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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    11 Marzo, 2025
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Nei Mari tempestosi dell'infanzia

Negli undici racconti della raccolta ritroviamo i principali temi dell’opera di Michele Mari, a cominciare dal rapporto con la figura paterna, che qui appare però più mite ed empatica rispetto a quella severa e inflessibile di Leggenda privata. In Chi ha ucciso Liberty Valance il padre è una sorta di angelo, custode e “tesoriere”, che mette da parte e preserva tutti i giocattoli che il figlio smarrisce o abbandona senza riflettere sul vuoto che lasceranno nella sua vita: un fucile giocattolo lasciato su una panchina, due macchinine Mercury regalate con superficialità ad un compagno, un fortino di bambù. Ne La freccia nera è sempre il padre a mandare un piccolo segnale di apertura - il dono inaspettato di un libro- al quale il narratore risponde col silenzio, incapace di rimuovere il blocco affettivo che fa da ostacolo insormontabile alla comunicazione tra loro. Non manca l’altra grande protagonista di Leggenda privata, la madre, che in Certi verdini coinvolge il figlio nell'arte del puzzle, amplificandone via via le difficoltà di esecuzione, in un gioco cerebrale dominato dall'ossessione di superare prove sempre più ardue. Si fa strada qui quel culto dell’intelligenza, associata ad una pratica di separatezza dagli altri, che il narratore eredita da entrambe le figure genitoriali. Né mancano i mostri, protagonisti delle copertine di Urania, classificati con ampia figura retorica di accumulo per illustrarne le svariate caratteristiche che essi assumevano in quella celebre collana di fantascienza: ”loricati e squamosi, catafratti, pelosi, bavosi, mucosi, ungulati ,fiammanti, bituminosi, lobati, crestati, gassosi, colanti, informi e deformi, araldici, immani, solinghi, aggruppati ecc.”. A questa miniera di creature fantastiche lo scrittore attingerà ripetutamente nella sua produzione, da Di bestia in bestia a Locus desperatus.
Ma il protagonista principale di questi racconti è il narrante stesso, con i suoi tic, le sue manie, le fobie, il solipsismo, l’ aristocratica ed elitaria solitudine nella quale si rifugia disdegnando i rozzi compagni, i bulletti sfacciati e prepotenti de L’orrore dei giardinetti, apripista del Pigi di Leggenda privata.
Su questa tematica s’innesta uno dei “grumi” esistenziali più difficili da sciogliere: il desiderio sessuale struggente, che tornerà in Leggenda privata, complicandosi e contaminandosi col feticismo al quale sarà associata la figura di Doretta. Una libidine alla quale il protagonista sarebbe voluto sfuggire svanendo nel nulla, prima che si manifestasse e lo rendesse morbosamente geloso, trasformandolo, nel racconto fantastico “E il tuo dimon son io”, in una sorta di serial killer involontario dei suoi piccoli rivali in amore.
E qui emerge il tema dei temi, l’infanzia stessa, il luogo in cui tutto quello che contava si è svolto: “Non c’è stato molto altro, nella vita”, “No, è quasi tutto laggiù”. Questo è il parere dei due vecchi che si scambiano i loro ricordi nel racconto conclusivo, l'unico in terza persona. L'infanzia in Mari non è generatrice di illusioni come in Leopardi, né simbolo di un’aurorale e primigenia intuizione del mondo come in Pascoli, ma spazio doloroso di affetti non dichiarati e inespressi, di scelte elitarie ma anche di nodi esistenziali mai risolti, che Leggenda privata metterà in luce con squarci di grande e penetrante bellezza.
Il linguaggio di Mari, ricercato e denso di frequenti scarti dalla norma, neologismi, latinismi, arcaismi che ci riportano ad un italiano antico e confermano la struttura mentale filologica dello scrittore, è il segno e lo strumento di un distacco da questo magma emotivo di vicende familiari tanto intime, tanto decisive, tanto, a modo loro, violente e sanguinose. Ma anche i costanti riferimenti al cinema e alla letteratura, esaltata in Otto scrittori attraverso un’appassionata competizione tra i principali autori del romanzo marinaresco, rafforzano la cifra iperletteraria di questo affascinante autore. Senza dimenticare la passione per i "giornalini", gli album di Tintin e di Cocco Bill, di Mandrake e di Nembo Kid, di Linus e Topolino, che conferma il superamento di ogni steccato alto/basso e trova riscontro nell'opera sia saggistica, sia narrativa di Umberto Eco. Un titolo per tutti: La misteriosa fiamma della regina Loana.

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Tutta l'opera di Mari , in modo particolare, Leggenda privata.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    06 Gennaio, 2025
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Come se fossero persone reali

Ai personaggi dei grandi romanzi spesso ci affezioniamo, vivono con noi, li giudichiamo, li valutiamo, come se fossero persone vere. Io, con L’amica geniale, mi sono spinto più in là e, un po’ per gioco, un po’ per deformazione professionale, al giudizio sintetico ho fatto seguire anche un voto. Niente a che vedere, ovviamente, con la vera critica letteraria. P.S. Ogni tanto si spoilera, ma tra libro e adattamento televisivo (con annesse repliche) dovremmo conoscere tutti il finale. Secondo P.S. C'è un'altra mia "opinione" in questa pagina sulla stessa opera, ma di taglio totalmente diverso.

Pietro Airota: Tutto casa e università, nella sua vita irrompe una donna da sempre innamorata di un altro. Pessima premessa per qualsiasi matrimonio. Qui comincia la sua disavventura, costellata di tanti episodi. Quando uno studente presentatosi agli esami totalmente impreparato gli punta addosso la pistola perché lo vuole bocciare e lui vuole denunciarlo, gli si scatena contro il coro unanime, vagamente omertoso, di madre, padre e consorte (è un compagno che sbaglia? E’ anche lui rampollo di accademici?). Quando Pasquale Peluso e Nadia li raggiungono a Firenze e bistrattano Pietro (vedi alla voce Pasquale Peluso), Elena si schiera coi due, terroristi e cafoni nel contempo. Chiuso nella sua torre eburnea e un pizzico maschilista, non presta molta attenzione alle fatiche letterarie della moglie. Del resto, ad uno così se non gli piazzi sulla scrivania un saggio sul De reditu di Rutilio Namaziano è difficile che lo smuovi. Va a cercarsi Sarratore e lo introduce in famiglia, ignorando che oltre all’intelligenza, da cui è attratto, possiede altre qualità meno accettabili per un marito. Lenù riscopre i segni dell’antica fiamma, ma scopre e testa anche i punti dell’appartamento più consoni ad accoppiamenti furtivi, non esclusi i servizi igienici. In preda ad una crisi di nervi , non priva di giustificazioni, costringe Elena a rivelare il suo tradimento a quelle due poverine delle figlie. E’ il suo punto più basso. Dopo la inevitabile separazione, continuerà però a stare accanto alla ex moglie e a sorreggerla con affetto nei momenti difficili, tipo il post-terremoto.. Al telefono, certo, ma Nino neanche quello…
Ingenuo, vittima: 6

Pasquale Peluso: E’ il primo amore di Lila, ma, almeno, ha evitato di farne un idolo e non è entrato nelle sue spirali perverse (a meno che non sia stata lei a programmare certe azioni violente, ma fa parte di un non detto). Militante comunista, segretario della sezione locale, diventa poi terrorista. Recita la sua scena madre quando si reca in visita ad Elena e Pietro a Firenze (in realtà è cominciata la sua fuga, è ricercato). Utilizza tutti i comfort borghesi che la famiglia Airota mette a disposizione, ma questo non gli impedisce di sferrare un incredibile attacco verbale contro il padrone di casa, reo di non fare un vero lavoro e di essere un parassita sociale. La sua tirata contro il ceto intellettuale rivela una visione reazionaria e criptofascista, come il povero Pietro fa notare, inutilmente, alla moglie (è scappata dal Rione, ma guai a chi glielo tocca). Non tornerà mai più a Napoli, ma Elena, quando i Solara verranno uccisi, sospetterà che dietro ci sia la sua mano. Pur con tutta la comprensione per aver visto da piccolo il padre, anch’egli militante comunista, portato in galera per un omicidio non commesso e la madre suicidarsi dopo la morte del marito,per la sua arroganza, la maleducazione, l’intolleranza, la rozzezza, l’adesione ad una causa che storicamente ha fatto solo danni alla nostra Italia, non va oltre il 4.

Gigliola Spagnuolo: si unisce a Michele Solara, che le costruisce intorno una gabbia dorata, la casa di Posillipo da cui si vedono il mare, il golfo, il Vesuvio. Quando Elena va a trovarla, le indica il panorama chiedendole se dal Rione si sia mai visto qualcosa di simile. Certo che no, ma a quale prezzo? In tanta illecita opulenza, si sente sola, la sua unica funzione è quella di fare figli e di badare alla faccende domestiche, il suo destino è vivere accanto ad un malavitoso che ne fa di tutti i colori, che la tradisce continuamente e che ama, non ricambiato, solo e soltanto Lila. Uno che non esita a mostrare in pubblico tutta la propria insofferenza nei suoi confronti e a definirla praticamente una rompiballe (penso alla grandissima scena del pranzo a casa di Marcello ed Elisa). Certo, la sventurata poteva fare una scelta diversa, ha sacrificato la libertà per la ricchezza e gli agi. Per questo si porta sempre appresso quel fondo di dolore, insoddisfazione, invidia, rabbia che divora se stessa. Arrampicatrice, moglie del peggiore dei mariti, le diamo 5 per aver sopportato un uomo del genere, però poteva calcolare meglio vantaggi e svantaggi di una simile unione. La sua morte, raccontata soltanto nel libro, conclude tragicamente un'esistenza infelice.

Michele Solara: Boss del quartiere col fratello Marcello, è affascinato, anzi soggiogato da Lila e soprattutto dalla sua intelligenza. La presunta, unilaterale fidanzata, si chiude nella sua stanza quando, entrambi giovanissimi, viene a farle visita, snobbandone attenzioni , regali, profferte matrimoniali, gradite invece alla famiglia Cerullo. Quando parla del suo concentrato di Beatrici, Laure, Angeliche, Dulcinee, si dimentica di essere un criminale e attinge parole ed espressioni alla sfera di un linguaggio inopinatamente lirico e poetico. Ah, l’ammore che fa fà. Cerca di coinvolgerla almeno nelle sue fiorenti attività economiche e ci riesce per qualche tempo, sfruttando le conoscenze di informatica che la sua mancata amante ha assimilato ripetendole la sera tardi con il compagno Enzo Scanno (er mejo fico der bigonzo: 8). La grande manipolatrice insegna ad Alfonso Carracci (6, per aver dovuto portare il peso della sua diversità a quei tempi e in quell’ambiente) a vestirsi da donna, ad imitarla, a diventarne quasi una copia. A portare fuori e vivere pienamente quella cosa oscura che si portava dentro da sempre: la sua reale condizione di genere. Riesce nel suo intento: Alfonso diventa agli occhi di Michele l’oggetto sostitutivo del suo amore impossibile per Lila. Nel frattempo Solara continua a seminare delitti e dolore. Ma verrà un giorno, come profetizzava qualcuno. E il giorno viene, sotto forma non di epidemia ma di agguato: lo uccidono insieme al fratello, che lo aveva redento da una relazione proibita, un tabù, ancor più tale in certi ambienti criminali (e poi, così ostentata… si fa, ma non si dice, caro MIchele). Nell'adattamento tv le mogli e i figli scappano via mentre i due cadono come tanti erano caduti su loro mandato. Merita 8 come personaggio letterario, 4 sul piano umano. Gli evitano un voto ancora più basso l'attenuante di essere incappato nei disegni contorti di Lila e quella vena di romanticismo che a tratti affiora in quella sua anima malvagia.

Raffaella Cerullo: si stenta a capire cosa voglia dalla vita. Il suo malessere deriva chiaramente dall’ambiente in cui è nata, ma lei non fa nulla per evaderne. Manda avanti, ad esplorare la possibilità di nuovi orizzonti, il suo avatar Elena Greco, vuole che studi, la incoraggia a scrivere, la rimprovera quando devia dal disegno che ha in mente per lei, cosicché nel suo rapporto con questa sorta di alter ego alterna amore profondo, attaccamento viscerale, odio, perfino invidia. Le grandi manovre della stratega si estendono a tutti ed in particolare hanno come bersaglio i Solara, con i quali pure entra in affari, e come strumento Alfonso (vedi alla voce Michele Solara). Anche quando sparisce dalla circolazione ed Elena è ormai anzianotta, le spedisce le due famose bambole del capitolo iniziale, a ricordarle che il loro legame è inscindibile al di là della lontananza e del tempo trascorso. In tutti quegli anni aveva nascosto all'amica di averle recuperate e anche questo sarebbe da approfondire. Ha evidenti problemi mentali, ogni tanto le pare che i confini delle cose si dilatino, che vadano soggette ad una “smarginatura”, termine tipografico a cui dà una personale interpretazione, estendendolo ad una visione catastrofico-lucreziana dell’universo. Il fenomeno si ripete il giorno del terremoto, quando questa patologia sembra uscire dalla sfera della sua soggettività e investire l’intero mondo. Il suo parto è una mezza tragedia, non spinge, non collabora. Già la gravidanza era stata un disastro. Il rapporto con la creatura che portava in grembo era, a dir poco, problematico. E’ distratta da Sarratore mentre le rapiscono la figlia (a qualcosa del genere allude la figlia maggiore di Elena quando la definisce una cattiva madre). Aveva trovato uno che la adorava ed era disposto a tollerare i suoi scatti, i suoi sbalzi d’umore, le cattiverie improvvise, le stilettate offensive, ma alla fine fa stancare anche Enzo Scanno (pure la pazienza dei martiri ha un limite), anche se è lei a fare il primo passo verso la separazione. Grande personaggio letterario (9), ma, sul piano umano, non merita più di 4.

Elena Greco: Ma insomma, chi delle due è l’amica geniale? Sicuramente non Lenù, letterata notevole, brava scrittrice, ma teleguidata da Lila con vera, pur se perversa genialità. La sua vita privata è una catena di disastri: attaccata “come l'ubriaco alla bottiglia “ (Baudelaire) al suo grande amore adolescenziale, pianta baracca e burattini appena questi le si dichiara. In realtà Nino Sarratore (voto:3) è affetto da dongiovannismo acuto. A lui si attaglia alla perfezione il famoso catalogo che il servitore del mozartiano sciupafemmine squaderna ad una Elvira allibita nella celebre aria: “Madamina, il catalogo è questo”. Il Leporello della situazione qui è Antonio, il primo amore di Elena: “Non si picca se sia ricca/ se sia brutta, se sia bella/ purché porti la gonnella/ voi sapete quel che fa”. Ma Lenù aveva già aperto gli occhi (era ora!) quando l’aveva visto all'opera ancora una volta nel bagno di casa (da Firenze a Posillipo, la sua location preferita non muta) con l’attempata collaboratrice familiare (Nino fraintende qui il significato della qualifica). Finalmente la letterata mette a frutto anche nella dimensione personale la sua vasta cultura e attribuisce al bellimbusto cui ha sacrificato mezza esistenza una sorta di “eterosessualità fragile”. Proprio quello che alcuni colgono nel personaggio di Don Giovanni e nella sua brama di donne perennemente insoddisfatta. Lenù, anche prima di cornificarlo, tratta malissimo il marito, parteggiando sfacciatamente per tutti coloro che lo contrastano, dal prode Sarratore agli amici d’infanzia, per quanto terroristi e maleducati. Arriva a dire che a Pietro manca la risposta pronta dei ragazzi del Rione. La salvano, nella valutazione complessiva, l'aver fatto della cultura un mezzo di promozione sociale e il suo culto dell’intelligenza l’ha aiutata a varcare i limiti e le angustie del suo ambiente, come la sua amica-rivale non ha saputo fare. Perciò: 6 1/2

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Tutti i romanzi ai quali ciascuno di noi, per una ragione o per l'altra, è legato perché ha sentito i suoi personaggi come persone vive e vere e le ha giudicate in quanto tali.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    12 Dicembre, 2024
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Ancora postmoderno

Due scienziati, il Professore (chiamato semplicemente così nel corso del racconto) e il suo collega Pesumai, diretti ad un convegno dove dovrebbero presentare la loro ricerca: il loro soggiorno forzato a causa del maltempo presso il castello in cui vive un erudito esperto in lirica provenzale, Osmoc, asserragliato tra i suoi cinquantamila libri (anticipazione dell’io narrante di Locus desperatus, l’ultimo romanzo di Michele Mari): queste le premesse da cui prende l'avvio la prima, giovanile opera dell’autore. Siamo in piena ambientazione gotica (scene notturne intrise di mistero, strane creature che battono alle finestre, castelli secolari, entità sovrannaturali che sembrano aleggiare su tutto). Fuori, una tempesta di neve interminabile, tale da meritarsi anch'essa per la sua eccezionalità un neologismo, “Tarasso” o “Taratto”, non diversamente dall'argomento oggetto della scoperta: “deltatibioresi degli isopropattoni” (termini inesistenti, che fanno balenare sin dalle prime battute l’impressione di un gioco e di una esibita finzione…). Dentro, tra cunicoli, segrete, sotterranei, incombe la presenza di Osac, gemello di Osmoc, demente, bestiale, suo apparente rovescio.
Si delinea così una contrapposizione, un dualismo, un meccanismo binario che presiede all’intera struttura narrativa: da una parte la cultura, dall'altra la natura. In entrambi c’è però un eccesso, un’esagerazione letale: la cultura, nel primo, ha prodotto una totale sublimazione degli istinti materiali e del desiderio sessuale, in una scriteriata pretesa di obbedire ai canoni della diletta poesia provenzale; nel secondo, la natura, priva di qualsiasi forma di controllo e di affinamento, si configura come forza selvaggia e rovinosa. L’episodio centrale di tale dualismo è la trovata di Osmoc di delegare al fratello il compito di adempiere ai propri doveri coniugali, abbandonando la moglie Emilia, inconsapevole dello scambio di persona, alla furia incontrollata del mostro.
Si citava il romanzo gotico. Viene in mente anche il tema del doppio presente in Dottor Jekyll e mr. Hyde, mentre proliferano i richiami alle storie di Frankstein o di Dracula: i riferimenti letterari, la cosiddetta intertestualità, sono la caratteristica principale del romanzo. Essa, unita ad un lavoro costante sul linguaggio, determina una presa di distanza dalle orride atmosfere descritte: il lettore viene come distratto da un vero coinvolgimento emotivo nella storia, dalla piena immersione nella classica suspense fatta di attese, di ansia, di paura e di piacere dell’aver paura. Come anche nei romanzi dell’età matura e nello stesso Locus desperatus, il lettore non si cala completamente in una vicenda che potenzialmente dovrebbe far nascere in lui spavento e senso di orrore, ma in realtà è “divertito” (nel significato letterale e in quello proprio) dalle citazioni continue, dalla parodia letteraria, dalle invenzioni linguistiche. E’ preda insomma più del gioco letterario che della vicenda narrata, chiamato ad un impegno di decodifica basato sull'intelletto e sulla cultura più che sul cuore e sulle emozioni. E perfino in un momento tragico, mentre Osmac affronta un rischio mortale, Mari gli fa pronunciare un elenco di saluti che i sopravvissuti dovranno portare da parte sua alle persone che ha conosciuto nel corso della sua esistenza di studioso e che gli hanno fornito la loro collaborazione: “Un’ultima cosa: in patria ho lasciato molti conoscenti, amici veri nessuno,ma tutte brave persone, benemeriti degli studi tassiani, editori del Folengo e del Trístino (sic), studiosi di vaglia… Vorrei che porgeste loro i miei saluti…Anche il professor Chiarmo, Luigi Ettore Chiarmo, se passate da C**** andate a salutare per me, che non ho mai scordato la liberal cortesia con che a disposizione me mise le carte Bastrozzi-Vagheggi…e il professor Grolla, sì, Mascheroni-Grolla, direttore della sezione di Patristica della Civica Raccolta di C**** e succeduto da poco al Rummigliano nella direzione della…un ringraziamento particolare vada al professor Rantoli e ai pazienti amici Giordano Capcaudatase e Vanni Trighi, che mi hanno benevolmente assistito nella mia fatica…”. Un uomo in pericolo di vita non pensa e non parla così! Il romanzo rivela, qui come altrove, la sua assenza, voluta, di realismo e questo contrasto tra la tragicità della situazione e la compitezza tutta formale e accademica di quelli che sembrano le note e i ringraziamenti finali che un autore appone al suo libro, genera un effetto comico anziché drammatico. Il linguaggio è dunque anch'esso, a sua volta, un grande tema del romanzo: l’erudito Osmoc parla con le parole, le frasi, i versi dei libri, che ha raccolto, letto, assimilato e mandato a memoria, pronti per essere adoperati e adattati a qualsiasi contesto. E questa cura della parola, propria di un filologo quale Mari è nella vita reale, consente una padronanza e produce un’inventiva di prim'ordine, una raffinatezza lessicale, un preziosismo sintattico che si rinnoveranno in tutte le opere successive dello scrittore. Tra le creazioni linguistiche, un posto di rilievo spetta anche alla lingua parlata dal fedele servitore dell’ipercolto bibliomane, Epeo, un misto tra quella che il suo padrone e maestro gli ha insegnato e le parlate locali, di cui viene fornito un assaggio nelle primissime pagine del libro. Di tali parlate è unica esperta Ebeblechei, la segretaria del Professore, stranamente somigliante ad Emilia (un altro doppio, affidato al luogo ricorrente del quadro dietro il quale si cela un mistero: Dorian Gray docet).
Questo continuo citare, riferirsi ad altri testi, parlare attraverso le parole degli altri, spaziando attraverso una smisurata enciclopedia senza confini, questo giocare con la letteratura, con i suoi generi e i suoi topoi, ci ricordano che Di bestia in bestia (prima edizione nel !989, ma testo originale, poi rielaborato, del 1980) è praticamente contemporaneo di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979) e de Il nome della rosa di Umberto Eco (1980). Si può quindi considerare un frutto non trascurabile della fase più alta del postmoderno italiano. Non all'altezza degli altri due capolavori, ma ricco di spunti e di invenzioni interessanti ed efficaci, che inducono a consigliarne la pur impegnativa lettura.

