun motivo; la prosa abbastanza elementare non supporta la narratrice, che in ogni caso non è all'altezza neppure come singolo personaggio. Jude non è brillante, impiega secoli ad elaborare informazioni basilari e nel complesso risulta più confusa che tormentata. Con il resto del cast le cose non vanno meglio: il testo è a dir poco affollato da un gran numero di personaggi, che per ovvie ragioni sono descritti in modo approssimativo, come la famiglia della protagonista che non ha il tempo per essere introdotta perché subito bisogna lasciare spazio ai vari principi o al gruppo dei bulli. Ad uscirne peggio sono Oriana (la matrigna di Jude, da lei odiata perché sì), la sciapa Taryn e Valerian, forse il teppista fatato con le motivazioni meno credibili di sempre.
Il medesimo problema riguarda le vicende, che la frettolosa narrazione non concede il tempo di comprendere, in relazione tanto alle regole fantastiche quanto nelle singole svolte; come conseguenza, tutte le azioni compiute dalla protagonista sono di una facilità estrema, ma il lettore non può capire se lei sia fin troppo talentuosa oppure sono le creature fatate ad essere parecchio rintronate e distratte. Non mancano inoltre ripetizioni continue delle frasi dette in precedenza (così Jude ricorda di dover reagire a tono) e scene puramente funzionali, come la festa a corte nei primissimi capitoli.
A questo punto potreste pensare che perlomeno il ritmo renda la lettura godibile. Ma vi sbagliereste! e non solo per la presenza di parecchi dialoghi tronchi. A fare da scoglio è l'edizione italiana, con una delle traduzioni più atroci in cui sia mai incappata; in più punti i refusi rendono realmente ostica la lettura, oltre a far diventare i personaggi ancor più scemi di quanto già non fossero nel testo originale. Sempre più spesso ho la sensazione che la cura nei libri per ragazzi tenda a mancare, quando invece sarebbero proprio le storie sulle quali investire più attenzione.
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Che montagne russe, lapocki miei!
Dal momento che uno dei miei obiettivi letterali per l'anno nuovo è di riscoprire la passione per la lettura nel senso più cozy possibile -ovvero, scollegandosi dal lato social di questo hobby- ho pensato fosse un'ottima idea recuperare vecchi titoli dei miei autori del cuore. Con due romanzi che ho apprezzato parecchio, la cara Liane può rientrare senza timore in questa categoria, e proprio per questo la mia prima lettura del 2025 è stata il suo "Nove perfetti sconosciuti".
Dopo un flashback incentrato sul passato di Maria "Masha" Dmitrichenko, la scena si sposta alla Tranquillum House, il suo resort nel sudest australiano dove piccole celebrità e persone comuni si recano per rimettersi in forma fisicamente e mentalmente. Come lettori seguiamo diverse prospettive, tra clienti e personale della struttura, ma a spiccare tra le altre è sicuramente quella di Frances Welty, autrice di libri rosa in declino nel lavoro ma non solo. La donna arriva al resort per riprendersi dopo una crudele truffa, e finisce così per far parte del gruppo sul quale Masha vuole testate la nuova procedura di trasformazione di sua invenzione.
Se avete già letto qualcuna delle mie recensioni, sapete come la presentazione falsa di un libro mi irriti; in questo particolare caso, avrei potuto sindacare sul titolo scelto perché i nove partecipati al ritiro non sono realmente degli sconosciuti, personalmente ma neanche a livello di fama. Invece non ho nulla da eccepire dal momento che l'autocecità è il tema centrale della storia: i personaggi non sono degli estranei verso gli altri quanto per sé stessi, infatti un po' tutti loro sembrano essere estremamente capaci ad intuire le difficoltà del prossimo ma a dir poco ottusi nell'indovinare i propri limiti psicologici. Il testo affronta anche temi secondari, che riguardano i singoli caratteri; quello che ho trovato più rilevante e meglio approfondito è l'elaborazione del lutto, ma si parla anche di apparenza estetica e di rapporto tra genitori e figli.
A veicolare brillantemente il tutto troviamo lo stile versatile e scanzonato di Moriarty, che ha la straordinaria capacità di bilanciare nei giusti tempi battute umoristiche e riflessioni ponderate. In questo titolo più che nei precedenti, ho apprezzato il suo talento per intessere delle ottime relazioni, spiegando bene i legami passati e gettando con sicurezza le basi per dei nuovi rapporti. In generale, trovo che i personaggi rappresentino un grosso punto di forza: si percepisce l'impegno nel rendere uniche e facilmente identificabili la personalità e la voce di ognuno.
E questo non era affatto facile, considerando che i POV totali sono ben dodici! una scelta che comprendo a livello concettuale, ma sulla quale ho finito con l'avere delle riserve perché alcuni sarebbero stati facilmente condensabili in altre prospettive. In particolare Lars, Ben e Delilah non mi hanno trasmesso granché, quindi avrei optato per approfondirli di più oppure eliminare direttamente i loro capitoli. Un ragionamento simile si potrebbe applicare sui temi, perché sfoltire almeno in parte gli argomenti trattati avrebbe permesso a quelli centrali di risaltare.
Nonostante queste critiche, il romanzo è riuscito ad emozionarmi in diverse scene, ma questo ha influito sulla valutazione solo fino ad un certo punto. Il vero limite per me è stato l'intreccio, perché la maggior parte del volume presenta un ritmo talmente fiacco da far pensare che non ci sia neppure una trama da seguire. Quando infine la narrazione prende il via, gli eventi ai quali assistiamo sono così rapidi e surreali da lasciare interdetti: l'impressione è quella di un accelerazione folle ed insensata dopo chilometri di strada percorsi con la prima ingranata. Magari mi andrà meglio con la prossima storia ideata dalla cara Liane.
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Ed ecco perché non ho più fiducia nello YA
Da anni non mi capitava di essere così poco produttiva a livello di serie letterarie; e non contenta di averne terminate giusto una manciata in tutto il 2024, mi sono pure penalizzata a livello qualitativo. Temo infatti che Rebel of the Sands entrerà nell'Ade delle serie peggiori mai lette dalla sottoscritta, e vi assicuro che non sarei mai riuscita ad intuito a priori. Risulta ben chiaro quindi che "Rebel. La nuova alba" non è riuscito a salvare la sua trilogia; un'impresa senza dubbio improba, ma si può effettivamente parlare di fallimento quando non ci si prova neppure?
Proprio com'era successo tra i primi due libri, un elissi temporale ci dà il benvenuto dopo un breve primo capitolo. È passato un mese dal finale di "Rebel. Il tradimento" e la città di Izman è sotto assedio da parte dell'esercito gallan; a proteggerla c'è però una barriera infuocata eretta grazie alla magia dei Djinni, abilmente sfruttata dal Sultano. Amani ed i pochi ribelli rimasti cercano quindi un modo per aggirare questo muro di fuoco e seguire la bussola di Jin, con l'obiettivo di ritrovare Ahmed e scacciare una volta per tutte le forze straniere che mirano al controllo del Miraji.
Com'era prevedibile Amani prende in mano la rivoluzione, e com'era ancora più prevedibile questo si dimostra essere uno dei maggiori difetti del romanzo. Se già la trovavo irritante in qualità di ribelle testarda ed impulsiva, vi lascio immaginare cosa penso di lei in qualità di leader testarda, impulsiva e pure piagnona! sì perché i suoi pensieri per buona parte del volume ruotano attorno a quanto si senta inadeguata in confronto con il Principe Ribelle, con Shazad o con Rahim. Precisamente in quest'ordine, ogni volta. Nel frattempo, prende una decisione sbagliata dopo l'altra, rendendo la trama ancor più sciocca ed incoerente di quanto non fosse nei capitoli precedenti.
E non illudetevi che io tenga in serbo parole gentili per i suoi comprimari. Già poco caratterizzati, qui i personaggi regrediscono ulteriormente diventando delle vere e proprie macchiette, o meglio delle pedine che l'autrice muove in base alle necessità della trama senza alcuna considerazione per la verosimiglianza; di conseguenza anche le morti alle quali assistiamo sono prive di impatto emotivo. Perfino Jin, il grande amore di Amani, è carente in quanto a carisma e si limita a restare sullo sfondo dando blandi incoraggiamenti. La loro romance poi si conferma decisamente fuoriluogo, oltre ad essere basata su delle dinamiche a mio avviso discutibili, con lui che scappa davanti alle difficoltà e lei che lo vincola a sé senza riflettere o chiedere il suo benestare.
Cosa dire poi del sistema magico? tra espedienti convenienti, regole cambiate tra una scena e l'altra ed un utilizzo casuale dei poteri: la cara Alwyn ha fornito i Demdji di così tante capacità, che poi ha dovuto renderli scemi in modo da non dovervi ricorrere sempre, ma solo quando era necessario per far proseguire la storia. Un lavoro di scrittura decisamente infantile, che si riflette com'è logico nello stile, nell'intreccio e nella costruzione dell'universo narrativo; a risentirne in particolare questa volta è l'aspetto geopolitico, gestito con la stessa credibilità di chi si mette a dieta il primo di gennaio. Personalmente non ho apprezzato neppure i chiari tentativi di manipolare il lettore, ricorrendo tra l'altro ad un urticante femminismo di facciata: quando si tratta di giudicare l'operato degli antagonisti si adotta la morale contemporanea, mentre quando a commettere azioni discutibili è Amani tutto le viene condonato perché il suo mondo è brutto e lei deve fare tutto il possibile per sopravvivere.
Solitamente mi sforzo per trovare dei pregi da menzionare nelle recensioni, ma in questo caso non so proprio cosa dire. Forse potrei concentrarmi sugli elementi non negativi, come l'assenza di refusi nel testo, di violenza gratuita o di momenti fiacchi. Per lo meno non mi posso lamentare dell'edizione nostrana, alla quale riconosco anzi l'astuzia di aver omesso la mappa; fosse stata presente, i lettori italiani si sarebbero resi conto che gli spostamenti fatti dai protagonisti in giro per il Miraji non stanno né in cielo né in terra!
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Più puttane a parole che nei fatti
La lettura de "Il cuore di Derfel" mi ha dato l'ennesima conferma (nel caso ne avessi ancora bisogno!) che lasciar trascorrere tanto tempo tra un volume e l'altro di una serie è una pessima idea. Per fortuna nelle prime pagine viene fornito un utile riassunto degli avvenimenti principali ne "Il re d'inverno", che mi spinge a dare del credito all'edizione italiana, nonostante la maniera indecente con cui hanno pasticciato spezzettando senza vergogna i tre libri originali. Questo romanzo è composto infatti dalle ultime due parti di "The Winter King", alle quali viene aggiunta la prima di "Enemy of God", incidendo ovviamente sul ritmo e sulla tensione.
La narrazione riprende con il ritorno del narratore Derfel Cadarn in Dumnonia, dove si prepara la guerra tra Artù e Gorfyddyd, scatenata sulla carta dall'onta patita dalla figlia di quest'ultimo Ceinwyn, ma che in realtà è il sintomo di una lotta intestina tra i vari sovrani per il controllo della Britannia. Nel mentre, il protagonista si impegna nel salvataggio della sacerdotessa Nimue imprigionata sull'Isola dei Morti e ritrova Merlino, ancora alla ricerca dei tredici artefatti magici detti Tesori della Britannia necessari per riportare in auge il culto degli dèi, scacciando sassoni e cristiani dall'isola.
Tutte le vicende sono ancora una volta veicolate attraverso le parole del Derfel anziano, ormai diventato un monaco cristiano del Powis; la sua voce narrante puntuale ed ironica è sicuramente uno degli aspetti più riusciti della serie. Infatti lo stile di Cornwell risulta molto piacevole e riesce ad intrattenere senza sforzo il lettore; e questo nonostante l'accuratezza storica del contesto, che dovrebbe in teoria appesantire la prosa. In alcune scene sono presenti perfino degli spazzi di umorismo, in gran parte merito di Merlino e Galahad, personaggi che spero continuino ad avere un ruolo centrale nella serie.
Parlando di personaggi apprezzabili, non posso che citare Nimue e Ceinwyn; la prima già mi aveva colpito in positivo nel primo romanzo e qui si è confermata essere una figura estremamente intrigante nella sua ambiguità, mentre sulla seconda il caro Bernard ha fatto un ottimo lavoro verso il finale per darle parecchia autonomia e rilevanza senza arrivare a stravolgere la caratterizzazione sua e di chi interagisce con lei. Tra i pregi del volume si conferma l'intelligente utilizzo del foreshadowing -che pur anticipando una quantità di informazioni, non fa diminuire la curiosità del lettore-, ma voglio includere anche l'elemento soprannaturale; non si tratta di un sistema magico vero e proprio, quanto più di una commistione tra la credulità dei personaggi e l'astuzia dei druidi, che ho trovato perfetta per l'ambientazione.
L'edizione nostrana si pone invece a metà strada, tra gli elementi più validi e quelli... meno piacevoli. Se da un lato la cura grafica e contenutistica si mantiene davvero alta (specie se messa a confronto con certi costosissimi abomini pubblicati di recente!), dall'altro la scelta di suddividere la serie mostra qui tutti i suoi svantaggi. In particolare, troviamo un climax significativo a metà volume dato dalla conclusione di "The Winter King", che cozza nettamente con il ben più debole finale; anche a livello di ritmo e coinvolgimento le ripercussioni sono negative, seppur l'esperienza di lettura rimanga abbastanza gradevole nel suo insieme.
Passando agli aspetti negativi in toto, mi sento di menzionare l'eccessiva semplicità con cui vengono risolte diverse problematiche: a livello relazionale ma anche militare, ci sono dinamiche estremamente squilibrate che trovano poi delle soluzioni fin troppo facili. L'esempio principe è dato dalla battaglia nella Valle di Lugg, che in un primo momento sembra un'inevitabile disfatta per le forze fedeli ad Artù, eppure si trasforma nella sua più celebre vittoria in poche pagine. Anche la componente romance -molto più rilevante rispetto al libro precedente- non mi ha convinto appieno, un po' per il cambio repentino di interesse amoroso da parte di Derfel, un po' perché non vengono mostrate interazione sufficienti a giustificare il legame che si forma tra loro.
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Più una matrioska che un labirinto
Nel 2023 "Il manoscritto" era riuscito a stupirmi ed intrattenermi, ma questa primavera "C'era due volte" non è stato in grado di replicare la magia del primo libro, per quanto rimanga un titolo apprezzabile sotto diversi aspetti. Per capire se la serie stesse davvero prendendo una brutta china, ho deciso di recuperare entro l'anno "Labirinti", un capitolo conclusivo in cui ritornano con ancor più forza tutti gli elementi caratteristici della trilogia: persone affette da amnesia, ragazzine rapite, bande di criminali sociopatici e forze dell'ordine non proprio competenti.
La prima scena è ambientata all'interno di un ospedale, dov'è stata ricoverata una donna non ancora identificata dopo che le autorità l'hanno trovata sulla scena di un delitto bizzarro. Veniamo subito introdotti alla prospettiva della poliziotta Camille Nijnski, che interroga il dottor Marc Fibonacci a riguardo; l'uomo spiega che la paziente ha perso la memoria, ma non prima di avergli confidato tutto. Per illustrare al meglio gli eventi, si passa alla narrazione alternata di tre storie: quella della giornalista freelance Lysine, della psichiatra elettroipersensibile Véra e dell'adolescente rapita Julie. A queste si aggiungiono poi altre figure femminili, ed ovviamente ritorna anche lo scrittore Caleb Traskman.
Il tutto si delinea all'interno di una struttura narrativa solida e mai noiosa: il rapido passaggio da un POV all'altro potrebbe lasciare frustrati a volte -quando si è in prossimità di una rivelazione importante, ad esempio- ma permette al volume di mantenere un ritmo ed un dinamismo eccellenti. Il lettore viene letteralmente trascinato verso un finale sorprendente ma non incredibile; e lo dico in senso positivo, perché gli indizi nel corso della lettura vengono forniti, quindi per quanto ci si muova in un contesto inusuale i colpi di scena non sono mai campati per aria. Tutto considerato, mi è sembrata una conclusione soddisfacente anche nell'ottica della serie, perché mantiene una nota agrodolce in linea con le vicende raccontate.
Come già accennato, nel volume abbondano i rimandi ai due capitoli precedenti, che per quanto possa sembrare un escamotage paraculo è una decisione autoriale valida e coerente, tesa a tracciare un filo conduttore all'interno della trilogia, elemento che personalmente ho molto apprezzato. Allo stesso modo mi è piaciuta la scelta di presentare ai lettori parecchi quesiti di tipo etico e morale, primo fra tutti la legittimità del delitto con cui si apre la storia, che in un primo momento sembra il risultato del raptus di una squilibrata per poi assumere i contorni di una vendetta forse più che giusta.
La presenza di questi livelli introspettivi è resa possibile grazie all'approfondimento psicologico relativo non tanto ai singoli caratteri quanto ad un'analisi più ampia della mente umana e dei suoi meccanismi. Purtroppo questo svilisce i personaggi, che non vengono caratterizzati in modo adeguato ma rimangono un'incarnazione della loro condizione psicologica, la quale ne influenza la personalità nonché qualunque azione compiano. Sembra un paradosso, ma per quanto la condizione mentale dei personaggi sia attenta e rilevante, non sono riuscita ad individuare carisma o emotività in nessuno di loro, e questo mi ha tenuto distaccata dalle vicende pur reputando intrigante l'intreccio.
Tra i punti a sfavore del romanzo troviamo inoltre l'elemento horror, un po' eccessivo e ridondante a mio avviso: personalmente non mi faccio alcun problema con le scene splatter, però leggerne così tante le priva di rilevanza ed impatto. In modo simile, penso che il caro Franck si sia giocato una buona fetta della tensione a causa della premessa iniziale, perché anticipando la conclusione ha reso impossibile per il lettore preoccuparsi della sorte di alcuni personaggi. Non ho gradito poi le numerose convenienze di trama, sicuramente utili a far progredire la storia, ma al contempo capaci di depotenziarne la credibilità.
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I retelling non (mi) hanno ancora stancato
Quando tutti sembrano star leggendo un determinato romanzo, quello è proprio il momento in cui la sottoscritta decide di evitarlo. In seguito, le strade percorribili sono due: mi intestardisco nel non voler recuperare il libro in questione mai e poi mai (com'è capitato negli anni con i famosissimi "Eragon", "Il cacciatore di aquiloni" o "I sette mariti di Evelyn Hugo", solo per nominarne alcuni) oppure capitolo dopo aver lasciato scemare l'hype rimanendo quasi sempre delusa dal risultato. Entrambe le alternative non sono il massimo, quindi quando ho ricevuto in regalo una copia di "Demon Copperhead" per il mio ultimo compleanno ho preso la saggia decisione di leggerlo entro la fine di questo poco soddisfacente 2024 letterario.
Ispirandosi per il titolo e non solo al "David Copperfield" di Dickens, Kingsolver racconta la vita di Damon Fields, nato sul finire degli anni Ottanta nella Lee Country in Virginia, da una madre tossicodipendente ed un padre morto diversi mesi prima. Narrato dal protagonista stesso, il romanzo ripercorre la vita del cosiddetto Demon Copperhead, dalla difficile nascita alla troppo breve infanzia, fino ad un'età adulta raggiunta ben prima di aver compiuto diciott'anni. Nel mentre vediamo l'alternarsi di fortune e sciagure, con il desiderio di far parte di una famiglia senza vincoli o date di scadenza sempre sullo sfondo.
Un altro cardine dell'intreccio è la dipendenza da sostanze, analizzata dall'autrice nei giusti tempi e dando ai risvolti più tragici il peso che meritano. La tematica della tossicodipendenza si collega bene agli altri argomenti toccati nel testo -come l'inadeguatezza dei servizi sanitario ed assistenziale, la dispersione scolastica, le disparità sociali- e riesce al tempo stesso a farsi allegoria di quella necessità trascendentale di affetto che caratterizza l'intera esistenza di Demon. Un bisogno che lo porta a compiere gesti tanto eclatanti quanto autodistruttivi, incapace di vedere delle vere alternative al suo declino.
Il tutto è convogliato tramite la prosa curata ed incalzante della cara Barbara, una narratrice capace di donare al lettore delle metafore dalla rara potenza letteraria. Le sue descrizioni genuine e particolareggiate rendono poi l'ambientazione un membro a pieno titolo del cast, permettendo una facile immedesimazione nelle vite dei personaggi. Tra tante esistenze disgraziate, a spiccare è ovviamente la figura di Demon, con la sua voce disinvolta e sagace ci accompagna attraverso dei momenti genuinamente emozionanti, ma privi di quella retorica e di quel patetismo che un po' temevo sarebbero stati presenti.
Una spinta empatica non indifferente verso il protagonista, che si conferma il più grande punto di forza del titolo. A differenza del personaggio dickensiano medio, Demon risulta estremamente sfaccettato sul fronte caratteriale: capace tanto di impegnarsi in risoluzione positive, quanto di cedere alla tentazione delle scorciatoie e di farsi abbindolare dal prossimo. Una personalità molto più adatta ad un contesto contemporaneo -in cui la linea tra giusto e sbagliato non è mai netta-. resa ancor più incisiva dalla sua spigliata ed autocritica voce interiore, che si percepisce con chiarezza nelle sue battutine rivolte ai lettori.
Le stesse lodi non si possono però estendere ad una buona fetta dei comprimari, e penso specialmente ai personaggi adulti. C'è ben poca sottigliezza nella loro caratterizzazione: Mrs Peggot è buona e cara e tale rimane a prescindere da quante disgrazie le capitino, mentre Porta-Qui viene descritto come viscido ed infido sempre, non tenendo in considerazione che per la maggior parte del tempo lui ignora del tutto Demon. Tra i più giovani c'è un maggiore approfondimento, merito del percorso di crescita nel quale li vediamo impegnati; anche così non mancano comunque gli stereotipi indice di pigrizia narrativa, come quello del ragazzo emo-goth autolesionista.
In generale, questo libro non ha tanto degli evidenti difetti, quanto delle mancanze minori: il ritmo non è abbastanza incalzante, i commenti di Demon non sono abbastanza presenti, il comportamento del protagonista non è abbastanza in linea con la sua età anagrafica. La grande assente è però la trama, dal momento che la narrazione si limita ad essere una versione più attuale del romanzo di Dickens, con qualche piccola variazione; sono inoltre presenti diverse svolte all'apparenza molto importanti, ma nei fatti di ben poco conto tanto da venire riprese solo parecchi capitoli più avanti. Ed è così che difficoltà presentate come insormontabili vengono superate con grande facilità, incidendo sulla tensione narrativa.
Il problema dietro queste scelte autoriali poco convincenti è dato senza dubbio dalla volontà di rimanere fedele al materiale di partenza, un difetto comune a molte rivisitazioni di leggende mitologiche e di romanzi classici. In questo modo risultano depotenziati, ad esempio, l'antagonismo con Porta-Qui (che pur avendo libertà d'azione e molte leve a sua disposizione, agisce in modo caotico) o le relazioni romantiche che Demon intreccia nel corso della storia: prive di una solida base sentimentale, si concretizzano soltanto perché la sua controparte dickensiana aveva quei medesimi interessi amorosi. Per questo aspetto, un po' di coraggio narrativo in più non sarebbe affatto guastato.
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Questo è il mio commento?
Solitamente l'annuncio di un adattamento letterario non mi trasmette particolari emozioni, ma quando ho visto il cast scelto per portare sullo schermo la storia de "Il Club dei delitti del giovedì" sono rimasta senza parole: sono semplicemente perfetti per i loro ruoli! Inoltre da un po' speravo traessero un film oppure una serie da quel romanzo, vista anche la recente moda dei cozy mystery. Con questo rinnovato entusiasmo per la tetralogia mi sono quindi approcciata a "L'uomo che morì due volte", un secondo capitolo leggibile e comprensibile in modo indipendente, tenendo però conto che spoilera in parte le rivelazioni del precedente romanzo.