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Il nome della rosa di Umberto Eco; Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino; le altre opere dell'autore e, in modo particolare, Locus desperatus, il cui protagonista presenta alcune delle caratteristiche del bibliomane Osmac ed in cui si ritrovano con la medesima frequenza richiami e rimandi letterari e culturali di tipo intertestuale.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    31 Agosto, 2024
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La Brexit per una barretta di cioccolato

No, lettore, non temere. Le barrette di cioccolato sovrimpresse al profilo dell’Inghilterra in copertina non preludono a nessun racconto di pasticciere raffinate, di bevande sospette per i loro effetti benefici sull'umore, di rinfreschi basati sul divino alimento e offerti per confortare austere, periferiche, vagamente depresse comunità del nord europeo.
Bournville è il sobborgo di Birmingham in cui si stanziò la grande fabbrica inglese della Cadbury col suo cioccolato che, durante la guerra, per la scarsità di burro di cacao, veniva prodotto con l’aggiunta di grassi vegetali. Vicenda noiosa, dirai. Tutt'altro: Jonathan Coe, con la su abilità di narratore, lega ad essa il culto per la tradizione degli inglesi, che anche dopo la guerra continuano ad amare la nuova formula, e sa cogliere, nella guerra commerciale dichiarata dalla Commissione europea al cioccolato britannico, una delle cause dell’avversione verso la Ue e del voto favorevole alla brexit. Nulla è infatti casuale nella costruzione narrativa di Coe e quella che appare una patetica, stantia abitudine di Mary Lamb, la protagonista della saga, puntuale nel far trovare ai figli, anche da grandi, il loro pezzo di cioccolato rigorosamente Cadbury, magari dietro le rispettive fotografie disposte sulla mensola del caminetto, si trasforma, attraverso la sua lente acuta di studioso delle vicende inglesi, in tratto antropologico profondo, da cui dipenderanno addirittura i destini futuri del Paese.
Questo legame con la tradizione appare non meno forte in Martin,uno dei tre figli di Mary, dirigente della Cadbury, che tenterà invano di superare le resistenze comunitarie al cioccolato inglese, cercando senza risultato la collaborazione di un deputato al parlamento europeo, Paul Trotter, protagonista di un’altra saga dello stesso autore, la Banda dei brocchi (non sono rari in Coe questi incroci di universi narrativi diversi).
Ancora più fermo nelle sue convinzioni nazionalistiche, antesignane dell’odierno sovranismo, è il primogenito Jack, che imposterà la campagna pubblicitaria della nuova Austin immaginandola come una guerra cui tutto il Paese è chiamato per fronteggiare l’invasione delle auto europee, in una sorta di riedizione commerciale del secondo conflitto mondiale.
Estraneo a questo tradizionalismo radicale incline al nazionalismo è il terzo figlio, Peter, musicista, che in qualche modo incarna, nel suo rapporto con la madre, le istanze dell’evoluzione e del progresso. Ragioni che si manifestano, quasi inaspettatamente, nella stessa Mary: un giorno Peter, ancora bambino, aveva sentito la madre definire “feccia del mondo” un vicino omosessuale agli arresti. Questo aveva indotto il ragazzo a tacere la propria condizione. Perciò, quando ormai grande si decide a parlarne alla madre stessa e questa lo accetta senza problemi, le ricorda, stupito, quel lontano episodio. Mary, personaggio concreto, risoluto, generalmente non problematico, sa dargli però la risposta più illuminata e pertinente possibile: i tempi cambiano, cambiano i modi di vedere la realtà, e con essi mutano gli uomini. Tutto si snoda, infatti, attraverso un arco di settant'anni, scanditi da alcuni eventi centrali (l'incoronazione di Elisabetta, i mondiali del '66 vinti dall'Inghilterra, i funerali di Diana, ecc.), che la famiglia segue, unita, attraverso la radio prima, la televisione poi. A ciascuno di tali avvenimenti corrisponde un capitolo.
Il tempo è dunque uno dei grandi temi del romanzo, anche se non sempre vi appare in un' accezione progressiva. Per Peter, l’ultimo movimento di una sonata che sta ascoltando è “come un urlo di dolore per il fatto più semplice e crudele di tutti: il trascorrere del tempo”.
Ma al di là delle trasformazioni cui gli uomini sono soggetti, nonostante la condizione umana sia contrassegnata dal modificarsi delle cose, esiste come una “voce eterea” che sussurra ripetutamente al nostro orecchio, simile a un mantra: “Tutto cambia e tutto resta uguale”, una sorta di rivisitazione della celebre sententia gattopardesca, con una accentuazione più esistenziale che storica.
Il tutto si traduce in una scansione non lineare del tempo narrativo e anche qui, come in altri suoi romanzi, Coe inizia e conclude con i personaggi più giovani, ancorati al tempo presente, dal quale muove e al quale approda il racconto.
In questo contraddittorio progredire e restare fermi, evolvere verso il futuro e ancorarsi al passato, oscillando tra la necessità del mutamento e un’idea immobilistica della società e del suo fluire, Bridget, la moglie di colore di Martin, è chiamata a svolgere, nel sistema dei personaggi, il ruolo più critico e corrosivo: in occasione della malattia della suocera, si scaglierà contro il cognato Jack e contro l’intera famiglia, accusandola di aver fatto sempre finta di non vedere che Gary, il suocero, l’aveva sempre ignorata dall'alto di un radicato e inestirpabile pregiudizio razziale.
(Spoiler) Il racconto termina con il periodo del covid, con gli errori del governo di Boris Johnson, e con una citazione minuziosa del decalogo sanitario con il quale si cerca di frenare la diffusione del virus, ma nel frattempo si lascia morire una donna anziana come Mary, separata, anzi, per meglio dire, col linguaggio di allora, “distanziata” dai figli.
E ancora una volta Coe ti commuove, ti fa riflettere con la sua ricchezza di temi, con la sua capacità di scandagliare il fiume della storia fino ai suoi rivoli più attuali, e ti fa rimpiangere che non ci sia nella nostra letteratura uno scrittore capace come lui di raccontare nei suoi aspetti più profondi ed essenziali una storia come quella italiana, non meno ricca di vicende interessanti e significative. Un cantore amabile e garbato, ma acuto ed epico, degli avvenimenti che hanno segnato e orientato il destino della nostra nazione.

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La trilogia dei Trotter (La banda dei brocchi, Circolo chiuso, Middle England), Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    14 Mag, 2024
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Ricercatore, ricerca te stesso

“Campus novel” : ecco a te, lettore, servito con l'ennesimo anglismo (ma vedrai, riusciremo a volgerlo in lingua italiana), un ulteriore sottogenere del romanzo, che conferma, se mai ve ne fosse bisogno, il suo carattere proteiforme, duttile, camaleontico. Questa ennesima declinazione di genere ha qui da noi come protagonisti baroni universitari e “delfini”, assistenti e dottorandi dall’avvenire nebuloso e precario, stretti tra giochi di potere ed una legislazione che trasforma la loro carriera in una corsa ad ostacoli, concorsi pilotati, servilismo nei confronti del “capo”, perfino vezzi, tic, codificazioni linguistiche dalle maglie strettissime e inderogabili. Un mondo, o .per meglio dire, un topos letterario fatto di persone egoriferite, che soffrono e si infuriano se qualcuno ne rimarca un errore, magari un'etimologia errata, come in Pontiggia ("Il giocatore invisibile"), che si guardano l’ ombelico convinte di essere il centro dell’universo, tanto da chiedersi, ad esempio, come mai un loro saggio sulla metrica nella poesia dialettale tra Otto e Novecento abbia venduto meno dell’ultimo premio Strega.
In queste acque naviga, con regale padronanza, il coprotagonista de La ricreazione è finita, Raffaele Sacrosanti, docente di italianistica, nonché preside della facoltà di Lettere all’università di Pisa, città-campus, scelta per questo in molte opere appartenenti allo stesso filone (anche se Ferrari in un’intervista dichiara l’ambientazione della sua storia priva di nessi con personaggi e fatti reali).
Sacrosanti è personaggio complesso, non lo liquidi con una condanna univoca: è vero, è il dominus incontrastato di questo microcosmo; è certo, trae “un godimento quasi erotico dai rapporti di potere accademici”. Ma una cosa è altrettanto sicura: il fascino intellettuale che sa esercitare sui suoi sottoposti è tipico dei grandi maestri (non ti anticipo se buoni o cattivi…).
Di questa satira della vita accademica, che caratterizza l’intera prima parte, la scena più brillante e divertente, direi emblematica con un termine più vintage, è rappresentata dalle regole sulla composizione di un articolo accademico che un dottorando di lungo corso, Pierpaolo, illustra a Marcello, protagonista e io narrante, vincitore di un dottorato per una serie apparentemente fortuita di circostanze. Cito alcune perle del “vangelo pierpaolino”: ribadire almeno una trentina di volte con parole diverse la propria tesi, che potrebbe benissimo ridursi ad una decina di righe (quello che a scuola, ai miei tempi, i professori definivano, correggendo i nostri temi a corto di idee, “allungare il brodo”); utilizzare le citazioni come strumento di posizionamento politico, cioè citare numerose volte il mentore da cui dipende il proprio destino accademico, non citare mai gli avversari e i nemici dello stesso, o, se costretti, limitarsi a riferimenti generici; evitare di fare altrettanto con chi potrebbe esserti utile e, se trascurato, potrebbe ostacolare la tua carriera. Insomma, una cultura asservita, fin nelle sue manifestazioni marginali per i non addetti ai lavori, ad una logica dei rapporti di potere e di forza e condizionata da un codice comportamentale altamente formalizzato.
Ciò che rende ancor più spassoso il tutto è la distanza abissale tra il giovane neoricercatore e il suo “istruttore”, tanto più preparato di lui e tanto più addentro a quelle logiche. Illuminante la chiusura del capitolo, in cui Marcello interrompe la lettura di un saggio di Sacrosanti che Pierpaolo gli aveva consigliato, per comunicare telefonicamente ad un amico la sua adesione ad una partita di calcetto. Un tipico caso di ironia (anzi autoironia) oggettiva, in cui sono i fatti e il loro giustapporsi a far sorridere, senza alcun intervento a commento del narratore. Ironia e autoironia sono del resto, in tutte le loro varianti, il registro che sostiene in misura non trascurabile la costruzione retorica della trama, contribuendo alla piacevolezza della narrazione.
Ma, in concomitanza con il primo, ecco delinearsi un secondo livello: il racconto di formazione. Marcello è un giovane non più tanto giovane, che riconosce e in qualche modo ostenta senza infingimenti la sua inferiorità culturale rispetto ai colleghi. E’ un irrisolto consapevole di esserlo, si guarda vivere e replica così, in tono minore, la tipologia dell’inetto, antico retaggio della letteratura italiana ed europea, innestandola nell’epoca moderna e finendo con l’equipararla alla figura del cosiddetto “bamboccione” o dell’eterno adolescente (e così viene toccato anche il tema generazionale, ma ti risparmierò un’ulteriore contestualizzazione letteraria: la pazienza, anche la tua, ha un limite). Respinge infatti tutto ciò che possa significare stabilità e inserimento sociale, opponendo continui rifiuti al padre, che vorrebbe affidargli il bar di famiglia, sfuggendo ai tentativi di incastrarlo messi in opera da Letizia, la sua ragazza, che ne rappresenta l’esatto contrario e proprio per questo sarebbe in grado di fornirgli un aiuto pratico, quasi in una riproposizione del legame Zeno -Augusta. Marcello si imbatte però, indirizzato da Sacrosanti, nell’opera e nel pensiero di Tito Sella, un terrorista della brigata Ravachol che operò in Versilia negli anni Settanta, e finisce con l’identificarsi con lui, restando colpito in particolare dall’ improvviso mutamento di rotta che conduce (condurrebbe?) l’attivista e scrittore a condividere un’azione terroristica e violenta da cui si era inizialmente dissociato. In questo gioco di doppi e di rispecchiamenti, Marcello rivede anche in Tea, la ragazza incontrata a Parigi durante le sue ricerche, una sorta di reincarnazione di Emma, la donna amata da Tito. Ma poi…
A questo punto devo però tacere (già mi sono spinto troppo oltre con quel condizionale…), perché tu, lettore, non mi perdoneresti di averti spoilerato un finale così bello e sorprendente, nel quale il romanzo accademico (tale è la traduzione italiana di “campus novel”) e il racconto di formazione inclinano verso il terzo livello di quest’abile struttura narrativa: il giallo, di cui erano presenti nel racconto, senza che ce ne rendessimo conto, gli elementi principali: delitto, movente, indagine, depistaggi, scioglimento, soluzione e individuazione del “colpevole”.
Ma i piani di questo interessante lavoro non restano distinti, bensì si incastrano perfettamente l’uno nell’altro. Anzi, l’uno non sarebbe possibile senza gli altri due. Tutto questo potrà essere verificato nella lettera finale che Marcello indirizzerà al suo professore, in cui si coglierà la sintesi di una triangolazione perfetta tra le varie componenti della narrazione, cui si aggiungerà il meccanismo del metaromanzo o romanzo nel romanzo: quella “Fantasima”, opera mitica di Sella, mai scoperta, che il ricercatore stesso scriverà, elaborando la documentazione raccolta sul suo presunto autore.
Giunto alla fine di questa “fabula” ricca di suggestioni, caro ” lector”, scoprirai anche il vero significato del titolo. L’esortazione rivolta da Charles de Gaulle agli studenti del Maggio francese affinché tornassero finalmente a scuola, si caricherà di significati nuovi e in qualche misura opposti rispetto a quelli originari del capo di Stato che strigliava paternalisticamente gli studenti e si tradurrà in altro, cioè nel bisogno per ciascuno di comprendere il proprio ruolo nella vita, l’essenza del proprio sé, compiendo quello scatto, realizzando quella svolta che avvicina ciascuno di noi a ciò che davvero siamo e che vogliamo diventare.
A questo punto, se sarà maturato in te, non per merito di questa mia modesta “opinione”, ma della capacità di scrittura e di invenzione dell’autore, un qualche interesse per l'argomento, potrai trovare nei consigli di lettura un accenno alla ricca galleria di romanzi italiani ambientati nel mondo universitario, nella quale Ferrari si inserisce in maniera originale e convincente.

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Indico qui alcuni dei romanzi accademici italiani di maggior pregio, anche se dai contenuti e dalle problematiche tra loro diverse. Comincerei con Pirandello e “L’eresia catara”, che per la verità è un racconto tratto dalle Novelle per un anno. Proseguirei con “La scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia, “Il giocatore invisibile” di Giuseppe Pontiggia,” L’ultima lezione” di Ermanno Rea, “Scuola di nudo” di Walter Siti, il secondo volume de “L’amica geniale” di Elena Ferrante. Fuori d’Italia, mi rivolgerei ai romanzi di ambientazione universitaria di David Lodge. Ma ce ne sarebbero molti altri, non meno interessanti. Consiglio a tal proposito di leggere l’ottimo articolo “Il romanzo accademico. Appunti per uno studio sul campus novel italiano, 2023, Orthotes, di Loris Magro (Accademia edu). Utile anche l’intervista dello stesso Loris Magro a Dario Ferrari “Narrare l’Accademia, Un conversazione sul campus novel” ,Il Tascabile.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    05 Marzo, 2024
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Voci dalla memoria

Chi parla “a schiovere”, a Napoli, è uno che interviene in modo inopportuno, inappropriato, fuori contesto, a ruota libera, come certi temi o articoli senza né capo né coda. La locuzione descrive la pioggia che cade di traverso a causa del vento, quella pioggia da cui non ti puoi riparare neanche con l’ombrello, che anzi rischia, se lo tieni aperto, di “smerzarse” e di rompersi. E pensare che “schiovere”, in poeti classici come Di Giacomo, voleva dire "cessare di piovere" e oggi l'adoperiamo anche in questa seconda, opposta accezione: “Marzo: nu poco chiove/ e n’ato ppoco stracqua:/ torna a chiovere, schiove,/ ride ‘o sole cu ll’acqua” ("Marzo: un poco piove/ un po' cessa di piovere:/torna a piovere, spiove, /ride il sole con l'acqua"). E’ la centounesima voce, l’ultima, di questo glossario che De Luca ci propone, proseguendo una riflessione linguistica cominciata con “Napolide”, e il suo significato si allarga fino a diventare una personale concezione della vita, già in precedenza paragonata alla pallina di un flipper destinata a sbattere qua e là in maniera sconclusionata, senza mai trovare ancoraggi sicuri e stabili.
Da sottolineare l’equilibrio con cui l’autore sa valutare, senza stilare inutili graduatorie, questo suo “bilinguismo”, la compresenza in lui dell’italiano, lingua lenta di parole piane, e del napoletano, sbrigativo e di parole tronche, quelle verso cui si rivolge proprio per questo l’attenzione odierna di rappers e trappers, che lo vedono in ciò più simile all'inglese e più adatto ai loro ritmi.
Dietro ciascuna delle due lingue campeggiano le figure genitoriali: il padre, che gli schiude innanzi, con l’ italiano dei libri e della cultura, più ampi orizzonti di pensiero, la madre, che gli trasmette col dialetto la possibilità di un linguaggio nativo, intimo, proprio di una comunicazione originaria, intrisa di memorie ancestrali. Nel discorso di De Luca riecheggiano note pasoliniane, quando sembra di capire che anche per lui conservare questa prima lingua significa sfuggire all'omologazione culturale, a quella che oggi definiamo globalizzazione (ma considerazioni analoghe valgono, secondo lui, per l’italiano nei confronti dell’inglese).
Le voci dialettali che compongono questo dizionario dell'anima presentano, secondo l’autore, il limite di essere oggetto di scrittura e di essere perciò prive di componenti essenziali quali l’emissione di fiato, il suono che le accompagna, i gesti che ne modificano di volta in volta il significato, ma tracciano comunque un'autobiografia fatta di scorci e frammenti.
Ecco dunque le parole, le locuzioni, i proverbi adoperati e trasmessi dalla figura materna, cui si affianca quella della nonna, spesso accompagnati da sapidi aneddoti familiari, come quel nipote “traseticcio” (persona dotata di petulanza e faccia tosta) che la nonna stessa, sfinita dopo un’ interminabile visita, invita con un’altra espressione partenopea, ad andare via : ”Mo’ te n’ia i’”, "Ora te ne devi andare"(riporto il napoletano di De Luca così com'è scritto, pur non condividendo del tutto le sue soluzioni ortografiche: ma a Napoli, quando si tratta di scrivere in dialetto, nessuno è d’accordo con nessuno, si vive in una diffusa anarchia). De Luca è attratto spesso dalla struttura, dalla forma stessa delle parole e il verbo “i’” (andare, dal latino” ire”) costituisce per lui un primato mondiale di velocità e brevità, come “ammore” un rafforzamento di questo sentimento primario, “primma” e “ doppo” un'accentuazione della semplice idea del prima e del dopo.
Tra i ricordi della lunga coabitazione con la madre, l’autore annovera il costante bisogno di calore di quest'ultima, quando, nel freddo dell’inverno, invocava una “vrenzola 'e sole”, un piccolo raggio di luce che la riscaldasse. Parola ben lontana, “vrenzola”, dal successivo slittamento semantico che ai giorni nostri, in…neo-napoletano, l’ha condotta a contrassegnare piuttosto una figura femminile grezza e maleducata, come tempo addietro era capitato alle “vaiasse”, le serve di Giulio Cesare Cortese nella Vaiasseide, divenute nel tempo donne volgari e sguaiate.
Altre parole alludono a momenti di formazione e di educazione familiare, come quando l'io narrante viene esortato a non “frusciarse” troppo (“vantarsi”): una lezione di umiltà espressa con un verbo ancor oggi usato contro chi si compiace fin troppo di qualche sua dote o si fa troppo pretendere. A volte i lemmi fanno riferimento o vengono applicati da De Luca alla realtà sociale, come quando ravvisa negli anni settanta, ed in particolare nelle lotte dei disoccupati organizzati, un esempio di ”arteteca”, una febbre reumatica che provocava spasmi ed esuberanza motoria, che si tradusse allora metaforicamente in un incessante movimentismo di piazza. Altre volte l’autore si lancia in fulminanti sintesi storiche e antropologiche: così il verbo “spantecà” (spasimare) supera i confini del linguaggio amoroso tipico della canzone, per diventare la cifra di un’intera città perennemente irrequieta, insoddisfatta, desiderosa di un futuro diverso cui aspira ma che non riesce a raggiungere, la costante di un popolo “scarpesato” , calpestato, oppresso da ingiustizie, invasioni, sopraffazioni, anche se capace di ribellarsi con qualche improvviso “arrevuoto”, da Masaniello alle Quattro Giornate. Alcune voci vengono dal passato e sono forse obsolete, ma nella mente dello scrittore quella sensazione di secchezza che gli ricacciava il fiato in gola quando soffiava lo scirocco si associa… proustianamente al suono del termine” bafuogno” (ma nella mia famiglia era frequente l’espressione “tengo 'a cimma 'e scirocco”, per indicare una condizione di particolare nervosismo, durante la quale era preferibile non accostarsi troppo al genitore che ne era investito: ricchezza lessicale del napoletano! N.d.A.). Né mancano infine citazioni dalla letteratura e dal teatro, in particolare da Eduardo, di cui viene riportato il noto incipit di Natale in casa Cupiello per spiegare l’imperativo “scètate”, in alternanza con “sùsete”: “Lucarie’, scètate songh’e nnove”. E sembra di vederla la successiva svestizione di Eduardo dai numerosi… strati di panni con cui invano aveva cercato di “prendere “calimma” ("calore") durante la gelida notte prenatalizia.
Un saggio in forma di dizionario, questo di De Luca, che riesce piacevole e induce ad una riflessione sul modo in cui ci esprimiamo, in tempi in cui la forza tenace del dialetto sembra nuovamente riproporre le proprie ragioni, specialmente nella città in cui è ambientata una parte significativa dell’universo letterario e saggistico di questo scrittore. Diretto dunque ai napoletani che ne possono più immediatamente fruire, ma rivolto a tutti gli innamorati di quella espressività sorgiva, originaria, forte, cui il dialetto può attingere per contrastare la tendenza da tempo in atto verso un idioma “semplificato e convenzionale”.



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"Napolide" e i romanzi di ambientazione napoletana di Erri De Luca, "Scritti corsari" , "Lettere luterane", "Contro la televisione" di Pier Paolo Pasolini.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    27 Novembre, 2023
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Lenù, inattendibile come Zeno

Al suo terzo volume, ti prende sempre più questo romanzo, ora che i personaggi ti vengono incontro dalla pagina sempre meglio sbalzati e definiti, lasciandoti un’impressione di vita e di verità.
Alfonso Carracci sa guardarsi dentro con spietata lucidità e, quando rivela a Lila la propria omosessualità, lo fa senza mezze misure, utilizzando la parola più greve e pesante che il dialetto gli mette a disposizione in quell’area semantica :”Lila, so’ ricchione”. Michele Solara trova accenti a loro modo “poetici” nel descrivere “quella cosa viva” che sta dentro la mente di Lila, quell’essere che la rende brutta e sgradevole quando non è giornata, creativa e geniale nei momenti felici. E le dichiara, lui sessista, triviale, chiuso negli schemi di una mentalità retrograda e malavitosa, un amore che a suo modo è acqua cristallina, persino spogliato della brama materiale di possesso, ammirazione e contemplazione come davanti ad un’artista. Intanto Gigliola, la moglie, è sempre più consapevole che nell’esistenza del marito lei non occupa altro ruolo che quello di madre, procreatrice, organizzatrice della vita domestica. E’ lui stesso che glielo ripete continuamente, senza riguardi, inducendola a farsi, per reazione, sempre più sgraziata, volgare, insopportabile, come per una protesta illogica e rabbiosa contro un'esistenza infelice. Emerge, tra le tante figure, la madre di Elena: un miscuglio contraddittorio e rabbioso di orgoglio materno, ma anche di odio nei confronti della figlia, di soddisfazione per la sua scalata sociale e culturale e di frustrazione per non aver saputo o potuto fare altrettanto, lei che pure si ritiene provvista delle medesime qualità: ne risulta un continuo, rancoroso dibattersi contro la vita e contro gli altri, una diversità “maledetta” di cui la zoppia è quasi il segno tangibile. Silenzioso, schivo, generoso nel dare e rassegnato nel chiedere, sofferente della sua passione non ricambiata per Lila, che teme di perderlo ma non lo desidera sessualmente, testardo nel tentare un avanzamento sociale, ma sempre rispettoso dell’intelligenza superiore della sua compagna: questa è la cifra che caratterizza Enzo. Non gli è estranea la dimensione politica, che percorre l’intero romanzo e questa sezione in modo particolare. Accanto a lui c’è l’amico Pasquale, segretario rionale del partito comunista, in rotta con la linea moderata di Berlinguer, presto schieratosi su una linea dura e oltranzista che lo accosta al terrorismo e, nel privato, lo spinge ad assumere toni via via più arroganti nei confronti di chi vive la stessa fede politica da una diversa posizione sociale e con atteggiamento più moderato e “borghese” (si pensi alle ripetute offese rivolte a Pietro, il marito di Elena, durante una breve visita, o piuttosto una fuga, condotta all’insegna della più sfacciata arroganza e maleducazione).
Anche sull’asse politico si snoda il rapporto tra i due personaggi centrali del romanzo: Lenù e Lila. La prima sembra anch’essa propendere per le posizioni estreme, almeno in teoria. In questo le si oppone il cauto riformismo del marito, Pietro Airota, nemico dell’estremismo rivoluzionario o pseudotale: un personaggio preso a calci da tutti, dalla moglie, da Pasquale, da Nino, e forse compreso solo da Lila. Egli non ha altra colpa se non quella di un rigore intellettuale che avversa e svela pressappochismo ed empiti incendiari destinati a fallire. Patetico ma anche, a suo modo, eroico.
Dall’altra parte c’è Lila, restia a scendere nell’agone sindacale e politico e a mettersi in gioco, pur essendo l’unica a conoscere di persona cosa siano sfruttamento operaio, condizioni di lavoro insopportabili, violenze e maltrattamenti in fabbrica. Tirata per i capelli nel vivo del conflitto padrone-operai dall’azione incauta dei suoi compagni, la giovane confermerà il suo lucido realismo, la capacità di analisi, la duttilità nel cogliere le situazioni, saperle descrivere, e in un batter d’occhi, sulla base della sua esperienza vissuta, riuscirà ad elaborare un documento sulla violenza e sullo sfruttamento operaio di gran lunga più vero e aderente alla realtà degli astratti proclami dei suoi compagni, “marxisti immaginari”.
Ovviamente questa folla di personaggi che popola il racconto, si realizza e si compie quando l’uno entra in rapporto con l’altro. E’ per questo che i ritratti di gruppo sono tra le invenzioni più belle della Ferrante. Domina, tra tutte, il pranzo a casa di Marcello Solara e della sua compagna Elisa, sorella della protagonista, in cui ciascuno si inserisce perfettamente in un grande coro dove ognuno canta con la sua voce solista, ma si fa porgere al momento opportuno la battuta dall’altro e a sua volta, alla stessa maniera, gliela porge . Qui davvero l’autrice si è superata ed il romanzo delle parole diventa un’armonia di voci che non ti annoieresti mai di sentire, tanto sono vere e tanto bene si definiscono nel loro reciproco accostarsi e contrastarsi. Ne risulta una rappresentazione sociale forte e potente come raramente si vede nella nostra letteratura e che trova riscontro solo nei grandi (non si può fare a meno di pensare all'episodio del ballo nel Gattopardo).
Raccontato in prima persona, probabilmente sulla base di fatti realmente accaduti, ma debitamente rielaborati, il romanzo, proprio per la ricchezza dei suoi personaggi e per la coralità dei rapporti e della rappresentazione, sfugge al triste destino di questo genere in Italia: sfociare in un racconto autobiografico rachitico e solipsistico, tutto incentrato sui drammi dell’io, lontano dalla ricchezza, dalla varietà, dalla complessità del mondo reale e dai conflitti della storia. Non a caso è piaciuto tanto fuori d'Italia.
A proposito della interrelazione dei personaggi, non si può non sottolineare quella che lega tra loro Lenù e Lila. Le due protagoniste ti sorprendono continuamente, ti spiazzano, per l’amore si direbbe quasi ancestrale che si dimostrano, il patto di sangue che ha retto le loro esistenze fin dall’episodio iniziale delle bambole perdute, il continuo essere l’una riferimento per l’altra, ma anche l’improvvisa cattiveria, il rinfacciarsi verità amare, il reciproco, amaro deludersi, perfino il colpirsi nella sfera dei rapporti sentimentali, fino all’estremo limite del tradimento. Si pensi al legame tra l’amica geniale a Nino Sarratore, “tolto” da Lila a Elena, che ne ha fatto il mito della propria esistenza, ma niente affatto privo di difetti che ella sa solo a tratti cogliere, scoprendolo seduttore nato, non diverso per certi aspetti dalla squallida figura paterna, opportunista, alla ricerca di consensi in quegli ambienti intellettuali e politici in grado di riconoscerne le doti e apprezzarne le capacità: uomo dalla vita affettiva e sentimentale discontinua e inaffidabile, ma forse proprio per questo corteggiato, cercato, voluto. Non sarebbe stato fuori luogo in un romanzo di Balzac o Stendhal, tra gli uomini mossi nella loro esistenza unicamente da un indomabile desiderio di scalata sociale.
E chiudiamo con Lenù, colei che narra, ricuce, collega, mette insieme i pezzi della storia, pone a confronto luoghi, spazi, ambienti, diversità antropologiche, in un continuo andirivieni tra Pisa, Firenze, Napoli. Ma quando analizza se stessa, la protagonista balbetta, entra in contraddizione, fino ad entrare anch’essa nella schiera dei narratori inattendibili, inaugurata da Zeno nel capolavoro di Svevo. Tocca al lettore cogliere il filo conduttore di questa esistenza fragile, incerta, piena di contraddizioni, di insicurezze, di senso d’inferiorità rispetto ai suoi interlocutori privilegiati, Nino e, soprattutto, Lila: il bisogno di un’affermazione intellettuale e culturale che la riscatti dalle sue origini popolari nella Napoli del rione Gianturco. Una bipolarità mai del tutto superata, perché questa storia che l’autrice ci ha regalato, parafrasando il titolo, è la storia di chi fugge, ma è anche e soprattutto la storia di chi, pur essendo fuggito, in realtà, in un modo o nell’altro, è restato.

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Ovviamente i primi due volumi. Interessante il confronto con l'ottimo adattamento televisivo, nel quale il linguaggio attinge a piene mani al dialetto, qui invece sottinteso, a tratti richiamato, ma quasi sempre riformulato in lingua italiana dalla voce narrante di Elena Greco. Inoltre la voce fuori campo del film non rende giustizia alla ricchezza del monologo interiore di Lenù.
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Storia e biografie
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    21 Settembre, 2023
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Tra lettere, sgabelli e riarmo

L’autore procede per istantanee, brevi paragrafi, a volte poche righe, su personaggi ed eventi del 1913, l’anno che precede il primo conflitto mondiale. Da germanista, il suo sguardo è attratto in particolare dalla cultura tedesca. Chi cerca riferimenti alla cultura italiana, dovrà accontentarsi di sporadici accenni a De Chirico e D’Annunzio (quest’ultimo in negativo).
Al centro di questa galassia c’è Freud, di cui si colgono più le inquietudini professionali e i difetti personali che i contenuti della sua rivoluzionaria ricerca: vive male gli attacchi che Jung rivolge alla sua teoria sulla libidine, teme di essere messo in minoranza nell’imminente congresso della Società psicoanalitica, fa la figura del medico venale quando pretende di essere pagato dalla vedova di Mahler per aver passeggiato con il defunto musicista. Anche passeggiando si può psicanalizzare…
Ed ecco Schnitzler, l’autore di Doppio sogno, che sembra un alter ego letterario del dottor Sigmund, tanto che questi ha una certa ritrosia ad incontrarlo, come se temesse di guardarsi allo specchio. Tutto da studiare con la lente di Freud il rapporto tra Kafka e Felice Bauer, quella fluviale produzione di lettere con cui l’autore della Metamorfosi dichiara a Felice di volerla sposare ma contemporaneamente enuncia i motivi per cui non le converrebbe farlo. Di qui la lettera al padre, meno celebre ma non meno significativa dell’altra, che in realtà è indirizzata al suocero e ripropone gli stessi contenuti contraddittori, lo stesso volere e non volere, lo stesso proporsi e sperare in un rifiuto.
E’ la volta di Kokoschka, folle d’amore e di gelosia per Alma vedova Mahler, che gli promette che lo sposerà quando avrà dipinto un vero, grande capolavoro. E il capolavoro arriva, è La sposa del vento, tra le più grandi prove dell’espressionismo tedesco, ma Alma è già sposa di un altro ed è sfuggita alla passione morbosa, distruttiva e autodistruttiva, del grande artista.
Intanto le avanguardie si inseguono, finché, in questo fervido 1913, non si aprono le porte della modernità con la Ruota di bicicletta di Duchamp, una ruota di bicicletta fissata ad uno sgabello, e con il Quadrato nero di Malevic.
Dunque gli artisti e gli intellettuali del tempo sembrano più presagire la catastrofe che sta per arrivare con la loro attività febbrile, il continuo rinnovarsi della loro arte, le loro ansie, le fobie, i complessi e le lacerazioni radicati nel profondo della loro psiche, che non averne una chiara e razionale percezione.
I segni dell’imminente disastro si riscontrano in altre vicende che Illies lascia cadere tra le sue istantanee, ma che sono assai più rivelatrici: il riarmo su tutti i fronti, l’elevazione degli effettivi dell’esercito tedesco da 117.000 a 661.000, la caccia ai disertori in Austria –Ungheria. Tra i renitenti alla leva c’è Hitler, che soggiorna in una pensione di Monaco, dipinge acquerelli fuori moda, s’infervora quando si parla di politica e professa sin d’ora il suo odio per le minoranze etniche, compresi gli ebrei. Forse lui e Stalin si sono incontrati a Schonbrunn, ma per il momento non sono loro i protagonisti. Si stanno preparando. Ed infine, piccolo colpo di genio. Sul finire, l’autore riporta due poesie pubblicate in quello scorcio conclusivo dell’anno. La prima è sul Natale in una grande città. Termina con una frase di Schnitzler :”Tutti noi recitiamo. Bravo è chi lo sa”. La seconda porta il titolo di San Silvestro ed è un auspicio :”Della guerra mondiale la melodia/ funesta risuoni sempre più lontana./ Sfumi anch’essa in armonia/ come il rintocco di una campana”. Il 1913 sta ormai per finire e il presentimento di ciò che avverrà si esprime attraverso un ingenuo augurio di pace. Pochi mesi ancora e a parlare saranno le armi.
Racconto-saggio ben scritto, non privo di eleganza e di ironia, che sicuramente arricchisce il lettore medio di conoscenze e lo aiuta a mettere in correlazione temporale fatti ed episodi distinti, realizzando un interessante quadro d’insieme.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Si consiglia di leggere o rileggere gli autori citati e di consultare un buon manuale di storia dell'arte.
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Classici
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    27 Settembre, 2022
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Benedetto umorismo

In una letteratura come quella italiana dove raramente fiorisce, La coscienza di Zeno è un capolavoro di umorismo. La scuola non sottolinea abbastanza questa componente, anche se nella nostra vita povera e precaria ne avremmo un estremo bisogno. Ma che volete, è decisamente più affine allo spirito di questi nostri tempi parlare di flusso di coscienza (errore, quello di Svevo è un semplice monologo interiore, sintatticamente regolare e ordinato), di tempo della storia e di altre raffinatezze narratologiche. Utili, utilissime, per carità, per la “comprensione del testo”, ma forse un ostacolo per il piacere della lettura e per ricavarne lezioni di vita e quindi un possesso per sempre, come dicevano i greci.
Già fa sorridere la prefazione, dove uno psicoterapeuta freudiano (o Freud in persona, visto che si chiama dottor S.?) afferma di pubblicare questo diario che ha tra le mani, scritto dal suo paziente come supporto alla cura, per vendicarsi della sua improvvisa sparizione. Si dice disposto a dividere con lui il ricavato delle vendite, a patto che si ripresenti alle sedute. Alla faccia della deontologia professionale. Ma c’è un altro fine, ancor più subdolo, in quella breve ma velenosa introduzione: demolire in premessa le parole di Zeno, mostrare come in quello che afferma convivano verità e bugie. Poche pagine e crolla tutto il castello costruito lungo l’arco dell’intero romanzo dall’ex paziente , mentre Zeno si trasforma in un “narratore inattendibile” . Mi direte: sei in contraddizione, ti aggrappi anche tu ad una formula critica di successo. E’ vero, ma, credetemi, questa è l’unica indispensabile per godersi fino in fondo l’umorismo sveviano.
E siamo subito al capitolo più famoso, quello in cui il protagonista rievoca gli innumerevoli tentativi fatti per smettere di fumare: delle buone intenzioni è lastricata la via che conduce all’Inferno, o , più prosaicamente, alla dipendenza perpetua dal fumo. E non basta al buon Cosini legare il suo lodevole proposito a date che gli paiono dotate come di una struttura magica, di un loro ritmo interno, di un loro potere palingenetico, come: nono giorno del nono mese del 1899, terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24. fino a quel primo gennaio del 1901, che sembra già di per sé garanzia di mutamento e di nuovo inizio. Forse per gli altri, ma non per il nostro fumatore compulsivo, che dietro la sua patologia nasconde una serie di complessi irrisolti (un’orchestra intera, come dice Trosi al povero Robertino).
E vogliamo parlare della leggera zoppìa di Zeno? Sapete com’è cominciata? Un giorno Tullio, un amico affetto da reumatismi, gli ha spiegato che l’atto del camminare mette in gioco la bellezza di 54 muscoli. Mai dire una cosa del genere ad un ipocondriaco: da allora il nostro eroe ha cominciato a riflettere sulla “macchina mostruosa “ del nostro organismo, sui movimenti che esegue ogni volta la gamba e questi, perdendo la loro naturalezza, si sono inceppati.
E che dire della reazione di Zeno a quanti cominciavano a sospettare di una sua qual follia, quando decide di andare dal medico per farsi certificare la sua sanità mentale? E' commovente pensare come, a distanza di un secolo e in tutt’altra temperie culturale, il protagonista della bellissima serie televisiva americana The big bang theory, Sheldon Cooper, faccia una cosa analoga e la rinfacci spesso a chi dubita del suo equilibrio mentale.
Imperdibili le vicende che porteranno Zeno a sposare Augusta. All’inizio tutte le sue attenzioni sono rivolte alla sorella di lei, Ada, tutto il suo odio verso Guido Speier, il rivale che gli sarà preferito. Un giorno entra in casa Malfenti mentre è in corso una seduta spiritica organizzata proprio dal futuro cognato. Decide di anticiparlo e di fare la dichiarazione alla donna oggetto del suo desiderio ma, complice l’oscurità, non si accorge di averla fatta ad Augusta, la meno…intrigante delle sorelle (mai dire mai). Accortosi dell’equivoco, comincia ad interferire sull’esperienza medianica , solleva il tavolino in modo che si formi il nome di Guido, ma il presunto trapassato si accorge dell’inganno ed espone il reo confesso alla pubblica gogna. Un episodio rocambolesco, in cui l’umorismo sembra sconfinare nel comico e nel grottesco. E non a caso il povero Guido, divenuto marito di Ada, rischierà di essere buttato giù da un muretto dal cognato. E al suo funerale Zeno non sarà presente, avendo seguito il feretro di un altro defunto…
Riavvolgiamo il nastro e torniamo ad un'altra pagina memorabile: Zeno ha deciso che è venuta l’ora di sposarsi e, in una stessa serata, si dichiara alle tre sorelle Malfenti in età da marito. Respinto dalle prime due, ripiegherà su Augusta, come la famiglia della prescelta aveva lucidamente programmato e la stessa occhialuta fanciulla aveva pazientemente aspettato. E, paradosso per paradosso, Augusta si rivelerà la moglie ideale per lui, nonostante l’ironia con la quale il consorte la descriverà, in uno dei ritratti più acuti e corrosivi della nostra letteratura, come una malata dell’ordine e delle regole, il suo esatto opposto, come la A della Z. A dire il vero, c’è una quarta Malfenti, Anna, ma è troppo piccola perché le attenzioni dell’aspirante sposo si rivolgano anche a lei. In compenso la ragazzina, di fronte alle continue gag, alle battute di spirito stravaganti, agli aneddoti improbabili del futuro genero, un giorno non riuscirà a frenarsi e griderà pubblicamente :”Ma è pazzo, non è vero che è pazzo?”. Un po’ come nella favola del re nudo di Hans Christian Andersen.
Impagabile l’andirivieni di Zeno tra l’amante e la moglie, il suo trottare affannato da un capo all’altro di Trieste, i suoi ritorni a casa, sempre più calato nella parte per lui assai improbabile di solido patriarca e di marito affidabile, quasi che le continue scappatelle siano un alimento per il suo matrimonio e trovino in questo una loro giustificazione.
Tantissimi ancora sarebbero gli episodi ascrivibili al geniale umorismo sveviano: conviene andare o ritornare al grande capolavoro per apprezzarli tutti fino in fondo.
Con il suo carico di difetti che non saprà mai correggere, forse perché fanno parte di un vizio di base della natura umana, come rivelano le ultime pagine, con questi suoi equilibri problematici, i suoi atti mancati, i falsi pretesti, i propositi mai realizzati, la difficile navigazione tra affetti e legami apparentemente inconciliabili, Zeno ci strappa un sorriso benevolo, ma anche amaro, perché in lui ci riconosciamo. E l’umorismo, come insegna Pirandello, è figlio della riflessione.

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...A chi ha visto Ricomincio da tre di Massimo Troisi e l'intera serie televisiva The big bang theory, sublime palestra di umorismo.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    19 Settembre, 2022
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La linea d'ombra di Lucio

Il breve romanzo ci prende con il fascino delle storia antiche. E quale storia! Una delle più note e delle più visitate: l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e la distruzione di Pompei. Romanzo storico, questo della Parrella? L’autrice nega questa classificazione, ma a rigore il romanzo lo è, perché vi compaiono i due elementi essenziali del genere: lo sfondo storico, ricostruito con cura filologica, l’invenzione di personaggi come Lucio, il protagonista, i genitori, il suo amante Aulo, l’amico Secondo, intorno ai quali ruotano figure reali come Plinio il Vecchio, Quintiliano, Marziale, l’imperatore Tito. Forse la scrittrice vuole segnalarci che la sua attenzione è rivolta più al mondo interiore del protagonista che al rapporto tra personaggio e storia. Tutte le vicende sono infatti filtrate dalla voce di Lucio, l’io narrante, attraverso uno stile dolente e malinconico nella rievocazione, epico e tragico nel racconto della catastrofe, sentenzioso nel ricavare una lezione universale dall'esperienza vissuta, ricercato ed elegante, quasi al limite del lezioso, nell’inseguire il flusso dei pensieri attraverso un periodare non privo di soluzioni originali. Il principale tema del racconto è legato ad una disabilità, la cecità ad un occhio, che il protagonista non subisce con rassegnazione, ma accetta come stimolo: “ il limite esiste solo per chi lo avverte come tale, sennò non è niente”. Questa forza d’animo di un giovane aristocratico dell’età dei Flavi, sembra riflettere una formazione stoica, in particolare una concezione agonistica dell’esistenza, la coscienza dell’eterna lotta tra la volontà dell’individuo e l’insieme delle circostanze, dei limiti oggettivi, delle situazioni di partenza, in una parola della Fortuna, all'interno dei quali si è chiamati ad agire. Non a caso è questo il nome della nave di cui Lucio avrà alla fine il comando, questo il titolo del romanzo ( si ricordi che il termine originario non ha il significato attuale, ma quello di sorte, in un’accezione neutra).
Sulla scia di Linea d’ombra, Lucio affronta una situazione analoga a quella del giovane, innominato ufficiale del romanzo di Conrad, che prende il comando di una nave e s’imbatte in una serie di avversità, tra le quali una bonaccia che sembra non voler più finire. Entrambi riescono alla fine a portare in salvo l’imbarcazione loro affidata e a superare la linea d’ombra che li separa dalla prima gioventù, in entrambi i casi siamo nell'ambito del romanzo di formazione. Ma ne “La fortuna” gli uomini si scontrano con un fenomeno che sfugge alla loro esperienza e conoscenza di naviganti e questo rende particolarmente drammatiche le loro reazioni.
L’eruzione del Vesuvio, che apre il racconto e sostanzialmente lo chiude, insieme all’epilogo, scandisce un tempo narrativo circolare e la sua descrizione riesce particolarmente viva ed efficace: il cataclisma sta cambiando tutti i punti di riferimento e modificando la stessa linea di costa, mettendo in crisi le categorie con cui di solito il navigante osserva il mare e regola le proprie decisioni. Viene continuamente sottolineata la enormità, l’ eccezionalità di un fenomeno del quale i marinai non hanno esperienze e conoscenze pregresse e che li terrorizza proprio per questo. Non a caso il pur giovane Lucio è l’unico capace di offrire ai compagni una parola di conforto: sono la cultura, la conoscenza della letteratura , della storia, dei classici a fornirgli un supporto per spiegare, comprendere, accettare e far accettare quello che sta avvenendo
A questo lavoro incessante di arricchimento della memoria contribuirà lo stesso protagonista che, su incarico del vecchio scienziato, redigerà una sorta di diario di bordo e disegnerà le nuove mappe di navigazione. Per questo suo duplice successo, aver riportato in salvo i marinai e integra la nave, e aver fornito memoria dei fatti e strumenti aggiornati di conoscenza, Tito lo accoglierà a corte e gli assegnerà una posizione di privilegio. Ed in questo modo Lucio porta avanti la ricerca dello scienziato morto per aver voluto osservare da vicino l’eruzione, con un passaggio di testimone su cui si regge l’evoluzione della scienza e delle conoscenze. Aver scoperto, come afferma Plinio, che il Vesuvio è come l’Etna, è solo una tappa di questa perenne evoluzione.
Ma Lucio non è solo il comandante di una nave che deve soccorrere o registrare il fenomeno: è anche amico, concittadino, parente, figlio di coloro che il vulcano ha ucciso, abitante di quella città che non esiste più e che lui vede da lontano, mentre viene divorata dall'eruzione. Quella scena di rovine e di morte gli era già apparsa in una misteriosa visione divenuta tragica realtà. Quelle case che oggi visitiamo, i mosaici, le strade, i calchi, appartennero ad uomini come noi e la nostra curiosità di visitatori non esclude lo sguardo dell’ umana pietà.
La Fortuna è un romanzo breve nel quale, come spesso avviene, al di là delle buone capacità e del valore dello scrittore, la materia è già di per sé ricca di fascino e tale da suscitare sentimenti di condivisione, passione per quello che è stato, identificazione con quello che fummo, universalità dell’essere umano oltre i confini e le barriere del tempo e delle epoche storiche. Il tutto è arricchito nell'autrice dalla nota personale di un rapporto privilegiato con quegli scavi che frequentò da bambina, quando la sera, mentre i visitatori uscivano, lei entrava per raggiungere la madre, biologa e responsabile dei lavori, all'interno della città sepolta. Un legame destinato, dopo tanto tempo, a riaffiorare e a dettare l’urgenza di una nuova rivisitazione della tragedia dell’antica Pompei. E così la “lenta ginestra” leopardiana, inopinatamente citata da Lucio, rinasce sulla morte, oltre la morte, in virtù della memoria e della scrittura.