Sulla scena tornano i membri del Club che dà il titolo alla serie: gli ultra settantenni Elizabeth, Joyce, Ibrahim e Ron; oltre al tuttofare Bogdan, agli agenti di polizia Chris e Donna, e ad un nutrito gruppo di nuovi caratteri che danno il via alla seconda indagine. Nella residenza per anziani di Coopers Chase arriva infatti Marcus Carmichael, una vecchia conoscenza di Elizabeth: si tratta di uno pseudonimo utilizzato dal suo ex marito Douglas Middlemiss, che cerca un nascondiglio sicuro dopo aver rubato venti milioni in diamanti ad un criminale locale. Mentre il Club si attrezza per proteggere l'uomo, vengono portate avanti in parallelo un'indagine a carico della narcotrafficante Connie Johnson e la vendetta contro il teppista Ryan Baird.
Un bel po' di grattacapi in quel di Fairhaven! a mio avviso troppi per analizzare tutti nel modo migliore. Infatti, la linea di trama collegata a Douglas occupa la maggior parte della narrazione, e le altre sono costrette a convergervi a forza. Questo incide soprattutto sulla sottotrama dedicata ad Ibrahim, che per l'appunto ottiene solo una manciata di scene di sviluppo ed una risoluzione fuori pagina a dir poco frustrante, specie perché si dovrebbe parlare con più cognizione di PTSD. La stessa frettolosità superficiale ricade anche sui flashback di Bodgan e la (presumo) depressione di Donna: tutto sistemato tra una battuta e l'altra.
Anche a livello di trama avrei alcune note non proprio positive. In linea generale, ho trovato l'intreccio meno coinvolgente e misterioso del previsto; memore della complessità e dell'inventiva dimostrate dal caro Richard nel suo debutto, mi sarei aspettata un giallo più articolato, e sicuramente meno ripetitivo nelle dinamiche. Per quanto mi riguarda, la ricerca dei diamanti rubati non mi è sembrata un innesco abbastanza convincente -in fin dei conti i protagonisti non sono i derubati e per loro ritrovare il maltolto significa ben poco-, mentre lo smascheramento dell'assassino sarebbe stato entusiasmante se le vittime non fossero state tanto ambigue per buona parte del volume.
In compenso, trovo che il finale sia stato decisamente soddisfacente, sia per l'escamotage che viene ideato da Ron per far giustizia, sia per come viene spiegato il piano del colpevole. Mi è piaciuta parecchio anche la conclusione data alla romance di Chris: una relazione credibile e dolce senza sfociare in un'eccessiva zuccherosità. Tra i pregi finisce ovviamente la caratterizzazione sopra le righe dei personaggi che rende la lettura piacevolmente esilarante, si tratti dell'adorabile svampitaggine di Joyce o delle priorità tutte sfasate di Lomax.
Tra un'avventura e l'altra, Osman riesce ad includere anche qualche parentesi di serietà, infatti in questo libro si torna a parlare di Alzheimer, di confronto generazionale e dei diversi modi in cui le persone anziane si pongono rispetto al mondo contemporaneo. Si tratta di parentesi molto ridotte ma assai gradite, perché riescono a fornire un quadro abbastanza verosimile nel quale racchiudere delle vicende che spesso non lo sono neanche lontanamente.
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Se morisse mio marito... ma davvero!
Adesso ho letto tutti i libri di Waters, e non so proprio se essere felice per aver recuperato l'intera produzione della (forse) mia autrice preferita, oppure disperata perché nel mio futuro -nei miei autunni futuri- non ci saranno più le sue storie. Ammenoché non si decida prima o poi a pubblicarne di nuove, cosa che purtroppo non fa da un intero decennio, ossia dall'uscita in lingua inglese de "Gli ospiti paganti". In diversi aspetti, si tratta di un romanzo simile ai suoi precedenti lavori (per l'ambientazione storica o per la romance queer, ad esempio) eppure risulta molto difficile inquadrarlo, perché tocca elementi parecchio diversi.
Questa volta il periodo scelto dalla cara Sarah è il primo dopoguerra, ma la location rimane la sua amata Londra. Nel quartiere di Camberwell la precaria situazione economica -data dai cattivi investimenti del padre defunto e dalla morte in battaglia dei fratelli- convince Frances Wray e sua madre Emily ad affittare alcune stanze; stanze nelle quali si trasferiscono ad inizio volume Leonard "Len" e Lilian "Lil" Barber, una giovane coppia. Stanca di una routine domestica fatta di piccole economie e tristi uscite con la madre, Frances si fa coinvolgere sempre più nella vita dei ben più vivaci inquilini, subendo in particolare il fascino della bella Lil.
Un intreccio quindi abbastanza lineare e prevedibile, seppur colorato da un paio di svolte per nulla scontate. Nonostante ciò, la trama rimane il tallone d'Achille in questa narrazione, con una prima metà composta soprattutto da semplici episodi domestici ed una seconda in cui l'autrice tenta di dare un guizzo alle vicende senza però pestare abbastanza il piede sul pedale del ritmo, che rimane parecchio fiacco per tutto il volume. L'altro limite del libro si cela nella scelta di mescolare due generi (il romance ed il thriller) molto distanti tra loro; non si tratta di una scelta sbagliata a prescindere, perché le commistioni di storie diverse possono portare a risultati interessanti, Waters non trova però il coraggio di stravolgere l'attitudine dei protagonisti, ed è questo a rendere la miscellanea poco efficacie.
Eppure io mi sono sentita incredibilmente coinvolta nella storia di Frances e Lil: la travolgente prosa della cara Sarah mi ha trasportata all'interno del libro, facendomi avere davvero a cuore le sorti dei personaggi. Una gran parte del merito và sicuramente all'ambientazione, che non solo è inappuntabile dal punto di vista storico -senza per questo sfociare nella pedanteria-, ma risulta anche di vitale importanza per fornire un contesto socioeconomico rilevante e per motivare le azioni degli stessi protagonisti. La Londra dei primi anni Venti non rimane quindi un fondale impersonale delle vicende raccontate ma le influenza direttamente, e l'autrice sottolinea in più passaggi come diverse azioni cruciali siano da imputare tanto all'indole del carattere che le compie quanto alla condizione (dettata dal potere economico, dal genere di appartenenza o perfino dalla mera apparenza fisica) in cui la società lo ha relegato: in un'altra epoca Len sarebbe meno strafottente, Emily meno pedante, Lil meno ritrosa e Frances meno impaurita.
Parlando quindi dei personaggi, non si può che sottolineare come tutti siano scritti con grande attenzione e coerenza; per quanto riguarda le due protagoniste, assistiamo inoltre ad un corposo percorso di crescita personale, costellato da incertezze ed ostacoli reali. Ciò rende estremamente soddisfacente assistere alla loro maturazione, anche in un'ottica relazionale. In realtà, penso che tutti i rapporti descritti nel volume siano validi -perfino quelli maggiormente fatalisti e distruttivi- perché rendono credibile l'evoluzione delle vicende e toccanti le scene più emotive.
Per quanto mi riguarda, ritengo impossibile restare indifferenti di fronte allo stile sempre curato e piacevole di Waters, soprattutto quando arriva a toccare degli argomenti molto rilevanti e delicati, come l'emancipazione, il senso di colpa o l'aborto. In quest'ultimo caso, viene presentata una descrizione parecchio cruda nella sua verosimiglianza, che non escludo possa mettere a disagio il lettore. Allo stesso modo, il finale potrebbe lasciare interdetti dal momento che non fornisce una chiusura definitiva a tutte le sottotrame; non posso però dire che abbia infastidito me, perché l'ho trovato semplicemente perfetto per il tono della storia.
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Raro esemplare di grimdarkromantasy
Confesso che "Mezzo mondo" aveva notevolmente raffreddato il mio entusiasmo verso la serie per ragazzi di Abercrombie. Ed a gettar acqua sul fuocherello delle mie aspettative c'era anche la media delle valutazione assegnate a "La mezza guerra", molto più bassa rispetto a quella del secondo capitolo. Però con un ribaltamento degno di Alessandro Borghese, vi informo che questo libro non solo mi è piaciuto, ma è riuscito perfino a diventare il mio preferito della trilogia.
La trama ci porta due anni in avanti e ad un totale di ben tre POV tra i quali destreggiarsi. Quello principale è affidato sicuramente a Skara, nipote ed erede di re Fynn, che all'inizio del romanzo vede il Throvenland cadere sotto l'attacco di Yilling lo Splendente; dopo aver chiesto l'aiuto dei sovrani vicini, la ragazza assume un ruolo di comando nella guerra contro il Gran Re con il fine di riscattare il suo regno. Fortemente collegato al suo, troviamo il punto di vista di Raith -un guerriero del Vansterland tormentato dalla sua stessa propensione per la violenza-, mentre la terza prospettiva ha una maggiore autonomia, oltre ad essere un gradito ritorno: si tratta di Koll, il giovane liberato dalla schiavitù per merito di Padre Yarvi, che ora lui sta addestrano per farne a sua volta un ministrante.
Chiaramente il conflitto contro il Gran Re e la sua ministrante Wexen rappresenta ancora una volta l'obiettivo finale della narrazione, ma questo non impedisce all'autore di dedicare ad ognuno dei protagonisti parecchio spazio; sia per esplorare i loro trascorsi, sia per crescere e superare le situazioni di stallo in cui si trovano imprigionati. Skara, Raith e Koll sono infatti combattuti tra una sorta di obbligo che sentono di dover rispettare e la propria indole personale, ed i loro percorsi individuali li portano a capire come potersi liberarsi delle pressioni esterne e scegliere in modo indipendente. Non tutte le risoluzioni sono però felici, perché il caro Joe ha ben pensato di donarci un finale dolceamaro, eppure molto soddisfacente.
La presa di coscienza non è l'unica tematica del romanzo perché, in particolar modo attraverso la prospettiva di Skara, si affronta l'argomento delle responsabilità, delle quali la ragazza deve farsi carico in quanto sovrana. Sempre tramite il suo POV, ma anche quello di Raith, si parla del modo in cui elaborare un trauma subito; affrontare le consegue delle proprie azioni è invece il tema principale nel punto di vista di Koll. Tutti questi spunti non solo sono perfettamente adeguati per gli adolescenti che costituiscono il target di riferimento (sì, sto ancora rosicando per colpa di "Graceling"!), ma vengono anche declinati in diverse prospettive, portando a delle conclusioni per nulla scontate.
Tra i pregi del romanzo voglio includere anche i personaggi, senza troppe distinzioni: che si tratti di caratteri già presentati nei capitoli precedenti (e penso specialmente al burbero Jenner il Gramo) oppure figure del tutto nuove -come la protettiva Madre Owd-, tutti ottengono una caratterizzazione più che degna e coerente. L'unico aspetto negativo su questo frangete è rappresentato dalla rapidità, che incide sia sulla partenza in cui non si fa in tempo ad inquadrare bene i nuovi personaggi, sia su alcune morti molto affrettate a livello narrativo, seppur non pecchino di incisività emotiva.
Pur avendo apprezzato molto come l'autore ha portato a compimento la trilogia, voglio togliermi qualche altro sassolino dalla scarpa. Per i miei gusti, la componente romance è eccessiva: non dico andasse esclusa, ma di certo non avrei sentito la mancanza di un soapoperistico quadrangolo amoroso. Non posso dirmi un'entusiasta neppure delle scene di battaglia -che in alcuni casi risultano un po' noiose a causa della loro lunghezza- e della sinossi scelta dalla CE italiana, ancora una volta falsa come una moneta da tre euro ed incapace di rendere il contenuto del volume.
Concludiamo però su delle note positive, date in particolare dal world building e dal foreshadowing. Come nel secondo libro, sono presenti degli sviluppi del mondo immaginato da Abercrombie, ma in questo caso arriviamo a delle rivelazioni estremamente interessanti, che gettano un'ombra del tutto nuova sull'ambientazione; il tutto rimanendo allo stesso tempo fedeli a quanto mostrato finora. Mi è piaciuto molto anche il modo in cui tanti dettagli dei primi libri sono stati qui ripescati, diventando utili all'intreccio e mostrando un'evoluzione di storie e caratteri che farebbe una figura di tutto rispetto anche in una narrazione per lettori adulti.
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Che voglia di Kanelsnegle!
Circa un anno e mezzo fa ho scoperto la prosa di Engberg con il murder mystery "Il guardiano dei coccodrilli", un titolo che mi aveva decisamente stupito in positivo. Non ho però recuperato subito gli altri volumi di questa serie dedicata alla coppia di poliziotti danesi Jeppe ed Anette perché era stato tradotto il terzo ma non il secondo, ed ingenuamente speravo che si trattasse soltanto di un disguido riguardo all'ordine di pubblicazione. Dopo questa infruttuosa attesa posso dare per certo che non si tratta affatto di un disguido: la CE italiana ha chiaramente fatto suo l'errore di quella statunitense, ignorando "Blodmåne" e trasformando questa pentalogia in una tetralogia.
Dopo aver sventolato bandiera bianca di fronte a quest'inspiegabile scelta editoriale, sono quindi approdata ad "Ali di vetro", in cui lo sbalzo temporale di oltre un anno tra primo e terzo capitolo si nota soprattutto per la trasformazione di Anette Werner in neomamma di una bimba senza nome. Rimasto orfano della sua storica partner, l'assistente di polizia Jeppe Kørner si trova a dover indagare in autonomia su un nuovo caso bizzarro, quello del cadavere di una donna rinvenuto nell'isola pedonale di Strøget, in particolare nell'acqua della fontana al centro di Gammeltorv, la più antica piazza di Copenaghen. Oltre alle loro due prospettive, il volume può vantare un discreto numero di POV tra i quali quello dell'aspirante scrittrice Esther de Laurenti, già comparsa nel primo romanzo.
L'intera vicenda copre poco meno di una settimana nell'autunno danese, tanto cupo quanto suggestivo, che Engberg è estremamente capace nel rendere su carta: la sensazione di trovarsi al fianco dei suoi personaggi è palpabile. Personaggi che rappresentano parimenti uno dei punti a favore del volume, per merito di una caratterizzazione molto attenta e ben equilibrata all'interno di una storia in cui la trama la fa da padrona per ovvie ragioni. Rispetto al primo libro, sono poi riuscita ad apprezzare maggiormente i caratteri maschili, in particolare Jeppe sul quale è stato fatto un bel lavoro di maturazione personale e relazionale; ho trovato parecchio toccanti i suoi confronti nel finale con la madre e con Sara.
Seppur il suo punto di vista sia stato messo un po' da parte, mi è piaciuto anche il contributo di Anette alla risoluzione del mistero, ma soprattutto la sua presa di consapevolezza del nuovo ruolo che si trova a ricoprire ed i piccoli scorci sul suo rapporto con il marito Svend. La sottotrama dedicata ad Esther, per quanto sia altrettanto gradevole dal punto di vista emozionale, mi è sembrata invece troppo slegata dal resto della storia: vederla interagire con Gregers è sempre divertente, ma i pochi elementi che avrebbero potuto unire la sua vicenda all'indagine di Jeppe si dimostrano inconsistenti.
Un altro piccolo difetto -che comunque non inficia a mio avviso la godibilità della lettura- è rappresentato dall'accavallarsi di tanti POV all'interno di un solo capitolo; si rimane così un filino spiazzati dai frequenti cambi di scena, specialmente quando l'impaginazione fa in modo che non si riesca neppure a capire che un cambio c'è stato. In realtà a parte il problema relativo alla mancata pubblicazione del secondo capitolo, non ho particolari critiche verso l'edizione, che anzi merita una virtuale pacca sulla spalla per aver scelto di tradurre il testo dall'originale danese: visto com'era stato imitato l'errore della CE statunitense, temevo che la traduzione fosse passata attraverso l'inglese prima di approdare all'italiano!
I veri punti di forza di questa lettura sono però il suo intreccio e la gestione delle tematiche. Per quanto riguarda il primo, abbiamo una partenza in medias res molto coinvolgente che si sviluppa in un crescendo di misteri e prospettive non sempre attendibili; superficialmente sembrerebbe infatti facile individuare l'assassino come lettori, ma la cara Katrine è stata davvero brava nel bilanciare le rivelazioni, facendoci arrivare inconsapevoli al colpo di scena finale. Altrettanta bravura l'è servita per trattare un argomento delicato come quello della malattia mentale, un aspetto nel quale ha saputo evitare gli stereotipi senza per questo dipingere un contesto inverosimile nella sua positività. Un lavoro ben svolto, che raggiunge in suo apice nella scrittura dei personaggi di Isak e Marie.
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Ma voglia di volare (o strangolare)
Dopo aver completato miracolosamente un'epopea di puntini lunga quasi settecento pagine, non capisco perché il karma debba infierire sulla sottoscritta con un altro libro composto da una quantità indegna di frasi lasciate in sospeso. Per lo meno il celebre titolo del duo composto da Pierre Boileau e Thomas Narcejac è parecchio più compatto rispetto a "La torre dell'alba"! Questo non mi ha impedito di alzare più volte gli occhi al cielo durante la lettura de "La donna che visse due volte", un romanzo con tante qualità, una buona parte delle quali non rientra purtroppo nei miei gusti.
La narrazione ci trasporta inizialmente nella Parigi della strana guerra, con la popolazione francese che affronta in modi molto diversi la minaccia dell'invasione nazista: c'è chi lascia la città in preda al panico e chi continua ad ignorare gli allarmi notturni. È in questo momento storico che si ritrovano due vecchi amici, ovvero l'imprenditore di successo Paul Gévigne e l'ex poliziotto diventato avvocato Roger Flavières; il primo incarica il secondo di avviare un'indagine nei confronti di sua moglie Madeleine, che da qualche tempo si comporta in modo bizzarro. Flavières inizia così a pedinare la donna, scoprendo il suo inspiegabile interesse nei confronti della bisnonna Pauline Lagerlac, e diventandone a sua volta ossessionato.
L'intreccio mystery si può già indovinare da queste poche righe, ma nei fatti lo sviluppo della trama è ben più ampio ed intricato, mescolando con attenzione tocchi di noir, thriller ed horror fino ad arrivare alla rivelazione finale. Una rivelazione che ammetto sia riuscita a stupirmi, nonostante i suoi settant'anni! un po' per merito della poca affidabilità del POV scelto, un po' perché non ho mai avuto l'occasione di vedere l'adattamento diretto da Hitchcock. La narrazione è stata inoltre supportata in maniera efficacie dai suoi protagonisti, a dispetto dei loro caratteri poco definiti.
Tra i pregi del volume posso far poi rientrare l'ambientazione, sia a livello storico (perché i periodi scelti riflettono bene lo stato d'animo dei personaggi in scena) sia nelle descrizioni dei singoli ambienti o paesaggi: il duo Boileau-Narcejac dimostra un vero talento nel delineare delle immagini evocative nella loro semplicità, nonché capaci di adattarsi bene all'atmosfera greve che permea l'intero romanzo. Il senso di disagio provato dal protagonista si estende infatti al lettore, che allo stesso modo non è più certo di quanto ci sia di reale nelle vicende descritte, né quale genere di sentimenti gli trasmetta il comportamento di Flavières.
Per mia preferenza, questo è stato invece un punto non propriamente a favore: la prospettiva del protagonista mi è risultata davvero spiacevole da seguire; inoltre non sono una grande fan delle narrazioni in cui la chiarezza si fa desiderare. E se è vero che l'epilogo fornisce una risposta al mistero in generale, alcuni aspetti specifici continuano a sembrarmi forzati ed approssimativi. Un difetto un po' più soggettivo è individuabile verso il finale, dove sono presenti diversi confronti molto importanti, per i quali non viene fornita poi una conclusione soddisfacente: ho avuto quasi la sensazione di essermi persa delle scene, tanto da dover tornare indietro a controllare e rileggere! In fondo, chi mai passerebbe dal rifiutare le avances di uno sconosciuto al frequentarlo stabilmente da una pagina all'altra?
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Cagna-regina spuntafuoco non si può sentire
Nonostante io sia ormai entrata nel vivo della saga, ammetto che portare a termine la lettura di "Regina delle ombre" non è stata un'impresa da poco. E non solo perché si tratta di un tomo parecchio corposo, ma in particolar modo per la dispersività dell'intreccio, che mai come in questo quarto (o quinto, a seconda dei punto di vista) capitolo dimostra il talento della cara Sarah a raccontare in trecento pagine degli avvenimenti che qualunque altro autore avrebbe saputo condensare in cinquanta al massimo. Andiamo quindi a vedere quali sono gli spunti principali della trama.
In questo volume il continente di Erilea torna ad essere la sola ambientazione, e più in particolare si rimane all'interno dei confini del regno di Adarlan. Per quanto riguarda Aelin e la sua neonata corte, i loro obiettivi nell'immediato riguardano il ritrovamento dell'Amuleto di Orinto e la restaurazione della magia bandita dal re; questa linea di trama va ad includere un corposo numero di POV già visti nei libri precedenti, ma ciò non allontana mai di molto l'azione dal filone principale, al massimo vengono incluse delle quest collaterali per salvare determinati personaggi. Gli altri capitoli sono riservati quasi interamente a Manon ed alla neo-arrivata Elide, che dalla fortezza di Morath continuano a fornire al lettore un focus sui piani degli antagonisti.
A differenza di quanto successo ne "La corona di fuoco", queste vicende finiscono poi per collimare, tanto che l'intervento di Manon risulta decisivo al momento della resa dei conti con il re di Adarlan. Ovviamente ho apprezzato molto questa convergenza, perché contribuisce a dare un maggior senso di concretezza alla storia. Le vicende di Morath risultano piacevoli anche per l'introduzione di Elide (prima menzionata di sfuggita nei flashback), che si rivela un personaggio molto più interessante e combattivo di quanto la sua presentazione lasci intendere.
Rimanendo nell'ambito dei personaggi, Lysandra conquista a mani basse la mia preferenza in questo romanzo: già l'avevo apprezzata nella sua prima apparizione (avvenuta ne "La lama dell'assassina"), ma qui la sua caratterizzazione ha fatto passi da gigante, portando a termine un emozionante percorso personale e stringendo dei credibili rapporti di amicizia. Più in generale, mi sono piaciute quasi tutte le interazioni all'interno del cast; un paio rimangono ad un livello superficiale, ma la maggior parte dimostra una buona solidità e porta a diversi confronti significativi.
Non tutti i personaggi si meritano però le mie lodi! Aelin dimostra di avere ancora parecchia strada da fare nel suo nuovo ruolo di leader vista la sua mentalità molto orientata all'individualismo; Aedion e Dorian per motivi diversi sono spesso tagliati fuori dall'azione vera e propria, mentre Chaol parte con dei buoni spunti in mente per poi combinare poco o nulla: per la maggior parte del volume risulta quasi un comprimario. Ancora una volta sono però gli antagonisti a deludere, in parte perché la loro fama fa sperare in qualcosa di meglio (specie nel caso di Arobynn, infatti la stessa Aelin ammette di non aver capito a cosa mirasse alla fine dei conti) ed in parte perché la loro volontà di dimostrarsi malvagi ad ogni costo prevale sul buon senso.
Come già menzionato, il grosso difetto di questo libro rimane il ritmo fiacco della prima parte, che tra allungamenti e ripetizioni copre ben 400 pagine. Tra i punti a sfavore troviamo ancora una volta la traduzione poco scorrevole e le piccole contraddizioni interne, che in più scene lasciano interdetti. Ed un po' interdetti lascia anche il finale, il quale arriva a chiudere tante linee di trama, forse troppe se consideriamo i tre (gargantueschi!) volumi che ancora mi attendono in questa serie.
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Potevo rimanere offeso!