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Linea d'ombra di Joseph Conrad.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    31 Mag, 2022
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Le scelte, il caso

Bastano le prime pagine e già siamo spiazzati, “straniati” rispetto alle nostre attese di lettori. Il primo sguardo del narratore si volge infatti non al delitto, ma a Roma che, in quel marzo 2016, ha due papi e nessun sindaco, e vive scene di quotidiano degrado, dalle quali emerge una punta di comico e di grottesco. Ma poi si entra nel vivo. Manuel Foffo, in viaggio con la famiglia per partecipare al funerale di uno zio, rivela al padre che nel proprio appartamento c’è il cadavere di un uomo che ha ucciso. Anzi, “abbiamo ucciso” . Non conosce neanche il nome della vittima. Lagioia, di cui seguiamo la ricostruzione dei fatti, racconta che il giovane non sa neanche precisare quando la cosa sia avvenuta: “due, quattro, cinque giorni fa”. Con lui c’era " uno che si chiama Marco", incontrato un paio di volte. Ma per Marco Prato, diversamente da Manuel, condannato a trent'anni, non ci sarà mai un verdetto: il processo a suo carico sarà interrotto dal suicidio nel carcere di Velletri.
Con La città dei vivi Lagioia entra di diritto nella folta schiera di autori di romanzi non finzionali, tanto affollata da farne ormai un genere di tendenza. Il suo modello di riferimento più evidente è L’avversario di Carrère, ma non manca qualche significativa affinità con La scuola cattolica di Albinati, anche per la scelta di un fatto di cronaca nera come soggetto. Si tratta di opere che nascono da una minuziosa raccolta di dati, documenti, inchieste giudiziarie, ricerche sul campo, contatti, carteggi, incontri con indagati, condannati, amici, genitori, parenti. Lagioia vi aggiunge una rassegna organica e argomentata delle reazioni dei media, in particolare dei social, mutevoli e ondeggianti teatri del dolore, tribunali impropri ma implacabili della cronaca nera contemporanea.
A caratterizzarli come “romanzi” e a distinguerli dal reportage o dall’inchiesta giornalistica c’è, tra l’altro, la presenza dell’autore come personaggio, attratto dalla vicenda che si impone alla sua attenzione, da cui viene scelto più che sceglierla, a cui partecipa, spinto dal bisogno di rispondere ad una domanda personale ed esistenziale. La tecnica narrativa rifugge pertanto da quella ricerca di oggettività e impersonalità flaubertiana propria di A sangue freddo di Truman Capote, capostipite di quello che venne definito a suo tempo “romanzo reportage” (ma anche sulla “oggettività” dello scrittore americano andrebbe svolta qualche considerazione). In particolare, Lagioia rievoca la crisi di cui fu preda in seguito al divorzio dei genitori, l’abuso di alcol, le azioni che rischiarono di compromettere la sua vita e il suo futuro. Per questo, appresa la notizia, ne resta turbato, per questo inizialmente tenta di rimuoverla e di rifiutare l’incarico di raccontarla, salvo poi scriverci sopra un intero romanzo.
Ed è infatti questo il filo conduttore de La città dei vivi: quale concatenazione di eventi ha reso possibile che due giovani fossero implicati, loro e non altri, in un delitto? Quali furono le piccole, in apparenza insignificanti svolte, le” sliding doors” che determinarono il tragico epilogo e stravolsero per sempre le loro vite, quali i momenti in cui era ancora possibile salvarsi e nulla ancora era compromesso? In quale misura il caso e gli incontri agiscono nelle nostre esistenze e ci fanno precipitare in quegli abissi che altrimenti avremmo evitati? Fino a che punto siamo artefici coscienti e responsabili della scelta virtuosa e di quella sbagliata?
Il racconto, per questo aspetto, si dipana in modo non rettilineo, come a spirale, e spesso l’autore ritorna su questi interrogativi di fondo, arrovellandosi sulle vere cause del delitto, spingendosi al di là del consumo parossistico di alcol e droga, indagando sulle dinamiche familiari, su eventuali fattori inconsci, sociologici o perfino antropologici. Inevitabile la descrizione dell’ambiente gay in cui la vicenda si colloca, nelle sue diverse stratificazioni sociali e comportamentali, anche se Lagioia sa evitare pregiudizi e facili schemi: il delitto Varani è una vicenda universale che ci interroga tutti, uno specchio, per quanto deformante, in cui siamo tutti chiamati a rifletterci.
Di fronte all'assenza di una risposta univoca, non manca l’attribuzione del delitto ad un fattore esterno deresponsabilizzante: la possessione demoniaca, un intervento diretto dell’”avversario”, cioè Satana, che appariva già nella conclusione del racconto di Carrère e dava il titolo al suo lavoro (ma andrà valutato in quale misura si tratti per il romanziere francese di una presenza reale oppure simbolica). Sfugge sempre la verità ultima, il sigillo definitivo: lo sforzo stesso di elencare tutte le ipotesi possibili, denuncia come un affanno, una difficoltà interpretativa, un dibattersi vano di fronte a qualcosa di inesplicabile.
C’è anche un altro elemento che fa da sfondo a queste vicende, come si accennava in apertura: Roma, nell'interregno che precede l’elezione a sindaco della Raggi e nel periodo immediatamente successivo, Roma dominio di topi, gabbiani e cinghiali, con le sue buche, i suoi ritardi, la sua lentezza amministrativa, l’anarchia accompagnata a indifferenza e rassegnazione, quasi un autocompiacimento generalizzato. L’Urbe si pone così non solo come sfondo occasionale, ma quasi come cornice del crimine, anche se i due piani narrativi e descrittivi vengono semplicemente affiancati l’uno all'altro né si vuole stabilire, com'è ovvio, alcun rapporto di causa ed effetto tra degrado e delitto. Eppure, quando Lagioia si trasferisce a Torino dove riceve l’incarico di direttore del Salone dei libri, ed ha modo di misurare il divario tra le due città, la capitale gli appare da lontano come un luogo dell’anima di cui non si può fare a meno, vi ritorna ad ogni occasione, ne assapora e vagheggia quella vitalità che ha il suo rovescio nell'invivibilità: una sorta di attrazione decadente per qualcosa che la ragione condanna, ma l’istinto avvolge con un’aura di misteriosa fascinazione.
Come ne La ferocia, dove il noir era frutto di pura invenzione, così qui lo scrittore disegna con sapienza personaggi che balzano fuori dalle pagine attraverso le azioni e i dialoghi, più che essere filtrati dalla lente del suo giudizio. L’obiettivo è capire, non condannare, e questa operazione si compie col massimo equilibrio. La stessa visita finale al padre e alla madre adottivi di Luca Varani, quel fermarsi raccolto dinanzi alla cappella che ne custodisce i resti, risarciscono la giovane vittima del minore spazio narrativo a lui dedicato, restituendogli l’umana pietà che fino a quel momento era stata come repressa dalla scelta di puntare i riflettori su Manuel e Marco.
De La ferocia però il romanzo non ha né la tensione lessicale né le complicazioni e arditezze sintattiche, che generavano qualche difficoltà di comprensione, ma conferivano allo stile un marchio di prorompente originalità. Lì c’era un mondo socialmente e psicologicamente stravolto da mettere su pagina. Qui c’è una difficile verità da indagare e da portare alla luce sulla base di dati, analisi, riflessioni: un’operazione verità mirante alla comprensione, ma anche all’autocomprensione.
Come avviene nei bravi scrittori, le scelte stilistiche sono correlate al testo e alle sue peculiarità di genere.


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A sangue freddo di Truman Capote, L'avversario di Emmanuel Carrère, La scuola cattolica di Edoardo Albinati.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    07 Marzo, 2022
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CLARA E IL FENICOTTERO ROSA

Raramente un titolo si è adattato così bene al contenuto di un romanzo. Un sentimento negativo, la ferocia, che pervade innanzitutto la forma e il linguaggio. La parola stessa si ripete spesso, soprattutto nella prima parte, introducendo così il grande tema del racconto. Feroce, d’altra parte è l’intera storia di Clara, del suo presunto suicidio, delle violenze cercate e subite, della sua morte. E’ come un fantasma che aleggia in cerca di vendetta e il narratore sa evocarne la presenza come una sorta di medium. Alle spalle, una famiglia, quella dei Salvemini, dominata da Vittorio, il padre padrone, un imprenditore edile senza scrupoli, capace di sacrificare anche gli affetti più sacri sull'altare della ricchezza, che si muove alla perfezione in un sottobosco di corruzione, di tangenti, di vizi pubblici e di peccati inconfessabili, tra giudici, avvocati, politicanti, funzionari dello stato ricattabili e costretti a obbedire per tenere nascoste le loro perversioni e, in qualche caso, veri e propri crimini. In questo meccanismo che si perpetua senza apparente possibilità di redenzione, si inserisce il figlio naturale di Vittorio, Michele. Clara e Michele: due fratellastri ribelli che hanno solidarizzato e si sono legati l’una all'altro come per difendersi da quel fango su cui sono costruite le fortune, la ricchezza, gli agi, le ipocrisie, l’amore malinteso e deviato della famiglia Salvemini. Solo che Clara è spinta da un irresistibile e masochistico impulso a farsi del male che si traduce in vera e propria perversione sessuale, ambiguamente sottomessa agli interessi di famiglia. Michele è il puro, il paladino senza macchia, che porta dentro di sé un odio inestinguibile, spesso camuffato sotto una maschera di finta cordialità, verso la famiglia che l’ha accolto dopo la morte della vera madre. A lui viene affidato il racconto della storia nella seconda parte, attraverso una focalizzazione del discorso dalla quale emergono i tratti di un personalità divergente, ma disturbata e ai limiti della schizofrenia. A lui viene delegata la classica funzione dell’investigatore, che insieme a quella della vittima costituisce uno dei due poli intorno ai quali ruota il romanzo nero.
Questa forma letteraria, sottogenere del poliziesco, si caratterizza – come lo stesso autore ha dichiarato- perché, diversamente dal giallo tradizionale, il male che vi compare persiste anche dopo la soluzione dell’indagine e la scoperta dei colpevoli. E’ un male che non si ferma ad un individuo o ad uno specifico nucleo familiare, ma investe l’intera società. Ecco perché il romanzo di Lagioia è anche una drammatica denuncia della corruzione che pervade strati della piccola e media borghesia (il racconto è ambientato a Bari, ma potrebbe essersi svolto in un qualunque altro contesto urbano del nostro paese). Una corruzione che tocca anche il grande tema dei rifiuti tossici e dei guasti prodotti sull'ambiente da una criminalità che sacrifica la stessa vita delle persone all'arricchimento privato. In questa ottica assumono un rilievo analogico da non trascurare le tre bellissime scene di paesaggio: quella iniziale delle falene che scambiano la luce artificiale delle villette a schiera con la luce lunare e muoiono dopo una danza circolare di morte; i pivieri che si abbattono al suolo dopo aver bevuto l’acqua delle pozzanghere nelle saline di Porto Allegro, complesso turistico al centro della speculazione di Salvemini, intrisa di cobalto, piombo e magnesio; il fenicottero rosa che improvvisamente precipita sotto lo sguardo di una guardia forestale. Natura vs artificio, rispetto e sacralità della vita vs violenza e sopraffazione. Questo vuole denunciare l’autore attraverso correlativi oggettivi che alludono ad una violata bellezza.
Si assiste ad una continua variazione dei piani temporali del presente e del passato, che consente di illuminare le vicende attuali con il loro pregresso. Il narratore oscilla tra una terza persona esterna e onnisciente, il monologo interiore del personaggio e il discorso diretto, a volte inserito bruscamente nel flusso narrativo, con effetto spiazzante, senza stacco, verbi di dire o pensare, segni d’interpunzione. Lo stile si distingue per la sua tensione lessicale e per la complessità sintattica di alcuni passaggi, nei quali si sfiora l'oscurità, ma è nel complesso incisivo, sferzante e comunque adatto a rappresentare una realtà perturbata, innaturale, socialmente e individualmente patologica. Attraverso questi strumenti espressivi si traduce sul piano formale la ferocia che Lagioia ha inteso raccontare.
Ma, lettore, se vuoi l’indicazione di una pagina ancor più delle altre terribile, raccapricciante, rivolgiti all'episodio dello spogliatoio, dove, al termine di una partitella, un gruppo di maschi eccitati parla di Clara. Vi troverai la quintessenza della ferocia e del sessismo più bieco, il brodo di cultura di una mentalità e di un atteggiamento che possono tradursi, in circostanze particolari, in crimine. Qui si evidenziano particolarmente le doti intuitive ed espressive di uno scrittore non banale.

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La città dei vivi dello stesso autore, dove la ferocia si "applica" ad un reale fatto di cronaca. La scuola cattolica, di Edoardo Albinati, che ha anch'esso come oggetto un episodio efferato di cronaca nera.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    29 Dicembre, 2021
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PICCOLI BROCCHI CRESCONO

Secondo romanzo della trilogia dei Trotter, si colloca a cavallo del nuovo millennio. Lo sfondo storico- politico, essenziale in Coe, è qui occupato da Tony Blair e dalla sua nuova variante del laburismo, la cosiddetta “terza via”. Lo scrittore sceglie, tra i personaggi de La banda dei brocchi, Paul, il fratello di Ben, per entrare nella carne viva di questo periodo e raccontare il blairismo.
Paul non occupava un ruolo centrale nel primo romanzo, eppure aveva tratti inconfondibili: era un ragazzetto spavaldo, cinico, spudorato, sboccato, anaffettivo, ma svelto e capace di inaspettati gesti di generosità e di interessi inconsueti per un dodicenne, come quello che lo spinse una volta a divorare saggi di economia. Già allora era incline a posizioni conservatrici, se non reazionarie. Ora è diventato deputato nelle file dei laburisti, ovviamente occupando, del Labour, l’ala estrema e liberista, il che gli permette di coltivare amicizie e relazioni politiche con esponenti del mondo degli affari e perfino dell’estrema destra britannica.
Da qui alla questione critica più rilevante, quella che riguarda il titolo, di grande pregnanza per la molteplicità di significati che racchiude in sé, il passo è breve. “Circolo chiuso” era stato il nome di un gruppo scolastico del King Edward presente ne La banda dei brocchi. Viene ora ripreso da un’accolita di politici e affaristi (Coe ne riporta, secondo il suo stile, il verbale di una riunione), due dei quali, Paul stesso e Ronald Culpepper, erano stati promotori anche del primo. Quando si dice la coerenza. Lo scopo è quello di favorire, al di là degli schieramenti politici, l’ingresso di capitali privati nelle aziende pubbliche. Si coglie qui una visione amara delle ideologie politiche più diffuse nel mondo moderno, dal liberismo al neolaburismo, dall’ambientalismo (sic) all’estremismo di destra, tutte convergenti, al di là delle differenze, nella difesa di un capitalismo che accresce le diseguaglianze, nega i diritti, tutela l’individualismo più egoistico: sono queste le ardite ed estreme convinzioni espresse da Philip Chase, amico giornalista di Ben, e qui forse portavoce e alter ego, almeno in parte, dello stesso autore.
E a questo punto, lettore, per dirti qualcosa di utile e di non generico, chi scrive è costretto a spoilerare un tantino. Niente che possa compromettere il piacere della tua lettura, se non è ancora avvenuta. Non lo fa per cinismo, è una necessità. Ebbene, il titolo del libro attiene principalmente alla struttura e il secondo romanzo finisce laddove il primo iniziava. Non ti sfuggirà, ad esempio, che i capitoli sono contrassegnati da numeri non crescenti, ma decrescenti, da 28 a 1: segno che il racconto corre verso un punto obbligato, di partenza e non di arrivo, che connette in modo inestricabile Circolo chiuso a La banda dei brocchi, invertendone, in qualche modo, la successione cronologica.
Perciò, lettore, se per caso ti capita di leggere questo romanzo, precipitati a procurarti il primo tassello della trilogia dei Trotter, La banda dei brocchi (il terzo è Middle England). Certo, puoi leggere separatamente le due opere, ma se le leggi entrambe, una dopo l’altra, afferrerai meglio l’ intelligenza compositiva da cui scaturiscono. Se invece hai già letto La banda dei brocchi e temi di non ritrovare i personaggi che ti sono più cari, a cominciare da Benjamin, allontana le tue preoccupazioni, anche qui il Trotter senior è presente, anche qui campeggia con i suoi travagliati parti letterari e musicali, la passione senza alternative per Cicely, le folgorazioni mistiche che inclinano più alla forma, al rituale, al credo magico, che ad un autentico spirito religioso. Nella vicenda di questo novello Zeno Cosini, liberato dall’ingombro della psicanalisi, non mancheranno interessanti sviluppi. Ti serva come esca un piccolo accenno alla sua religione…”costumista”. Forse sai già che crede in Dio perché un giorno gli apparve per miracolo un costume negli spogliatoi della scuola ed evitò così la punizione prevista per chi lo dimenticava a casa: restare nudo, esposto al ludibrio di una classe maschile di cui facevano parte machisti e fascisti come Culpepper, una tragedia per un giovane così poco sicuro di sé, così incerto e approssimativo nelle sue prestazioni erotiche, costretto, solo per un esempio, a replicare in un armadio il rapporto sessuale con una sua ex, attribuendone il buon esito all’inconsueta, sia pur claustrofobica… ambientazione. Ma reggerà questa fede ai risultati di una ricerca che il protagonista farà per conto dell’amico Doug Anderton su un poeta contemporaneo? Lettore, ti sento dire: cosa c’entra? Ma Coe è capace di mettere insieme sesso e ricerca filologica, complessi d’inferiorità e poeti contemporanei, umiliazioni da bullismo ante litteram e indagine biografica, miracolose apparizioni ultraterrene e piccole perversioni feticistiche. Questo lo scoprirai da solo.
Ed è un “circolo chiuso” anche il legame che unisce in modo imprevisto le vicende di Paul e Ben, due fratelli solitamente agli antipodi, che vivranno i momenti più intensi dei loro amori difficili, a dir poco problematici, sullo sfondo degli stessi paesaggi del Galles. Ma il circolo delle diverse storie è “chiuso” anche perché si scioglieranno qui molti nodi irrisolti dell'opera precedente, come il giallo della scomparsa di Miriam, che si scoprirà legato in modo imprevedibile a vicende politiche molto più vaste, o il sabotaggio subìto da Steve Richard, uno studente di colore, in occasione dell’esame finale di fisica, con grave pregiudizio per il futuro che sognava. Viene ripreso così il tema del razzismo, che troverà il suo massimo sviluppo in Middle England.
E’ così che questo scrittore ti conquisterà, con la sua profondità unita alla leggerezza, con questa mescolanza postmoderna di generi diversi come il romanzo politico, quello sentimentale, il giallo, con questi intrecci tra il personale e il politico, le responsabilità del singolo e la catena deterministica degli avvenimenti storici, nei quali è particolarmente versato. In questo modo, attraverso personaggi di notevole originalità artistica, nei quali si mescolano tragico e comico, riesce ad illuminare la politica inglese nelle sue varie fasi e lo stesso “homo britannicus” nei suoi aspetti antropologici. Eccezionale è, come sempre, la capacità di sviluppare il racconto attraverso l’uso dei materiali linguistici più vari, le voci diverse di un coro che si compone di molteplici punti di vista, di fatti lasciati e ripresi in una nuova ottica, che ce ne restituisce le diverse sfaccettature e la problematica sostanza. Indimenticabile, in proposito, la lettera mai inviata di Claire alla sorella scomparsa tanti anni prima, che apre il romanzo, e quella di dimissioni inviata da Paul Trotter a Blair, nella quale sembra di assistere al parziale riscatto di un personaggio che può non piacere, ma intriga moltissimo sia Coe che noi, e che, letterariamente, è di indubbio spessore. Leggendo le motivazioni che, come dichiara, avrebbero potuto indurlo a votare contro l’intervento inglese in Iraq contro Saddam Hussein del 2003, sembrerebbe di assistere all’epifania di un grande politico sbocciato all’improvviso: il giovane Trotter invita, infatti, il suo capo politico ad ammettere che Saddam non nasconde alcun arsenale e non è una minaccia per l’Occidente, che l’Onu ne uscirà indebolito, che un intervento militare darà ulteriore forza e motivazioni al fondamentalismo islamico e non servirà ad instaurare la democrazia in quella regione e a farsi amico quel popolo. Avrebbe potuto votare contro, ma non lo fa. Certo, per lealtà di partito, ma anche per altre, meno nobili e alate ragioni, che lo ricondurranno alla sua dimensione consueta. Ma questo lo scoprirai solo leggendo.

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Consigliato a chi ha letto...
Si consigliano i romanzi dell'intera trilogia dei Trotter, secondo la loro successione cronologica: prima La banda dei brocchi, poi Circolo chiuso, infine Middle England. Da non trascurare, ovviamente, il capolavoro di Coe: la famiglia Winshaw.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    27 Novembre, 2021
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Brexit ed altri errori

I personaggi sono gli stessi de “La banda dei Brocchi”, insieme a figli e nipoti, ma qui l’intreccio tra vicende private e sfondo storico-politico è più stringente. Coe riprende infatti la saga dei Trotter e dei personaggi che ruotano intorno a loro, proiettandoli, ormai cinquantenni, negli anni che precedono e seguono la Brexit (2010-2018). E forse “Brexit” sarebbe stato il titolo più adatto per quest’opera. Il tratto più politico del romanzo trova riscontro nei numerosi incontri di un componente della banda, Doug Anderton, giornalista vicino al Labour ma critico verso il partito, con Nigel Ives, uno dei responsabili della comunicazione del premier Cameron, che così diventa anch’egli protagonista del racconto. Del resto, l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue è stata anche effetto degli errori di valutazione della classe di governo.
Lo scrittore, infatti, sa dare corpo e anima a questo evento epocale, raccontandoci il suo farsi attraverso la vita quotidiana di uomini e donne, tra percezioni deformate della realtà, paura e sopravvalutazione del fenomeno immigratorio, facile propaganda populista, strampalate ma pervasive teorie complottiste, nostalgia di una presunta sovranità perduta, crisi industriale, mancanza di comunicazione tra intellettuali e popolo. Geniali le pagine dedicate alla cerimonia d’inaugurazione delle Olimpiadi di Londra del 2012, in cui per un attimo l’orgoglio sembra riunire la nazione e stemperare le divisioni, anche se l’adesione delle classi colte all’evento ha una matrice di tipo intellettualistico.
Protagonista, attraverso il clan dei Trotter, è questa classe medio-borghese, prevalentemente intellettuale, insediata nella Middle England, a Birmingham, dove più forte soffia il vento dell’”exit”. Un ceto che appare quantomeno corresponsabile di quello che accadrà.
(Segue qualche anticipazione sulla trama, indispensabile, a mio avviso, per un'analisi corretta).
Si prenda il personaggio di Sophie, la nipote del protagonista, Benjamin Trotter.
Ha rimproverato un’alunna in procinto di compiere la transizione sessuale con una domanda che poteva suonare equivoca. Gli studenti, capeggiati da Corrie Anderton, figlia di Doug, la mettono sotto processo, la accusano di omotransfobia, le fanno perdere il lavoro. Parte la macchina del fango alimentata dai social e dalle chat di gruppo: Coe sa cogliere con molto acume queste degenerazioni della moderna comunicazione. Il consiglio d’amministrazione si schiera subito vigliaccamente dalla loro parte. Perfino Emily Shanna, la presunta vittima di questo crimine inesistente, si scuserà con la docente, marcando le distanze tra sé e i persecutori della docente. Il pensiero corre all'equivoco lessicale che stronca la carriera accademica di Coleman in La macchia umana di Roth. Ma Sophie ha una inconfondibile peculiarità: pur essendo la vittima di un politicamente corretto spinto fino all'esasperazione e pur essendone consapevole, continua a giustificarlo e ad adottarlo nel suo rapporto con la realtà. Ha, infatti, un atteggiamento comprensivo nei confronti dei suoi contestatori: "C'è stato un fraintendimento, ecco tutto. Succede. E in ogni caso non ci vedo niente di folle ad avere rispetto per le minoranze". Inoltre, non vuole neanche prendere in considerazione le recriminazioni del marito Ian contro i dirigenti della scuola guida in cui lavora, che a suo avviso gli hanno preferito per la promozione una istruttrice di origine asiatica più per un pregiudizio razziale… alla rovescia che per meriti effettivi. E sarà proprio Ian, durante un litigio, a profetizzare l’esito referendario pro Brexit come conseguenza di questo drammatico distacco tra l'élite intellettuale cui Sophie appartiene e la massa della popolazione: "Vincerà chi vuole uscire. Lo sai perché?[...] Per quelli come te". Il romanzo accende così una spia nella mente del lettore e lo induce a ripensare a tutte le volte che questa separazione si ripeterà, dall’inaspettata ascesa di Trump alla presidenza Usa, alla vittoria del populismo e del sovranismo in Italia. Senza intervenire, Coe sa entrare nel vivo delle questioni che dividono gli inglesi e, dando voce alle due parti in conflitto, facendole collidere, suggerisce una chiave di lettura interessante della Brexit.
Ancora più incerto e discutibile l'atteggiamento di Doug, che cerca di convincere Coriander a ritirare la sua accusa contro Sophie, ma poi, di fronte al suo rifiuto, giunge alla conclusione che la propria generazione sia fin troppo moderata e che quello della figlia sia un esempio di coerenza da seguire. Meno male che, per una eterogenesi dei fini che lo scrittore sa manovrare con sapienza, da una lezione sbagliata Doug sappia ricavare una scelta giusta, visto che rompe gli indugi e va ad aggredire verbalmente Ronald Culpepper, ex compagno di scuola, divenuto un nazionalista fanatico che sta tessendo un’oscura trama di aggressioni contro i politici tiepidi nei confronti della Brexit, tra i quali Gail, la nuova compagna di Doug stesso, e rischia così di provocare altri lutti e altre morti, dopo quella della parlamentare Jo Cox.
Dunque Coe sembra ritrarre una generazione fatta di uomini e donne o ostinati e ciechi, o deboli e fragili, che avrebbero gli strumenti culturali per guidare la nazione, ma non ne sono all'altezza. Anche Ben, piccolo Oblomov in salsa inglese, galleggia nello spazio di solitudine in cui si è rinchiuso, continua a vagheggiare l’amore giovanile per Cicely, è protagonista grottesco di improbabili avventure erotiche, amante di abitazioni lontane dal caos urbano, vecchi mulini ristrutturati, preferibilmente sulle sponde di un fiume, tiepido e distratto spettatore delle vicende politiche. Eppure, inaspettatamente, proprio in lui si manifesterà una ribellione personale e privata alla piega che ha preso la storia. Convinto dal suo vecchio insegnante di lettere, fonderà una scuola di scrittura in Francia, dove andrà a vivere con la sorella Louis. Non a caso la chiamerà "La banda dei brocchi".
Un’alternativa alla Brexit dunque esiste: si chiama Europa, superamento dei confini nazionali, apertura non solo mentale, ma anche fisica, al di là degli angusti confini di una nazione che ha deciso, di fronte alle sfide della modernità, di chiudersi in se stessa. Il fatto che Coe abbia saputo frustare a sangue, con quel suo stile medio, ma facendo parlare i fatti e i dialoghi, incisivi e serrati, gli stessi fautori del ” remain”, non vuol dire che condivida le tesi isolazioniste. Come tutti i grandi scrittori, sa vedere contemporaneamente i diversi lati di una questione, riconoscerne la complessità, e continua a coltivare una sorta di sogno cosmopolitico, senza per questo imprecare contro il “popolo bue” che “vota male” alle elezioni e ai referendum. La stessa ambivalenza è racchiusa nella scelta di Benjamin di lasciare l'Inghilterra: resta in lui un legame fortissimo con la patria e con le sue tradizioni, simboleggiate, non a caso, data la sua passione per la musica, da una canzone popolare della vecchia Inghilterra che la madre morente gli aveva chiesto di cantare con lei.
La struttura è simile a quella dei grandi romanzi di Coe, ma l’accostamento di materiali linguistici eterogenei e il conseguente continuo mutare della voce narrante e dei punti di vista qui è più limitato e rappresentato da lettere, documenti politici e, in modo particolare, da un lungo monologo interiore, senza punteggiatura, di Ben, una sorta di bilancio conclusivo della sua vita di uomo, di scrittore e di amante, appagato in età matura da un rapporto sui generis ed inaspettato, e dalla pubblicazione del suo romanzo, ovviamente imperniato su Cicely. Scrittore di un unico libro, amante di un unico amore.
C’è da chiedersi perché la storia recente d’Italia, non meno interessante di quella inglese, tutt'altro, non abbia ancora trovato uno scrittore capace di raccontarla con la stessa passione civile. Forse i nostri autori preferiscono il racconto “indiretto”, sovente in chiave antropologica, delle vicende nazionali. Eppure nella nostra tradizione ci sarebbe, mutatis mutandis, il modello di Dante a cui attingere.