La passione di Christie per il mondo della recitazione è indiscutibile, e "Tragedia in tre atti" risulta essere uno dei migliori esempi di come l'autrice abbia saputo intrecciare una solida trama mystery attorno alla tematica. In questo romanzo infatti non solo tra i personaggi troviamo attori e sceneggiatori, ma la struttura stessa del volume richiama quella di un'opera teatrale. E proprio per questo mi ha meravigliato realizzare quanto poco fosse presente un personaggio tanto plateale come il buon Hercule!
Richiamando (o meglio, anticipando) una vicenda simile a quella di "Assassinio allo specchio", veniamo trasportati nella località costiera cornica di Loomouth, dove da qualche tempo risiede il noto attore teatrale Sir Charles Cartwright. Nei primissimi capitoli del libro, il baronetto organizza una festicciola per amici e conoscenti, durante la quale il reverendo Stephen Babbington muore in circostanze poco chiare. Il tutto viene però archiviato, fino a quando una nuova morte sospetta spinge i personaggi a tracciare dei collegamenti ed a cercare un possibile movente per l'omicidio del mite pastore.
A portare avanti un'indagine parallela a quella delle forze dell'ordine non è però l'immodesto detective belga, bensì lo stesso Sir Charles; a supportarlo durante perquisizioni ed interrogatori troviamo la sua giovane innamorata Hermione "Hermi" Lytton Gore e l'amico di vecchia data Satter. Quest'ultimo è nei fatti il POV più ricorrente nel romanzo, oltre a rappresentare l'ennesimo caso di crossover all'interno dell'universo narrativo di Christie: personalmente l'avevo già incontrato in un racconto presente nell'antologia "Tre topolini ciechi" (del quale ammetto di non avere un ricordo granché positivo), ma la sua prima apparizione ufficiale risale alla raccolta del 1930 "Il misterioso signor Quin". È giusto precisare che in entrambi i casi veniva chiamato con il cognome esteso Satterthwaite, quindi non riconoscerlo immediatamente è del tutto comprensibile.
La prospettiva di Satter rientra per me tra i pregi del volume, perché lo reputo un personaggio affascinante e divertente; e questo nonostante il suo contegno sia molto lontano dalla frivolezza di Hastings, qui del tutto assente (sarà tornato in Argentina?). Ho trovato molto simpatici anche i tanti cenni metaletterari ed i commenti sopra le righe fatti dai protagonisti mentre portano avanti la loro indagine in modo decisamente amatoriale, e proprio per questo a tratti esilarante.
Come accennato il tema del teatro, ricorrente nelle opere christieane, rientra parimenti tra i punti di forza del libro. Il vero pregio a mio avviso è però da individuare ancora una volta nell'arguzia dell'intreccio narrativo: la cara Agatha è abilissima nel portare il lettore lontano dalla verità, fornendogli al contempo tutti i mezzi per decriptarla. E pur avendo già letto colpi di scena simili (ma in pubblicazione successive!), devo dire che la risoluzione mi è sembrata del tutto coerente e molto soddisfacente.
Ed i piccoli difetti, tra i quali la scarsa presenza di Poirot in scena, non riescono più di tanto ad offuscare la piacevolezza della lettura. L'unico aspetto sul quale ho davvero da ridire è l'eccessiva rapidità, che ho individuato ironicamente sia nelle prime pagine -nelle quali non viene concesso al lettore il tempo sufficiente per fare la conoscenza dei personaggi- sia nell'epilogo, dove l'aggiunta di un breve capitolo a parte per concludere la sottotrama romantica avrebbe reso il tutto meno forzato e di cattivo gusto.
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Vocine nella testa, eh? Molto conveniente...
Procedere nei meandri di questa saga sembra sempre più un'impresa improba, eppure eccomi a parlare di quello che tecnicamente è il penultimo capitolo, ossia "L'impero delle tempeste". Dico tecnicamente perché da brava completista quale riconosco di essere mi sorbirò anche "La torre dell'alba" prima di approdare all'epilogo della serie. Non che Chaol mi stia antipatico come personaggio principale, ma l'idea di leggere un libro lungo quanto questo soltanto sul suo viaggio nel Continente Meridionale mi entusiasma pochissimo.
Per ora rimaniamo su questo volume, nel quale la narrazione si divide inizialmente tra tre prospettive. Ritroviamo Manon ancora agli ordini delle Matrone, ma decisa ad opporsi come può alle direttive crudeli impartite da queste ultime e dal duca Perrington, mentre Elide -da lei lasciata nella foresta di Oakwald- incrocia la strada di Lorcan nel corso della sua missione per raggiungere Celaena. Capitanato da Aelin, il gruppo più numeroso di POV lascia invece l'appena ritrovata Terrasen per cercare nuovi alleati con i quali combattere l'imminente guerra contro le creazioni demoniache di Erawan.
In precario equilibrio sul confine tra chiarezza e spoiler, non credo di poter dire di più, ma di certo la trama risulta meglio strutturata rispetto ai primi capitoli; inoltre sono presenti delle svolte narrative degne di questo nome per una buona parte dei personaggi. Da una prospettiva soggettiva, ho apprezzato specialmente come si è evoluta la storyline di Manon, non a caso lei, Elide e Lysandra sono i caratteri che reputo meglio scritti e con dei percorsi più significativi. Mi piacerebbe includere in questo elenco anche Aelin (così da fare l'en plein delle personagge!), non fosse che l'autrice si ostina a non voler riconoscere i suoi difetti come tali: di conseguenza lei vince sempre, oppure viene sconfitta solo in virtù della scorrettezza degli antagonisti.
Proprio gli antagonisti rappresentano per l'ennesima volta una delle più grosse debolezze della saga, perché le loro blande motivazioni e gli ancor più blandi piani li rendono al meglio dimenticabili. Non ho troppi elogi da fare neppure nei confronti dei vari coprotagonisti, dal momento che si adoperano ben poco per portare avanti la trama e spesso sembrano ridotti al ruolo di mero interesse romantico. E per quanto mi riguarda i continui ringhi animaleschi non aiutano la loro causa!
Questo porta inevitabilmente a parlare del lato romance che, devo ammettere, temevo avrebbe preso il sopravvento sull'intreccio principale in modo definitivo. Invece, la cara Sarah riesce ancora a mantenere un accettabile bilanciamento, relegando dichiarazioni di amore eterno ed amplessi vari ai momenti di stasi della trama. Le mie riserve cominciano quando si arriva ad analizzare le singole coppie: Aelin e Rowan sono di una prevedibilità soporifera, Aedion e Lysandra andavano bene fino all'inspiegabile reazione di lui nel finale, Manon e Dorian mi sembrano un'accoppiata totalmente casuale. Temo che, nonostante finiscano assieme per colpa delle voci nella testa, Elide e Lorcan siano a conti fatti la mia coppia preferita del romanzo.
Per quanto riguarda il lato editoriale non ho purtroppo note positive, perché sul fronte statunitense ritengo ci sia stato un debolissimo lavoro per editare il testo -e lo provano le numerosissime ripetizioni di termini e dinamiche-, mentre su quello italiano ci troviamo davanti all'ennesima traduzione frettolosa e sprecisa. E concludo con un'osservazione circa le novità introdotte da Maas in questo volume; mi sembra chiaro che abbia tentato di correggere il tiro su certi temi per andare incontro alle critiche mosse dai lettori, e pur apprezzando sempre chi si impegna per migliorare, temo che questo sforzo non sia stato sufficiente. Non basta mettere un paio di slogan femministi in bocca ai personaggi maschili, non basta dire che qualche personaggio è molto abbronzato, non basta rendere randomicamente gay dei caratteri secondari! soprattutto quando si avrebbe dell'ottimo materiale per scrivere due coppie omosessuali, volendo. Purtroppo mi sembra chiaro che la cara Sarah è determinata pilotare i suoi personaggi principali unicamente verso relazioni etero.
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La cara Alwyn non perde neppure il pelo
Quando una serie comincia con un titolo debole come "Rebel. Il deserto in fiamme", le mie aspettative rispetto ai seguiti vengono notevolmente ridimensionate, così come l'interesse per la lettura degli stessi. Lasciata passare l'intera estate, mi sono però decisa a proseguire con "Rebel. Il tradimento", un secondo capitolo che conferma in toto i difetti del suo predecessore riuscendo comunque a fare qualche timido passo in avanti.
Dopo un salto temporale di ben sei mesi ritroviamo Amani come membro a pieno titolo della rivolta capeggiata dal cosiddetto Prinicipe Ribelle Ahmed contro lo strapotere del Sultano. Una serie di circostanze porta però la ragazza proprio all'interno dell'harem del sovrano, dal quale tenta di lavorare come spia a favore dei ribelli. Questa missione le permette di ritrovare alcune vecchie conoscenze e di scoprire quali siano i progetti del loro antagonista sul lungo periodo.
A fare da intercalare tra un'avventura e l'altra troviamo dei racconti folkloristici che -sebbene didascalici- risultano molto piacevoli ed in linea con il contesto scelto. Un altro elemento a favore del romanzo che però avrei voluto venisse trattato in maniera meno superficiale è quello delle tematiche; in primis, la violenza domestica e di genere: un po' di sottigliezza avrebbe giovato alla godibilità del contenuto, ma trovo comunque positivo impegnarsi per introdurre un pubblico giovane a determinati argomenti.
Tra i pregi di questo seguito mi sento di includere le nuove ambientazioni che risultano affascinanti ed abbastanza dettagliate, pur privandoci di una buona parte delle creature fantastiche presentate nel primo libro. Questo aspetto si compensa in parte con l'approfondimento fatto sui djinni e sulla loro mitologia di base, collegata ovviamente a quanto accade nel presente. Su un piano più soggettivo, ho gradito anche la minor presenza della componente romance, seppur sia necessario precisare che le poche scene romantiche sono quanto di più fuori luogo si potesse desiderare!
E passiamo dagli incerti punti a favore ai sicuri punti a sfavore. Come accennato, la maggior parte dei vecchi difetti è tutt'ora presente: svenimenti convenienti della narratrice, scene soltanto raccontate o lasciate all'interpretazione del lettore, intreccio banale, prosa infantile, descrizioni limitate, personaggi stereotipati, poca rilevanza per le scene traumatiche ed un'edizione italiana di certo rivedibile. Non escludo che la cara Alwyn si sia adoperata per migliorare, ma questo risultato fa capire quanta strada abbia ancora da percorrere.
Gli aspetti meno riusciti di questo capitolo nello specifico riguardano quasi esclusivamente l'intreccio, partendo proprio dagli eventi alla base dello stesso: l'allontanamento tra Amani e Jin da un lato, e la necessità di avere una spia a palazzo dall'altro. Il primo è causato da una serie di avvenimenti che non soltanto sono preclusi a noi lettori (visto che avvengono prima dell'inizio del volume), ma anche alla stessa protagonista che nel mentre era in fin di vita! Per quanto riguarda lo spionaggio, si tratta di uno dei tanti motivi per cui la strategia militare in questa storia fa ridere i polli: che bisogno c'è di una spia sempre in pericolo quando hai a tua disposizione dei demdji in grado di indovinare cosa fa il nemico e due mutaforma da poter inviare a palazzo con l'aspetto di animali?
Altri néi contenutisti (in)degni di nota sono le tante coincidenze -che permettono alla protagonista di incrociare sempre facce note in un regno vastissimo-, le dinamiche rubate ad un qualunque teen drama ambientato in un liceo americano, le regole magiche cambiate a seconda delle necessità autoriali, un'infelice scelta narrativa nel finale, l'assurdità di ogni elemento medico, le snervanti ripetizioni di nomi e parentele, e la presenza di scene del tutto immotivate. In quest'ultima categoria ricadono per esempio lo scambio fatto da Ayet per le forbici o Uzma che scopre la cicatrice di Amani giusto in tempo perché qualcuno la noti; la regola di fondo sembra essere: se è utile per la trama, per quanto improbabile succederà.
E come poteva la protagonista non rientrare nella categoria dei demeriti? Amani è fornita di una caratterizzazione a dir poco ballerina, che come tutto il resto varia per servire la narrazione. Hamilton cerca di spacciarla per una personaggia umile, che si incolpa in continuazione; peccato che le presunte colpe riguardino sempre elementi estranei, mentre le azioni per le quali si potrebbe in effetti chiederle conto e ragione vengano sapientemente glissate. È il caso del suo comportamento verso la cugina Shira (che cerca solo quando ne ha bisogno, senza preoccuparsi mai realmente per lei) e l'amico Tamid, con il quale dice di voler far pace ma si pone sempre in modo molto aggressivo. Le protagoniste imperfette mi piacciono, quelle passivo-aggressive molto meno.
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Padre Yarvi è il più scaltro, l'ho capito
Quest'anno sto dedicato decisamente poco spazio alle serie, rispetto ai volumi autoconclusivi, però ci tengo per lo meno a continuare quelle già cominciate. Tra le altre, è il caso della trilogia Il Mare Infranto, cominciata lo scorso febbraio con "Il mezzo re"; un inizio più entusiasmante di quanto la premessa lasciasse intendere, soprattutto per la presenza di una trama chiara e grossomodo solida da seguire, elemento non scontato nella prosa del caro Joe. Ironicamente una trama -fosse anche oscura e traballante- è proprio ciò di cui si sente la mancanza in "Mezzo mondo", in cui i personaggi sembrano mossi da tutto fuorché dalla loro volontà.
Il nuovo romanzo si ambienta tre anni dopo lo stupefacente finale del primo volume e porta con sé anche due nuovi punti di vista, dei quali leggiamo a capitoli alterni. Da un lato abbiamo Hild "Thorn" Bathu, una giovane determinata a diventare una guerriera rinomata come suo padre, e dall'altro Brand, un tempo apprendista fabbro ma ora diventato a sua volta aspirante combattente; i sogni di entrambi vengono però contrastati dal dispotico Maestro Hunnan, e questo li fa finire sotto l'ala (non troppo) protettrice di Padre Yarvi. Il Ministrante del Gettland ha infatti bisogno di persone coraggiose che lo accompagnino in una missione verso sud, dove spera di trovare potenti alleati nella guerra imminente contro il Gran Re.
La sarcastica e parecchio sopra le righe prosa di Abercrombie non piacerà a tutti, ma io la trovo sempre divertente, specialmente quando si arriva alle esagerate prove di forza fisica date dai suoi personaggi. Ed anche questi ultimi si confermano un solido punto a favore: ho trovato apprezzabili sia i vecchi caratteri che tornano in scena sia i nuovi entrati, perché tutti riescono a ritagliarsi uno spazio per quanto piccolo ed a risultare memorabili per le loro particolarità. Sull'intero cast brillano però i due protagonisti, ai quali viene riservato un approfondimento psicologico molto più curato, facendo pian piano chiarezza sul loro passato e su quale sia il ruolo adatto a loro all'interno del tumultuoso Gettland.
Altro punto a favore è l'ambientazione, che in confronto al capitolo precedente ottiene una sostanziosa espansione. Al fianco dei personaggi usciamo dai confini del Mare Infranto per esplorare i territori dell'impervio principato di Kalyiv e dell'afoso Impero del Sud; luoghi che non si limitano a fare da sfondo inconsistente alle vicende ma diventano parte fondamentale di esse, anche perché veniamo messi a conoscenza di nuove usanze e ammiriamo architetture inedite, tra gli altri dettagli. Fra i pregi mi sento poi di includere il tono più maturo dato alla narrazione, seppur con una piccola riserva: il target infatti non è cambiato, e per questo alcune delle scene risultano a mio avviso eccessive.
Passando ai motivi per cui, pur reputando godibile la lettura, non l'ho trovata all'altezza del primo libro, troviamo la già citata trama. Nonostante sia Thorn sia Brand compiano una crescita personale durante l'anno in cui si ambienta la storia, ciò che fanno non è quasi mai una conseguenza delle loro intenzioni: si trovano ad essere delle marionette nelle mani di Maestro Hunnan, Padre Yarvi, antagonisti assortiti e -più in generale- dell'autore, il quale li fa spesso arrivare in luoghi dove non avrebbero davvero ragione di trovarsi se non per la necessità di piazzarvi un POV all'uopo.
A questo intreccio poco omogeneo si aggiungono poi dei passaggi esageratamente repentini tra un capitolo e l'altro (non si tratta più di lasciar passare qualche giorno, ma mesi interi!) ed un'attenzione eccessiva nei confronti della sottotrama romantica. Quest'ultima ha inoltre il demerito di focalizzare il proprio conflitto su delle incomprensioni degne di una commedia degli equivoci, che personalmente mi hanno trasmesso un forte second hand embarrassment.
Come ultimamente sembra capitarmi una volta sì e l'altra pure, l'edizione italiana rappresenta un ulteriore ostacolo all'apprezzamento di questo romanzo. Il lavoro di traduzione si dimostra di nuovo approssimativo -in particolare nella coniugazione dei verbi- e costellato da refusi, perfino nei nomi dei luoghi riportati sulla mappa! mappa che tra l'altro non troverete aggiornata per includere le nuove ambientazioni, come invece è stato fatto nella versione inglese. E per ultimo voglio menzionare un elemento che si trova invece ancor prima dell'inizio, ossia la sinossi; oltre ad essere immotivatamente lunga, quella scelta da Mondadori semplicemente non presenta la storia in modo adeguato, ponendo l'attenzione su Yarvi ed in parte su Thorn mentre Brand (il coprotagonista!) viene appena nominato. Costava tanto mettere un po' di attenzione in più e scrivere un'introduzione coincisa e veritiera?
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Un figlio preferito c'è sempre
Quando ho cominciato la lettura de "La custode di mia sorella" ero tanto esaltata per il titolo in sé (che continuo comunque a considerare una scelta geniale!) quanto dubbiosa del contenuto effettivo. Non si può negare che lo spunto sia decisamente interessante, ma capita spesso di leggere buone idee svilite in trame poco solide; da questo punto di vista, Picoult non mi ha propriamente deluso, ma ciò non toglie che da una premessa simile si potesse ricavare un romanzo più coerente e lineare.
La narrazione si apre su Upper Darby, città fittizia nello Stato del Rhode Island; qui vive tra molte difficoltà la famiglia Fitzgerald, causate soprattutto dall'aggressiva forma di leucemia che anni prima è stata diagnosticata alla figlia mediana Katherine "Kate". Letteralmente concepita per essere la donatrice perfetta per la sorella, la tredicenne Andromeda "Anna" si trova di fronte all'ennesima richiesta dei genitori: donare uno dei suoi reni per salvare ancora una volta la vita a Kate. In questo caso Anna decide però di opporsi, assumendo l'avvocato Campbell Alexander per intentare una causa di emancipazione medica contro la sua stessa famiglia.
Il volume è narrato in prima persona, alternando però diversi POV che mostrano le riflessioni di tutti i Fitzgerald, oltre a quelle di Campbell e della tutrice ad litem Julia Romano. Questa decisione inizialmente non mi convinceva troppo (specie per l'eccessiva retorica nei capitoli di Anna), ma pian piano ho realizzato che la cara Jodi era riuscita a rendere ben distinguibili le voci dei protagonisti. In generale, ho trovato caratterizzati in modo solido tutti i personaggi, attorno ai quali si sviluppano delle affascinanti dinamiche relazioni disfunzionali che sono forse il maggior pregio del libro.
Il volume è molto interessante anche per gli ottimi quesiti etici che suggerisce al lettore, a prescindere dal modo in cui l'intreccio li sfrutta: è giusto fare pressione morale su un donatore? o anteporre il benessere di una persona sana alla possibilità di salvarne una malata? oppure ancora concentrare la propria attenzione in via prioritaria su uno soltanto dei propri figli? Un altro pregio -decisamente inaspettato- si nasconde nella traduzione, che fornisce al lettore nostrano una gran quantità di utili informazioni socioculturali tramite note a fondo pagina. E per concludere questa carrellata di punti a favore, devo assolutamente nominare la partenza: le prime scene sono molto incisive, con Anna che prova a racimolare qualche soldo per poi presentarsi a Campbell, dando già un'idea della sua determinazione.
Questo incipit incisivo non viene però supportato dal resto della trama, anzi si percepisce quasi una lentezza narrativa, che si scontra nettamente con la teorica urgenza della donazione alla base della storia. Il rallentamento è dovuto in parte alla volontà dell'autrice di rendere ad ogni costo sensazionalistiche le sue scelte narrative, ma anche alla quantità di sottotrame inserite successivamente. Alcune di queste servono soltanto a distrarre e fuorviare (come nel caso del padre abusivo di Campbell), altre avrebbero effettivamente beneficiato di maggior attenzione per potersi amalgamare al resto dell'intreccio -e penso in particolare a quanto viene mostrato sul personaggio di Jesse, il figlio maggiore dei Fiztgerald-, e poi c'è Julia. L'inutile Julia, con i suoi immotivati pipponi moralisti, con l'ancor più inutile sorella gemella e con una delle romance più casuali e fuori luogo di cui abbia letto recentemente.
Altri demeriti a margine sono le battute inadatte al contesto (quella del cane guida soprattutto diventa fastidiosa dopo un po'), l'esasperazione delle disgrazie che capitano alla famiglia protagonista, la presenza ridottissima della prospettiva di Kate -di cui capisco la ragione, ma ritengo ugualmente che avrebbe meritato più spazio- e la scelta di limitare quasi sempre al passato il POV della madre Sara: sarebbe stato interessante scoprire i suoi pensieri prima del finale, anche perché gli altri protagonisti raccontano dei flashback senza per questo interrompere la narrazione al presente. E proprio l'epilogo condensa l'altra grossa critica al romanzo, perché a quel punto Picoult ha deciso di immolare sull'altare della commozione ad ogni costo tutte le riflessioni fatte prima sull'autodeterminazione; e le tirate paternalistiche ed inconcludenti durante il processo fanno da adeguato contorno.
Indicazioni utili
- sì
- no
Cambiare nome ai personaggi è la colpa minore
Posso addossare una parte del mio mancato apprezzamento di "Graceling" all'influenza che mi ha colpito inspiegabilmente in piena estate? in fondo, perché no! Dal momento che in questo romanzo tutto succede per puro caso, niente vieta alla sottoscritta di accampare scuse randomiche per aver fatto una fatica immane non tanto a terminarne la lettura quanto a trovare degli aspetti positivi ai quali aggrapparsi nel processo.
La vicenda narrata da Cashore si ambienta nel classico mondo fantasy simil-medievale, con tanti regni in rapporti più o meno buoni gli uni con gli altri ed alcuni individui segnati dall'eterocromia, e per questo dotati di abilità paranormali. Tra di loro c'è la protagonista Lady Katje "Kat", nipote di re Rand del Middluns e grande amica del cugino -ed esperto di medicinali- Raffin, con l'aiuto del quale ha anche fondato il Consiglio. Questa società segreta dai nobili ideali porta la giovane ad incrociare la strada di un altro principe (in questo caso del regno insulare di Lienid), Grandemalion Verdeggiante detto "Po", durante le operazioni per il salvataggio del nonno di lui. I due partono poi in missione proprio per svelare il mistero dietro al rapimento dell'anziano reale.
Fatte le dovute premesse, direi di passare ai pregi del volume che ho tanto faticosamente ricercato, precisando che sono più soggettivi del solito. Ho infatti un chiaro debole per le storie di sopravvivenza in situazione estreme, motivo per il quale tutta la parentesi survival che occupa una buona fetta della seconda metà mi ha intrattenuto parecchio. Promuovo anche il rapporto di amicizia molto tenero tra Katje e Bitterblue, un'altra principessa (sì, ci sono più nobili che plebei in questo libro!) che i protagonisti incrociano durante la loro avventura.
E messi così da parte gli unici punti a favore, arriviamo agli elementi meno riusciti, che purtroppo riguardano tutti gli aspetti più importanti: prosa, trama, personaggi, tematiche ed ambientazione! Cominciamo proprio da quest'ultima, perché la scelta di nomi così banali per un mondo fantasy fa pensare più ad un bimbo delle elementari che ad una donna di trenta e passa anni... i regni chiamati come i punti cardinali, le capitali come i loro sovrani (con conseguenti problemi postali ad ogni incoronazione, immagino!), le città portuali chiamate porti... A riprova voglio fare giusto un esempio di questo tripudio di fantasia: il regno a sud si chiama Sunder, quindi la sua città portuale non può che chiamarsi Sunport; il sovrano è re Murgon, di conseguenza la capitale è chiamata Murgon City e la strada che porta ad essa Murgon Road.
Tanta creatività condiziona ovviamente anche l'intreccio, costellato da incontri fortuiti e scene inspiegabilmente lunghe, e pure tediose visto che tutti i colpi di scena sono fin troppo telefonati. Non mancano poi sottotrame mal gestite o addirittura abbandonate a se stesse, come quella dell'antagonismo tra Katje e lo zio Rand, nonché una partenza eccessivamente rapida: a parte l'inizio in medias res del tutto legittimo, la prima scena sembra presupporre una conoscenza pregressa del mondo e dei personaggi, ed in particolare del Consiglio, come se la serie fosse cominciata in un libro precedente.
Di certo gli spiegoni tanto imbarazzanti quanto chilometrici con cui la cara Kristin cerca di sopperire non aiutano. In generale ho trovato il suo stile più che acerbo, anche se non privo di astuzia quando si tratta di mantenersi volutamente vaghi sui poteri -così da poter cambiare le regole in un secondo momento- come pure l'indole dei personaggi. È il caso della stessa Katje, presentata come una spietata sicaria agli ordini dello zio, che poi si rivela essere l'ennesima assassina family friendly; la sua caratterizzazione comunque non mi ha convinto in senso lato, anche perché assegnare troppe capacità ad una protagonista porta ad un calo drammatico della tensione narrativa. Neppure la sua storia d'amore con Po mi ha fatto impazzire, perché l'ho trovata priva di base e sviluppata in maniera troppo rapida.
Potremmo quindi raggruppare le mie critiche sotto la voce infantilismo, e non ci sarebbe all'apparenza nulla di male dal momento che si tratta in fin dei conti di una lettura rivolta ad un pubblico giovane (dai 12 anni, secondo la CE italiana). Peccato che tutto questo cozzi nettamente con le tematiche scelte dall'autrice: matrimonio, gravidanza, pedofilia, maltrattamenti; argomenti importanti e degni di attenzione, ma di certo inadatti al target. L'unico tema che reputo indicato per degli adolescenti, ossia quello della gestione della rabbia, sembra venire dimenticato da Cashore stessa tra un principe e l'altro.
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Fortuna che Faletti ormai è morto...
Pur non avendo amato particolarmente nessuno dei titoli letti finora, Dorn rimane un autore al quale ritorno volentieri perché i suoi thriller psicologici risultano ben bilanciati nei diversi elementi che li compongono. Il mio percorso nella sua bibliografia è stato però molto casuale: mi sono lasciata semplicemente attirare dalle sinossi più interessanti e dalle recensioni più positive. Ecco spiegata la lettura di "Follia profonda" senza aver prima recuperato il volume precedente di questa duologia -ossia "Il superstite"-, scelta che comunque non mi ha ostacolato seriamente nella comprensione delle vicende raccontate.
In realtà, questo romanzo è collegato anche ad altre opere dell'autore, tra le quali il suo celebre debutto "La psichiatra"; infatti ci troviamo nuovamente a Fahlenberg, località fittizia del Baden-Württemberg, in particolare nelle vicinanze della Waldklinik. Qui lavora lo psichiatra Jan Forstner, nostro punto di vista principale nonché vittima di un'inquietante stalker che gli fa recapitare fiori, per poi passare a disegni allegorici ed a minacce per nulla velate nei confronti delle donne con cui lo vede interagire. Mentre l'uomo cerca di individuare l'identità della persecutrice, alla sua prospettiva si alternano molte altre tra le quali quella di Felix Thanner, il sacerdote che lavora come consulente spirituale della clinica, che a sua volta entra in contatto con l'antagonista.
Le premesse per ricavarne una storia non solo appassionante, ma anche con dei validi spunti di riflessione c'erano tutte; purtroppo, l'autore toppa soggettivamente sul piano narrativo ed oggettivamente su quello tematico. Per quanto riguarda l'intreccio, alcune svolte di trama sono abbastanza scontate se bazzicate il genere, inoltre l'epilogo dà un tono troppo positivo e frivolo ad una vicenda teoricamente tragica. La principale rivelazione poggia poi su un escamotage che avevo già trovato in un romanzo di Faletti precedente a questo, e perciò ho azzeccato il finale già dai primi capitoli. Però lungi da me accusare il caro Wulf di plagio, inoltre mi rendo conto che questo specifico problema è del tutto personale: se non avessi letto prima l'altro libro probabilmente sarei rimasta decisamente colpita da com'è stata strutturata la vicenda.
Passando a quello che reputo invece un difetto in senso lato, ci troviamo di fronte ad un tema che mi aveva fatto ben sperare, perché ci sono tantissime storie in cui si parla di stalking nei confronti di una donna, ma ben pochi nei quali la prospettiva è quella maschile. Poteva essere un'ottima occasione per mostrare come questo crimine sia avulso dal concetto di genere, come anche dei pregiudizi che sorgono quando è un uomo a denunciare delle molestie; purtroppo tutto questo potenziale si riduce ad una sola scena, neppure cruciale ai fini della narrazione. A fare realmente le spese di quest'ossessione sono quasi sempre (ed ancora una volta!) le donne che ruotano attorno a Jan, identificate dalla sua stalker come possibili rivali.
Di certo, se dovessi chiudere un occhio sul modo in cui è stato trattato questo argomento -e anche un altro, del quale però non posso parlare per evitare spoiler- potrei tessere le lodi della prosa di Dorn e della caratterizzazione dei suoi personaggi. Il romanzo è infatti molto godibile, sia per la moderata presenza dell'elemento horror che per l'ottimo ritmo dato alla narrazione: il lettore non può quindi fare a meno di rimanere incollato alle pagine per leggere di come Jan riuscirà a contrastare la sua stalker e di quale ruolo giocheranno gli altri caratteri nella vicenda.
Come accennato, anche i personaggi rientrano tra i punti di forza in questo titolo, dimostrando un concreto approfondimento psicologico, sia tra i protagonisti che tra i comprimari. Come POV principale Jan mi è piaciuto molto: ad esclusione di un paio di decisioni infelici, si dimostra un personaggio intelligente e determinato, che ripone una grande fiducia nelle sue capacità come psicologo per poter trovare un punto d'incontro con il prossimo. E l'antagonista si rivela essere più che all'altezza del suo ruolo, infatti le migliori scene del volume sono quelle in cui mette in atto dei piani per ingannare o attaccare i protagonisti. Sarà anche al centro di un twist imbarazzante nella sua prevedibilità, ma rimane una villain di tutto rispetto.
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Arnie freebooter di Christine!
Specialmente nel corso degli ultimi anni, ho sviluppato una certa familiarità con la prosa del caro Stephen; quindi ormai quando devo cominciare una delle sue storie, sono sia incuriosita da cosa il libro in questione abbia in serbo per me che preparata a trovarmi di fronte determinate dinamiche narrative. Ed infatti ancor prima di iniziare la lettura di "Christine. La macchina infernale", ho pensato ad "Il camion di zio Otto" con sentimenti contrastanti: adoro infatti l'idea di un oggetto oppure un luogo in grado di assorbire e trasmettere la malvagità, ma in quel racconto il tutto scivolava poi nel ridicolo. Con il romanzo questo specifico problema invece non c'è stato, anche se le imperfezioni non sono mancate.
La vicenda comincia nell'autunno del 1978 a Libertyville, città immaginaria della Pennsylvania. È qui che l'adolescente Arnold "Arnie" Cunningham vede per la prima volta Christine, una Plymouth Fury del 1958, e sente l'impellente desiderio di acquistarla dal vecchio reduce Roland D. LeBay. Da subito, il giovane è totalmente assorbito dai lavori che deve fare per rimetterla in sesto, mentre tutti gli altri personaggi -a cominciare dal suo migliore amico Dennis Guilder- provano delle sensazioni molto negative verso l'automobile. La situazione si complica quando Arnie inizia una relazione con la bella Leigh Cabot, ma soprattutto quando un gruppo di teppisti prende di mira Christine per rivalersi su di lui.
L'intreccio è un po' più articolato in realtà, ma il cuore del libro rimane comunque l'ossessione di Arnie per Christine, che mi porta al primo degli aspetti meno convincenti: la scelta di affidare metà della narrazione alla voce di Dennis. Il suo è certamente un carattere centrale nella storia, ma mantenere un narratore onnisciente (come viene fatto nella seconda parte, tra l'altro!) avrebbe permesso di dare molto più spazio alla trasformazione di Arnie, a livello fisico ma anche psicologico. Immagino che l'intento fosse quello di creare un crescendo di tensione, ma in questo modo la trama perde di efficacia; la quasi totalità delle interazioni tra -quello che dovrebbe essere- il protagonista e l'automobile ci vengono raccontate e prima di metà volume la malvagità di quest'ultima è data solo dalle sensazioni e dai sogni dei personaggi.
L'altro difetto del volume è la presenza di diverse sottotrame che distraggono l'attenzione dal tema centrale. Anche per questo motivo la prospettiva di Dennis è limitante, perché le sue preoccupazioni nei confronti dell'amico vanno oltre la fissa per Christine e si estendono alla relazione con Leigh, al conflitto con i genitori ed ai lavori che comincia a svolgere per Will Darnell, il classico tipo losco locale che non può mancare in ogni romanzo kinghiano. Sono rimasta delusa anche dalla presentazione di Leigh, anticipata già dalla sinossi ma un po' troppo improvvisa; così come risultano prive di base le relazioni amicali e romantiche, difetto che il finale riesce almeno in parte a correggere. Infine, ho trovato la partenza un po' lenta e macchinosa (no pun intended!): la violenza vera e propria si fa aspettare, ma per fortuna quando arriva ripaga l'attesa in pieno.
In generale l'elemento paranormale mi è piaciuto molto. Ho adorato il modo in cui King ha sviluppato il concetto di un oggetto inanimato che prende vita ed assorbe l'indole del suo proprietario, infatti tutte le scene in cui Christine agisce sono davvero godibili nella loro crudezza. Si possono inoltre identificare delle nette sovrapposizioni tra elemento fantastico e problemi reali, andando a creare degli interessanti parallelismi. Si genera poi un buon livello di tensione, in particolare per merito del sapiente utilizzo del foreshadowing da parte di Dennis, che porta curiosità per le sciagure a venire.
A parte Leigh, i personaggi si dimostrano molto ben caratterizzati: anche quando si tratta di figure non centrali, il caro Stephen riesce con poche righe a renderli credibili e tridimensionali. Tra tutti spicca ovviamente Christine, ma anche Arnie che nelle sue (troppo poche!) scene POV riesce a catturare con la sua lotta interiore ed il focus sui momenti di incertezza, come durante le tre telefonate in cui prova a cercare un aiuto da famiglia ed amici. Chissà come sarebbero andate le cose se solo Dennis fosse riuscito a rispondere...
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Ai calzini un nome non lo vogliam dare?
Dovrete perdonarmi la pedanteria, ma vista la confusione che regna attorno alla serie Il romanzo di Excalibur in Italia, ritengo di dover partire con una precisazione. In questo commento andrò ad analizzare le prime tre parti dell'originale "The Winter King", pubblicate individualmente con il titolo italiano "Il re d'inverno"; infatti a differenza di quanto riportato, ad esempio, su Wikipedia nessuno dei tre volumi di The Warlord Chronicles è stato mantenuto intatto nelle vecchie edizioni nostrane. Soltanto quest'anno, in occasione dell'adattamento televisivo, Longanesi ha deciso di realizzare una versione integrale del primo romanzo.
Chiarito quale sia il testo al quale mi riferisco, pasamo all'effettivo contenuto. Traendo a piene mani dalle leggende del ciclo arturiano, Cornwell decide di realizzarne una versione storicamente accurata e sceglie come voce narrante Derfel Cadarn, un tempo guerriero fedele ad Artù ed ora monaco cristiano. Sotto la protezione della regina Igraine di Powys, l'uomo redige una cronistoria partendo dal 480, anno in cui nacque l'erede al trono di Dumnonia Mordred; in questa prima parte Derfel è soltanto un ragazzo alla corte di Merlino, ma il suo coraggio lo porta presto a diventare un valente soldato, prima agli ordini del campione del regno Owain e poi dello stesso Artù. Mentre lo vediamo crescere, assistiamo alle innumerevoli guerre che si combattono sul suolo britannico, contro i diversi popoli invasori ma anche tra gli stessi britanni.
Più che una trama uno spunto quindi, che devo dire mi è piaciuto parecchio perché offre margine di manovra al narratore e gli permette di intervenire in alcuni punti con dei commenti pungenti. Penso sia un peccato infatti che la voce di Derfel si eclissi nelle parti in cui ritorna completamente al passato, perché è un valido modo per rendere la prosa personale e distintiva. In generale, sono comunque riuscita ad apprezzare lo stile di Cornwell, e lo dimostra il fatto che le sue numerose descrizioni delle battaglie (un elemento non troppo gradevole per la sottoscritta) non mi hanno mai annoiata, e sono perfino riuscite ad intrattenermi.
L'altro grande merito del caro Bernard è l'aver delineato un'ambientazione storica il più possibile genuina e credibile. Senza risultare pedante, l'autore arricchisce i luoghi visitati da Derfel con comparse mai banali, tradizioni particolari e dettagli di vita quotidiana: è facile così lasciarsi trasportare in questo tempo lontano. E seppure i lati negativi del passato non manchino, non viene dedicato loro più tempo di quanto necessario per rimanere fedeli alla Storia, con un'unica (e non così piccola!) eccezione.
Tra i pregi del romanzo, penso si possa includere anche Derfel stesso, in particolare la sua versione anziana dal piglio alquanto spiritoso. Un altro personaggio che ho trovato interessante è Nimue, qui presentata come una giovane sopravvissuta ad un naufragio e per questo finita alla corte dei graziati di Merlino; peccato solo sia meno presente di quanto mi sarei aspettata.
I grandi assenti sono però Merlino stesso (ma diciamo che ha una buona scusa), Artù e Morgana. Il sovrano che non fu mai re è presente in modo regolare solo nella seconda parte -anche se possiamo avere fiducia in un suo ruolo più centrale nei seguiti-, mentre la sacerdotessa viene inizialmente presentata come un carattere centrale e quasi dimenticata non appena il focus passa dai contrasti religiosi a quelli politici e territoriali. Più in generale, credo ci siano diversi personaggi all'interno di questo corposo cast che potevano ambire ad un ruolo più importante.
Anche l'assenza di svolte imprevedibili ricade nei difetti del titolo; la mia maggiore riserva riguarda però l'eccezione alla quale accennavo prima, perché Cornwell non solo calca abbastanza la mano sugli abusi sessuali, ma lo fa con una notevole superficialità. Ad esempio, alla prima uccisione di Derfel viene dedicato del tempo in cui lui ha la possibilità di ragionarci sopra e decidere comunque di intraprendere la carriera militare, mentre alle numerose personaggie vittime di violenza non si concede più di mezza riga per esternare il dispiacere del protagonista. Pur rimanendo coerenti al contesto scelto, si poteva lavora un po' di più su questo aspetto.
NB: Libro letto nell'edizione Mondadori
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Io però ci tenevo a sapere chi era il colpevole...
Ancor prima di cominciare la lettura di "Storia della bambina perduta" sapevo che avrei amato questo romanzo; ormai era chiaro che per me questa si stava dimostrando una preziosa serie in crescendo, dove ogni volume riesce a superare la qualità e l'intensità del suo predecessore. Eppure c'ho messo un po' prima di recuperarlo effettivamente, e la causa non è (solo) il mio recente calo di interesse nei confronti delle narrazioni serializzate. Le colpevoli sono ancora una volta loro, le abominevoli copertine in stile opuscolo di Famiglia Cristiana! che purtroppo mi hanno tenuto compagnia per un anno intero, mentre gustavo una dopo l'altra le splendide storie racchiuse al loro interno.
Storia che non necessariamente è sinonimo di trama, come dovremmo aver imparato dopo quattro libri. Infatti, dopo un'introduzione ben più scarna delle precedenti, la narrazione si sposta negli anni Ottanta e Novanta per raccontarci la maturità e l'ingresso nella vecchiaia delle protagoniste. Ritroviamo Elena interamente catturata dall'idillio amoroso con Nino e sempre più in difficoltà nel far ordine tra famiglia, lavoro e sentimenti; nel contempo, l'attività di Lila va sempre meglio, tanto da portarla ad una silenziosa rivalità con i Solara per il controllo del vecchio rione napoletano. Ovviamente, nel corso del volume la loro situazione si evolve parecchio, anche perché mai prima d'ora era stato coperto un lasso temporale così lungo.
Questo mi porta a voler cominciare togliendomi qualche sassolino dalla scarpa, ossia parlando degli (insignificanti!) aspetti che non mi hanno convinta appieno, ed il primo è legato proprio al tempo. La cronologia degli eventi non è infatti sempre chiara e facile da seguire: in più punti ho avuto la sensazione di dover quasi indovinare quanti anni fossero passati tra una scena e l'altra. Ci sono poi due elementi che avrei voluto ottenessero maggiore spazio, ovvero la dimensione politica (rilevante, ma meno incisiva sulle vite delle protagoniste rispetto al quanto accadeva in "Storia di chi fugge e di chi resta") e la risoluzione di alcuni misteri; capisco di non trovarmi di fronte ad un giallo, però ero convinta che qualche risposta in più ci sarebbe stata fornita.
Accantonando le delusioni personali, passiamo ai tanti punti di forza di questo romanzo. In primis, ho adorato leggere del ritorno di Elena a Napoli e del suo riallacciare i rapporti con Lila, perché da entrambe le parti ci sono insicurezze, vecchi dolori e desiderio di supportarsi, e tutte queste emozioni creano una chimica formidabile. Riportare la narrazione a Napoli permette poi a Ferrante di dedicarsi in modo più dettagliato alla città, che qui torna ad essere un carattere vero, la terza protagonista dei tempi del primo libro. L'ambientazione è ulteriormente consolidata dal modo in cui le vicende nazionali e le catastrofi naturali reali incidono sulle vite dei personaggi, dando concretezza alla finzione.
Non che il cast creato dalla cara Elena ne abbia bisogno! tutti i suoi personaggi sono genuini e fallaci, e che li si trovi detestabili oppure lodevoli, sono destinati a rimanere nel cuore dei lettori. Una parte del merito è da imputare ai passaggi in cui vediamo una sorta di resa dei conti in cui diverse relazioni (quella tra Elena e Lila ovviamente, ma anche quella di Elena con la madre Immacolata o quella di Lila con il fratello Rino) vengono sviscerate a fondo, affrontando in modo credibile dei circoli viziosi che si trascinavano dal primo volume.
E concludiamo con le importanti tematiche, che in questa tetralogia non sono mai venute meno, ma allo stesso tempo hanno saputo evolversi. Qui si parla nuovamente di maternità, ma in modo più significativo, di figli avuti per una scelta matura piuttosto che per la pressione sociale o familiare; figli che rendono orgogliosi, figli che cercano attenzione, figli che fanno soffrire, figli nei quali scorgere uno specchio di se stessi: ed in questo modo il confrontro tra generazioni si consolida come pilastro della serie. L'autrice torna poi a concentrasi sulla figura femminile, sempre mostrata in tante sfumature, che in questo romanzo è alla ricerca di una nuova indipendenza, e ciò porta a dei conflitti ben individuabili nel carattere di Elena. Ho apprezzano molto la conclusione del suo percorso, tra risoluzioni prese con grande coraggio e dolore, e forse per questo ancor più emozionanti.
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Better Call Saul (Goldman)
Sono passati diversi anni da quando lessi "La verità sul caso Harry Quebert", senza dubbio alcuno il titolo più popolare di Dicker; e pur avendo dei ricordi abbastanza nebulosi riguardo alla trama (a memoria, posso solo dire ci fossero una quantità enorme di personaggi e colpi di scena), ripenso ancora con piacere a quel romanzo per merito della prosa del caro Joël. Prosa che si conferma il suo principale punto di forza ne "Il libro dei Baltimore", una sorta di prequel/sequel del volume precedente.
A raccontare la vicenda ritroviamo infatti lo scrittore Marcus "Markie" Goldman, appena trasferitosi a Boca Raton per cercare l'ispirazione per il suo prossimo romanzo in un ambiente quieto. In questa località, Marcus si imbatte però nella sua ex Alexandra "Alex" Neville -ora affermatissima cantante- e questo incontro riporta a galla una misteriosa Tragedia avvenuta anni prima, che coinvolse i suoi cugini Hillel "Hill" e Woodrow "Woody". Marcus decide quindi di dedicare il suo nuovo libro al ramo della famiglia denominato Baltimore (in quanto residenti nell'omonima città del Maryland), partendo dai felici giorni dell'infanzia trascorsi nella casa di zio Saul e zia Anita.
Come accennato, lo stile rimane un importante pregio in questa narrazione: risulta sempre piacevolmente scorrevole, senza però scadere nel raffazzonato oppure diventare noioso nei passaggi più carenti in quanto ad azione. Mi è inoltre piaciuta la capacità di Dicker nel tenere viva la curiosità dei suoi lettori verso il mistero di fondo, pur non trattando una storia mystery di tipo canonico: Marcus è già in possesso della maggior parte delle informazioni (e recupera con facilità quelle mancanti), eppure si rimane incollati alle pagine per seguire fino in fondo la sua disamina degli eventi.
Tra gli aspetti che ho apprezzato, mi sento di includere poi il tema della gelosia -nonostante in un secondo momento diventi un filino ridondante nella sua esposizione- e la particolare struttura temporale data alla narrazione. A dispetto di quanto indicato all'inizio delle diverse parti e dei singoli capitoli, nel ricostruire le vicende Marcus non procede infatti in ordine cronologico, ma balza spesso tra avvenimenti lontani nel passato (arrivando ad analizzare le dinamiche all'interno della sua famiglia anni prima della sua stessa nascita), aneddoti relativi alla sua giovinezza ed eventi del presente. Nel complesso, si genera a tratti un po' di confusione, ma il tutto trasmette bene la sensazione di una persona impegnata in un percorso di ricerca.
Tutto ciò non è stato purtroppo abbastanza a portare il libro oltre una risicata sufficienza. I problemi partono già dai primi dialoghi, ai quali l'autore affida il compito di caratterizzare i suoi personaggi, senza però includere alcun cenno all'intonazione o alle loro emozioni individuali. Di conseguenza, si fatica ad affezionarsi al cast, specie quando una buona parte di esso dimostra un'idiozia immotivata, e solo al fine di direzionare la trama in un certo modo; è il caso delle moltissime informazioni che vengono taciute per decenni allo stesso Marcus. Non che lui si impegni troppo per scoprire la verità, comunque!
Questa scelta mi ha trasmesso in più punti della frustrazione, ma questa è davvero l'unica emozione che io abbia provato: l'intero romanzo è privo di qualunque genere di tensione narrativa, assente perfino nelle scene più drammatiche. La ragione è da ricercarsi nelle tante esagerazioni -legate al lato economico, ma anche alle reazioni tra i personaggi-, che creano un triste distacco emotivo dalle vicende messe in scena.