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Consigliato a chi ha letto...
La banda dei brocchi e Il circolo chiuso, che fanno parte di una trilogia sulla storia dell'Inghilterra contemporanea. Ma non si può trascurare il grande capolavoro di Coe, La famiglia Winshaw. Per i rimandi alla degenerazione del "politically correct" si consiglia La macchia umana di Philip Roth.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    30 Aprile, 2021
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La variante di Carver

Uno scrittore di talento presenta al suo editor un libro di racconti. Il curatore d’edizione, anche lui provvisto di talento letterario, interviene pesantemente, corregge, modifica, elimina. Lo scrittore accetta, ma gli resta nel cuore quella prima versione dei racconti, ha in animo di pubblicarli come li aveva pensati. La morte glielo impedisce. I racconti vengono recuperati e pubblicati postumi ad opera di alcuni studiosi, con il costante incoraggiamento della moglie. Date allo scrittore il nome di Raymond Carver, all'editor quello di Gordon Lish, una sorta di guru del minimalismo, alla donna quello di Tess Gallagher, ai ricercatori quello di alcuni studiosi dell’università di Hartford. Procuratevi ora la prima raccolta, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, e quella postuma, “Principianti”, che cronologicamente precede la prima. Si delineerà sotto i vostri occhi una vicenda di uomini appassionati di letteratura, di perfezionisti delle soluzioni formali, con le loro aspirazioni, frustrazioni, cedimenti, rivalse. E potrete valutare meglio questa opera che, pur ponendosi nel solco della grande tradizione americana del racconto breve (Hemingway sopra tutti), apparve subito rivoluzionaria e dominò il dibattito letterario di quel decennio, fino a diventare una moda e a generare una folla di emuli non sempre all’altezza. Come accade quando l’ispirazione genuina di un artista diventa moda e genera “ismi”. (Il confronto tra le due raccolte richiede ovviamente l’anticipazione di qualche finale).
Protagonisti sono ancora uomini e donne del Midwest, dei sobborghi, dell’America profonda, degli abitati distanziati da lunghe distese deserte, lontani dall'ambientazione metropolitana e soprattutto newyorchese di epigoni come David Leavitt e, ça va sans dire, dalle sue tematiche gay.
Al centro della narrazione amanti in crisi, coniugi traditori o traditi, aggrappati ad un frammento di felicità perduta, magari il ricordo di due anziani che offrirono loro un sorso d’acqua e li portarono a visitare il gazebo della propria fattoria, illudendoli di poter invecchiare insieme alla stessa maniera (“Gazebo”). Oppure abbarbicati a quella parola che non riescono a dire, al “discorso serio” col quale vorrebbero chiarire ogni cosa al partner, bloccati dell’afasia che li prende ogni volta che stanno per pronunciarlo. A volte si dimenticano perfino che cosa volevano dire, come L.D. nella storia conclusiva, sfiorando così l’effetto comico.
Crisi latenti, che erano finora affiorate solo in un’ombra di stanchezza, nella noia di un caldo pomeriggio estivo trascorso con mogli, figli, amici, in cui esplode la furia omicida di Jerry nel tragico “Di’ alle donne che usciamo”. Anche quando regna l’accordo, c’è il destino ad irrompere nella serenità di una vita familiare, manifestandosi all'improvviso con l’incidente e l’agonia di un figlio (“Il bagno”), dove l’apparente, fredda oggettività degli eventi, è accompagnata dal ritmo angoscioso della cronaca, scandita dalla serie interminabile di tempi passati: “la madre andò…il panettiere ascoltò…la madre decise per la torta…il bambino stava andando a scuola…il bambino fu investito da un’auto”. Il realismo delle cose e dei fatti, la struttura paratattica di frasi coordinate che incalzano, compongono un sottofondo musicale sottilmente angoscioso, preludio ad un tragico epilogo.
Qui cogliamo la differenza profonda tra il racconto come l’aveva pensato Carver e come si struttura dopo l’intervento dell’editor, che fa terminare la vicenda con la beffarda e surreale voce al telefono del panettiere, tagliando il finale consolatorio dei genitori a cui l’involontario stalker, per farsi perdonare, offriva le sue piccole e buone cose nella bottega dove i due lo avevano raggiunto.
Lo stesso omicidio di Jerry, che avveniva nell'originale al termine di un drammatico colloquio con la vittima, eliminato quest’ultimo assume la forma di una mostruosa follia omicida, di una furia distruttiva che brucia ogni residua umanità.
Ma proprio in forza delle loro scelte stilistiche radicali, Lish-Carver appassionano, sorprendono, con il loro stile asciutto, incalzante, dove si sprecano i “dico”,” dice”, “dico” che scandiscono i dialoghi con il loro ritmo martellante, le frasi brevi, secche, imperniate sul solo verbo, i pochi complementi necessari all’intelaiatura della frase, i pochissimi aggettivi e avverbi, in una sintesi estrema che talvolta indebolisce la coesione narrativa, facendo rimpiangere la più distesa versione originaria.
Non manca qualche finale lieto, come la rinuncia di un giovane padre alla battuta di caccia a cui tanto teneva, per stare accanto alla figlia e alla moglie preoccupata per la salute della bambina: un matrimonio forse salvato in extremis con questo atto di rinuncia (“Gli si è appiccicato tutto addosso”). Ma ci pensa la struttura del testo, articolato su due piani temporali, quello del presente e quello del passato, a stendere un velo di malinconia e di sofferenza su ciò che è stato e non è più.
Altrove è l’empatia, la condivisione dell’altro a riscattare la solitudine in cui sono precipitati uomini rimasti soli, come i protagonisti dei primi due racconti. E si potrebbe estendere all'intera poetica di Carver la conclusione di “Perché non ballate”, dove una ragazza racconta il suo incontro con un tizio che vendeva i suoi mobili esponendoli in giardino: “Continuò a parlarne. Lo raccontò a tutti. Restava qualcosa, che non riusciva a dire. Ci provò, poi smise”.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Il titolo non si adatta dunque solo all'ultimo racconto, una sorta di minidialogo platonico, non privo di opinioni non scontate sulla vera natura di questo nostro “pensiero dominante”, ma si estende a ragione all'intera raccolta. La relazione di coppia, nelle sue molteplici sfaccettature, domina quasi tutte le vicende narrate, anche quando veniamo distratti dalla bellezza di un paesaggio lunare (“Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa”) e dall'incontro notturno della protagonista narrante con un vicino a caccia di vermi (ed anche la sua vicenda è ben narrata e intrecciata con quella principale). Ma anche qui il punto focale si sposta poi sul rapporto di Nancy col marito, che, quando ritorna a letto, gli appare non molto diverso da “quelle cose che Sam Lawton cospargeva di polvere”. Quanto diverso, ancora una volta, l’originale, che si chiudeva con le parole inascoltate di Nancy al marito che continuava a dormire, parole insieme di insoddisfazione e di amore, ma comunque liberatorie, che la facevano scivolare dolcemente nel sonno! Tutto saltato, tutto ridotto all'osso, per lasciare posto ad un senso di distacco, come di disgusto, che inchioda la vicenda ad un finale senza prospettive. E il sonno diventa qualcosa che deve sbrigarsi a venire per sprofondarvi dentro col proprio dolore.
Leggere questi due libri uno accanto all'altro è un esercizio di critica delle varianti che fa capire bene come siano sottili e sempre in bilico gli equilibri dell’opera narrativa. Ed aiuta a mettere in risalto, per contrasto, l’autentico mondo poetico di Raymond Carver.

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I racconti di Hemingway, i racconti e i romanzi di David Leavitt, per un confronto nell'ambito del minimalismo, "Principianti", per un confronto tra versione originaria e..."versione Lish-Carver".
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    06 Marzo, 2021
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Solitudini e incontri

Contiene qualche inevitabile anticipazione.

“Penne”, il primo racconto della raccolta: Jack e Fran sono invitati ad una cena da incubo. Un pavone li accoglie in giardino con la sua ruota, continua a lanciare il suo grido lamentoso per tutto il tempo, finchè Bud e Olla, i padroni di casa, lo lasciano entrare, scorrazzare nella sala da pranzo, dirigersi come un cagnolino verso il piccolo Harold, il bambino più brutto che Jack, la voce narrante, abbia mai visto: ”nessuno escluso”. Sul televisore fa mostra di sé, a imperitura gratitudine, il gesso della dentatura storta e scombinata di Olla, prima che un dentista gliela correggesse con i soldi del marito.
Eppure quella serata segnerà per Jack e Fran una svolta, facendo loro conoscere una forma fino ad allora ignota di amore, di riconoscenza, di devozione, di senso della maternità e della paternità, che segnerà il resto delle loro esistenze, deviandole dallo sterile egoismo in cui erano comodamente sprofondate
Qui il pavone e il calco di una dentatura, altrove un frigorifero guasto e il cibo andato a male, un orologio, una cravatta di seta bianca indossata da un vecchio senza scarpe, una briglia: oggetti, particolari, dettagli realistici che ci rimandano al cuore segreto della narrazione, svolgendo la funzione di simbolo, metafora, finanche di "correlativo oggettivo". Dietro c’è un senso che rischia continuamente di sfuggirci, un filo sottile che siamo chiamati a cogliere in queste storie “senza trama e senza finale”, pur spiazzati dalla loro brevità, dal loro entrare “in medias res”, dal loro cominciare quando tutto è finito e terminare quando ci sarebbe tanto ancora da dire. Incuriositi, però, da quel linguaggio minimale nella struttura, da quelle piccole frasi che si affiancano più che subordinarsi entro una più complessa architettura sintattica. Caratteristiche ancor più evidenti in "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore".
Ce ne sono altri di questi incontri che cambiano la vita, tanto da diventare un tema della raccolta . E’ il caso del protagonista di ”Febbre”, che troverà in un’anziana governante, capace di accudire i suoi figli e di ascoltarlo durante una breve malattia, la spinta necessaria per riannodare il filo smarrito della propria esistenza e superare il trauma da separazione che lo paralizzava e gli rendeva insormontabile qualsiasi difficoltà.
Ma anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta, si assiste ad un incontro che mette in moto un processo di formazione. L’indifferenza, l’ostilità, il rifiuto dell’altro sembrano inizialmente connotare il protagonista di “Cattedrale”. Dapprima ostile all'ospite, amico della moglie, e come infastidito dalla sua cecità, supera alla fine barriere e pregiudizi, entra nel suo mondo, si estranea dal proprio, accettando un diverso modo di “vedere”. La solidarietà passa in questo caso attraverso un mutamento di prospettiva ed una immedesimazione con la diversità: "Gli occhi li tenevo ancora chiusi. Ero nella mia casa. Questo lo sapevo. Ma era come se non fossi dentro a niente".
La solidarietà, spesso inaspettata, sorprendente: ecco un altro tema ricorrente. Non c'è bisogno che si manifesti in gesti clamorosi, a volte può concretizzarsi in “piccole, buone cose”, come quelle che un fornaio offre ad Howard e Ann, le ciambelle calde, il pane appena sfornato, che aiutano a lenire per un momento il calvario dei due genitori grazie a chi li aveva involontariamente perseguitati al telefono, ignaro della tragedia.
Poi c'è l'alcol, che scorre a fiumi in queste pagine, trasposizione di una vicenda personale che coinvolse l’autore stesso, e chiude le creature letterarie di Carver in un cerchio nel quale rischiano di restare intrappolate per sempre. Spesso il personaggio ne è travolto, come Wes in ”La casa di Chef” o Lloyd che, in ”Stare attenti”, si aggrappa ad una banale sordità temporanea, dovuta ad un tappo di cerume, per rinviare il chiarimento con la moglie e ottenerne ancora qualche premura.
In “Da dove sto chiamando”, l'ospite di una casa di recupero telefonerà per il nuovo anno alla sua nuova compagna, dicendole semplicemente: “Sono io”. La reiterazione del vizio ha tolto ogni credibilità alle parole e ai buoni propositi: l'ultimo appiglio è ricordare di esserci a chi ancora può nutrire comprensione per noi.
Altrettanto disperata e senza sbocchi la sorte del personaggio di Carver quando si relaziona con il mondo del lavoro: in “Conservazione” il marito di Sandy, dopo essere stato licenziato, trascorre tutto il suo tempo sul divano, "come se ci abitasse"; in "Vitamine", il lavoro è fonte di stress e di nevrosi dentro una società dell’opulenza nella quale non tutti riescono ad integrarsi. Una vicenda più attuale che mai nella nostra società precarizzata e sottomessa all’utile.
Accanto agli oggetti, sono le ambientazioni di alcune storie a colpire: i treni, le stazioni, le sale d’attesa, notturne, tristi, solitarie, sono uno sfondo ideale, di ascendenza ottocentesca, per le devastate esistenze carveriane, per la loro solitudine, per la loro incapacità di comunicare. Ma “Lo scompartimento” e “Il treno” - tra le gemme più preziose della raccolta- sono anche connotati da un'aura di mistero, di enigma irrisolto, soprattutto il secondo, dove i protagonisti compaiono quando hanno già fatto e compiuto quello che sarebbe il plot di una narrazione tradizionale, e a noi resta da osservare solo la risacca che risulta dall’onda che si è infranta: da una parte, Mrs Dent, che stava per uccidere un uomo, dall'altra un vecchio senza scarpe con una cravatta di seta bianca, cui prima si alludeva, e una donna, reduci da un’esperienza negativa presso una comunità di cui ci vengono riferiti frammenti, nomi che non ci dicono nulla. Una scena quasi beckettiana. I tre attendono insieme l’arrivo del treno, non c’è nessuna comunicazione possibile tra loro, piuttosto diffidenza e astio. La stessa indifferenza da parte dei passeggeri li accompagna dopo che sono saliti : "Ma i passeggeri avevano visto ogni genere di cose nella loro vita [...]. E così non dedicarono altri pensieri ai tre che si muovevano lungo il corridoio [...].
La condensazione minimalistica di queste short stories può ingannare, facendole scivolare via senza lasciare eco nella nostra anima. I sentimenti sono infatti nascosti sotto l'apparente freddezza dello stile, la brevità asciutta, come una corda segreta che bisogna far vibrare perché ci riveli il mondo poetico dello scrittore, con la sua sofferente umanità.

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
"Di cosa parliamo quando parliamo d'amore", "Principianti", dello stesso Carver.
La traduzione dei brani citati è di Francesco Franconeri, nella edizione Oscar Mondadori, quella di cui sono in possesso.
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Poesia italiana
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    04 Gennaio, 2021
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CANTO PER TE

A spasso tra i Canti, alla ricerca dei gioielli più preziosi. Nelle prime pagine, un rapido sguardo alle canzoni: Leopardi ce l’ha col suo tempo e rimpiange il passato, in particolare Roma antica. Nessuna novità per lo spirito italico, che, scontento dell’Italia com’è, rimpiange spesso il suo passato glorioso: “O patria mia, vedo le mura e gli archi/e le colonne e i simulacri e l’erme/ torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo” (All’Italia). Segue, nella canzone a lui dedicata, un affettuoso rimprovero al cardinale Angelo Mai, che aveva appena ritrovato il De re publica di Cicerone: perle ai porci, secondo il nostro severo censore, fatica sprecata per gente morta, non all’altezza di quella nobile e vitale eredità. Sorvoliamo anche sulla poesia composta in occasione delle nozze della sorella Paolina, anche perché quel matrimonio non si fece e non s’aveva da fare: lo sposo, a detta di Giacomo, era tutt’altro che un Adone e si rivelò assai meno ricco di quanto all’inizio si era creduto. Anche i “giovani favolosi”, all’occorrenza, sanno tenere i piedi per terra e tutelare gli interessi di famiglia.
Il “vincitore del gioco del pallone” del componimento successivo, Carlo Didimi, era un Ronaldo o un Maradona del tempo, ma lo sport qui celebrato non è il calcio, bensì la palla al bracciale, giocato negli sferisteri. Leopardi non appartiene alla categoria degli intellettuali invidiosi del successo degli sportivi, della loro fama e dei loro guadagni, come un Giovenale, nemico giurato dei gladiatori, ma è convinto che lo sport vinca la noia e risvegli le virtù eroiche e guerriere.
Andiamo avanti, qualche pagina ancora ed ecco, comincia a sgretolarsi la crosta del linguaggio aulico e classicheggiante, diciamocelo, un tantino tromboneggiante. Ma non siamo troppo severi: aveva intorno ai vent’anni, i letterati suoi contemporanei, chi meglio, chi peggio, si esprimevano così, e lui nel frattempo stava maturando un filone parallelo, una poetica tutta nuova e rivoluzionaria, destinata a trionfare. Accostiamoci al meraviglioso incipit dell’Ultimo canto di Saffo: “Placida notte, e verecondo raggio/ della cadente luna! E tu che spunti/ fra la tacita selva in su la rupe,/ nunzio del giorno…”. È la poetessa greca che si dispera di fronte ad una paesaggio quieto e raccolto, contrastante col suo animo tormentato da un’insanabile ferita d’amore e dalla cognizione della propria bruttezza. “Virtù non luce in disadorno ammanto” diventerà il verso consolatorio di tanti…diversamente belli dopo di lui e prima dell’avvento della chirurgia plastica, delle palestre e del personal trainer.
Ma ci siamo, comincia la poesia del borgo, l’idillio delle care immagini borghigiane e familiari, “situazioni, affezioni, avventure storiche” dell’animo, tradotte in un linguaggio più semplice, intimo, cristallino. Il verso non soggiace più a regole precostituite, ma segue liberamente il ritmo dell’anima, ed ecco la prima, meravigliosa gemma leopardiana, l’avvio del Passero solitario: “D’in su la vetta della torre antica,/ passero solitario, alla campagna/ cantando vai finché non muore il giorno;/ ed erra l’armonia per questa valle./ Primavera d’intorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulta,/ si’ ch’a mirarla intenerisce il core”. Che purezza, questo canto che vaga per la campagna, la sua indeterminatezza, la vaghezza che ci fanno godere di quel “caro immaginare”, radice di tanti capolavori leopardiani! Quella primavera che brilla nell’aria ritornerà ogni volta nelle nostre primavere più dolci, quando una luce limpida e senza veli brillerà e ci renderà felici di stare al mondo. Eh sì, perché il Nostro amava la vita, in contrasto col suo stesso pessimismo. E amava la Natura, che pure considerava un mostro orribile, “madre di parto e di voler matrigna” (La ginestra)
Attenzione, siamo al momento clou: “Sempre caro mi fu…”. Sprofondiamo ancora una volta, dopo duecento anni circa, in questa immensità, in questo Infinito che si fa strada nella mente attraverso il superamento del dato sensoriale e benediciamo quella siepe che da tanta parte escluse lo sguardo del poeta ma spianò la via a versi memorabili. Nel dolce, ossimorico naufragio finale, ognuno di noi è autorizzato, magari poco filologicamente, a sentire quello che vuole: la pace interiore che per una volta arriva nella nostra vita, un attimo di armonia del tutto e col tutto, Dio, il nostro Dio personale che balena, intimo e senza dogmi, raccolto dentro di noi e libero da ogni dottrina.
Mi sono sempre chiesto quale sia poi il segreto di un altro, meraviglioso incipit: “Dolce e chiara è la notte e senza vento,/ e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni montagna” (La sera del dì di festa). Non so, ma la sintassi lineare, le parole dall’uso ancora comune, sono un vero miracolo della scrittura. E la leggerezza di questa definizione al negativo, l’assenza di vento, è un prodigio poetico. Di fronte a tanta impalpabile, quasi evanescente bellezza, appare più tormentato e disperato l’anima dell’innamorato che si sente disprezzato e nemmeno ci spera che la donna amata abbia un pensiero per lui, in quella serata magica: “non io/ non già che io speri/ al pensier ti ricorro”. La conclusione non è da meno: il poeta si ricorda di quando era bambino e, al concludersi di un’analoga giornata festiva, udiva un canto per i sentieri “lontanando morire a poco a poco” e già ne traeva presagio di dolore e di morte. “Lontanando morire a poco a poco”: un verso in calando che imita mirabilmente il lento spegnersi del canto nella profondità di una notte silenziosa, già vissuta con dolore.
La Nerina delle Ricordanze (“Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea…”), Silvia: intorno a vaghe figure femminili, poco più che fantasmi della fantasia, si concentra la sostanza poetica di due canti conosciutissimi anche al grosso pubblico, ma la mente ritorna soprattutto al poeta che, lasciando gli studi e le “sudate carte”, udendo la voce e il rumore della mano della fanciulla che percorreva la tela, osserva il paesaggio intorno ed è colto da un’arcana felicità. “Mirava il ciel sereno,/ le vie dorate e gli orti,/ e quinci il mar da lungi, e quindi il monte./ Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno”.
A conclusione di una straordinaria stagione creativa, vissuta a metà tra l’odiosamata Recanati e Pisa dal clima dolce che attenua le sue sofferenze, un altro vertice assoluto, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ci insegna le parole per porre istintivamente alla luna, quando la vediamo splendere in cielo, la stessa eterna domanda : ”Che fai, tu, luna in ciel? dimmi che fai,/ silenziosa luna!”, quasi a chiederci la ragione misteriosa del nostro stare su questa piccola terra in mezzo all’immensità degli spazi, ignara di noi, del nostro sperare come del soffrire.
Ma, inaspettato e diverso, ecco un gioiello meno noto: una poesia drammatica, di puro pensiero, dedicata stavolta ad una esperienza d’amore reale, conclusasi con una delusione senza pari, ed un invito A se stesso ad abbandonare quest’ultima illusione che sembrava avere rianimato la vita, a realizzare che nulla vale la pena di vivere in questa “infinita vanità del tutto”. La bellezza dell’universo si rovescia in ascetico nichilismo. Tanto può l’assenza d’amore, la disperazione che Aspasia (al secolo Fanny Targioni Tozzetti) gli infligge senza neanche immaginarne le conseguenze. Un verso scolpito nella pietra della grande poesia ed un’eco lontana dell’Ecclesiaste, senza la prospettiva religiosa, e del meraviglioso Catullo, quando invitava se stesso ad abbandonare l’amore impossibile per Lesbia. Solo che qui la disperazione trascende l’individuo e si fa cosmico, universale dolore, insensatezza della esistenza.
Poi Torre del Greco e quell’ultima, meravigliosa sinfonia scritta sulle pendici del Vesuvio, dove attecchisce la ginestra, che dà il suo nome ad un ultimo capolavoro. L’innamorato della vita, se da una parte osserva la distruzione provocata dal “formidabile monte,/ sterminatore Vesevo”, dall’altra pensa agli uomini, alla loro volontà epica di ricominciare dopo le sciagure, esortandoli a superare le barriere che li dividono e a combattere il vero, unico nemico di tutti: la Natura avversa. Parole che, in tempi di pandemia e di faticosa lotta per sconfiggere il virus con i mezzi della conoscenza, del sapere scientifico e della collaborazione tra i popoli e tra scienziati di vari paesi, ancora una volta si riattualizzano e prendono il sapore di una profezia.
P.S. Lo so, vi aspettavate almeno una citazione del Sabato del villaggio ma ho l’impressione che la donzelletta, il mazzolin di rose e di viole, la vecchierella siano state alquanto usurate dalla scuola e che il resto l’abbia fatto il suo impianto didascalico. Ci rimarrebbe forse il senso di tristezza e di vuoto della domenica pomeriggio. Ma oggi ci sono le partite in tv, almeno per i tifosi. E poi, se uno ha la fortuna di fare un lavoro che gli piace, come per me era l’insegnamento, la prospettiva dell’incombente lunedì non è poi tanto terribile. Infine, l’attesa del sabato si è diluita oggi nel venerdì, che ormai gli è fratello. E “Il venerdì del villaggio” non suonerebbe granché bene.