Un altro elemento che non ho particolarmente apprezzato è stata la designazione di Marcus come voce narrante, in primo luogo perché racconta in più punti eventi ai quali non assiste e dei quali nessuno gli riferisce: come può mai sapere nel dettaglio cosa faccia zia Anita per salvare il rapporto con il marito? chi gli ha riferito nei particolari la fuga che porta alla Tragedia? Inoltre, si assegna così un'attenzione eccessiva alla relazione romantica tra lui ed Alexandra, togliendo molto spazio al rapporto tra i cugini Goldman che mi illudevo fosse invece il vero cuore della storia.
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How to Customize your Dragon
Dopo aver trovato risposta a diverse domande ed essermi fatta sorgere altrettanti interrogativi nuovi di zecca con le novelle prequel, ritorno al presente del mondo creato da Maas in Throne of Glass con il terzo romanzo dal discutibile titolo italiano "La corona di fuoco", per fortuna corretto nella più recente edizione. Un ritorno caratterizzato dalla comparsa di un gran numero di nuovi personaggi, che trasformano la lettura in una sorta di zapping cartaceo.
Partiamo quindi dalla città di Rifthold, dove si trovano il principe Dorian, la guaritrice Sorscha, il capitano delle guardie Chaol ed il generale Aedion Ashryver, impegnati rispettivamente a tenere sotto controllo dei poteri in stile Frozen, fare gli occhi a cuoricino all'erede al trono, indagare sulla scomparsa della magia dall'Erilea ed organizzare feste farlocche. Dopo la conclusione de "La corona di mezzanotte", Celaena si è invece trasferita nel continente di Wendlyn -dove incrocia la strada del guerriero fatato Rowan Biancospino-, teoricamente la sua missione sarebbe eliminare la famiglia reale nemica del re di Adarlan, ma nella pratica è determinata ad incontrare la regina dei Fae Maeve ed ottenere da lei informazioni da utilizzare proprio contro il sovrano. Il quarto POV inedito è quello della strega Manon Becconero, per decenni cacciatrice di Crochan ed ora apprendista cavallerizza di draghi, come le sue simili Denti di Ferro.
Come potrete ben immaginare, nuove prospettive e nuove ambientazioni portano ad un ulteriore ampliamento del world building, che arriva a comprende luoghi di due diversi continenti, nonché inedite tipologie di creature magiche. Il solo neo in questo senso è rappresentato dalle informazioni fornite sui Fae -prima soltanto menzionati e qui finalmente presenti in carne ed ossa-, che vengono descritti con tratti quasi animaleschi soprattutto quando si parla dei maschi della specie: il lettore deve di conseguenza assistere con rassegnazione a comportamenti violenti ed abusanti solo perché è parte della loro natura. Dopo tante recensioni, potrete ben immaginare come la sottoscritta abbia faticato nel tollerarli.
Ritornando sui punti di forza, abbiamo poi un interessante (e direi anche doveroso) approfondimento sull'elaborazione del lutto necessaria a Celaena dopo la conclusione del secondo capitolo; sarà che questa Celaena è nettamente superiore a quella delle novelle, ma ho apprezzato il suo personaggio molto più del solito. Anche nell'evoluzione di Chaol penso siano stati fatti dei decisi passi in avanti, mentre non sono troppo convinta del ruolo ricoperto in questo volume da Dorian: ho apprezzato i suoi confronti con l'amico, ma l'intera parentesi romance è raffazzonata e tende a mostrarlo ancora una volta come un grande egoista.
Per quanto riguarda i nuovi personaggi POV provo sentimenti altalenanti, sia perché non ho apprezzato troppo il modo in cui la cara Sarah li ha introdotti -tanto frettoloso da farmi pensare di aver perso qualche scena di collegamento tra "La corona di mezzanotte" e questo libro-, sia per i ruoli ben diversi dei quattro caratteri, che mi hanno portato ad esprimere una preferenza tanto netta quanto inaspettata verso Aedion. Manon sembra promettente ma rimane troppo scollegata dagli altri, Rowan potrebbe piacermi non fosse per la già citata natura Fae, mentre Sorscha è risultata per me davvero dimenticabile.
A prescindere dalle preferenze personali, si tratta di un numero considerevole di POV, che rendono purtroppo la narrazione dispersiva, cosicché non è sempre chiaro quale sia la trama principale. L'intreccio non viene aiutato neppure dai sempre meno sensati piani dell'antagonista e dall'indesiderabile ritorno di tropes cari all'autrice (come il torneo senza capo né coda ed il mostro della settimana da scovare e battere). A coronare il tutto troviamo la solita traduzione approssimativa, che dà vita a frasi incomprensibili specie nei dialoghi dove spesso non si riesce a cogliere il nesso in un semplice botta e risposta.
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In cui Miss Marple eclissa Poirot
Più di un anno dopo la lettura di "Hercule Poirot indaga", mi sono cimentata in una nuova (ma soltanto per me!) antologia scritta dalla cara Agatha, ossia "Appuntamento con la paura". Ho scelto di affrontare questo volume come tappa intermedia nel mio percorso di recupero di tutte le storie in cui compare Miss Jane Marple, nonostante questa raccolta non sia dedicata unicamente alla placida appassionata di lavoro a maglia; oltre a non essere neppure un compendio riservato ai soli racconti gialli.
L'antologia è formata infatti da otto narrazioni, due delle quali rientrano chiaramente nel genere horror, per quanto in versione molto leggera. Le altre sei sono ripartite tra i più celebri risolutori di Christie: in due compare la già citata Miss Marple ed in quattro l'immodesto detective belga, per due volte affiancato e raccontato dal capitano Arthur Hastings. Dal momento che si tratta di narrazioni brevi se non brevissime, non posso dire nulla per quanto riguarda gli intrecci, però desidero precisare che non è presente nessun collegamento tra i vari racconti, nonostante in alcuni vengano menzionati in modo alquanto palese personaggi ed eventi relativi alle precedenti opere christieane, come la figura di Raymond West, ignoto scrittore e notissimo nipote di Miss Marple.
Per quanto riguarda il buon Hercule, ho trovato purtroppo le sue indagini soltanto carine. A mio avviso hanno faticato ad andare oltre la sufficienza principalmente perché poggiano su svolte abbastanza palesi ad un lettore affezionato della cara Agatha; un buon esempio in questo senso è rappresentato dal primo racconto "Doppia colpa". I successivi "Nido di vespe" e "Doppio indizio" mi sono sembrati meglio riusciti a livello di trama, ma privi dello spazio necessario per risultare del tutto soddisfacenti. Lo spazio non manca invece ne "L'avventura del dolce di Natale", forse la miglior avventura di Poirot tra queste quattro; peccato che la risoluzione finale sia così frettolosa e conveniente.
Dei racconti incentrati su Miss Marple invece non posso che essere soddisfatta: non c'è da urlare al capolavoro, ma "Asilo" rivela un intreccio abbastanza complesso nel suo piccolo mentre "La follia di Greenshaw" è a mani basse la miglior storia dell'intera raccolta: un'ambientazione peculiare, personaggi validi (nei limiti delle poche pagine concesse loro) ed un giallo ben presentato, nel quale l'arguta vecchina inglese si inserisce ottimamente per illustrare con chiarezza un piano criminoso a dir poco contorto.
Rimangono quindi i due racconti dalle vibes paranormali, e sono stati proprio questi ad avermi fortemente deluso. Non che avessi chissà quali aspettative sul talento di Christie nello scrivere delle storie dalle tinte fantastiche, ma "La bambola della sarta" e "L'ultima séance" non mi hanno trasmesso nessun tipo di tensione. A dispetto della presenza di elementi classici del genere horror -come le bambole possedute e le sedute spiritiche- queste narrazioni mancano di qualsiasi guizzo sia sul piano contenutistico che su quello emozionale. Avranno forse fatto effetto sui lettori di sessant'anni fa, ma a quelli contemporanei non credo proprio possano risultare appetibili.
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Dove ti vedi tra 12 anni?
Durante la scorsa estate la trama decisamente contorta de "Il manoscritto" mi aveva fatto scoprire la prosa a dir poco incalzante di Thilliez, che un po' a sorpresa ha fatto finire questo titolo tra le migliori letture del 2023. Con l'anno nuovo avevo quindi tutta l'intenzione di continuare e magari concludere la trilogia ideale (ma non troppo!) di Caleb Traskman, quindi eccomi approdare a "C'era due volte". Un volume che forse non avrei dovuto aspettare tanti mesi prima di leggere: sono praticamente certa di essermi per questo persa un mucchio di easter eggs!
Eppure questa storia ruota attorno a personaggi del tutto diversi rispetto al romanzo precedente, e anche l'ambientazione iniziale ci porta in un altro angolo della Francia. Ci troviamo nella Valle dell'Arve nell'aprile del 2008, in particolare nella cittadina immaginaria di Sagas, dove il luogotenente della gendarmeria Gabriel Moscato si reca presso l'Hotel de la Falaise per cercare delle informazioni che lo aiutino in un'indagine per lui molto importante: quella sulla scomparsa della figlia adolescente Julie, avvenuta un mese prima. L'uomo si addormenta nella stanza numero 29 per poi risvegliarsi nella numero 7; la vera stranezza non sta però nel luogo bensì nel tempo, dal momento che siamo stati catapultati nel novembre del 2020. Gabriel ha però misteriosamente dimenticato gli ultimi dodici anni, e per questo si trova in un mondo completamente diverso da quello che ricorda e -nel tentativo di trovare una quadra- chiede l'aiuto del suo vecchio collega Paul Lacroix.
Loro sono ovviamente i due punti di vista tra i quali si alterna la narrazione, infatti li vediamo spesso indagare individualmente, ma penso diano il meglio quando collaborano mettendo insieme le forze. Per questo il rapporto insolito che vanno a creare -seppur nel poco tempo a disposizione- è uno dei punti di forza del libro; in generale ho trovato solida la loro caratterizzazione, con delle motivazioni e delle reazioni chiare e condivisibili, entro certi limiti.
Il ritmo sempre incalzante si conferma un grande pregio della prosa di Thilliez: rende quasi impossibile interrompere la lettura, anche per merito dei colpi di scena mai banali o troppo prevedibili che costellano l'intero volume. Queste rivelazioni sono inoltre illustrate in modo estremamente comprensibile, il che le rendere ancor più soddisfacenti a mio avviso. E per concludere questa carrellata di punti a favore non posso tralasciare l'espediente di base, ossia l'amnesia di cui è vittima Gabriel, che risulta un escamotage intelligente ed utile per fornire un gran numero di informazioni al lettore senza per questo ricorrere a spiegoni o flashback.
Nonostante questi elementi ed un inizio più che solido, il volume nel suo insieme mi ha convinto leggermente meno del precedente perché mettendoli a confronto ho individuato alcune mancanze. Ad esempio qui è del tutto assente una prospettiva femminile sulla vicenda: le personaggie presenti sono completamente accessorie, inoltre i due POV principali sono davvero simili tra loro e danno perciò ancor meno variatio alla prosa. Allo stesso tempo non mancano i piccoli difetti de "Il manoscritto", come una gran quantità di linee di dialogo troppo artefatte e retoriche per essere pronunciate in modo spontaneo.
Sono poi presenti diversi aspetti nell'indagine che ho trovato discutibili, come la presenza di molte quest minori fini a se stesse (come quella del video, che occupa parecchie pagine ma non porta a nulla) ed il fatto che i protagonisti trasformino mere supposizioni in dati di fatto, senza cercare delle prove o aspettare il risultato di un'analisi scientifica. Alcune delle loro scoperte sono inoltre così rilevanti che reputo assurdo siano state accantonate o giustificate da moventi ridicoli! il lato negativo del ritmo scelto è proprio quello di non dare il tempo necessario per metabolizzare tutte le informazioni. Ultimo piccolo neo: non ho apprezzato troppo il sillogismo tra arte disturbante ed artista o consumatore disturbato, perché sono convinta che l'apprezzamento del genere thriller non pregiudichi la capacità di distinguere la realtà dalla finzione.
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Sparisci non rende l'idea
Il mio rapporto con le narrazioni di Bachman non è partito con il piede giusto, e conservo ancora un ricordo svilente de "La lunga marcia"; le cose sono però migliorate con "L'uomo in fuga", specialmente per la scelta di porre l'attenzione soltanto sui personaggi adulti. Con un'incerta aspettativa sono quindi approdata a "L'occhio del male", forse il titolo bachmaniano sul quale riponevo maggiori speranze. Speranze assai ben riposte dal momento che tra i tre è il titolo più marcatamente kinghiano, ed anche per questo il mio preferito.
Alla base del romanzo c'è una vicenda di sopravvivenza in condizioni anomale, che lo accomuna appunto a molte opere del caro Stephen. L'avvocato William "BIlly" J. Halleck conduce una vita all'insegna dell'agiatezza nella borghese Fairview, cittadina immaginaria nel Connecticut, fino a quando causa la morte di una zingara mentre è alla guida dell'automobile. Per merito delle sue conoscenze BIlly riesce ad evitare una condanna per omicidio colposo, ma non la maledizione che Taduz Lemke -il terrificante padre della donna- sembra avergli lanciato ed a causa della quale diventa sempre più magro.
Lo spunto potrebbe sembrare un po' infantile, ma vi garantisco che getta le basi per una storia ricca di tensione ed angoscia, nonostante l'elemento horror sia più psicologico che visivo. In generale, non si tratta di una lettura in cui la violenza è descritta in modo troppo grafico, con sovrabbondanza di dettagli (come invece capita in altri libri di Bachman); questo non esclude però diversi aspetti triggeranti, soprattutto nelle scene in cui si fa riferimento a malattie mortali.
Per questa ragione, ammetto non si tratti di un romanzo adatto a tutti. Eppure io l'ho davvero apprezzato, anche più di quanto le prime pagine lasciassero presagire: più ci si addentra nella narrazione, più si può gustare il gioco di parallelismi creato da King, in cui vengono posti a confronto razionalità e superstizione, vita cittadina e vita nomade, giustizia e vendetta. Il protagonista diventa il perno su cui ruotano queste contraddizioni, ed infatti si dimostra un personaggio dalla psiche davvero interessante da conoscere pian piano; Billy pensa di essere nel giusto, e perfino quando si trova materialmente colpito per le sue colpe è pronto a riversare i problemi sugli altri, senza particolare preoccupazione delle conseguenze a lungo termine.
Accanto ad un protagonista caratterialmente mastodontico, gli altri personaggi rischiano di sparire (perdonate il gioco di parole!), ma non in questo caso. L'autore ha saputo infatti dipingere un cast di comprimari detestabili ma non macchiettistici, che formano un contorno di certo non amabile però sicuramente adatto alle sventure di Billy.
A discapito del mio apprezzamento, per tutta la lettura ho avuto però l'impressione che qualcosa non andasse e alla fine ho capito: la trama è prevedibile. L'intera storia è priva di colpi di scena e guizzi narrativi che la rendano intrigante, e -a dispetto della sua componente thriller- non c'è un solo avvenimento che il lettore non riesca ad indovinare dopo aver letto qualche capitolo per avere un quadro di partenza sull'indole dei personaggi e la premessa di base. Un difetto che comunque non influenza più di tanto la lettura, anche perché a risollevarlo c'è comunque un finale piacevolmente angosciante.
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Portare i film mentali ad un livello superiore
Ogni anno Feltrinelli propone una selezione di best seller da acquistare in coppia a poco prezzo e ogni anno io cado puntualmente nella loro trap... offerta. Questa volta avevo un solo obiettivo chiaro: recuperare il seguito de "Il Club dei delitti dei giovedì" di Osman, che ho molto apprezzato alcuni mesi fa; il dubbio era quindi a quale titolo l'avrei abbinato. Dopo un'analisi minuziosa di copertine, sinossi ed estratti vari, la scelta è ricaduta su "Mio marito", esordio di Ventura dal taglio stilistico decisamente originale.
La narrazione è infatti affidata ad una donna di cui non viene rivelato il nome, ma sappiamo per certo che è sulla quarantina, francese, bionda tinta, docente di inglese in un liceo, traduttrice part-time, appassionata di shopping e madre (discutibile) di due bambini. Tutti questi sono però dettagli di secondaria importanza, perché lei si identifica innanzitutto nel ruolo di moglie, e attraverso il suo punto di vista ci racconta una settimana della sua vita quotidiana e della sua costante ossessione per il marito, parimenti sprovvisto di nome.
Se vi sembra una sinossi un po' scarna, avete avuto l'impressione giusta: questo romanzo pecca proprio di un intreccio in senso convenzionale, perché nonostante gli eventi seguano una loro comprensibile consequenzialità, manca un obiettivo da raggiungere o un punto da evidenziare dal momento che la protagonista non ha alcuno scopo a parte quello di salvaguardare il suo matrimonio, e la prospettiva distorta da cui guarda la realtà non cambia nel corso del volume. In questo senso ho percepito in parte la mancanza di una trama canonica, seppur la prosa non mi abbia mai dato tempo e modo di annoiarmi per questa ragione.
Un altro elemento che potrebbe far storcere il naso a parecchi lettori è la scarsa caratterizzazione dei comprimari, perché mentre della protagonista conosciamo passato, pensieri e motivazione, sui personaggi che le ruotano attorno non viene fornito alcun approfondimento. Questo difetto ha però ragion d'essere vista la prospettiva limitata del POV scelto, che dà poco credito alle affermazioni dei caratteri secondari, e di certo non si sofferma a sviscerare i loro ragionamenti più di tanto.
Passando ad analizzare quelli che reputo i pregi del volume, al primo posto devo per forza indicare l'originalità della prosa e della voce narrante, proprio quella che in un primo momento sembra tanto sensibile e sensata, per poi rivelare tutte le contraddizioni e le insicurezze di una persona disturbata. Questo libro in pratica riassume tutto ciò che non apprezzo nel genere romance: mancanza di dialogo nella coppia, una lei continuamente in competizione con le altre donne ed un lui incapace di adeguarsi alle richieste altrui. Per fortuna l'opera prima di Ventura non è una storia d'amore, anzi rappresenta l'antitesi delle relazioni sentimentali (ma direi anche umane) sane.
L'inusuale protagonista non è il solo punto di forza del romanzo, che può vantare anche un'atmosfera capace d'ispirare angoscia in modo sottile ma sempre maggiore, diventando così una sorta di thriller psicologico anticonvenzionale, sulla scia delle storie di Yoshida Sh?ichi. Un altro grande merito della cara Maud è stato per me il finale, che riesce in poche pagine a dare una sua solidità ad una narrazione fino a quel momento frammentaria, oltre a stupire il lettore senza per questo dover ricorrere a colpi di scena campati per aria. Per chi vuole rimanere a bocca aperta, ma non sentirsi preso in giro dall'autore.
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Quattro incidenti fanno un delitto
Nella mia vita da lettrice, i romanzi della cara Agatha sono l'equivalente di una droga leggera: mi stampano un sorriso ebete sulla faccia appena ne comincio uno, cerco di spacciare i miei preferiti a chiunque mi dia ascolto, e dopo qualche settimana di astinenza vado in crisi. Ergo, anche quest'anno non potevo che dare spazio ai suoi libri, ed in particolare alle narrazioni che vedono come risolutori Miss Jane Marple ed Hercule Poirot. Proprio quest'ultimo è protagonista ne "Il pericolo senza nome", dove lo troviamo nuovamente affiancato dalla sua storica spalla, e nostro esilarante narratore, il capitano Arthur Hastings.
Il duo (che per me fa le scarpe ai più noti Sherlock e Watson) si trova nella città di Saint Loo, in Cornovaglia. Qui incrociano in modo fortuito la strada di Magdala "Nick" Buckley, giovane proprietaria della misteriosa Casa Solitaria e -negli ultimi giorni- vittima di una serie a dir poco sospetta di incidenti quasi mortali. Convinto che non si tratti affatto di incidenti, il detective belga smette momentaneamente i panni del pensionato (cosa che si rifiutava di fare perfino per il ministro dell'interno!) per svelare l'identità dell'aspirante omicida prima che questi porti a compimento i suoi piani delittuosi.
Da queste premesse scaturisce una trama mystery a dir poco brillante, con una folta schiera di potenziali colpevoli e dei moventi credibili, ma abbastanza nebulosi da far vacillare anche la sicurezza del buon Hercule. La narrazione si sviluppa in un crescendo di misteri irrisolti, con una carrellata di imprevedibili colpi di scena che -anziché far scemare la tensione- la accrescono ancor di più perché fino all'ultima riga rimangono delle risposte da ottenere. Questo intreccio a livelli mi è sembrato davvero ben congegnato nonché stupefacente, e non è poco considerando che finora ho letto ben venticinque dei gialli di Christie ed un paio dei suoi escamotage ormai me li aspetto.
Oltre ad una storia strutturata con cura, questo romanzo può vantare un cast variegato e non troppo prevedibile, nonché alcuni tra i migliori dialoghi di Poirot ed Hastings: possiamo godere delle stroncature ciniche dell'immodesto investigatore e dei commenti fuoriluogo del capitano, il tutto mentre prosegue la loro indagine per scoprire chi si nasconda dietro gli attentati. Personalmente ho apprezzato che Poirot fosse presente per tutto il libro, dalla primissima pagina; e penso che questa scelta narrativa renda ancor più soddisfacente la risoluzione finale. Mi sono inoltre piaciuti i riferimenti alle precedenti opere della cara Agatha, e penso in primis ai diversi casi di Poirot ma non solo: un piccolo accenno ad un certo Sir Henry fa subito correre il pensiero all'altra investigatrice christiana per antonomasia!
Una volta tanto anche l'edizione mi ha convinto, specialmente per merito dei validi contenuti extra ad opera del critico letterario Julian Symons, che danno un maggior senso di completezza alla lettura; fanno perfino chiudere un occhio sui refusi, in questo caso rappresentati dalle tante virgolette che compaiono casualmente alla fine di frasi in cui non ci sono dialoghi. Altre sviste minori sono il pretesto iniziale -un po' troppo conveniente per essere credibile- ed il modo parecchio superficiale con cui vengono affrontate certe tematiche, come quella della dipendenza da sostanze: inserite con nonchalance tra una riga e l'altra, quasi non fossero argomenti seri, e subito accantonate. Meglio spendere qualche parola in più su un argomento serio, oppure non includerlo proprio.
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Bella Gatlon City, ma non ci vivrei
Terzo ed ultimo capitolo nella serie Renegades, "Supernova" era anche il libro con cui pensavo di chiudere (magari in amicizia) i miei rapporti con Marissa Meyer, specie dopo la delusione di "Archenemies" e le recensioni non troppo positive di questo epilogo. Invece temo che finirò per cascarci di nuovo; e non solo perché il suo prossimo romanzo sarà un retelling di Tremotino!
Oggettivamente, "Supernova" ha dei difetti più che evidenti e non mi meraviglia che altri lettori siano critici nei confronti del libro. L'autrice inserisce elementi inediti per portare la trama in una determinata direzione, gli interventi fortuiti di un certo deus-ex-machina non si contano e il finale è decisamente frettoloso, aspetto che già avevo notato leggendo "Winter" un paio di anni fa. Per parlare di un altro elemento discutibile, passiamo la trama.
A differenza dei volumi precedenti, la storia mantiene quasi sempre un ritmo molto incalzante: si comincia con l'identità di Nightmare che sta per essere scoperta, nella parte centrale c'è un breve momento di pausa, mentre le ultime duecento pagine sono una corsa a perdifiato, in una serie di combattimenti onestamente epici e del tutto in linea con il tono "fumettoso" della serie. Il problema a cui accennavo è quindi questo ritmo un po' troppo incalzante, per cui i personaggi si trovano a compiere azioni molto avventate, giustificate solo dalla fretta che l'autrice ha trasmesso loro.
Le forzature non mancano neanche all'inizio: l'identità di Nightmare viene mantenuta troppo a lungo quando ormai c'erano diversi personaggi che avrebbero potuto unire i punti (o aiutare altri ad unirli); che dire poi dell'elmetto di Magneto Ace Anarchy? finora nulla lasciava intendere che potessero usarlo altri, ma qui di punto in bianco tutti lo vogliono perché potenzia ogni superpotere! Per l'intero volume ci sono poi delle rivelazioni e delle scoperte che i personaggi intuiscono a caso, oppure nei momenti meno logici; il tutto a favore di trama, ben inteso.
Altro elemento che l'autrice riesce ad inserire sempre a sproposito è il romance: non mi dispiacciono le coppie in se, ma non reputo credibile che i momenti romantici abbiano luogo sempre in luoghi (fogna infestata dai ratti, con tanto di puzza di piscio) o eventi inadatti (tra un'esecuzione pubblica ed un massacro). Capisco che l'autrice ami calcare la mano su questo lato delle sue storie, ma qui l'ho trovato quasi di cattivo gusto.
Cosa dire poi dell'origine dei prodigies? io l'ho subito etichettata come una supercazzola, anche senza tenere conto di come questo aspetto si sviluppi nel finale. Indubbiamente è parecchio cringe, come diverse carrambate nell'ultima parte. Ultima parte che ha il suo tracollo nell'epilogo: non capisco onestamente se l'intenzione era quella di puntare ad un sequel, ma posso dire che l'ultimo twist più che stupire fa sorgere un mucchio di interrogativi ai quali non avremo mai risposta.
Ora, mi rendo conto che a questo punto sembrerò una hater della Meyer, ma vi assicuro di aver apprezzato parecchi elementi di questo romanzo, non solo soggettivi! Sicuramente una parte da non sottovalutare è quella della componente emotiva, anche perché l'autrice non ha riguardi nell'uccidere i personaggi -magari secondari, ma si tratta pur sempre di un YA. Valuto molto positiva anche la descrizione delle diverse battaglie: gli scontri sono ben strutturati e riescono a risultare avvincenti per il lettore.
Il pregio maggiore è però l'aver inserito brillantemente dei parallelismi tra la nostra realtà e questo mondo ucronico: nel modo in cui vengono discriminati i prodigies che non si conformano agli standard dei Renegades, nello strapotere impiegato da chi deve mantenere l'ordine e nella condizione dei detenuti nelle carceri. Pur considerando un po' esagerata la situazione vissuta da Nova e dagli altri personaggi, non si fatica a leggere tra le righe una condanna molto forte, e per nulla fantascientifica.
NB: Libro letto in lingua originale
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Tre commenti in uno!
Commento per "La falconiera"
SICURA NON SIANO VAMPIRI, SÌ?
Dalla biografia di Elizabeth May disponibile sul sito della Sperling & Kupfer veniamo a sapere che la sua carriera come scrittrice è iniziata con una storia sui vampiri. È chiaro che si tratta di questo stesso romanzo perché, nonostante vengano chiamati fae, le creature combattute dalla protagonista di "The Falconer" sono evidentemente dei vampiri: sono bellissimi, sbrilluccicano, cacciano solo di notte, affascinano gli umani con una persuasione magica, squartano le persone per nutrirsi nella loro "essenza vitale". La mia teoria è che, all’epoca della pubblicazione del libro, il momento d’oro dei vampiri fosse già passato e quindi la cara Elizabeth abbia dovuto ripiegare sulle fatine.
La trama è prevedibile in modo imbarazzante: scommetto che riuscirete anche voi ad indovinarla a colpo sicuro partendo dal solo spunto iniziale! Siamo nella Scozia del 1844 (o almeno, in una sua versione fantasy-steampunk) e la diciottenne Aileana "Kam" Kameron diserta gli impegni sociali che il suo status prevede per dare la caccia ai fae; potreste pensare che lo faccia per salvare gli innocenti esseri umani, che queste creature non le possono neppure vedere, e vi sbagliereste: il suo è semplice desiderio di vendetta. Una fatina ha infatti ucciso sua madre un anno prima e da allora lei si è dedicata ad un genocidio sistematico, aiutata nella sua opera caritatevole da Kiaran -aka l'immancabile bel tenebroso che nasconde un animo sensibile- e dal pixie Derrick, per me protagonista morale della storia.
Ci si potrebbe chiedere perché lei non conceda il beneficio del dubbio alle decine e decine di fatine che uccide, dal momento che due di loro le sono amici. Il motivo è la limitatezza delle riflessioni di Aileana: non può porsi dilemmi etici perché i suoi pensieri ruotano unicamente attorno al desiderio di vendicarsi, alle preoccupazioni su quello che dice la gente sul suo conto (a quanto pare in tutta Edimburgo non si parla d'altro) e, da metà libro in poi, a quanto vorrebbe limonarsi Kiaran. Perché il romance ci deve sempre essere, anche quando i protagonisti sono talmente poco caratterizzati che manca proprio un minimo di base.
Il romanzo avrebbe anche degli elementi positivi, oltre al già citato Derrick per i cui diritti sindacali mi batterò ad oltranza. La scelta della Scozia come ambientazione è carina, anche perché da all'autrice la possibilità di rendere particolare il linguaggio dei personaggi; apprezzo inoltre il lavoro di ricerca per caratterizzare i diversi tipi di fae, ispirandosi alla tradizione folkloristica. Tutto il resto però è un grosso no, per me.
Gli elementi steampunk sembrano inseriti a casaccio e non sempre sono in linea con il concetto della forza motrice del vapore come base dell’evoluzione tecnologica; May sembra semplicemente aver inserito degli oggetti con intelligenza artificiale in un contesto storico. Tra l'altro, fingerò di credere che Aileana sia la talentuosa inventrice dietro queste diavolerie, nonostante ciò non sia per nulla in linea con il suo personaggio, come fingerò di credere a tutta la premessa sulle fatine imprigionate, che per la cronaca è piena di buchi di logica.
Tutta la parte finale poi è estremamente confusa: i protagonisti si preparano alla battaglia offscreen, in modo molto conveniente e con una facilità imbarazzante, e quando ho letto l'epilogo ho avuto il serio dubbio che alla mia copia mancassero delle pagine, talmente è aperto. Ovviamente si tratta del primo libro in una serie, ma almeno qualcuna delle tante storyline iniziate andava portata a termine.
Ciò che più mi ha stupito è però come Colleen Gleason non abbia fatto causa a May per questo plagio senza vergogna della serie I cacciatori di vampiri! I misteri dell'editoria...
Commento per "Il trono evanescente"
APPROVATO DA LEONARD SHELBY
Dopo il parziale fallimento di "The Falconer", avevo decisamente ridimensionato le mie aspettative prima di iniziare il secondo capitolo della trilogia di Elizabeth May, eppure come una novella Dewey nel celebre meme sono comunque delusa dal risultato. Questo perché "The Vanishing Throne", non pago di riproporre i problemi del volume precedente, aggiunge ulteriori elementi di frustrazione per la sottoscritta, a partire dalla trama.
Innanzitutto, gli eventi di questo romanzo sono mossi unicamente dagli antagonisti mentre gli eroi, potendo, si accontenterebbero di vivere nascosti ed ignorare il dettaglio insignificante dello sterminio dell'umanità ad opera delle fatine. Per fortuna ci sono i cattivi: la ricerca di un potente artefatto magico è il motore principale della (poca) azione del libro; gli altri fulcri narrativi sono la scoperta delle origini dei reami fatati e i siparietti romantici tra Aileana e il suo delizioso interesse amoroso.
Ritroviamo la nostra protagonista a Sìth-Bhrùth prigioniera delle fate cattive che, finalmente libere, stanno conquistando il pianeta, o almeno così credono i personaggi, e io voglio fidarmi. Dopo un'evasione non proprio al cardiopalma, Aileana torna nel mondo umano per scoprire che è passato molto più tempo di quanto credesse e per tediarci ad oltranza con i suoi immotivati sensi di colpa. Seguire il suo POV è stato decisamente sfiancante: non solo il lettore è chiamato a subire i suoi monologhi su come abbia fallito nel salvare da sola il mondo (un'impresa molto verosimile, in effetti), ma deve sentirsi ripetere ad oltranza una serie di frasi dette dagli altri personaggi che lei copia-incolla ogni tre righe, probabilmente per allungare un po' il testo.
Avere una protagonista così passiva rende il ritmo della narrazione estremamente lento, ad eccezione degli ultimi capitoli in cui vediamo un po' più di azione. Un altro problema è la ristrettezza del cast: si ha l'impressione che la cara Elizabeth dovesse pagare di tasca sua le comparse, e quindi ci troviamo con una storia dove in scena si vedono solo i protagonisti e qualche sporadico personaggio secondario, ovviamente di pochissima utilità ai fini della trama. Ma veniamo alla parte peggiore, ossia il romance.
Ammetto che in un primo momento Aileana e Kiaran come coppia non mi dispiacevano, poi l'autrice ha iniziato a fare delle rivelazioni allucinanti sul passato di lui, e la nostra eroina non si arrabbia minimamente alla scoperta di essere innamorata di un genocida, è solo un po' risentita perché duemila anni prima a lui piaceva un'altra! A questo punto, lei dovrebbe perdonare subito anche le altre fate cattive, ma la bussola morale di Aileana è mossa unicamente da simpatia ed attrazione, quindi Lonnrach e il suo seguito devono essere puniti in quanto spietati assassini, mentre Kiaran è un cucciolo tormentato che ha già pagato troppo.
Ancor più allucinante come l'autrice tenti di ribaltare torto e ragione anche nel caso della Cailleach, che espone un concetto forse triste ma giusto (l'equilibro nella natura tra vita e morte), e per questo viene dipinta come malvagia. Il messaggio che passa così è estremamente infantile e diseducativo: non voler accettare gli eventi negativi come imprescindibili nella vita di una persona.
Dell'intero romanzo posso salvare solo il mio caro Derrick, sempre protagonista morale della storia per quanto mi riguarda, ed i dettagli folkloristici sui fae, in particolare quando ci si sofferma sulle origini del loro mondo e sul modo in cui è direttamente collegato a quello umano.
Anche così, nel complesso siamo però ben lontani dalla sufficienza.
Commento per "Il regno caduto"
REDENZIONE PAZZI ASSASSINI? DA QUESTA PARTE, PREGO
Scegliere di affrontare questa lettura subito dopo un libro tanto deludente come "La malinconia dei Crusich" non è stata proprio una buona idea, in particolare perché già intuivo che la serie The Falconer non si sarebbe risollevata miracolosamente all'ultimo volume. Qual è il motivo di tanta fretta, allora? sembrerà banale, ma mi sono resa conto di aver dimenticato quasi del tutto gli avvenimenti del secondo capitolo, letto solo tre mesi fa! Urgeva quindi affrettarsi a completare la trilogia, anche se posso confermare sia una pessima scelta leggere consapevolmente due libri brutti di fila.
La storia ricomincia ad un paio di mesi dalla conclusione di "The Vanishing Throne", con la nostra eroina Aileana "Kam" Kameron resuscitata e convenientemente privata dei suoi ricordi: questo espediente permette infatti all'autrice di inserire decine di spiegoni nella prima parte del romanzo. Superato questo momento di angoscia per nulla angosciante, visto che la protagonista riacquista la memoria con la stessa rapidità con cui io mi scolo il the freddo in estate, può partire la trama vera e propria. La missione principale in "The Fallen Kingdom" è ritrovare un libro magico, poco più di una leggenda, che potrebbe risolvere tutti i problemi della serie; mi pare quasi superfluo specificare che di tale manufatto -di cui nessuno sa niente da milioni di anni, considerato dalle fatine alla stregua di una fiaba- verranno individuati locazione e modalità di recupero nell'arco di due scene.
A rendere ancora più tediosa la narrazione contribuiscono le dinamiche tra personaggi che si ripetono praticamente identiche ogni dieci pagine circa; risulta inoltre difficile percepire l'importanza di quanto i protagonisti stanno tentando di ottenere, visto che loro stessi preferiscono pensare ad altro (aka bombare come conigli ad ogni occasione) oppure agire d'impulso, senza neanche fare due domande a chi chiaramente ne sa più di loro sui pericoli che li aspettano. Per poi sorprendersi della loro stessa stupidità!
Ad essere onesti, non ci sono grossi cambiamenti sul fronte dei personaggi: come già detto, sono di un'idiozia imbarazzante (sì, anche le fatine millenarie) ed hanno una bussola morale tutta loro, per cui chi commette genocidi ha diritto al perdono mentre chi osa leggere nella mente dell'imparziale Aileana viene condannato a morte. Si ripropone anche il problema del taglio dei fondi per le comparse, tanto che oltre ai tre amici umani della protagonista non c'è nessuno nell'accampamento della regina Seelie; e quando dico nessuno non sto neanche esagerando, visto che May non si sforza neppure di nominare la presenta di qualche soldato fatato a fare la ronda o a scortare la sovrana. E voi direte: certo, non ci sono perché hanno voltato le spalle ad Aithinne e ora patteggiano per la corte Unseelie; peccato che anche il castello di Kiaran sia completamente deserto.
Potrei anche sorvolare su questi dettagli del world building se l'autrice stessa non ci tenesse ad inserirne continuamente di nuovi, in netta contraddizione con quanto spiegato nei capitoli precedenti. Ovviamente ci sono incongruenze anche nel passato dei personaggi e nel sistema magico, ma una volta messo in chiaro che l'aspetto su cui May si impegna maggiormente è quello romantico, la cosa non stupisce più. C'è anche da considerare che sono presenti molte meno ripetizioni fastidiose rispetto al secondo libro: un miglioramento piccolo ma molto gradito.
Tirando le somme di questa conclusione di serie, mi viene da pensare che forse in un momento meno frenetico avrei saputo apprezzarla di più (leggasi, detestarla di meno). È altrettanto vero che, se avessi potuto dedicarle più tempo, avrei notato altri buchi di logica, quindi forse è meglio sia andata così.
NB: Libri letti in lingua originale
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La vedova allegra
Dopo aver imbroccato una dopo l'altra una sequela di letture al più mediocri e al peggio terribili, sentivo la necessità di trovare rifugio in un porto sicuro. E chi meglio della cara Agatha poteva darmi il tanto necessario riparo? in particolare, la mia scelta è ricaduta su uno dei suoi più apprezzati gialli tra quelli in cui compare la figura del pavonesco Hercule Poirot, ossia "Se morisse mio marito". Un titolo che stravolge nella forma l'originale britannico, pur mantenendone la sostanza, a differenza di quanto succede con la discutibile versione statunitense "Thirteen at Dinner": avrà anche senso nel contesto della narrazione, ma non trasmette granché per quanto riguarda il giallo di fondo.
Come spesso accade, ci troviamo in un momento storico parallelo al periodo di pubblicazione, ovvero gli anni Trenta. In realtà, la premessa ci informa che gli eventi raccontati hanno avuto luogo tempo prima, ma solo adesso il solito capitano Arthur Hastings si sente pronto a svelarli al grande pubblico. Il motivo di tanto mistero è presto detto: la vittima è George Alfred St. Vincent Marsh, quarto baronetto di Edgware, una figura tanto in vista da suscitare un certo interesse da parte dei curiosi. Prima di arrivare al delitto assistiamo però all'incontro tra il duo protagonista e l'attrice Jane Wilkinson, moglie di Lord Edgware dal quale spera di ottenere presto il divorzio grazie proprio al buon Hercule. Questi suoi tutt'altro che discreti propositi la portano a finire logicamente in cima alla lista dei sospettati non appena il cadavere dell'uomo viene rinvenuto soltanto un paio giorni dopo nella biblioteca.
Il cast è ancora una volta formato da personaggi molto carismatici, seppur a tratti caricaturali; tra questi spicca ovviamente Jane Wilkinson, nei panni della vedova meno affranta della Storia, però anche caratteri meno centrali -come l'imitatrice Carlotta Adams ed il capitano Ronald Marsh, che si fa subito notare per l'eccessiva sicurezza di sé- riescono a incuriosire il lettore. Ovviamente Poirot ed Hasting sono sempre dei protagonisti piacevoli da seguire, e la loro dinamica risulta al solito efficace grazie ai continui punzecchiamenti, anche se avrei preferito qualche risposta accomodante in meno da parte dell'ex capitano. Un altro elemento interessante all'interno del cast è l'ispettore James Japp, già apparso in altri romanzi e racconti, che qui si fa carico di una parte delle stroncature di Poirot, incassandole quasi con orgoglio.
Il secondo, grande merito della prosa è quello di delineare un mistero complesso e ben articolato, seppur all'apparenza possa risultare più semplice da seguire rispetto ad altri. Questa sensazione non rende però meno avvincente la lettura, anzi per quanto mi riguarda sono convinta possa spronare ancor di più il lettore a mettere al lavoro le sue celluline grigie. Come sempre, sistemare al posto giusto tutti i pezzi del puzzle non è affatto semplice, eppure il punto di vista più rintronato del solito di Hastings penso possa fornire un piccolo aiuto in questo senso.
E nel caso i suoi granchi clamorosi non vi sembrino sufficienti, potete sempre ripiegare sulla prefazione, che fornisce dei suggerimenti alla risoluzione del giallo fin troppo spoilerosi per i miei gusti: forse sarebbe stato meglio leggerla una volta terminato il romanzo! In generale, la recente edizione non brilla per qualità, essendo farcita da un gran numero di refusi, in alcuni casi di battitura ma sopratutto nella coniugazione dei verbi. Una constatazione alquanto infelice se consideriamo che si tratta di un classico pubblicato quasi un secolo fa, e dal prezzo tutt'altro che conveniente.
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E così spero di voi...
Pur avendolo sentito spesso nominare e consigliare, non mi era mai capitato di leggere nulla di Manfredi, però avevo da diversi anni in libreria una copia recuperata un po' per caso di "Otel Bruni", quindi ho deciso di dare una possibilità alla sua prosa. Forse avrei dovuto essere più accorta nella mia scelta perché questo romanzo si è rivelato non solo una lettura dagli oggettivi problemi contenutistici, ma anche un genere di narrazione poco in sintonia con i miei gusti letterali.
La storia si ambienta nella prima metà del Novecento in un paesino della campagna emiliana e romanza la vita quotidiana della famiglia contadina Bruni, antenati dell'autore stesso. Seguiamo principalmente i figli e le figlie dei capostipiti Callisto e Clerice, vedendo come l'iniziale unità familiare venga progressivamente intaccata tanto dai grandi eventi della Storia quanto dai piccoli contrasti domestici. Sullo sfondo si intravede il cosiddetto Otel Bruni, la grande stalla di famiglia dove amici e viandanti trovano ristoro in caso di necessità.
E già qui troviamo il primo problema, dal momento che di questo Otel Bruni vediamo davvero poco: sembra rilevante nella scena d'apertura, ma poi diventa un'ambientazione come le altre, tanto che durante la Prima Guerra Mondiale viene completamente abbandonato mentre seguiamo le vicende dei giovani Bruni al fronte. Questo si collega alla seconda, grave mancanza del romanzo, ossia la scelta di raccontare o perfino riassumere una gran parte degli eventi anziché mostrarli direttamente al lettore. In questo modo si perde del tutto la premessa narrativa alla base del libro: non incontriamo quasi mai le persone ospitate nell'Otel Bruni, non vediamo i Bruni accogliere qualche sventurato, non percepiamo l'atmosfera di convivialità che questa propensione all'ospitalità dovrebbe creare.
Rimanendo sul piano oggettivo, altri difetti sono rappresentati dalla presenza di troppi personaggi, tutti carenti sul fronte della caratterizzazione. Reputo assurdo poi che figure teoricamente rilevanti -come le mogli di alcuni fratelli- non vengono neppure menzionate, mentre a caratteri estranei alle dinamiche familiari venga dedicato parecchio spazio. A livello d'intreccio abbiamo davvero poco materiale, tanto che nell'epilogo il caro Valerio Massimo sembra quasi colpito da un'epifania e, realizzato di non aver seguito una vera trama, inserisce un colpo di scena con cui tenta (fallendo) di chiudere un cerchio immaginario.
La prosa dell'autore crea inoltre uno scollamento tra le premesse narrative e la loro effettiva resa; un chiaro esempio è rappresentato dal capitolo dedicato alla lettera del notaio genovese: il lettore viene informato che questo evento sconvolgerà gli equilibri tra i Bruni, ma a fine capitolo Manfredi si premura di sottolineare di come nessuno si occuperà più della vicenda. In relazione allo stile va poi specificato che in più passaggi si ha l'impressione di leggere un manuale agricolo o un saggio storico anziché un romanzo, e mi sembra davvero strano dirlo (visto che di solito le mie lamentele virano nel senso opposto) ma avrei di gran luga preferito trovare meno Storia e più storia in questo libro.
Altre critiche personali riguardano la scelta di avere soltanto personaggi puri e buoni come protagonisti -perché tendo a preferire dei caratteri meno perfetti e più verosimili-, ed il sottotesto nostalgico e patetico che trasuda dall'intera narrazione: rimpiangere continuamente un passato idealizzato non fa proprio per me! Come non fa per me la retorica della disgregazione familiare, qui perfino priva di sostanza dal momento che, benché i Bruni abitino nel podere da almeno un centinaio di anni, non vediamo nessuno dei fratelli di Callisto quindi anche il loro nucleo è il risultato di una qualche sorta di scissione.
In barba alla negatività, voglio nominare anche qualche aspetto positivo del romanzo. Innanzitutto mi ha stupito non poco la scorrevolezza del testo, a dispetto dell'ampio utilizzo di dialettismi anche al di fuori dei dialoghi; dialettismi che hanno comunque il pregio di rendere la storia in linea con il contesto culturale. Pur non avendole apprezzate appieno, mi sento di menzionare (e lodare!) nuovamente l'accuratezza storica e l'ambientazione realistica, che permettono una buona immersione nelle vicende raccontate. Per ultimo cito l'elemento folcloristico, che si mescola ad una sorta di realismo magico e dona un tocco di colore ad una storia altrimenti in bianco e nero.
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Appropriazione culturale Q.B.
Mi rendo conto che a volte sono un po' prevenuta nei confronti della narrativa per ragazzi, ma anni ed anni di letture al massimo mediocri sbandierate come capolavori imperdibili mi hanno portato ad essere sempre più diffidente verso questo target. E purtroppo "Rebel. Il deserto in fiamme" non si è dimostrato un'eccezione alla regola, rivelandosi un'amalgama composta da cliché già visti in centinaia di altri libri ed una prosa decisamente infantile. Anche comprensibile, dal momento che si tratta proprio dell'esordio di Hamilton, ma impossibile da accostare alla definizione «straordinariamente originale e affascinante» data dalla CE italiana.
Per inventare il suo universo narrativo, la cara Alwyn unisce un contesto simil-mediorientale tanto in voga nel panorama fantasy una decina di anni fa con degli elementi tipici dei film western, come pistole, ferrovie, miniere e canyon; il tutto viene racchiuso nel quadro del solito governo oppressivo che un manipolo di adolescenti dovrà debellare. In questo scenario veniamo affidati al POV di Amani Al'Hiza, una ragazza proveniente dall'Ultima Contea, dove abbondano soltanto povertà e proiettili; mentre porta avanti il suo piano per sfuggire ad un matrimonio impostole dalla famiglia, Amani incrocia la strada del ricercato Jin con il quale partirà alla volta della lontana Izman, capitale del sultanato Miraji.
Una premessa non troppo originale, ma con del potenziale; potenziale che l'autrice si prodiga per sprecare in ogni modo possibile. In realtà alcuni aspetti riusciti ci sono, seppur risibili e marginali; un esempio è dato dall'idea di far intraprendere un percorso di scoperta interiore alla protagonista, che passa dal coltivare vaghi progetti di libertà personale all'impegnarsi in modo serio per migliorare le condizioni di vita di tutti nel suo Paese. Per quanto bizzarra, ho trovato carina anche l'idea di accostare elementi tanto lontani per arricchire questo mondo fantastico, inoltre ho apprezzato il messaggio egualitario di fondo pur trovandolo eccessivamente didascalico e ripetitivo.