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Consigliato a chi ha letto...
Zibaldone, Operette morali. Un buon manuale di letteratura. In particolare, per approfondire queste modeste considerazioni, la critica leopardiana di De Sanctis, Croce, Binni, Asor Rosa.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    28 Dicembre, 2020
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UNA BISNONNA PER AMICA

Contiene qualche inevitabile anticipazione.
Protagonista della storia è Lenore, impegnata nella ricerca della bisnonna, che ha il suo stesso nome ed è fuggita dalla casa di riposo con un folto gruppo di ospiti. Ha un compagno, Rick Vigorous, titolare della casa editrice per la quale lavora in qualità di centralinista. Un centralino impazzito, che i tecnici tentano invano di riparare, fino alla soluzione finale, anch’esso testimone dell’ingorgo comunicativo in cui siamo immersi. Come nei romanzi d’amore che si rispettano, tra i due si insinua un terzo incomodo, Andrew Salanger Lang, detto Wang-Dang Lang, contraltare di Rick, con la sua prorompente vitalità opposta alla debolezza e all’impotenza del rivale: Vigorous è uno dei tanti “nomi parlanti”, in questo caso al contrario, di cui il romanzo abbonda.
Sullo sfondo, la società americana con le sue fragilità, gli eccessi, la solitudine, il problematico rapporto con gli anziani, le assurde e comiche distorsioni della comunicazione, la tirannia della televisione. Surreale, tra le tante, la storia del pappagallo di Lenore, Vlad l’Impalatore, assurto alla gloria delle ribalte televisive per i suoi messaggi tra pornografia e teologia, e utilizzato da un telepredicatore per incrementare iscrizioni e contributi. Si intuisce che l'exploit linguistico del pennuto possa derivare dalla somministrazione di un portentoso alimento per l'infanzia della ditta di cui è titolare il padre di Lenore e la cui formula era in possesso di un'amica di Lenore senior, anch'essa ospite della casa di riposo. Intrise di umorismo e di umanità sono anche le numerose storie di anziani nelle case di riposo, come quella dell'arzilla bisnonna e della nuora Concardine, senza trascurare il breve ma toccante ricordo della nonna da parte di Lang.
Un ruolo di primo piano ha la psicanalisi, altro mito americano, con tanto di verbali delle sedute dei protagonisti (la mescolanza dei materiali è tipica del postmoderno), le strategie grottesche del dottor Jay, che indossa una maschera antigas ogni volta che avverte “odor di breccia”, cioè ritiene di essersi avvicinato al nucleo profondo dei traumi e dei complessi dei suoi pazienti, quando scricchiola il loro solipsismo ed essi cominciano a rendersi conto del rapporto insano tra il proprio Io e l’Altro. Questo terapeuta bizzarro e poco professionale sostiene di ispirarsi alle “Conferenze sull’igiene” di un certo professor Blentner, ma è un falso colossale. L’idea è che ognuno di noi sia come una membrana che può, se e quando vuole, aprirsi all’Altro e farlo entrare dentro di sé, ma solo se è libero ed autonomo. Altrimenti resterà impenetrabile e potrà al massimo essere sporcato da un amore morboso e possessivo . Di questo tipo è il sentimento di Rick per la protagonista, questa è la chiave di lettura necessaria per comprendere Norman Bombardini, che dopo una delusione amorosa - non è riuscito a dimagrire e la moglie l’ha lasciato- ha deciso di ingrassare fino al punto di inglobare l’intero mondo esterno e di concedere un piccolo spazio solo a Lenore, di cui si è innamorato con grave rischio per lei e per tutti.
Sì, perché la realtà è sottoposta da Wallace ad un continuo processo di deformazione, che sfocia in una serie di situazioni surreali, invenzioni paradossali, esagerazioni verbali che, partendo da una ben riconoscibile realtà psicologica o sociale, generano fatti e personaggi iperbolici, che si stenta a comprendere se si rimane legati ad una prospettiva realistica. Wallace mescola piani narrativi e linguaggi, intreccia le traiettorie dei personaggi, legandoli gli uni agli altri in una girandola inesauribile di relazioni, di scambi, di incontri: ad esempio, Lang è il ragazzo che, insieme ad un compagno di studi, aveva fatto irruzione, nove anni prima, nella stanza del collegio dove Lenore si trovava in visita alla sorella Clarice. I personaggi, numerosissimi, al punto da richiedere uno sforzo supplementare di attenzione (si consiglia di approntare uno schemino per non confondersi) hanno tutti una individualità spiccata, un pregresso che da solo potrebbe fornire la trama ad un racconto “tradizionale”.
Questa affabulazione così esuberante trova conferma nelle numerose storie che interrompono il plot principale, ribadendo, se mai ce ne fosse bisogno, l’ascendenza postmoderna del romanzo di Wallace. Spiccano in questo senso i racconti, alcuni dei quali splendidi, che Rick riceve da aspiranti scrittori in cerca di pubblicazione, di cui affiderà in un secondo momento la lettura alla stessa Lenore (salvo inserire tra questi una propria creazione e vedersela bocciare dall’amante ignara). Inutile dire che in queste narrazioni si colgono legami con le vicende dei protagonisti e indizi di successivi svolgimenti, come il bellissimo racconto della donna che nascondeva una raganella nella piega del collo.
Lo stile di Wallace è di una varietà geniale: ora descrittivo in modo addirittura pignolo nel definire e squadrare ambienti, paesaggi, oggetti e tecnologie, ora lanciato in allusioni simboliche e metaforiche da decifrare, ora intessuto di periodi lunghissimi, interminabili, ricchi di germinazioni ed espansioni attraverso causali, avversative, relative, coordinate, consecutive, come avviene quando la voce narrante è quella di Rick, definito dal suo antagonista Lang “ampollosa cornacchia”. Brillano i dialoghi, frequenti ed estesi, con uso ripetuto dei puntini sospensivi o del trattino per le battute mancate e omesse.
Ma il romanzo non è solo questo. C’è alla base un continuo rimando alle tesi filosofiche di Wittgenstein, grande filosofo e logico austriaco del Novecento. Già il titolo ne è un segnale. Il fratello di Lenore, LaVache, detto l’Anticristo, altra formidabile invenzione, ricorda che una volta la bisnonna, wittgensteiniana di ferro, gli chiese quale fosse la parte più importante della scopa e, per dimostrare che non esisteva una risposta assoluta, ruppe un vetro davanti ai nipoti allibiti brandendone il manico: al bisogno, questo può essere più utile della spazzola.
Viene qui riportata la tesi delle “Ricerche filosofiche”, in cui il filosofo sostiene il carattere funzionale del linguaggio, fondato sul patto che i parlanti stabiliscono tra loro. Ogni elemento prende significato dal ruolo che svolge nell’ambito più generale del sistema linguistico (di qui “La scopa del sistema”). C’è dunque la mano dell'anziana intellettuale nei numerosi indizi filosofici di cui il romanzo è disseminato. La sua scomparsa è probabilmente una trovata necessaria per completare l’azione educativa che ha sempre svolto sulla nipote prediletta, liberandola, per quanto possibile, sia dalla propria ingombrante presenza sia dalla rete che il linguaggio avvolge intorno a lei (come a noi tutti) e permettendole così di uscire dalla sua solitudine, di trovare se stessa e la propria autonomia. A tale fine, ha ingaggiato il dottor Jay, come sembrerebbe rivelare (il condizionale è d'obbligo nella esegesi di questo testo) un breve, misterioso paragrafo del capitolo 14. Non a caso il raggiungimento di questo obiettivo passa per l’abbandono di Rick, che aveva tagliato su di lei un abito fatto di manie, complessi, nevrosi e cercava di ingabbiarla nelle proprie morbose costruzioni linguistiche e letterarie, per ovviare alla propria impotenza. Si può dunque parlare di “romanzo di formazione”, cioè di una storia attraversando la quale il personaggio si modifica e giunge alla sua maturazione.
Ma si può anche notare come il romanzo si risolva in un metaromanzo e che Lenore, manovrata dall’”autore” Rick, tenda a liberarsi dal proprio ruolo di personaggio e dalla prigione in cui vuole tenerla rinchiusa il suo artefice, passando, pirandellianamente, dalla “forma” alla “vita”. Si tratta di ipotesi che hanno tutte agganci con questo o quel punto del racconto, ma di cui non si può essere sicuri. L’unica certezza è che il lettore è chiamato costantemente ad uno sforzo interpretativo e che questo richiede fatica e applicazione. Ma ne vale la pena.

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Consigliato a chi ha letto...
Ovviamente tutta l'opera di David Foster Wallace, ma la lettura di questo romanzo dovrebbe precedere "Infinite Jest". Può aiutare qualche sintesi ben fatta del "Tractatus" e delle "Ricerche filosofiche" di Wittgenstein. Può anche giovare anche una ripetizione del pensiero pirandelliano, che qui ho citato. Sarebbe interessante un confronto con altri autori postmoderni.
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    16 Aprile, 2020
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CONCERTO PER DUE SOLISTE E CORO

Contiene qualche anticipazione della trama

“Stefano le disse freddo: calmati. Lila si girò di scatto: calmarsi dopo che lui aveva gettato la colpa su suo padre e suo fratello, calmarsi quando tutt’e tre l’avevano trattata come una pezza per lavare il pavimento, come una mappina? Non mi voglio calmare, gridò, strunz, riportami subito a casa mia, quello che hai detto adesso lo devi ripetere davanti a quegli altri due uomini di merda. E solo quando pronunciò quell’espressione in dialetto, “uommen’e mmerd”, si accorse di aver spezzato la barriera dei toni composti di suo marito”.
Due elementi emergono da questo frammento del romanzo, situato nel pieno di uno dei frequenti litigi che porteranno i due a dividersi: i rapidi trapassi dal discorso indiretto all’indiretto libero fino al discorso diretto, senza marca di punteggiatura o con minimi indicatori a segnalarlo, e l’uso di un italiano parlato, nel quale è sempre presente, come già avveniva in Verga con il catanese, il fantasma del dialetto napoletano, anche qui un “dialetto trascendentale”, con i suoi ritmi, con i suoi giri sintattici, con il suo lessico, talora trascritto nella lingua nazionale, talora esplicitamente citato: l’espressione “uomini di merda” viene tradotto dalla stessa voce narrante, gli epiteti “strunz” e “mappina” vengono inseriti senza filtro alcuno. La Ferrante ha rinunciato all’uso pieno e continuativo del dialetto (che caratterizza invece gli splendidi dialoghi della serie televisiva, costituendone il principale punto di forza), ma vuole costantemente ricordarci che i suoi personaggi si esprimono in napoletano e che nel napoletano risiede la cifra più autentica dei loro sentimenti, delle loro violenze, rabbie, gelosie, sopraffazioni, debolezze, cedimenti obbligati, reazioni. Ecco un altro esempio, tra i tanti di cui l’opera è costellata, relativo alla inaspettata visita di Lila al bar dei Solara, per i quali nutre da sempre un’avversione profonda, ma ai quali vuole chiedere un favore per la sua amica: “Gli scambi verbali che seguirono furono tutti in dialetto, quasi che la tensione impedisse di darsi i filtri faticosi della pronuncia, del lessico, della sintassi italiana”. L’autrice ci avverte ancora una volta che le parole riportate, in realtà sono state pronunciate in dialetto, che anche lei ha utilizzato in fondo dei filtri per tradurle, ma soprattutto che i personaggi della sua creazione possono sì utilizzare l’italiano (siamo nella seconda metà degli anni sessanta, in piena modernizzazione), ma che la verità dei loro istinti, la profondità e il cuore del loro sentire, battono ben al di qua di ogni resa “faticosa” nell’idioma nazionale.
Diverso il caso della voce narrante quando il tempo narrativo rallenta ed Elena riflette su sé stessa, sull'amica, sugli altri, sulle cose che pensano e dicono: lo stile si fa allora più letterario, si arricchisce di accorgimenti retorici, tende talvolta al registro lirico, si avvale di una sintassi più complessa. E' un po' come se nei Malavoglia si alternassero il Verga della svolta linguistica, delle “parole che quagghiano”, e il narratore colto preverista di Eva o Tigre reale.
E’ dunque nei dialoghi, comunque resi, che consiste il segreto di questo impareggiabile affresco antropologico, nel quale si manifestano i meccanismi primordiali della lotta per il potere, il pregiudizio sessista e maschilista che vi è connesso, il ruolo subordinato della donna e le sue diverse reazioni dell’accettazione, dell’introiezione del pregiudizio maschilista (presente in Ada, Pinuccia e nelle altre donne del “coro”), dell’insubordinazione. Come ‘Ntoni nei Malavoglia, qui Lila e Lenù rappresentano l’infrazione alle regole comportamentali della tribù, un doppio che si articola in due diversi modelli di vita: Lila vive all’interno di questo mondo, ma lo corrode come il tarlo nel legno, è la mina vagante pronta continuamente a farsi e a farlo esplodere, mandandolo in frantumi quando i maschi con cui interagisce offendono la sua dignità, il bisogno di rispetto, la vana pretesa di parità e di eguaglianza. Lenù invece ha scelto lo studio, la cultura, i libri, la carriera intellettuale per uscire da questo milieu e in qualche misura rinnegarlo. Ma Lila è sempre divorata dal rimpianto per non aver saputo o potuto operare la stessa scelta, invidia l’amica per esserci riuscita, talvolta tenta di emularla, nutre un irresistibile desiderio di crescita culturale, intesse una relazione, quella con Nino Sarratore, della quale la voglia di imparare e di stabilire un dialogo culturale è parte integrante, ma poi, frustrata nel suo sforzo, elimina fin le tracce della sua predisposizione allo studio e alla creazione artistica, dando alle fiamme il piccolo romanzo che aveva scritto da bambina o mostrando indifferenza e disprezzo per la maestra Oliviero, che per prima ne aveva intuito le doti. Lenù d’altro canto è attratta continuamente dal ribellismo di Lila, dalle sue potenzialità intellettuali, dalla sua stessa dimensione istintuale e disinibita, cui non ha mai saputo pienamente attingere e che ella sospetta aver orientatato verso l’amica-rivale la scelta di Nino (di qui il cedimento animalesco a Donato Sarratore). Un gioco di rispecchiamenti che dà vita al duplice sistema dei personaggi su cui il romanzo si fonda: Lenù vs Lila; Lenù/Lila vs il coro dei personaggi, l’ambiente in cui sono nate, i familiari, i parenti, gli amici, gli abitanti del quartiere Gianturco.
La Ferrante ha scritto un romanzo sociale che, come tale, si inserisce nella tradizione naturalistica e realistica, studiando come in vitro il personaggio in relazione all’ambiente, seguendolo nel suo crescere e maturare, il che l’accosta al grande romanzo di formazione. E fa riflettere come, partite dalla medesima condizione, dal medesimo "habitat", le due protagoniste descrivano parabole di vita sempre più divergenti. Ma L’amica geniale, e questa seconda parte della tetralogia in particolare, sono anche un romanzo psicologico, il cui punto di partenza sono sempre i modelli comportamentali e antropologici dell’ambiente circostante, con i quali le due protagoniste interagiscono. Una sintesi felice di filoni diversi, che spiega forse la grandezza dell’opera e le ragioni del suo straordinario successo.
P.S. Poiché non riesco a correggere l'errore, il romanzo consigliato non è ovviamente L'amica fedele, ma L'amica geniale.

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Il primo romanzo della tetralogia L'amica fedele; Eva e I Malavoglia di Verga.
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Economia e finanza
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    31 Gennaio, 2020
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LA VERITÀ' FA MALE, MA ANCHE LE BUFALE

Un economista che cita un cantante: e già questa è una notizia. L'economista è Carlo Cottarelli, noto per aver presieduto la commissione per la revisione della spesa e per essere stato presidente del consiglio in pectore prima dell'accordo tra lega e 5 stelle. Indimenticabile il suo trolley in entrata e in uscita dal Quirinale e l’umile mitezza con cui passò la mano. Il cantante è Francesco Gabbani, con la sua "Pachidermi e pappagalli". Ma chi sono i pachidermi, chi i pappagalli? Sono rispettivamente coloro che conservano memoria storica e quelli che invece ripetono acriticamente slogan, frasi fatte, luoghi comuni e bufale. Solo che in questo saggio le fake news non sono il falso allunaggio degli americani, i marziani ritenuti i veri artefici delle piramidi o Elvis e Marilyn che, ancora vivi e vegeti, si sarebbero aperti un bar alle Hawaii, bensì la sfera economica. Sono perciò di minor impatto emotivo, ma certo di maggiore incidenza e interesse reale.
Ed eccoli i draghi di certo immaginario economico, affrontati con la logica stringente dei numeri, dei dati statistici e dei fatti, che, come si sa, “hanno la testa dura” ed ai quali è per questo difficile sottrarsi. Il cambio lira-euro fissato in una misura a noi sfavorevole? I "reprobi" che l’avrebbero contrattato e consentito? Il mandato troppo ristretto e inefficace alla Bce? L’Europa prona ai voleri di Francia e Germania? Le banche salvate per fare un favore ai banchieri da parte di una classe politica corrotta? I danni procurati dall'austerità e segnatamente dal governo Monti? Tutto questo armamentario di convinzioni che girano in rete, che sono la sostanza di tanti post, che pullulano nei talk politici, viene pezzo dopo pezzo smontato, salvo riconoscere, con onestà intellettuale, cosa ci sia di vero in queste “balle” e, ad esempio, quale fondamento reale abbia il malcontento nei confronti dell’Europa, cosa ci sia da cambiare per riavvicinarla alle aspirazioni e ai bisogni dei popoli che vi appartengono.
Cottarelli riconosce la parzialità manifestata dall'Unione nei confronti di Francia e Germania, allorquando nel 2003 violarono il tetto del 3% di deficit senza essere sanzionate; l’eccessivo avanzo commerciale della Germania; la scarsa volontà dei paesi membri di far prevalere l’interesse comune su quello nazionale; la conseguente debolezza dell’Europa nel mondo globalizzato, dominato da Usa e Cina; le limitate dimensioni del bilancio europeo; la mancanza di un vero sentimento europeo, che sottende tutto il resto.
Ma anche quando sembra tener conto non delle bufale, ma delle argomentazioni vere che le alimentano, l’autore insiste su quello che per lui è il vero nodo della questione, che non è l’Europa, ma il modo in cui noi italiani ci stiamo dentro e, segnatamente, la mancata soluzione dei nostri problemi strutturali. Primo fra tutti, il macigno che grava su di noi: quel debito pubblico che continua a crescere senza segnali di una inversione di tendenza. Ma non manca il riferimento agli altri gravi handicap del nostro paese, quali il peso eccessivo della burocrazia, i tempi troppo dilatati della giustizia civile che scoraggiano gli imprenditori, le tasse troppo elevate, la conseguente scarsa competitività delle nostre imprese.
C’è, nella ormai nutrita produzione saggistica di Cottarelli, l’eco delle “prediche inutili” di Luigi Einaudi o delle critiche di Ugo La Malfa alle cicale del suo tempo politico, antenate di quelle, ben più rumorose, che sarebbero subentrate in seguito. E, analogamente, si avverte il fastidio per l’approccio superficiale e la mancanza di competenze e di conoscenze con cui molti affrontano i temi economici. Un’analisi dei fatti, quella contenuta nel saggio, che contesta ogni cedimento demagogico e va dritto al cuore della verità, anche quando può apparire –ed è- sgradevole. Per questo, oltre a Gabbani, nel novero delle citazioni cottarelliane si ritaglia un suo spazio, nell'epigrafe all'introduzione, anche Caterina Caselli: “La verità mi fa male, lo so. La verità mi fa male, lo sai”.
Dopo “La lista della spesa”, legato all'esperienza della spending review, “Il macigno”, dedicato al debito pubblico, “I sette peccati dell’economia italiana”, volto ad individuare i principali freni alla produttività e allo sviluppo del nostro paese, “Pachidermi e pappagalli” sembra chiudere il cerchio e consegnare all'opinione pubblica (e all'elettorato) una linea di frontiera netta e precisa tra sovranismo populistico e riformismo lib-dem, tra antieuropeismo ed europeismo convinto, anche se non privo di spunti critici e mai dogmatico o saccente.
Questo è alla radice della chiarezza espositiva del testo. Cottarelli vuole farsi capire e raggiungere un numero elevato di destinatari, anche se a volte la specificità dei temi affrontati lo costringe ad un linguaggio più tecnico, che rischia di creare qualche problema ai meno agguerriti e attrezzati tra i lettori.
Ma nel complesso la lettura di questa sua ultima fatica è scorrevole, le difficoltà mai insormontabili. Sono utili a tal fine le osservazioni ironiche, il tono cordiale dell’esposizione, l’atteggiamento mai pedante e…”pachidermico”. Così, ad esempio, tra dati, numeri e problemi, fa capolino la figura di Pinocchio, dedicatario del saggio, che non diceva meno bugie degli odierni propalatori di bufale, ma almeno, a sua scusante, "era fatto di legno".
E tocca ancora a Gabbani fornire un’interpretazione più generale dello stato di malessere che sembra vivere la realtà dei fatti in questo tempo di post-verità:
“E a questa nostra nuova religione
Un giorno proveremo a dargli un nome
A questo immenso canto a luci spente
Dove tutto è eterno e dura poco più di niente”.
I diritti d'autore del libro verranno devoluti alla Fondazione Telethon. Anche questo andava segnalato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Carlo Cottarelli, La lista della spesa, Feltrinelli
" " Il macigno, Feltrinelli
" " I sette peccati capitali dell'economia italiana, Feltrinelli
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Romanzi storici
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    25 Luglio, 2019
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TRA MACHIAVELLI E ROSSELLINI

La prima caratteristica che colpisce del romanzo è la dismisura tra tempo del discorso, lungo, avvolgente, fino a generare nel lettore una sensazione di prolissità e il dubbio di una mancanza di sintesi, e tempo della storia, che per molte pagine si riduce ad un unico istante: quello in cui il tenente colonnello Tejero, il 23 febbraio del 1981, irrompe nel parlamento spagnolo, in attesa di una sollevazione dell’esercito che non ci sarà. Ma al centro di quella istantanea, o, più precisamente, di quella serie di istantanee, ricavate dalla ripresa della televisione spagnola, sono tre personaggi, Adolfo Suarez, Santiago Carrillo e Gutierrez Mellado i quali, mentre i loro colleghi si nascondono dietro gli scranni, restano seduti al loro posto. Questa immagine, in particolare, riveste agli occhi di Cercas un valore simbolico, che va oltre l’episodio contingente. La fermezza con cui i tre rispondono alle grida e ai colpi di pistola di Tejero, appare come la naturale conseguenza, l’epilogo obbligato delle loro esistenze, l’atto che le suggella e le fissa per sempre.
A partire da quel gesto, si delineano le tre biografie che compongono una parte rilevante del romanzo e ne fanno scorrere all’indietro il tempo narrativo. Viene raccontata la vicenda del leader comunista, che, dopo la partecipazione alla guerra civile tra le fila del Pce, gradualmente, già negli anni dell’esilio, si allontana dal marxismo-leninismo, abiura alla dittatura del proletariato, aderisce al cosiddetto eurocomunismo e sostanzialmente asseconda la transizione democratica portata avanti da Suarez, nonostante le critiche dei (presunti) rivoluzionari duri e puri, incapaci di comprendere la lezione della storia e di accettare la necessità del compromesso. Un insegnamento che Cercas mostra di aver recepito anche in base ad un realismo di ascendenza machiavelliana, che sembra sotteso al suo acuto e lucido argomentare politico, ad una valutazione pragmatica delle forze in gioco, ad un atteggiamento sprezzante nei confronti dei “profeti disarmati”, che il corso della storia destina inevitabilmente al fallimento, procurando esiti opposti ai loro ideali senza gambe.
Più concentrata, ma forse più drammatica, la parabola del generale Gutierrez Mellado, che quella transizione sostiene da ufficiale dell’esercito, subendo ripetute umiliazioni ad opera dei militari, fino alla mortificante aggressione personale di cui è vittima in occasione dei funerali del generale Ortin, ucciso dai terroristi dell’Eta, ulteriore spina nel fianco della Spagna del tempo. Soldato puro, egli è costretto dal suo sincero lealismo a subire il disprezzo di quel ceto militare a cui era da sempre appartenuto, sfidando l’accusa di aver disonorato la divisa e tradito l’esercito. In una scena successiva, lo si vedrà anche ordinare ai golpisti, nella sua qualità di ministro della difesa, di gettare le armi e subire l’aggressione degli stessi. In un'altra, proteggere col suo corpo lo stesso Suarez.
Ma è quest’ultimo il vero protagonista del romanzo. Sostenitore di Franco, circondato dallo scetticismo o dall’ aperta ostilità sia della destra autoritaria che dei progressisti, scelto dal re proprio perché figura di secondo piano, prende in mano le redini del paese, si rivela uno stratega dal pensiero lungo, legalizza e inserisce nel gioco democratico il partito comunista di Carrillo, favorisce lo sviluppo in senso costituzionale della monarchia spagnola, si sforza di imporre all’esercito, pur tra mille equilibrismi tattici, l’opzione legalitaria e costituzionale, e di smorzarne, lui falangista, ogni residua velleità di restaurazione autoritaria, fino a modificarne gli organici in modo da emarginare i potenziali golpisti (decisione che si rivelerà determinante per il fallimento del golpe). Mosse difficili, che l’opinione pubblica stenta a fare proprie, da destra come da sinistra, dando vita a quella “placenta del golpe” che Cercas descrive in modo mirabile, tanto che la sua ricostruzione costituisce ormai una tappa obbligata della bibliografia sull’avvenimento. Un clima diffuso, un’attesa trasversale dell’evento salvifico, che sembra, in quel giorno di febbraio, mentre si vota per il nuovo governo Sotelo, incarnarsi nella figura di Tejero che dà l’assalto alle Cortes e ne umilia i rappresentanti.
Ma il gesto di fermezza di Suarez in qualche modo ne chiarisce il senso e la strategia dell’azione politica, insieme al definitivo, e non scontato, approdo alla democrazia. E qui si segnala per la sua intelligenza il capitolo intitolato “Viva l’Italia”, nel quale l’autore lo paragona al protagonista di un film minore di Rossellini: Il generale Della Rovere. Vi si narra la storia di Emanuele Bardone, un truffatore che specula sulle disgrazie dei detenuti politici in mano ai tedeschi, alle famiglie dei quali fa credere di poterne ottenere la liberazione attraverso il pagamento di denaro. Scoperto, è costretto dai tedeschi stessi a fingersi, appunto, il generale Della Rovere, un ufficiale badogliano, con l’incarico di scoprire nel carcere di San Vittore l’identità di un capo della resistenza. Ma qui Bardone si avvicinerà ai valori di cui sono portatori quegli uomini che dovrebbe tradire, li farà propri e verrà giustiziato al grido di “Viva l’Italia”. Allo stesso modo l’ex leader franchista, col suo dignitoso rifiuto di piegarsi ai golpisti, riscatterebbe, secondo Cercas, il suo opaco e discutibile passato.
In realtà il libro, oltre che essere l’anatomia di un istante (o di più istanti) è l’anatomia della figura stessa di Suarez, che la lente del romanziere e dello storico analizza alla ricerca di un giudizio che sfugge, che si modifica costantemente, che appare come incapace di definirsi. Esemplare,al riguardo, la disamina pignola ed inesauribile delle ragioni che spingono il leader a quel gesto di resistenza passiva ai golpisti, tra le quali pure non si escludono, accanto a significati e valori più alti, una certa dose di esibizionismo e un gusto della teatralità insito nel suo carattere. Ma di grande spessore, soprattutto, la ricostruzione dell’irresistibile ascesa del protagonista, capace di incunearsi tra le famiglie del franchismo, di accostarsi ai personaggi che il suo infallibile intuito gli fa individuare come vincenti, compreso lo stesso sovrano, che al culmine di quella incredibile scalata al potere, lo nomina presidente del consiglio. E infatti, lungo l’intero arco della narrazione, il giudizio su Suarez oscilla tra critiche anche pesanti mosse dall’autore o riprese dall’opinione corrente (“affamato di potere”, “fattorino del re” “arrivista del franchismo”, per citarne alcune), annotazioni non prive di una loro comicità (magistrale il racconto del futuro leader che cambia residenza per avvicinarsi di volta in volta alle persone che ha individuato come più utili alla sua scalata), ma anche un’ammirazione di fondo che si spinge fino a scomodare per lui le categorie del “politico puro” di Ortega e di attribuirgli le doti di “intuizione storica” teorizzate da Berlin. Virtù che gli consentono, al di là e forse attraverso i suoi tanti difetti, di realizzare la missione titanica di fornire alla Spagna un solido assetto democratico. Questa oscillazione di giudizio si ripete fino alle pagine conclusive, allorché, proiettando la sua vicenda privata sullo sfondo di quella storica, l’autore ricorda di aver chiesto una volta al padre, col quale aveva spesso litigato in proposito, il perché della sua simpatia per un uomo come Suarez. La risposta, semplice e fulminante, era stata di quelle che condensano, come in un lampo, un’intera epoca storica. “Perché era come noi…Era uno del popolo, aveva aderito alla Falange, all’Azione cattolica, non avrebbe fatto nulla a di male, lo capisci, no?”
Da qui si fa strada nel romanziere il sospetto di aver voluto, senza esserne cosciente, continuare con la sua opera il difficile dialogo con il padre, e fargli sapere, sia pure post mortem, che stavolta aveva capito, che non era più il giovane presuntuoso pronto sempre a contrastarlo, che insomma esisteva ormai un terreno comune su cui entrambi potevano convergere: ”che non avevo del tutto ragione e lui non si sbagliava del tutto, e che io non sono migliore di lui, né mai lo sarò”.
Una sorta di ricomposizione generazionale vissuta dalla Spagna che, dopo aver doppiato, col fallito golpe Tejero, l’acme della sua crisi politica, si ritrova più moderna, democratica, pienamente europea. La Spagna di Almodovar e della sua nuova letteratura, di cui proprio Cercas è esponente di punta, dei suoi giovani aperti alla dimensione continentale, di un monarca e di un popolo che da quel momento in poi, per una sorta di eterogenesi dei fini, virano decisamente verso il futuro e si liberano da ogni chiusura autoritaria e nazionalistica. E questo consacra “Anatomia di un istante” come romanzo fondante di una nazione risorta e di un rinnovato spirito collettivo.
Con questa sua nota del tutto peculiare, Cercas va a collocarsi, qui come in altri momenti della sua produzione, nel filone di quel romanzo che “ri-narra la storia del Novecento su una fortissima base documentale”, secondo la definizione del nostro Scurati, che in quella tendenza si inscrive col suo “M., il figlio del secolo”, mentre la saldatura tra riferimenti autobiografici e ricostruzione storica, dove i primi finiscono con l’illuminare la seconda, sembra accostarlo piuttosto a Carrère.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
I romanzi documentali europei.
Utile anche l'intervista di Gloria Ghioni ad Antonio Scurati del 12-9-2018 su Il Libraio.
La filmografia di Pedro Almodovar.
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Romanzi storici
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    25 Gennaio, 2019
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Il cappello di Mussolini

Un italiano “non privo di ingegno” centrò in pieno il problema del rapporto tra poesia e storia. Il poeta intuisce, secondo Manzoni, quello che c’è nel profondo dell’animo dei personaggi storici e realmente esistiti. In questo modo, egli “completa” la storia, indagando nel segreto delle passioni e delle motivazioni che ne spiegano l'agire, le decisioni, le scelte.
Ed in piena coerenza con tali premesse teoriche, il conte di Carmagnola, Desiderio, Adelchi, nelle tragedie, Ferrer o il cardinale Borromeo, nei Promessi sposi, vivono, pensano, agiscono, parlano in qualità di personaggi, dicono e fanno cose “verosimili”, che i documenti non riportano o accennano soltanto, ma che “sarebbero” potute accadere e che tocca al narratore immaginare e ricostruire. Così nutrito di storia e di una invenzione sempre calata nel contesto storico, il romanzo consegna ai lettori e agli studiosi un affresco ineguagliato del Seicento, dei suoi mali, delle sue storture, delle sue miserie come delle sue grandezze.
Tutto questo, per Manzoni, si riassume nell’atto specifico del “divinare”, che rende il romanziere diverso dallo storico puro e gli restituisce la sua peculiarità di artista, però non immerso e perduto nei cieli di una fantasia sterile e disancorata dalla realtà.
Perché tornare, parlando del romanzo di Scurati, su queste nozioni che sanno di scolastico e di stantio, ma sono invece ben attuali?
Ogni romanzo storico richiede, forse più di altre declinazioni di questo genere cardine del sistema letterario moderno, una riflessione dell’autore sul modo in cui intende svilupparlo. La bussola che guida Scurati, seguendo la traccia manzoniana, è la documentazione storica, entro i cui confini egli intende muoversi, basando il racconto sempre e comunque su fatti ed eventi reali. A riprova di questo, correda ogni capitolo con testi e documenti ufficiali: editoriali e articoli di cronaca politica, rapporti della pubblica sicurezza (memorabile il ritratto che l’ispettore generale Giovanni Gasti disegna di Mussolini nella primavera del ‘19), manifesti dei partiti, discorsi e scritti dello stesso capo del fascismo, per mostrare al lettore i supporti documentali della ricostruzione effettuata. La trasformazione di Mussolini, come dei suoi comprimari o degli avversari, in personaggio e quindi in creatura dotata di una propria vita artistica, trova per questo un limite chiaro ed esplicito nelle stesse premesse indicate dall’autore. Sarebbe un esercizio presuntuoso e sterile mettere in discussione la poetica di uno scrittore, ma, pur accettando il principio che si è dato, non sarebbe stato lecito, con la forza dell’intuizione, immergersi con maggiore determinazione nel “porto sepolto” del fascismo e dei suoi rappresentanti, vietato alla ricerca dello storico?
Scurati, che è, non dimentichiamolo mai, uno storico, non azzarda e non vuole azzardare, anche se ha dichiarato in un intervista apparsa su Il libraio nel settembre scorso, di aver già fatto grosse concessioni al romanzesco. Proprio in questa occasione cita, insieme ad altri, Carrère come esponente del romanzo storico contemporaneo, mostrando così di considerarlo, se non un modello, comunque un punto di riferimento. Eppure non lo vediamo interagire con le sue creature, entrare in un rapporto dialettico con esse, accompagnarle con ipotesi, dubbi, problematiche finanche personali e desunte dalla propria esperienza di vita: ciò che rende vitali e impareggiabili le riletture di Carrère, poniamo del mostro de L’avversario, di Limonov o di Paolo di Tarso e di Luca ne Il regno.
Il romanzo oscilla così tra la trattazione storica e la rielaborazione letteraria, propendendo in genere per la prima e limitando la libertà creativa ad una sapiente ricostruzione logica e cronologica, che aiuta a comprendere i fatti, rifrange in numerosi quadri la dinamica degli eventi, ne illumina brillantemente i rapporti di causa ed effetto, squarciando con un’opera di forte impegno il panorama asfittico e talora solipsistico della narrativa italiana. Il quadro è ampio e articolato e ne fanno parte figure femminili come le amanti del duce e, con esiti particolarmente felici, la Sarfatti; letterati come D’Annunzio, precursore sconfitto ed emarginato del duce, o Marinetti, il cui manifesto del futurismo anticipa e fornisce un supporto al bellicismo fascista; comprimari, collaboratori preziosi e decisivi come Cesare Rossi; meri esecutori violenti come Dumini, il sicario del delitto Matteotti, anch’egli ritratto in pagine tra le più efficaci, sintomatiche di un’implacabile discesa del paese verso gli inferi dell’arbitrio e della illegalità più assoluti.
Il racconto è percorso, infatti, dal filo rosso della violenza, dei meri e brutali rapporti di forza che fanno dei reduci e degli arditi, gli inevitabili vincitori di un conflitto nel quale diventano decisive la loro abitudine all’uso delle armi e la partecipazione alla prima guerra mondiale, tra la cecità e l’opportunismo imbelle della vecchia classe politica liberale, e l’incapacità dei socialisti di tradurre consenso politico e moti di piazza in una vera azione rivoluzionaria.
Si resta però con un senso di incompiutezza, col desiderio di un quid in più di passione, di coinvolgimento emotivo sia del lettore sia dello stesso autore negli eventi e nei personaggi narrati.
Poiché questo è solo il primo atto di un lavoro che proseguirà e percorrerà l’intero ventennio (per ora siamo giunti al delitto Matteotti e alla nascita della vera e propria dittatura) si desidererebbe da Scurati una scelta più coraggiosa, quella di far pulsare con maggiore energia il suo cuore di “poeta” nelle “sudate carte” dello storico, anche a costo di qualche soluzione meno ortodossa sul piano dell’interpretazione e di qualche cedimento sul fronte della scelta di fondo che si è dato. Che insomma lo storico lasci un po’ di spazio ad una fantasia più libera e più sfrontata, come lo stesso Manzoni, pur rigoroso nemico del romanzesco, fece, ad esempio, quando s’inventò il magistrale dialogo tra Ferrer e il vicario di provvigione, laddove, nel chiuso di una carrozza, tra due ali di folla tumultuante, avrebbe potuto ascoltarli solo l’anima di un poeta, non certo la prudenza dello storico.
Eppure questa attitudine è presente in Scurati, come rivela il ripetuto accenno, di marca quasi kunderiana, al fatto che Mussolini, subito dopo i suoi incontri amorosi, fosse irresistibilmente attratto dall'immagine del suo cappello: dettagli ricavati da una storia laterale e apparentemente minore, ma che hanno il potere di trasformare il personaggio da storico in letterario.
La recensione sarebbe finita, ma ci sono ancora due questioni da accennare. La prima riguarda la stroncatura di Galli della Loggia che, sulle colonne del Corriere della sera, ha ravvisato alcune inesattezze storiche ed alcuni anacronismi, a suo dire particolarmente gravi per uno storico mosso da una forte intento di oggettività e di fedeltà al vero. Gli errori ci sono, in gran parte Scurati nella sua replica li ha ammessi, ma non inficiano in alcun modo la ricostruzione degli anni dal ‘19 al ’24: il cuore del racconto, il senso stesso dell’operazione letteraria ne restano fondamentalmente immuni.
Per l’appassionato di narratologia, poi, non resta ben chiarito il confine tra il punto di vista del personaggio e quello del narratore: nonostante certe dichiarazioni programmatiche (“immergermi in una narrazione dall’interno della mentalità e dell’esperienza fascista è stato sicuramente uno sforzo immaginativo enorme”), la gran parte dei capitoli non sembrano raccontati dall’interno, cioè dal punto di vista dei fascisti, ma dalla voce esterna di uno storico che giudica i fatti secondo parametri che non sono lontani da quelli usualmente adoperati dalla storiografia sull’ argomento. Questo non vale ovviamente per i capitoli in cui parla direttamente Mussolini, e segnatamente il primo e l’ultimo. Non a caso, i più interessanti e densi di spunti: forse una strada da battere in futuro con maggiore determinazione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
M. di Antonio Scurati: il romanzo che ritocca la storia, Corriere.it, 13 ottobre 2018;
Scurati replica a Galli della Loggia: Raccontare è arte, non scienza esatta, Corriere.it, 17 ottobre 2018;
Intervista ad Antonio Scurati , di Gloria Ghioni, Il Libraio 12.09.2018;
Alessandro Manzoni, Promessi sposi;
Umberto Eco, Il nome della rosa;
Emmanuel Carrère, Il regno.
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Racconti di viaggio
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    02 Dicembre, 2018
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NAPOLI OLTRE LA NAPOLETANITA'

Lo sguardo di Macrì è quello di uno storico che non esita a dichiarare il suo amore per la città, alla quale approdò da giovane ricercatore per poi subirne, come tanti, il fascino: nella parte iniziale e in quella conclusiva, infatti, la autobiografia si innesta sulla narrazione storica, esemplificandola e arricchendola con notazioni personali.
Uno sguardo che mira a sfatare, attraverso una efficacissima sintesi, il cliché di una Napoli fuori dal tempo, fissa nei suoi stereotipi, e a sostituire il concetto astratto e fuorviante di “napoletanità ” con la graduale stratificazione storica da cui la città ha mutuato le sue specificità. E vale la pena sottolineare che alcuni interventi recenti, come quelli di Raffaele La Capria e di Antonio Polito, si muovano nella stessa direzione, fino a manifestare un fastidio per la categoria della “napoletanità”, che tende ad incasellare scrittori e giornalisti napoletani e a sottoporli ad una omologazione che cancella i tratti distintivi della loro personalità e i caratteri “universali” della loro opera.
Già l’esame delle “pietre”- i palazzi, i conventi, le strade che ciascuna epoca ha lasciato in eredità- fornisce utili indicazioni al riguardo. Il “padre tufo” delle mura greche di piazza Bellini o dell’antro della Sibilla, che si ripropone in epoche successive, segna un primo tratto identificativo dell’immagine urbana. Ancor più determinante il “marchio greco-romano”, con il suo intersecarsi di decumani e cardini sul modello greco, che impone, fin dalle origini, la persistenza degli spazi stretti e della vicinanza abitativa come costanti urbanistiche e, di riflesso, antropologiche. Su questa preesistenza va a collocarsi, senza sostanzialmente turbare l’antico impianto urbano, la schiera delle costruzioni angioine, mentre tra Cinque e Seicento, con l’avvento del vicereame spagnolo in particolare, si avvia quel disordine edilizio, quella “corale opera di sfruttamento e di infittimento del tessuto urbano” che condizionerà da allora tutta la storia partenopea, con forme, pur diverse nel tempo, di congestione urbana e di quello che oggi chiamiamo “traffico”. Si assiste così alla trasformazione di una metropoli spontanea e sregolata, costretta, per far fronte alla emergenza demografica, a svilupparsi in dimensione verticale, a convivere con l’abuso edilizio, tacitamente consentito, e con una più generale cultura della illegalità, destinata a protrarsi fino ai nostri giorni.
In questo corpo malato, ma vitale, il popolo non è affatto assente, ma anzi protagonista, sia pure contraddittorio e imprevedibile. Esso vive alternando, come il suo vulcano, fasi di silenzio e di torpore solo apparente, a bruschi e drammatici risvegli, che lo vedono ora protagonista attivo con la rivolta del 1647, la controrivoluzione antigiacobina del 1799, le Quattro giornate, ora soggetto passivo -ma per nulla inerte- in altri trapassi storici, come quello realizzatosi tra regime borbonico e stato unitario. E’ un popolo, quello napoletano, che sa trovare infatti, negli interstizi di una storia drammatica e di uno sviluppo economico inadeguato, modi e strumenti peculiari per sopravvivere, pur nella povertà di risorse, nella distanza incolmabile con le élites cittadine, nella carenza di senso civico e nella debolezza e/o assenza di classi dirigenti all’altezza. Una via d’uscita è, ad esempio, la “giostra”, come la definisce Macrì, cioè quella struttura economica che percorre la storia cittadina e ancora perdura ben oltre l’unità e la fine di Napoli capitale, resa ancor più necessaria dalla cessazione dell’assistenzialismo borbonico e dal venir meno dei vantaggi derivanti dall'avere una corte. Si tratta di quel piccolo, talora infimo commercio, attraverso il quale le poche risorse disponibili comunque girano, passano di mano in mano, si redistribuiscono. Ancora nell’Italia giolittiana e prefascista Nitti avrà modo di notare che “ i napoletani vivono sui napoletani”.
In questo grande mercato che si protrae attraverso epoche diverse, tutto può essere oggetto di scambio e lo stesso credito si parcellizza in microcredito, scivolando talora nell’usura, e facendo dei napoletani un popolo di “tutti debitori”, dove il padrone di casa dilaziona l’affitto agli inquilini e il bottegaio vende la sua merce tenendo in sospeso il conto. Situazioni destinate a diventare “topoi” della commedia o della farsa napoletana, dalla visita del proprietario in Miseria e nobiltà, al quaderno sul quale la coppia di pizzaioli de L’oro di Napoli annota le pizze prese a credito dagli abitanti del quartiere ("qua si mangia e nun se paga"...): scene di comune “napoletanità”, arte minuta di arrangiarsi, economia del vicolo, realistica misura delle risorse disponibili e solidarietà tra tutti coloro che sono attaccati a questo “scoglio” che è la città. Si tratta di soluzioni estemporanee e a loro modo creative, che si esasperano nelle fasi di crisi più profonde, come la caduta dei Borboni o il secondo dopoguerra, disegnato splendidamente da Macrì con i suoi tratti drammatici, infernali, ma sempre vitali in virtù di uno stile che, senza sacrificare nulla alla oggettività del racconto, non nasconde sentimenti di umana condivisione e sa distendersi in pagine di godibile intensità. L’autore ha il merito di aver ricondotto l’oleografia e il colore partenopei ad una radice socialmente identificabile e storicamente interpretata, restituendoli al grande mare della storia, e cogliendo quel delicato equilibrio tra persistenza e trasformazioni, continuità e innovazione, tradizione e modernità, su cui la città tuttora si regge.
Un intero e illuminante paragrafo viene dedicato al “microcosmo” della fortuna: le carte, i dadi, soprattutto il lotto che, importato nel 1692, finisce col divenire parte non solo della vita sociale e dell’immaginario collettivo, (una commedia per tutte: “Non ti pago” di De Filippo), ma anche della stessa economia cittadina, determinando la perdita di grosse fortune, ma anche riflettendo le stesse pratiche creditorie presenti in altri settori del commercio, come la puntata minima legale divisa in carature tra più giocatori o le puntate a credito, saldate solo in caso di vincita. Non mancano cenni al mercato sommerso, che sfugge, in parte volutamente, al controllo legale e fiscale, o riferimenti alla mediazione a pagamento effettuata tra gli uffici dello stato e la gente, attraverso la quale il diritto si trasforma in favore personale, il cittadino in suddito e sottoposto, in un quadro di corruzione e di latitanza di regole e leggi.
In questa giostra si incunea la camorra che, prelevando denaro da qualsiasi transazione, riesce ad estrarre, alle sue origini, “l’oro dai pidocchi”.
Con le dovute prese di distanze, Macrì non può evitare di notare come la criminalità organizzata, dai magliari e contrabbandieri alla camorra moderna, abbia costruito reti economiche e finanziarie che oggi si direbbero “glocal”, attraverso le quali la merce e le ricchezze navigano tra la città e alcuni suoi quartieri da una parte, e la mafia siciliana, o la 'ndrangheta, o la criminalità marsigliese dall’altra. Lo storico inserisce queste descrizioni e queste osservazioni illuminanti nel capitolo sulle intelligenze della città, sottolineando come lo stesso versante criminale, in forme ovviamente inaccettabili, sia capace di precorrere alcune caratteristiche della modernità, fondendo la dimensione strettamente locale con quella globale e multinazionale: “Sia pure in versione diabolica, torna l’immagine di una città tenacemente concentrata su se stessa e altrettanto tenacemente attratta dal mondo”.
Ma anche se ci si sposta sul versante politico più strettamente contemporaneo, la città sembra sempre ben radicata, sia pure a suo modo, nella grande storia e nelle trasformazioni epocali e di “lunga durata”, fino ad anticipare addirittura i tempi.
Illuminante al riguardo il capitolo sui “sovrani repubblicani”, i sindaci della città che sembrano rinnovare, nelle forme della democrazia locale, l’attaccamento storico del popolo napoletano alla figura del “monarca”, dall’armatore Achille Lauro all’ex comunista Antonio Bassolino, fino all’attuale sindaco De Magistris, con il quale Napoli sembra precorrere la ventata populista destinata di lì a poco ad investire l’intero paese (ma anche la sindacatura del “comandante” precorreva forme di populismo molto vicine a quelle che oggi si vanno affermando).
Molto stimolante anche il capitolo sulla “identità debole”, quella miscela di insicurezza, refrattarietà all’autocoscienza delle proprie debolezze, inadeguatezze e insufficienze, che spinge spesso la città, con ricorrenze puntuali, a condannare ed avversare gli intellettuali che “ne parlano male”, da Matilde Serao a Curzio Malaparte, da Annamaria Ortese a Roberto Saviano. Un atteggiamento che salda popolo e settori consistenti delle classi dirigenti, in nome di un orgoglio di appartenenza, di un patriottismo malinteso, che impediscono un’analisi severa e inficiano o rallentano la possibilità di un riscatto. Ed ecco un’altra consolidata ricorrenza del carattere napoletano, che oscilla tra l’autocritica autodistruttiva e il disfattismo da una parte (che poi finisce per fornire argomenti per la costruzione di una città solo “immaginata” e tutta al negativo) e dall’altra il rifiuto delle voci critiche che si levano dal suo seno, ora alimentandone una visione surreale e deformante (“La pelle”), ma altre volte cogliendone i nodi cruciali dell’illegalità, cui consegue l’impossibilità di un sano sviluppo socioeconomico (“Gomorra”).
E’ singolare come appena un anno fa il saggio su Napoli di Paolo Frascani, con il suo “viaggio nella città reale”, si muovesse in una direzione non dissimile, pur privilegiando il fattore economico e il periodo storico contemporaneo, per sottolineare come Napoli possegga gli anticorpi con i quali essa sa reagire alla propria fragilità e alla inadeguatezza delle sue classi dirigenti. Anche lì un’analisi dalla quale emergeva una città bifronte, ma comunque capace di soluzioni innovative, in grado potenzialmente di proiettarla nel futuro, attraverso una sintesi tra tradizione e innovazione. In quel “potenzialmente” avrebbero un ruolo dominante la politica, le classi dirigenti, le élites culturali e le loro capacità di fare sistema e sfruttare nel modo migliore l’oro di Napoli. Il vero oro di Napoli.
Saggi dunque costruttivi, utili a coloro che ambiscono a guidare una realtà difficile e complessa, ai quali si dovrebbe richiedere una ricognizione culturale, economica e storica che sia Macrì che Frascani sarebbero in grado di fornire, consentendo loro di operare in base ad un progetto e ad una visione che invece tardano a manifestarsi.