In definitiva, i pregi sono pochi e neppure troppo solidi, quindi passiamo ai tanti tasti dolenti. Partiamo con la narrazione, che ho trovato troppo rapida e caotica: si passa da una scena all'altra senza che i personaggi stessi abbiano avuto il tempo di assimilare gli avvenimenti; lo si vede molto bene nel momento in cui scoprono senza troppo stupore la distruzione di Dassama, ad esempio. La cara Alwyn arriva perfino a saltare a piè pari intere scene, che poi riassumele all'inizio del capitolo successivo; questo dovrebbe forse rendere più scorrevole la lettura, ma a me è sembrato solo una furbata per agevolare il percorso dei protagonisti e passare ai momenti che trovava più interessanti.
A dispetto dello spunto insolito, il world building fa acqua da tutte le parti, sia perché non viene mai chiarito il motivo di questo miscuglio culturale sia per la pesante presentazione, realizzata ricorrendo a lunghi spiegoni piazzati nei momenti meno opportuni. Ad esempio, all'inizio del romanzo la protagonista entra nel negozio dello zio e, dopo averci informato di averlo trovato vuoto, passa ad elencarci tutte le creature soprannaturali che potrebbero entrarci nella notte; una scelta a dir poco bislacca, dal momento che il locale è deserto e non vedremo nessuno di questi esseri fantastici nell'immediato futuro.
Passando ai personaggi, devo dire di aver trovato un eccessivo numero di comprimari, che in un volume dove la narrazione è tanto rapida a passare da un contesto all'altro finiscono inevitabilmente per essere caratterizzati in base a degli stereotipi; inoltre, mi sorge il dubbio che una buona parte di loro sia stata inserita come mero riempitivo e per questo non ricomparirà più. Ovviamente l'insopportabile protagonista non migliora la situazione: Amani è spavalda ed incosciente per il gusto di esserlo, inoltre dimostra una superficialità ed un egoismo non solo imbarazzanti -se consideriamo che l'autrice vorrebbe venderla come un'eroina intrepida- ma anche in contraddizione con le tragedie alle quali ha assistito.
D'altro canto in questo romanzo disgrazie e morti violente vengono superate con estrema leggerezza, perdendo così gran parte della propria carica emotiva. Una carica che non si riprende quando passiamo alla sottotrama romance, sviluppata in maniera eccessivamente veloce e forzata; si percepisce in modo chiaro la mano dell'autrice dietro il presunto innamoramento tra due personaggi con poco in comune e solo una manciata di interazioni degne di nota.
E come poteva l'edizione nostrana non peggiorare ulteriormente la situazione? sia con una traduzione poco attenta, sia con la mancanza di mappa e glossario. Avrei apprezzato anche delle note che chiarissero il significato delle tante parole in arabo; da lettrice, posso anche intuire che la sheema sia una sorta di copricapo, ma sarebbe stato molto più interessante leggerne una chiara descrizione, magari incorporata in modo omogeneo al testo. Va precisato che questo sforzo non è stato fatto neppure nell'edizione originale, e ciò aumenta la mia impresso secondo cui l'autrice avrebbe adattato una storia di stampo distopico al contesto mediorientale per motivi di marketing.
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A Unobravo non piace questo elemento
Ormai penso di poter accettare con serenità che il genere chick lit mi piaccia finché rimane nei limiti della verosimiglianza, mentre quando non solo li attraversa ma li demolisce completamente come nei libri della cara Federica la mia pazienza viene meno. Ergo, "S.O.S. Amore" non è il libro fatto per me, ma non solo: non lo consiglierei ad un gran numero di categorie umane, come chi soffre di attacchi di panico, le vittime di stalking, l'ordine degli avvocati e quello degli psicologi, le persone queer, ma anche le donne e gli uomini etero cis, per il semplice motivo che potreste sentivi più o meno offesi dal contenuto di questo esilarante romanzo.
La trama all'apparenza è non solo innocua, ma anche incoraggiante: la nostra protagonista nonché narratrice è la trentacinquenne milanese Chiara, che comincia una serie di sedute di psicoterapia per risolvere i suoi problemi relazionali, in particolare la sua palese dipendenza emotiva a causa della quale si trova circondata da persone irrispettose e pronte ad approfittarsi di lei. Nella sua continua ricerca di approvazione, Chiara inizia però a mentire al suo terapeuta e si ostina a non seguirne i consigli, peggiorando ulteriormente la sua vita personale.
Con un atteggiamento simile Chiara non poteva sperare di entrare nelle mie grazie, ma la situazione è ben peggiore! sia lei sia il resto dei personaggi sembrano dei laureati in geologia che al contempo sostengano con convinzione il terrapiattismo: in buona sostanza, tutti loro capiscono benissimo quale sia la cosa giusta da fare, ma per ragioni imperscrutabili non la fanno mai. Per questo motivo mi trovo costretta a bocciare un po' tutto il piattissimo e prevedibile cast; perfino il dottor Folli -il terapeuta dal twist più scontato di un bikini a dicembre- non si salva perché a dispetto dei consigli condivisibili dati alla protagonista il suo approccio è l'antitesi della professionalità. Sono arrivata a sperare che si rivelasse un truffatore in stile Striscia la notizia per poter dare una giustificazione al suo comportamento.
E se la protagonista è così ricca di patetismo e povera di interessi personali, come poteva la sua storia essere intrigante? In questa narrazione tutto avviene per puro caso, in base allo scazzo estemporaneo di uno dei personaggi oppure con il preciso intento di ricreare una scena pescata a caso da una qualunque commedia romantica. Inoltre l'autrice non si prende neppure la briga di rileggere quanto ha scritto prima, incappando così in più di una contraddizione. Trattandosi di un romance, mi aspettavo che almeno l'aspetto sentimentale fosse affrontato con cura, invece ci troviamo di fronte a relazioni nate dal nulla che -nel momento in cui rischiano di naufragare- vengono salvate dal semplice trascorrere del tempo: nel giro di un paio di settimane la parte offesa dimentica per magia ogni torto subito.
Lo stile di Bosco non pare aver subito migliorie e, nonostante io possa capire il desiderio di non prendesi troppo sul serio adottando un lessico semplice e diretto, la leggerezza non è un lasciapassare per i refusi. Mi riferisco in particolare ad un utilizzo arbitrario della punteggiatura e della consecutio temporum tali da farmi pensare seriamente che nessun editor abbia messo mano al romanzo prima di mandarlo in stampa. La superficialità della prosa e del contenuto che caratterizza l'ottanta per cento del testo cozza poi terribilmente con la svolta pseudo-seria delle ultime venti pagine; mi è sembrata fuori luogo come una ballerina in tutù ad un concerto rock.
Di positivo c'è la scorrevolezza del testo che, per merito soprattutto dei suoi lunghi e numerosi dialoghi, permette di sciropparsi in poco tempo una quantità abnorme di scempiaggini con un atteggiamento bulimico simile a quello del binge watching. Per questo ho deciso di essere leggermente più generosa nella valutazione, anche perché in confronto con "Cercasi amore disperatamente" per lo meno questo romanzo è onesto verso i suoi lettori e non promette una storia per poi fornire una completamente diversa.
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Il pittore che non deve essere nominato
Dopo l'esperienza di lettura non proprio elettrizzante de "La Vergine azzurra", il mio entusiasmo verso le storie di Chevalier si era parecchio raffreddato, nonostante io continui a considerare le sue sinossi molto promettenti sulla carta. Prima di accantonare del tutto la bibliografia della cara Tracy, ho deciso pertanto di dare un'occasione a quello che sono certa essere il suo romanzo più conosciuto -ossia "La ragazza con l'orecchino di perla"- di cui ho recuperato convenientemente una vecchia copia all'usato.
La narrazione ci trasporta nell'Olanda del XVII secolo, in particolare nella città di Delft, dove vive e lavora il noto pittore Johannes van der Meer (nel testo chiamato con la forma contratta Vermeer). Il volume copre principalmente il periodo che va dal 1664 al 1666, e specula sulla vita della modella scelta dall'artista per posare per la sua opera più famosa: Ragazza col turbante. La giovane in questione si chiama Griet e, a causa delle ristrettezze in cui vive la sua famiglia, viene assunta come domestica presso i Vermeer; in parte per la sua avvenenza, in parte per la propensione dimostrata per gli accostamenti cromatici, la ragazza viene ben presto notata sia dai residenti che dai visitatori della casa in Oude Lagendijck.
Trovatami di fronte ad una premessa simile, temevo davvero di essermi imbattuta in una storia incentrata sul discutibile amore tormentato tra un (molto!) padre di famiglia ed un'ingenua minorenne pronta a venerarlo come un dio sceso in terra. Per fortuna, Chevalier decide di non intraprendere del tutto quella strada; il problema è che per contro sceglie di non raccontare proprio nulla! e con questo non intendo dire che il testo sia privo di avvenimenti, ma sono tutti fiacchi ed inconsistenti. Questo è il principale motivo per cui temo proprio di non essere in sintonia con la prosa dell'autrice, dal momento che in un romanzo ricerco un intreccio almeno un po' solido, o per lo meno dei personaggi ricchi di carisma.
Nessuno dei caratteri immaginati dalla cara Tracy per questa narrazione mi ha invece trasmesso alcunché, a partire da Griet: una protagonista sprovvista di risolutezza, che trasforma ogni nonnulla in una difficoltà insormontabile e si cruccia in gran segreto per le sue pene, anziché affrontare con coraggio la situazione in cui si trova. La scelta di renderla la voce narrante non aiuta la sua causa, e anziché provare della compassione ho avvertito soltanto dei forti dubbi sulle reazioni degli altri personaggi: non saranno così esasperate, perfino assurde, perché mostrate attraverso il suo punto di vista?
Il resto del cast non è comunque molto più interessante, e la difficoltà nel capire cosa leghi Griet ad ognuno rende le loro caratterizzazioni solo più deboli in prospettiva. Dal momento che a libro finito ancora non vi saprei dire cosa provi la protagonista per il suo "amato", direi che il legame più significativo sia la comune passione per l'arte condivisa con Vermeer; da una mera prospettiva estetica, questo dettaglio è anche apprezzabile perché da vita a diverse metafore interessanti, ma se si considera cosa c'è alla base del rapporto e quali conseguenze abbia è inevitabile rimanere delusi.
In realtà l'intera storia è costellata da immagini belle ed evocative che però nel concreto significano poco, come l'inspiegabile fobia di Griet per il sangue animale o la sua insistenza nel voler accontentare Vermeer a discapito di tutto, in virtù di una mera fascinazione per i suoi quadri. Pur ricercando delle narrazioni meno oniriche, ritengo però giusto dare credito allo stile di Chevalier per la buona combinazione di ricercatezza lessicale e scorrevolezza coinvolgente. Altro grande pregio del volume è l'impegnativo lavoro di ricerca svolto per rendere il contesto seicentesco in cui si muovono i personaggi non solo credibile, ma anche coerente con gli avvenimenti nella vera vita di Vermeer e delle altre figure storiche coinvolte.
Qualcosa di positivo nel libro quindi c'è, e senza dubbio farà la gioia dei lettori che prediligono le sensazioni provate al contenuto riscontrato. Se poi a differenza della sottoscritta riuscite ad entrare in empatia con Griet, il gioco è fatto!
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Un po' Fantabosco, un po' High School Musical
Prima di leggere dei volumi companion all'interno di una serie mi capita di avere le idee poco chiare sull'ordine di lettura ideale, ma dopo riesco sempre ad individuare la soluzione migliore, anche se non è necessariamente quella adottata da me. Mi è capitato ad esempio con "La leggenda del vento" di King, che a posteriori avrei preferito leggere alla conclusione di The Dark Tower; "La lama dell'assassina" invece mi lascia perplessa anche dopo aver letto l'ultima pagina dell'antologia. Non riesco proprio a decidermi se avrei fatto meglio a leggerla prima de "Il trono di ghiaccio" o meno!
Il mio dilemma nasce dal fatto che questa raccolta è formata da cinque novelle ambientate cronologicamente prima degli eventi raccontati nel volume iniziale della saga, quindi sulla carta sarebbero molto utili per introdurre il lettore all'ambientazione ed alla storia di origine della protagonista, così che gli siano già familiari quando comincerà con i romanzi veri e propri. Per quanto mi riguarda però, se questo fosse stato il primo approccio a Throne of Glass, non escludo che avrei abbandonato immediatamente la nave perché tutti i difetti presenti ne "Il trono di ghiaccio" (trama inconsistente, protagonista esasperata, comprimari stereotipati, prosa urticante) qui sono elevati all'ennesima potenza. Avendo però alle spalle ben due libri letti, ho capito di non dover prendere sul serio neppure la metà delle occhiate minacciose che la nostra Celaena Sardothien lancia a destra e a manca, e così sono riuscita a trovare la lettura perfino divertente.
A dispetto di quanto credevo inizialmente, il volume può vantare una sorta di filo rosso teso a collegare le diverse narrazioni -che sono ambientate a pochi giorni l'una dall'altra- ed a delineare una sorta di avventura episodica. Si comincia con "L'Assassina e il Signore dei Pirati", nel quale Celaena ed il suo rivale Sam Cortland vengono inviati dal loro capo Arobynn Hamel per consegnare una missiva al Capitano Rolfe; quanto succede in questa novella porta la protagonista ad intraprendere un viaggio verso il Sud durante il quale incontra l'aspirante guaritrice Yrene Towers ne "L'Assassina e la Guaritrice", per poi finire ad addestrarsi con i Sessiz Suikast (meglio noti come Assassini Silenziosi) ne "L'Assassina e il Deserto", dove viene introdotto il personaggio di Ansel di Briarcliff, che di certo ritornerà più avanti. Pur con dei titoli fuorvianti, gli eventi de "L'Assassina e il Male" e "L'Assassina e l'Impero" gettano definitivamente le basi per portare Celaena alla sua reclusione presso le miniere di Endovier.
Prima di passare alle necessarie lamentele, voglio spendere qualche rigo sui pregi di questo titolo. Innanzitutto mi ha stupito in positivo scoprire che le diverse storie fossero chiaramente collegate tra loro; ho apprezzato inoltre l'inserimento di nuovi personaggi ed elementi di world building, come la mappa di Rolfe, gli accenni al fantomatico Continente Meridionale o la parentesi dedicata alla tela di ragno. Nonostante vengano messi in scena in maniera rivedibile, reputo pur sempre validi alcuni messaggi di fondo, come gli accenni all'importanza dell'autodifesa e la pressione psicologica da una figura di riferimento; mi sarebbe piaciuto promuovere anche il lato romance, ma per mio gusto manca di solide fondamenta: per quanto riguarda Sam dobbiamo accontentarci di sapere che l'ha sempre amata, mentre dal punto di vista di Celaena tutto lo sviluppo avviene quando sono separati e si basa sul comune biasimo verso la schiavitù. Non mi sembra granché per intavolare una storia d'amore!
Tra gli aspetti che reputo meno riusciti c'è di sicuro la regressione di Celaena, che cronologicamente avrebbe senso ma non per questo risulta meno fastidiosa: l'Assassina di Adarland punta di nuovo ad essere tutto e niente (schifa i poveri e poi vuole aiutarli, fa la provocante e poi si copre imbarazzata, secondo la CE dovrebbe avere un «cuore di pietra» e poi si impietosisce per chiunque). Ad avermi fatto alzare più volte gli occhi al cielo è stato però il suo continuo slutshaming e victimblaming: povera Lysandra! Su Sam non ho un'opinione migliore, perché i suoi rari sprazzi di intelligenza sono eclissati dalla sua eccessiva simptudine.
Personalmente avevo poi delle aspettative che questo volume ha demolito con fermezza. Mi aspettavo di vedere un passato più lontano (così da assistere all'addestramento di Celaena, anziché sentirlo solo raccontare dai personaggi), mi aspettavo un maggiore approfondimento sul personaggio di Arobynn e sulle sue motivazioni, mi aspettavo che la morte di Ben nascondesse qualche recondito mistero, mi aspettavo una conclusione in linea con gli altri volumi della serie, mi aspettavo degli assassini privi di scrupoli. Che poi è inutile schifare gli schiavisti, quando stai collaborando attivamente al racket della prostituzione.
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Quando c'era Lvi sui treni non si veniva derubati!
Pur essendo rimasta non poco delusa da "Poirot e I Quattro", la mia fiducia nei confronti del immodesto detective belga non si è incrinata neanche un po': le spy stories non fanno proprio per me, ma adoro vederlo nel suo elemento del mystery puro. Un affetto confermato dalla lettura de "Il mistero del Treno Azzurro", che per più aspetti mi ha fatto pensare al meraviglioso "Assassinio sull'Orient-Express", del quale potremmo vederlo come una versione di prova.
Come diversi altri romanzi della cara Agatha, la vicenda si svolge in un periodo contemporaneo alla sua pubblicazione, e si ambienta tra Inghilterra e Francia; questa volta però il capitano Arthur Hastings brilla per la sua assenza come voce narrante della storia, ruolo che viene invece suddiviso tra una quantità di punti di vista differenti. La trama parte dall'acquisto di un collier di rubini -tra i quali il famoso "Cuore di Fuoco"- da parte del miliardario statunitense Rufus Van Aldin, come regalo per la figlia Ruth "Ruthie" Kettering; poco tempo dopo, la donna parte alla volta della Costa Azzurra sul lussuoso Treno Azzurro, e proprio durante il viaggio viene assassinata e derubata dell'inestimabile gioiello. La fortuita presenza di Poirot sullo stesso mezzo permetterà di far pian piano chiarezza sul delitto.
Questa lentezza è uno degli aspetti meno riusciti del volume perché, se è vero che come le altre narrazioni di Christie tende ad essere abbastanza breve, nella seconda metà si ha l'impressione di vedere i personaggi girare quasi in tondo, e lo stesso Poirot impiega parecchio per raccogliere tutte le informazioni necessarie a smascherare il colpevole. Un altro piccolo neo è rappresentato dai personaggi, che risultano parecchio sciapi e per nulla memorabili; il detective belga è ovviamente l'eccezione a questa regola, ma soprattutto per merito della conoscenza pregressa del suo personaggio, e perché ormai lui ed i suoi modi bizzarri sono entrati nell'immaginario collettivo.
Mi ha in parte deluso anche la mancanza di una qualche tematica, che rendesse più significativa la lettura; nel finale ci si accontenta di ricostruire il giallo e qualsiasi altra riflessione (magari collegata al mondo dell'arte, visto che più di un personaggio ci orbita attorno) viene messa da parte. La mia ultima lamentela è come sempre soggettiva ed anacronistica: la traduzione della mia vecchia copia non è delle migliori, non tanto per la scelta di termini desueti o scorretti, quando per l'utilizzo quasi sempre sbagliato degli avverbi.
Ma passiamo agli elementi positivi, a partire dai tanti accenni metanarrativi presenti nel testo, primo tra tutti il piccolo gioco tra Poirot e Katherine Grey che si considerano protagonisti di un romanzo giallo. Nonostante manchi la figura di Hastings, l'umorismo e le sottotrame romantiche poi non ci disertano; e specialmente queste ultime mi hanno convinto per il modo in cui sono state amalgamate al mistero principale. Mistero che porta ad una risoluzione intelligente e complessa, nella migliore tradizione dei classici christiani.
Una lettura che ho trovato quindi molto piacevole, in cui vengono forniti all'audience tutti gli strumenti necessari per decriptare l'intreccio, senza per questo farsi mancare una manciata di individui loschi ed ambigui per confondere le acque. Come libro d'evasione, magari tra volumi più impegnativi e corposi, è ottimo: fa ridere (abbastanza), fa ragionare (ma non troppo) e fa sbuffare la sottoscritta perché non azzecco mai le pronunce in francese. Nelle note di traduzione a fondo pagina ormai ho perso la speranza.
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Pillole di horror kinghiano
Nel mio percorso di recupero cronologico delle antologie kinghiane, un paio di anni fa avevo affrontato "Stagioni diverse", diventato istantaneamente uno dei miei titoli preferiti del caro Stephen, con mio grande stupore dal momento che non mi ritengo un'estimatrice di racconti e novelle. Ancora con i ricordi di quella stupenda lettura in mente sono approdata adesso alla quarta raccolta dell'autore, che propone nuovamente la formula di quattro, corpose novelle associate tra loro da un tema ricorrente, in questo caso quello del tempo e della percezione che abbiamo di esso.
Come per le altre antologie, andrò ad analizzare e valutare in modo individuale ogni storia, ma in linea di massima posso dire di aver trovato qualcosa di apprezzabile in ognuna delle narrazioni, seppure nessuna mi abbia colpita come altri racconti nati dalla penna di King. In generale ho trovato anche altalenanti l'elemento horror ed il collegamento alla tematica del tempo: quand'è ben evidente è perché i personaggi stessi lo sottolineano, ma in molti altri frangenti risulta quasi impercettibile.
"I langolieri" - tre stelline e mezza
Narrazione che trasmetterà sicuramente un senso di déjà vu ai fan della serie TV Lost, infatti la scena si apre su un volo aereo, in particolare il volo 29 della compagnia fittizia American Pride, in partenza da Los Angeles e diretto a Boston. Durante la traversata undici passeggeri del Boeing 767 si addormentano e, al loro risveglio, scoprono che tutte le altre persone a bordo sono scomparse nel nulla; fortunatamente tra loro c'è il pilota Brian Engle, ma una volta atterrati in sicurezza le cose diventano ancora più inquietanti.
Per diversi aspetti mi ha fatto pensare a "La nebbia" ma in una versione migliorata, anche per ragioni di spazio credo. Con la novella del 1980 ha infatti in comune il valido fattore horror ed il crescendo nella tensione narrativa, direttamente proporzionale con le rivelazioni angoscianti alle quali giungono i personaggi; purtroppo ad accomunarle ci sono anche aspetti negativi, come l'eccessivo spazio dato alle sottotrame romance, che a mio avviso sono del tutto fuori luogo in una storia dal ritmo tanto incalzante.
Non mi hanno convinto troppo neppure la rapidità con cui i protagonisti superano eventi sulla carta traumatici (ad esempio, tutta la parentesi relativa alla moglie di Brian, un po' pretestuosa a conti fatti) per avviarsi beati verso un epilogo eccessivamente positivo, o com'è stato mal sfruttato il personaggio di Craig Toomy: visto il modo interessante con cui era stata descritta la sua psicologia in un primo momento, mi aspettavo qualcosa di più. Sono invece promosse l'ottima presentazione del cast -caratterizzato in modo solido a dispetto dello spazio limitato a disposizione in una novella- e le spiegazioni relative al lato sci-fi, tutt'altro che banali.
"Finestra segreta, giardino segreto" - quattro stelline
Ennesima storia kinghiana con protagonista uno scrittore, e di conseguenza ennesima storia kinghiana con riferimenti autobiografici a vagonate. L'autore in questione, tale Morton "Mort" Rainey, viene contattato dal collega John Shooter, il quale lo accusa di plagio; a quanto pare il racconto di Mort "Stagione di semina" ha moltissimo in comune con quello di Shooter "Finestra segreta, giardino segreto". Non è chiaro chi abbia copiato da chi, ma di certo nella vita dello scrittore iniziano ad accadere episodi sempre più insoliti ed inquietanti, al punto da convincerlo che il suo accusatore abbia piani ben più violenti che una banale causa per rivalersi sui diritti d'autore.
In un primo momento potrebbe non sembrare, ma questa novella poggia su un'idea a dir poco geniale; inoltre, rispetto alla precedente, può vantare anche un finale adeguato nel tono e nelle tempistiche, che fornisce delle spiegazioni chiare pur lasciando un velo di mistero su un potenziale elemento paranormale.
Tra i pregi della storia posso includere sicuramente la psicologia del protagonista, contorta al punto giusto: sfruttando il suo POV, King riesce a creare un intreccio solido ed angosciante. Peccato per le tempistiche scelte, che rovinano buona parte della suspense a metà racconto! a mio avviso, il twist principale poteva essere sfruttato molto meglio e risultare meno palese. La novella perde qualche punto anche per la caratterizzazione dei comprimari, che non sono neanche lontanamente all'altezza di Mort.
"Il poliziotto della biblioteca" - quattro stelline e mezza
Per ammissione dello stesso King, questa narrazione parte da un'idea parecchio balzana, nonché poco in linea con il taglio horror che intendeva dare alla raccolta, ossia quella di una sezione della polizia dedita a perseguire coloro che non restituiscono per tempo i libri nelle biblioteche. Fatico ancora a credere che sia riuscito a dare una svolta decisamente spaventosa ad una storia incentrata su una figura quasi comica nel suo infantilismo come la polizia bibliotecaria, eppure...
La premessa non lascia affatto intuire il terrore che seguirà: l'imprenditore Sam Peebles viene incaricato di tenere un discorso presso la sede locale del Rotary Club e, per rendere più brioso il testo che ha preparato, si reca nella biblioteca di Junction City, cittadina immaginaria dell'Iowa in cui vive, per cercare dei libri di oratoria. Ad accoglierlo è la pittoresca bibliotecaria Ardelia Lortz, che da un lato si dimostra estremamente utile nella sua ricerca ma dall'altro lo terrorizza con lo spauracchio del poliziotto della biblioteca, pronto a dargli la caccia nel caso i libri non vengano riconsegnati entro una settimana.
Come spunto non sembrerà granché, ma vi garantisco che una volta preso il via la novella rivela un intreccio niente male, costellato da personaggi decisamente carismatici tra i quali spiccano il bislacco Dave "Raccatta" Duncan e la stessa Ardelia. Ho apprezzato molto come la passione per i libri costelli un po' tutta la storia; in modo inaspettato mi ha convinto anche la svolta romance, probabilmente perché poggia su basi concrete e non su un insensato instalove.
In questa raccolta è forse la lettura che meglio riesce a rendere sia la sensazione di paura sia l'influenza del tempo sulle esperienze dei personaggi. Peccato che le due metà (quella sulla backstory di Ardelia e quella sulla polizia bibliotecaria) fittino male: ho avuto l'impressione ci fosse una forzatura nel legare a tutti i costi le varie parti della narrazione; inoltre, l'identità dell'antagonista è fin troppo simile ad altre creature già descritte da King in libri precedenti e decisamente più popolari come lo stesso "It", risultando così meno originale del previsto.
"Il fotocane" - due stelline e mezza
Parte centrale in quella che dovrebbe essere una sorta di trilogia -composta anche da "La metà oscura" e "Cose preziose"-, in questa avventura King riporta i suoi Fedeli Lettori ancora una volta nella città immaginaria di Castle Rock. Qui vive il quindicenne Kevin "Kev" Delevan che, come regalo per il compleanno, riceve la tanto desiderata macchina fotografica, in particolare una Polaroid Sun 660 con la quale inizia subito a scattare. La fotocamera in questione ha però uno strano difetto: produce delle foto sempre uguali, nelle quali si vede un grosso cane nero per nulla amichevole. Cercando di far luce su questa disturbante anomalia, il ragazzo entra in contatto con Reginald Marion "Pop" Merrill, proprietario dell'Emporium Galorium ed usuraio locale.
Proprio questo insolito personaggio è la luce (del flash!) che illumina una storia per il resto lenta ad ingranare; nella sua distaccata crudeltà, Pop è un individuo carismatico e brillante, e per questo motivo ho apprezzato molto le parti narrate dal suo punto di vista, come anche il suo piano machiavellico. Altri aspetti a favore sono l'elemento paranormale della possessione, la presenza di moltissime citazioni ad altre opere del caro Stephen e la caratterizzazione dei cosiddetti Cappellai Matti, dei personaggi tanto folcloristici quanto strapalati.
Con i complimenti mi devo purtroppo fermare qui perché Kevin come protagonista non mi ha fatto impazzire, un po' perché di suo è troppo perfetto un po' per gli aiuti eccessivi che riceve, tanto da privare il racconto di una buona fetta di tensione. Inoltre, per quanto i personaggi possano ribadire e sottolineare il terrore che ispira, il villain non è neppure paragonabile a Cujo... la macchina fotografica in sé risulta quasi più spaventosa! Boccio anche l'epilogo: più ridicolo che terrificante.
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Questo Natale, su Hallmark Channel
Come si potrà facilmente intuire dando una scorsa alle mie letture più o meno recenti, non sono una gran consumatrice di romanzi rosa; cerco di non avere pregiudizi per nessun genere, ma è un dato di fatto che la maggior parte dei romance nei quali mi sono imbattuta mi abbia deluso. Eppure ho iniziato con entusiasmo la lettura di "Book Lovers. Un amore tra i libri", in parte perché la sinossi prometteva una storia d'amore lontana dai soliti cliché, ma soprattutto per averne sentito tessere le lodi da chiunque, specialmente da persone che di solito non bazzicano questo genere di storie. E pur non avendo condiviso l'adorazione collettiva, sento comunque di poterlo consigliare se cercate una lettura leggera e divertente; evitando con cura di fare affidamento su come lo vende la casa editrice!
La trama presenta una variazione sul tema delle commedie romantiche in cui vengono contrapposte città e campagna. La protagonista e narratrice è Nora Katharine Stephens, un'agente letteraria newyorkese di successo che viene convinta dalla sorella minore Elizabeth "Libby" Baby a trascorrere le vacanze estive nel paesino di Sunshine Falls, nel North Carolina; qui è infatti ambientato uno dei romanzi preferiti di Libby, scritto proprio da una cliente di Nora. Un periodo di villeggiatura che dovrebbe portare la protagonista a sperimentare una vita più rustica e spontanea, non fosse per la presenza in città di Charlie Lastra, un editor che al loro primo incontro le ha fatto una pessima impressione.
Per ribadire la mia approvazione a questo titolo, voglio dare subito spazio ai pregi che ho individuato. Innanzitutto, si tratta di un testo scanzonato che punta a far ridere, con dialoghi ricchi di battute e situazioni al limite della verosimiglianza; l'autrice si è palesemente divertita a portare all'estremo le tipiche situazioni delle commedie romantiche. A parte una riserva di cui parlerò tra poco, ho inoltre apprezzato la caratterizzazione di Charlie: la correttezza, la buona volontà nell'aiutare gli altri ed i commenti sarcastici lo hanno reso in pochi capitoli il mio personaggio preferito.
Personalmente mi è piaciuta anche la scelta di includere delle sottotrame collegate alle famiglie dei protagonisti, per mostrare delle relazioni diverse da quella sentimentale. In particolare, ho apprezzato come la cara Emily abbia tratteggiato il confronto tra Nora e Libby nel finale, andando ad analizzare non solo il loro rapporto come sorelle ma anche le diverse prospettive sul comportamento della madre. Senza dimenticare che si tratta di un titolo estremamente scorrevole, in cui la trama prosegue con un ottimo ritmo narrativo.
Con la coscienza più leggera, posso passare ai difetti di questo libro, o meglio al difetto. Sì perché il mio problema principale è stato notare le differenze tra quanto mi aveva promesso la CE nella sinossi e l'effettivo contenuto. Sulla carta il romanzo dovrebbe regalare al lettore dei colpi di scena stupefacenti, eppure io sfido il più distratto tra voi a definire imprevedibile una sola delle svolte di trama, e non parlo (solo) dello stucchevole epilogo. Sulla carta il romanzo dovrebbe raccontare la storia di due persone che si odiano ricalcando un po' la dinamica tra Lizzy Bennet e Mr. Darcy, mentre li vediamo prontissimi a saltarsi addosso già alla prima conversazione informale; e anche gli altri ostacoli al loro amore sono tutti di poco conto, come il fatto che lavorino nello stesso settore o l'iniziale riserva di Libby nei confronti di Charlie: dopo poche pagine già lo adora! Sulla carta il romanzo dovrebbe parlare di due persone fredde ed incapaci di esternare i propri sentimenti, quando invece sono soltanto molto pratici e preferiscono cercare delle soluzioni concrete ai problemi delle persone alle quali tengono; anche la loro rigidità è solo presunta, perché in tutto il volume non fanno altro che ridere e fare commenti ironici.
Ma soprattutto, mi era stato garantito un ribaltamento degli stereotipi del genere romance, ma nella pratica non ne manca neppure uno: la protagonista che scivola di continuo e viene presa al volo dal belloccio di turno, la coppia infoiata nei momenti e nei luoghi meno opportuni, i personaggi in grado di emanare un profumo delizioso anche dopo un'intera giornata di lavoro, gli occhi paragonati a metalli pregiati, pietre preziose o dolciumi assortiti. Tutto ciò lo rende un brutto libro? ma certo che no! Però permetterete che mi senta un filino presa in giro se ho ordinato un trancio di salmone mi vedo portare al tavolo un hamburger vegano.
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MacGuffin a profusione
Volume conclusivo della serie ideale formata dalle storie companion de La Prima Legge, come suggerisce il titolo scelto per la pubblicazione in Italia "Tredici lame" è un'antologia composta da treducu racconti, la maggior parte pubblicati in precedenza su riviste dedicate al fantasy ed edizioni speciali mentre una manciata sono storie nuove, scritte proprio in occasione della pubblicazione di questa raccolta.
Le tredici narrazioni coprono un periodo di oltre venticinque anni nella Storia del Mondo Circolare, partendo così da ben prima della prima, iconica scena de "Il richiamo delle spade" ed arrivando ad un paio di anni dopo la conclusione delle avventure di Shy e Tempio in "Red Country". Le storie si concentrano soprattutto su una quantità di caratteri già ben conosciuti dai fan di questo universo fantastico, come Sand dan Glokta, Monzcarro "Monza" Murcatto e Curden lo Strozzato, ma cinque storie vanno a strutturare una narrazione ad episodi incentrata sui personaggi inediti di Shevedieh "Shev" ul Kanan mut Mayr, Carcolf e Javre, conosciuta come la Leonessa di Hoskopp.
La scelta di creare una storia vera e propria anche in questo contesto mi è piaciuta parecchio, e nonostante Shev e Javre difficilmente rientreranno tra i miei personaggi preferiti di Abercrombie, le ho trovate comunque interessanti e ben sfruttate all'interno di una narrazione più ampia. Per contro le storie dedicate a personaggi noti hanno più un effetto di riempitivo -per mostrare qualche piccolo retroscena o illustrare in modo più dettagliato degli episodi ai quali si era soltanto accennato nei romanzi principali-, con qualche significativa eccezione.
È il caso dei superbi "Nel posto sbagliato al momento sbagliato" e "Tempi duri dappertutto", nei quali si compongono delle microstorie ricche di (crudele) ironia con caratteri che risultano immediatamente carismatici. Ho apprezzato altrettanto "Ieri, nei pressi di un villaggio chiamato Barden...", per il modo in cui il lettore viene rimbalzato da un punto di vista all'altro: ricorda molto l'eccellente tecnica utilizzata dall'autore in "The Heroes" per descrivere una battaglia da molteplici prospettive. Tra i miei preferiti devo includere per forza anche "Libertà!", che troverete a dir poco esilarante se come me avete letto da poco tempo "Red Country".
La prosa sempre ironica ed esasperata di Abercrombie conferisce un tono tagliente alle storie, che per questo si dimostrano incisive a dispetto della loro brevità. Conoscendo già le ambientazioni e quasi tutti i personaggi, ho trovato inoltre divertente scoprire alcuni piccoli dettagli delle loro avventure principali. Ovviamente, se non si è letto nessun volume di questo universo narrativo, questi racconti risulteranno insulsi nel migliore del casi e del tutto incomprensibili nel peggiore; e questo nonostante alcune possano essere considerate a tutti gli effetti delle storie prequel.
Purtroppo i motivi per cui lo stile del caro Joe è tanto apprezzato, risultano essere anche i suoi maggiori punti deboli, perché a tanti non andranno giù le sue continue esagerazioni, sia nei dialoghi che nei gesti compiuti dai personaggi. Un dettaglio che mi ha lasciato perplessa invece è la decisione di inserire "Creare un mostro" come ultimo raccolto, mentre fino a quel momento si è seguito un chiaro ordine cronologico.
Il grande limite di quest'antologia, o meglio di questa specifica edizione, è rappresentato dalla sua traduzione. Non soltanto sono state cambiate espressioni storiche come Uomini del Nord qui adattato come Nordici, ma alcuni nomi sono stati tradotti in modo diverso oppure non tradotti affatto, e questo crea non poca confusione. A coronare questo disastro abbiamo la presenza di molti refusi, che in più punti riguardano un singola pagina; penso occorra un particolare talento per sbagliare in maniera tanto evidente.
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Ogni riferimento focoso è puramente voluto
Quando alcuni mesi fa stilai un elenco di libri molto popolari su Goodreads che avrei voluto recuperare per capire se meritassero effettivamente tanto successo, non pensavo di imbattermi in titoli davvero degni di nota, perché sappiamo bene tutti quanto la fama su questo social non vada proprio a braccetto con la qualità letteraria. Di conseguenza, le mie aspettative al momento di iniziare "Eleanor Oliphant sta benissimo" erano parecchio tiepide e la cover -significativa, ma per nulla accattivante- non contribuiva di certo a riscaldarle. Per fortuna è arrivata la prosa di Honeyman ad accendermi di entusiasmo verso una lettura molto più appassionante di quanto la sinossi lasci intendere.
La narrazione si ambienta all'interno dei confini della città di Glasgow, nella Scozia dei giorni nostri, anche se risulta difficile crederlo dal momento che quando la sua storia comincia la protagonista, l'impiegata trentenne Eleanor Oliphant, è sprovvista di computer e smartphone. La donna conduce una vita quasi monastica ed oltremodo rigorosa in ogni suo aspetto: dal cibo, al vestiario, agli impegni, tutto segue una tabella di marcia prestabilita all'insegna della moderazione. Una routine nata da un passato traumatico, svelato pian piano all'interno del volume, che una serie di nuovi incontri riescono a stravolgere; primo tra tutti quello con il musicista Johnnie Lomond, del quale Eleanor si invaghisce all'instante, tanto da convincersi di essere la sua anima gemella.
Questo mio sunto fornisce purtroppo un quadro incompleto di ciò che il romanzo effettivamente è, ma ogni informazione in più finirebbe per rovinare l'esperienza di lettura; questo perché l'intreccio è composto da pochi avvenimenti cruciali, mentre la maggior parte del testo è riservata al percorso di crescita intrapreso (prima in modo casuale, poi con assoluta consapevolezza) dalla protagonista. Non che si tratti di un vero e proprio difetto, come pure gli altri: sono soprattutto elementi da quali mi aspettavo qualcosa in più. È il caso dei comprimari non troppo sviluppati caratterialmente o del ruolo ricoperto dal personaggio di Samuel "Sammy" Thom, che mi ero convinta sarebbe stato più presente nella storia.
Personalmente, ritengo il romanzo riuscitissimo in ogni altro aspetto, a cominciare dalla caratterizzazione di Eleanor e dal modo in cui il suo POV dona un tono molto particolare alla narrazione, riuscendo a costruire sia scambi divertenti che confronti emozionanti. In questo senso aiuta il lavoro di foreshadowing svolto dall'autrice nel corso dell'intero volume: quando si arriva alla rivelazioni finali, si ha così un senso di completezza per i misteri chiariti anziché provare uno spaesamento per dei colpi di scena campati per aria, come capita con altri titoli.
A rendere ancor più valida la scrittura di Eleanor sono le relazioni che instaura nel corso del libro: tutte solide e credibili, crescono pian piano senza stravolgere il modo di vedere il mondo della protagonista da una pagina all'altra. Ovviamente la mia preferenza soggettiva va al rapporto amicale (e forse anche romantico) con Raymond Gibbons, che Honeyman è stata davvero brava a non sminuire in nessun modo mettendo l'una o l'altro in condizione d'inferiorità.
Personalmente devo dire di aver molto apprezzato anche l'umorismo -che spesso vira verso un adorabile tono dissacrante- ed il modo per nulla pedante o paternalistico con cui viene rappresentata la particolare condizione di Eleanor. Inoltre, in tempi di potenziale reading slump, abbiamo anche un ulteriore bonus dato dal ritmo incalzante; forse a qualcuno sembrerà anche troppo rapida come narrazione, ma io l'ho trovata piacevolmente scorrevole.
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Romanzo per ragazzi o menù etnico?
C'è stato un tempo in cui l'ottimismo verso la narrativa per ragazzi mi aveva portato ad accumulare in modo quasi compulsivo un gran numero di serie in voga all'epoca. In alcuni casi si è trattato di sorprese felici (come la trilogia Chaos Walking, letta integralmente lo scorso anno, che penso sia invecchiata parecchio bene), ma molto più spesso mi sono trovata di fronte a narrazioni davvero ingenue e farcite di messaggi discutibili, sempre pensando al target giovane per il quale sono scritte. In quale categoria sarà finita "La moglie del califfo"? secondo me potete indovinarlo, ma cominciamo dalla trama.
L'idea alla base del romanzo è quella che fa da cornice ai racconti dell'antologia Le mille e una notte: nel califfato del Khorasan il crudele sovrano Khalid Ibn al-Rashid prende ogni giorno in sposa una donna diversa, per poi ordinarne l'esecuzione prima che spunti l'alba. La protagonista sedicenne Shahrzad "Shazi" al-Khayzuran ha visto così condannare a morte la sua migliore amica Shiva, e per questo decide di offrirsi volontaria come prossima moglie, con l'intenzione di avvicinare il califfo abbastanza da poterlo uccidere per vendetta.
Messo in questi termini sembrerebbe un intreccio decisamente promettente, non fosse per due grossi ma. In primo luogo la missione di Shazi viene accantonata dopo pochi capitoli per dar spazio ad altre linee di trama, legate ad una ribellione interna contro Khalid, ad una minaccia dal vicino sultanato di Partia e ad un elemento fantastico. E anche se non ci fossero state queste sottotrame di mezzo, ci avrebbe pensato la protagonista a fermarsi da sola: sia perché il suo piano è a voler essere generosi vago, sia per l'instalove che la colpisce dopo soli due giorni trascorsi a palazzo.
Questo vi farà forse intuire come la protagonista non sia tra i punti a favore di questo titolo; Shazi è impulsiva nel senso peggiore del termine e viene colpita da continue epifanie che non portano avanti di mezzo passo la sua caratterizzazione, inoltre per la maggior parte del libro è indolente al punto da non pensare neanche a mettersi in contatto con la sua famiglia. Come coprotagonista Khalid non se la cava meglio: è il classico bad boy (ma MOLTO bad) che il lettore dovrebbe giustificare per il suo tragico passato; mi spiace, ma non riesco proprio a tollerare uno stupratore come interesse amoroso. In aggiunta a questi difetti soggettivi, abbiamo una prosa composta quasi esclusivamente da frasi fatte, un linguaggio ostentatamente informale e delle scene cruciali per la risoluzione della storia che vengono liquidate con troppa fretta.
Si tratta quindi di un testo irrecuperabile? ma no! Intanto ha il pregio di avermi divertita non poco (soprattutto per la totale incapacità dimostrata delle guardie reali!), nonché di aver introdotto alcune linee di trama interessanti che spero verranno analizzate meglio nel seguito. Accanto ai discutibili protagonisti troviamo alcuni personaggi secondari niente male -come Jalal al-Khoury e Tariq Imran al-Ziyad-, che bilanciano come possono la poca concretezza di Shazi e Khalid.
Personalmente ho apprezzato poi l'ambientazione affascinante, ricca di dettagli sugli alimenti e l'abbigliamento, che denota una qualche ricerca di verosimiglianza con la cornice simil-storica. Mi è piaciuta anche la riflessione sull'inutilità di contribuire ad un ciclo di vendette: lo reputo un messaggio valido ed attuale, sul quale voglio concentrare la mia attenzione... ignorando volutamente il contesto in cui questa illuminazione ha avuto luogo.
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Saga multi-familiare
Smetterò mai di acquistare libri che poi lascio stagionare per secoli sugli scaffali? Forse un giorno sì, ma intanto conservo questo mio vizio che ha portato una copia usata de "Il peso dei segreti" ad attendere per più di quattro anni prima di essere scelta dalla sottoscritta come nuova lettura. Per mia fortuna, l'opera d'esordio di Shimazaki è un tipo di narrazione che trascende il tempo, quindi risulta apprezzabile oggi come all'epoca della sua prima pubblicazione in Italia.
Il volume si compone di cinque parti, inizialmente pubblicate separatamente, che formano una sorta di epopea familiare nella quale le vicende personali si intrecciano alla Storia -del Giappone in particolare e dell'Asia orientale in generale- durante la prima metà del Novecento. Tutto parte nel presente, con la morte di Yukiko Kamishima che lascia alla figlia Namiko una missione: trovare lo zio del quale non ha mai saputo nulla per consegnargli una misteriosa lettera; questo lascito porta a delle rivelazioni stupefacenti, che vanno ad inglobare un numero sempre più ampio di personaggi ed alzano il velo su delle esistenze solo all'apparenza ordinarie.
L'esordio della cara Aki è una lettura da assaporare, andando oltre una prosa molto diversa da quelle occidentali, che in un primo momento potrebbe risultare straniante. In effetti l'utilizzo di periodi molto brevi la fa sembrare scarna, eppure è capace di trasmettere un senso di grande delicatezza; non nuoce che renda anche la lettura molto rapida ed avvincente. Un altro piccolo scoglio è rappresentato dall'edizione -molto curata e con un utile glossario, ma che crea confusione nei dialoghi per la scarsità di segni grafici- e dal tono un po' troppo soapoperistico dei colpi di scena: personalmente li ho però trovati brillanti e ben contestualizzati ai temi ricorrenti dell'abuso psicologico e del dramma generazionale.
Passando a difetti più solidi, ritengo giusto segnalare due elementi. Il primo riguarda la mancanza di descrizioni dei personaggi; una scelta narrativa che rende ovviamente difficile distinguerli, anche perché adottano termini e strutture linguistiche troppo simili le une alle altre. Anche la seconda problematica è legata ai dialoghi, in particolare alle battute poco naturali che hanno la sola funzione di fornire determinate informazioni al lettore. Avranno la loro utilità, ma sono abbastanza frequenti e palesi da infrangere la sospensione dell'incredulità.
Finora ho parlato quasi esclusivamente di aspetti negativi, e vi potreste giustamente chiedere perché ho assegnato il massimo della valutazione ad un libro tanto manchevole. Come ho già accennato, si tratta di una storia alla quale va dato tempo, perché combinando quanto raccontato nelle cinque parti si crea un intreccio doloroso ed emozionante: il primo racconto può risultare soltanto carino, ma ripensandoci alla fine del volume acquista tutta un'altra potenza narrativa. Nel testo spiccano poi delle tematiche molto importanti e (immagino, sulla base della brevissima biografia) care all'autrice. Si parla infatti della guerra e delle sue conseguenze, delle convenzioni sociali e del modo in cui influiscono sui legami interpersonali, del rapporto verso un'autorità dispotica, delle migrazioni e della colonizzazione.
La storia dei personaggi fittizi è inoltre intrecciata in modo superbo con reali eventi storici, come il grande terremoto del Kant? del 1923 e lo sgancio della bomba Fat Man su Nagasaki, creando una mescolanza credibile tra gli elementi storici e le vite dei protagonisti. Personalmente ho poi apprezzato molto come l'autrice si focalizzi sui caratteri femminili: pur seguendo anche i punti di vista di personaggi maschili, le donne sono il cuore di questa narrazione in cui si da finalmente voce a sofferenze per troppo tempo taciute.
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