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Paolo Frascani, Napoli, viaggio nella città reale, ed. Laterza
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Romanzi
 
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LE MACCHIE DI COLEMAN

Contiene alcune anticipazioni.

Anche questo romanzo si inscrive nel grande affresco della società americana disegnato dallo scrittore con la sua produzione.
“La macchia umana” ci proietta, in particolare, nei mesi dello scandalo sessuale che coinvolse il presidente Clinton. Roth lancia i suoi primi strali, intinti nel veleno di un’ironia feroce e dissacrante, contro “ […] l’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo- che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente alla sicurezza del paese- subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia”.
Non sfuggirà come l’autore, in questa sorta di introduzione, si sia riferito implicitamente agli altri due romanzi della cosiddetta “seconda trilogia”: “Pastorale americana”, che ha al centro il personaggio di una giovane terrorista, e “Ho sposato un comunista”, ambientato tra i furori ideologici del maccartismo.
Il tema dell’ipocrisia sociale investe l’intera trama di questo terzo elemento del trittico, congiungendo le vicende private con quelle pubbliche e politiche. Lo stesso accanimento morboso, lo stesso puritanesimo moralistico scagliato dall’America contro il proprio presidente, si replicherà infatti nell’ambiente accademico dell’Athena College nei confronti del professor Coleman Silk.
La prima tappa della via crucis percorsa da quest’ultimo nasce da un ridicolo equivoco linguistico: aver definito spooks” (“spettri”, ma anche “negracci”) due alunni sempre assenti alle sue lezioni, che in realtà non aveva mai visto, incorrendo così nell’infamante, specie in quel contesto , accusa di razzismo. L’umanista aveva adoperato il termine nella sua accezione alta, shakespeariana, mentre i suoi alunni, ma perfino i docenti, si erano malevolmente appigliati al suo impiego moderno e gergale.
Questa ipocrisia, matrice di un “politically correct” invadente e degenerato, trova in Delphine, un’insegnante del college di nazionalità francese, la sua esponente più determinata. E’ lei che avvia il processo persecutorio – subito fatto proprio dagli altri - che induce Coleman alle dimissioni. Ritiratosi per la rabbia di quell’accusa ingiusta, il vecchio accademico trova conforto in Faunia, un’inserviente di mezza età, analfabeta, che egli viene accusato di aver plagiato sfruttando la sua posizione sociale e il suo livello culturale superiore. Ed è ancora Delphine a dare inizio alla seconda persecuzione nei confronti del protagonista con una lettera anonima, il cui incipit minaccioso: “TUTTI SANNO”, viene rovesciato da Roth (o per meglio dire dall’io narrante, il solito Nathan Zuckerman, presente anche in altri romanzi) attraverso una requisitoria lucida quanto accorata contro coloro che credono di sapere e in realtà non sanno, quelli che ragionano in base a pregiudizi e convenzioni, incapaci di vedere in quel rapporto apparentemente anomalo, squilibrato, asimmetrico, (ma per chi? In base a quale criterio di giudizio?), la realizzazione da parte dei due del loro più vero e profondo desiderio.
“Tutti sanno…Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? […] Nessuno sa, professoressa Roux, “tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula cliché a risultare così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in modo non stereotipato, nessuno sa nulla”. Così riflette Zuckerman, in un discorso indiretto libero pronunciato mentre osserva la coppia seduta davanti a lui durante un concerto, persuaso dall’armonia che li unisce reciprocamente fin dai minimi gesti.
In questo modo Faunia (un nome “parlante”, indicativo di una purezza istintiva e ferina, lontana da qualsiasi sovrastruttura intellettualistica) va ad occupare, nel sistema dei personaggi, il polo opposto rispetto a Delphine.
Ma i grandi romanzi, si sa, sono fatti a strati, e quando credi di possedere la formula che li spiega, c’è sempre un sentiero che se ne allontana e la smentisce, o comunque l’arricchisce di nuove sfaccettature.
Coleman nasconde un segreto che ha rivelato solo in rare occasioni e ha celato perfino alla moglie e ai figli: è di colore. La pelle chiara gli ha consentito di barare e l’accusa di razzismo sembra aver toccato un antico nervo scoperto. Per fingersi bianco, ha preteso dalla famiglia e dalla madre che lo adorava di non vederlo, di non cercarlo più, e questa decisione pesa su di lui, dentro di lui, più di quanto egli non creda. L’ipocrisia sociale che gli ha attaccato sul volto la maschera del “razzista”, sembra aver colto nel segno, anche se era diretta verso un bersaglio errato. E’ questa, dunque, la vera “macchia” che Silk si porta dietro? No, perchè l’autore si diverte a confutare anche questa risposta che sembrava acquisita ed affida a Coleman stesso una diversa interpretazione: quella scelta fu, a suo dire, motivata da una volontà eroica di farsi da solo, di plasmare la propria vita libera da qualsiasi condizionamento (lungo questo asse, egli si pone agli antipodi rispetto al fratello Walter, attivista nella difesa dei neri d’America). Così quello che in un’ottica convenzionale sembrerebbe un rinnegamento, potrebbe anche essere stata una scelta di libertà, difficile, dolorosa e non esente da sensi di colpa e da contraddizioni.
E’ questo il secondo, grande tema del romanzo: quello dell’identità e, in termini pirandelliani, della dialettica essere-apparire, volto-maschera, forma-vita.
Coleman, la sua amante Faunia, Delphine, in qualche misura lo stesso Zuckerman, sono privi di una identità definita e sicura.
Le ambiguità di Zucherman sono intimamente connesse col suo ruolo di narratore, solo in parte onnisciente. Un esempio per tutti è la sua affermazione iniziale secondo la quale Coleman era ebreo, smentita in seguito dallo svolgersi della storia che, si presume, avrebbe dovuto conoscere fin dall’inizio e che sembra invece scoprire anche lui, a poco a poco, insieme al lettore, fino alla versione definitiva fornita da Ernestine, la sorella dell’ex accademico. Assistiamo dunque ad una sorta di limitazione dell’onniscienza che rende la figura dell’io narrante anch’essa cangiante come gli altri personaggi e come la stessa realtà narrata, attraverso la non coincidenza tra fabula e intreccio e le anacronie che ne conseguono.
Questa disgregazione dell’individuo trova conferma nella tormentata personalità di Delphine, mossa contro il protagonista da una passione nascosta e morbosa nei suoi confronti, che ad un tratto sorprendentemente le si rivela e che ci riporta alle sue opzioni culturali, al suo intellettualismo “europeo” che non le ha mai consentito di vivere la realtà e le esperienze in modo istintivo e diretto, “americano”, ponendola in continuo conflitto con i suoi desideri profondi (si veda la sua amarezza nel constatare di aver in ciò tradito la lezione del grande romanziere Kundera, conosciuto negli anni della sua formazione europea). E così il giudizio negativo sull’America bacchettona e ipocritamente puritana, sembra capovolgersi quando Roth confronta la cultura americana, diretta e istintiva, con quella europea, devitalizzata dal filtro dell’ideologia e dell’intellettualismo.
Di questo carattere inafferrabile e cangiante del personaggio di Roth è ulteriore esempio Les Farley, l’ex marito di Faunia, reduce della guerra in Vietnam. Ancora una volta la vicenda narrata si inquadra nella grande storia e le pagine in cui Roth-Zukermann racconta i traumi mentali subiti dai soldati sopravvissuti al conflitto sono di una nitida e lacerante drammaticità. Memorabile la scena del ristorante cinese in cui l’ex combattente viene condotto per metterlo a contatto con i “musi gialli” che odia, per “assuefarlo” alla loro vicinanza e aiutarlo così a controllare la rabbia omicida maturata in Vietnam nei loro confronti. Una rabbia che però non si spegne, una pulsione distruttiva che sembra irrefrenabile e che si incanala contro la ex moglie e Coleman stesso, provocandone, a detta di Zuckerman, la morte in un incidente automobilistico.
Siamo all’episodio finale, una pagina di altissima letteratura, dove romanzo sociale e thriller psicologico si fondono mirabilmente.
Imbattutosi nel pick-up di Les Farley lungo la carreggiata, Zuckerman scende dalla sua auto e si inoltra verso un lago ghiacciato, sulla riva del quale il presunto assassino sta pescando. E’ un dialogo tramato di sottintesi, sul filo di un nuovo possibile sbocco di violenza e di un rinnovarsi della furia omicida di Les Farley, che si mette invece a giocare come il gatto col topo, blandisce e minaccia, dice e non dice, con una losca pacatezza, una lucida follia, che sembra rovesciare l’immagine di un uomo fuori controllo che finora ci era stata trasmessa. Una tensione da grande autore drammatico che la solitudine del paesaggio boschivo non stempera, ma amplifica miracolosamente, suscitando echi forti ed emozioni profonde in chi legge.
E’ il genio poliedrico di Philip Roth che attraverso queste pagine ci parla e ci parlerà sempre della nostra inafferrabile psiche, delle ambivalenze sociali, culturali, psicologiche in cui siamo inesorabilmente immersi, macchiati dal peccato originale del nostro essere uomini.




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Pastorale americana
Ho sposato un comunista
Minimaetmoralia.it, Pianeta Roth, Luca Alvino, La macchia umana, 13 maggio 2013
Dalla mia tazza di tè.com, Philip Roth e l’Europa: il caso di Delphine Roux, Elena Grammann, 22 febbraio 2018
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    13 Luglio, 2018
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IL CRISTO SVELATO

Contiene anticipazioni sul finale

Costretto a lasciare la località montana dove accompagnava profughi oltre frontiera e giunto in un paese di mare, il protagonista viene ingaggiato da un sacerdote per rimuovere il panneggio che ricopre le nudità di un Cristo crocifisso (la “natura” del titolo), sin da quando, all’indomani della prima guerra mondiale, le autorità censurarono l’intento del suo artefice di rappresentare, attraverso una leggera erezione, il senso di una vitalità umana, di “un’ultima volontà del sangue” manifestata da un giovane corpo prima di morire. Comincia un processo di immedesimazione umana e, nel contempo, di indagine teologica e religiosa, una investigazione minuziosa della statua, che mette in gioco, oltre alla vista, il tatto del restauratore: ecco la scoperta degli addominali scolpiti, delle fasce muscolari ai lati della spina dorsale, che mostrano i segni di un esercizio fisico, i muscoli in torsione delle spalle, la grinza sotto l’ultima costola prodotta da un crampo, le lettere incise in cima alla croce (“urra”, cioè svegliati, un invito che lo scultore rivolge alla divinità perché risorga), le squame che ricoprono i piedi (il pesce, da “IKTUS”, “Iesus Christos teù uios soter”, Gesù Cristo figlio di Dio salvatore, simbolo della salvezza), le tre lettere ebraiche, alef, dalet e mem, che formano il nome di Adamo, cioè la specie umana, incise sulle testate dei chiodi. L’indagine procede con la consulenza del prete e di un rabbino, ma in realtà De Luca accenna ad una sorta di attraversamento da parte del protagonista delle tre grandi religioni monoteistiche. A guidarlo e aiutarlo nella sua fatica c’è infatti anche un operaio algerino musulmano, che gli procura l’alabastrino col quale procederà al restauro e gli inculca il dovere di far risplendere la bellezza e la grandezza del divino attraverso la sua opera, con parole stranamente assonanti con quelle del suo primo e unico amore. Mentre si compie il percorso della conoscenza, avviene anche quello di un graduale affinamento interiore, che ha tra i suoi oggetti uno dei temi più cari a De Luca: quello dei profughi, degli sradicati, degli immigrati e della loro problematica accoglienza. Così il protagonista scopre di non riuscire a provare per gli esseri umani la stessa pietà, la misericordia che ha avvertito di fronte alla sofferenza umana della statua, e si rammarica di non aver saputo comprendere il piccolo profugo che sulla banchina del porto gli aveva gridato: “Dusseldorf”, la città in cui avrebbe voluto raggiungere i suoi genitori. Ma è nelle parole pronunciate dall’operaio arabo il punto più toccante di questa ricerca artistica, umana e, in senso lato, politica. Le riportiamo per la loro bellezza e attualità. “Ho imparato da voi a essere nessuno. Tengo gli occhi bassi e questo mi fa scomparire, li alzo e appaio di nuovo. Sto zitto e sono accolto, parlo per chiedere un’informazione e sono respinto. Preferite nessuno. Va bene, facciamo che non esistiamo uno per l’altro. Tu no, ti siedi, racconti, domandi. Tu sei qualcuno e fai diventare qualcuno anche me.” (p.97).
E’ qui il senso religioso dell’autore, una religiosità orizzontale e senza trascendenza, non accolta in sé ma riconosciuta negli altri (“Personalmente escludo l’intervento divino dalla mia esperienza, non da quella degli altri”, p.9), una misericordia per l’uomo provata per la prima volta davanti ad una statua sentita e accudita come un essere umano, fino al gesto simbolico di riscaldarle i piedi di marmo. Un senso del sacro di cui si accorgono i suoi committenti, il prete e il vescovo, che lo preferiscono ai tanti che avevano mostrato un interesse solo venale e materiale per l’incarico. Siamo al finale. L’alter ego del restauratore, la voce del fratello morto prematuramente che si risveglia nei momenti cruciali, interviene dinanzi alla sua difficoltà a riattaccare il membro al corpo del Cristo e a completare l’opera. Gli spiega che in lui si è insinuato l'orgoglio, che gli sta venendo meno l’umiltà dovuta, recuperata la quale tutto si compirà e il corpo stesso sembrerà attrarre come una calamita il pezzo mancante: “Applico la resina alle due superfici di contatto. Avvicino la natura alla sua congiunzione. Non controllo il tremito delle mani, temo di attaccare male, di essere impreciso. Le due parti si attraggono da sole. Accosto. Unisco. Fine” (p.123).
C’è un altro filone nel racconto (la scrittura di De Luca è densissima): quello della donna che attira il protagonista in una fosca trama di gelosia e vendetta, mettendo a repentaglio la sua vita. Ma è come un corpo estraneo che stenta a fondersi col resto della storia. Deve essere un luogo ricorrente nell’immaginario e nella coscienza dell’autore. Un intreccio simile caratterizzava il legame tra lo “Smilzo” di Il giorno prima della felicità e la giovane Anna. Un topos latente che periodicamente riaffiora.



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Il giorno prima della felicità
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    14 Giugno, 2018
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CINQUE MOTIVI PER AMARE L'INFERNO E LA COMMEDIA

Questa è una recensione impossibile, perché è impossibile recensire la Divina Commedia. Ma indicare qualche motivo che ne consigli la lettura, questo forse si può tentare.
E allora, ecco la prima ragione del fascino che scaturisce dal poema. Immaginate che un poeta contemporaneo scriva un’opera nella quale siano introdotti in veste di personaggi tutti i principali protagonisti della storia, compresa quella contemporanea, e che tra questi siano compresi, giusto per fornire un termine di confronto, Mussolini, Hitler, Churchill, Stalin, De Gasperi, Andreotti, Craxi, senza trascurare l’avvicendarsi dei papi, da Pio XII e Giovanni XIII a Giovanni Paolo I e II. In un gioco fantaletterario di trasposizioni ed analogie, quale trattamento il poeta riserverebbe ai papi viventi? Di Benedetto XVI contesterebbe, come al dimissionario Celestino V, il ”gran rifiuto” o ne metterebbe piuttosto in luce le qualità teologiche da spirito sapiente? E di Francesco attaccherebbe le presunte deviazioni dottrinarie che gli attribuiscono frange conservatrici della Chiesa o esalterebbe il ritorno alla purezza evangelica, al pauperismo del suo primo e più grande esponente, ad una autentica carità cristiana? E Romero, con la sua lotta al fianco degli esclusi e col suo martirio, accenderebbe la passione del poeta per gli uomini attivi, impegnati, coerenti o ne susciterebbe la condanna teologica? In quale zona, forse appositamente ritagliata nel grande cono rovesciato dell’Inferno, giacerebbero dannati i sacerdoti macchiatisi di pedofilia? Accontentiamoci -è già tantissimo- di quello che abbiamo e ammiriamo: il coraggio, la spregiudicatezza con cui il suo spirito libero passa in rassegna e giudica (male), con grave rischio personale, i partiti di allora ed i loro leader, i guelfi e i ghibellini, i bianchi e i neri, i signori italiani, le guerre interne ed esterne dei comuni, o l’energia con cui vagheggia un imperatore che riporti pace e unità in un mondo diviso e dominato dal male e dalla corruzione, proponendolo come soluzione globale e transnazionale ad un mondo dominato dai conflitti, dagli egoismi di parte, dalla ricerca ossessiva del denaro e del potere fine a sé stesso. Certo, quella di Dante è la visione di un cristiano per il quale la storia è governata dalla provvidenza divina, che gli uomini possono però recepire o respingere, sposare o combattere, nella piena facoltà di una libera scelta che li può esaltare come esecutori del Bene o avvilire come portatori del Male. Di qui il senso di una terribile responsabilità, tra individuale e collettiva, che parla anche a noi e dovrebbe parlare soprattutto agli uomini di potere. Ecco dunque i reprobi, i regnanti ribelli, con i loro particolarismi, all’aquila imperiale, i papi corrotti, che hanno tradito il messaggio del vangelo, tra i quali spicca il grande avversario storico di Dante: Bonifacio VIII.
Ma papa Caetani era ancora vivo in quel 1300 in cui comincia il viaggio di Dante nell’oltretomba, anzi aveva indetto un giubileo per celebrare i fasti della chiesa sotto il suo pontificato. Il sommo poeta non si ferma dinanzi a tale ostacolo cronologico: la forza della sua invenzione rende possibile una condanna che non sarebbe ancora narrabile. Eccoci allora tra i papi simoniaci, dinanzi a Niccolò III che, sentendo i passi di Dante e della sua guida Virgilio, crede che si tratti proprio di Bonifacio VIII. Leggendo nel futuro, lo sa infatti destinato a subentrargli in quel trono rovesciato, un foro scavato nella roccia, in cui è confitto a testa in giù.
La capacità di invenzione: questo è il secondo motivo per invogliare alla lettura del poema. Si pensi alle pene delle anime infernali, alla bufera infernale che non si arresta mai e travolge incessantemente Paolo e Francesca, alla pioggia perpetua che cade sui golosi, ai suicidi come Pier delle Vigne trasformati in piante, al lago ghiacciato del Cocito, entro il quale si consuma l’orrenda vendetta del conte Ugolino sull’arcivescovo Ruggeri. Ma non sono da meno le visioni delle anime purganti o le fantasmagoriche immagini luminose del Paradiso: croci, scale, corone, fino alla candida rosa formata dalle anime dei beati.
In questo tripudio di luci, come negli orridi paesaggi dell’inferno o nelle tenui atmosfere del Purgatorio, pur al cospetto dell’Eterno, ogni anima conserva la sua impronta individuale, sintetizzata in quegli atti, quei momenti, quei gesti che ne fissarono l’essenza, il carattere e ne decretarono la condanna o la salvezza. Come se tutta la vita di un uomo, i suoi accidenti, i tanti episodi che la segnarono in vita, si riassumesse ora, dinanzi a Dio, in una sua cifra inconfondibile, per cui ciascuno fu sé stesso e fu unico. Un inno anche qui alla nostra responsabilità individuale, alla nostra libertà di imprimere alla nostra esistenza quella forma che si fisserà per sempre dopo la morte.
Era il terzo motivo per leggere la Commedia.
Il quarto è Dante stesso, o, meglio, il suo personaggio.
E’ il grande protagonista del poema, che attraverso di lui si configura come un grande viaggio, un itinerario dalla colpa alla salvezza, dal male al bene, dall’oscurità alla luce. Come Ulisse, come Enea, ma anche come sant’Agostino, che nelle Confessioni aveva tratteggiato il suo percorso di liberazione dal peccato e il suo approdo alla purificazione interiore ed alla salvezza. Uno schema ripreso dalla grande tradizione greca e latina e destinato a perpetuarsi nella letteratura di tutti i tempi, da quella contemporanea a Dante fino a tempi recenti (il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio, il Pinocchio di Collodi, l’Ulisse di Joyce, pur nel variare dei punti di partenza e di approdo dei diversi itinerari).
E siamo alla lingua, quinto e fondamentale fattore di attrazione del capolavoro. La più grande invenzione di Dante. Sulla base del latino, del fiorentino, degli altri dialetti del paese dove il sì suona, di quel poco di letteratura che si era già svolta (i poeti siciliani, i toscani, gli stilnovisti), in virtù di una cultura e di una mente formidabili, capaci di trasferire, ricalcare, creare parole e strutture sintattiche , nasce la lingua italiana. Ed è commovente scoprire come una lingua creata tanti secoli addietro conservi tuttora una freschezza ed una modernità tali da consentirne la comprensione anche all’odierno parlante italiano, con un corredo più o meno ampio di note esplicative.
Se si pensa che intorno a questa realizzazione prodigiosa si andrà, se non costituendo, certamente rafforzando, anche nei periodi più bui, l’idea stessa di Italia e di unità nazionale, apparirà non retorica, ma vera e pregnante l’opinione che vede nell’autore della Commedia un “padre della patria”. In questi tempi di scollamento e disgregazione, cadranno tra non molto i settecento anni dalla sua morte: un’occasione da non mancare per ribadire il senso profondo del nostro stare insieme e della nostra identità, che fu linguistica e culturale prima di essere, di conseguenza, politica e statuale.


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Virgilio, Eneide; Sant'Agostino, Confessioni
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    07 Giugno, 2018
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Armonia napoletana

Vittima di una querelle anagrafica tipicamente partenopea, la protagonista viene dichiarata alla nascita col nome di Luce, in ossimorico contrasto col suo cognome, Di Notte, come ad assegnarle una sorta di funzione salvifica e riparatrice. Nella notte di una Napoli abitata da camorristi, avvocati corrotti, compagni e mariti infedeli ed egoisti, percorsa da oscure vicende familiari, segreti ed omertà, Luce porta i suoi gesti risoluti, si difende con la sua grinta e il suo look da maschiaccio dalla violenza maschile, senza che questo infici la sua femminilità, come comprende bene il collega Manuel, dongiovanni superficiale ma non privo di fascino. Nei monologhi interiori della protagonista, spesso incentrati sulla memoria del passato e dell'infanzia, il parlato tende ad abbassare i toni del discorso quando si innalza verso i registri del lirico, del patetico o del sentenzioso. Ma il risultato stilisticamente più felice è quello dei dialoghi, impastati di lingua e dialetto, un dialetto moderno, attuale, colto sulla bocca dei suoi nuovi parlanti e lontano da ogni vagheggiamento letterario, magari imbastardito e contaminato, ma vero. Una segnalazione speciale merita il napoletano di Carmen, rabbia e passione, verità e stereotipi, un po’ radio libere e “abbracci circolari”, neomelodici e gruppi di mamme in chat, un po' espressione di una sincera e profonda maternità.
Tirocinante presso uno studio legale dove si vive di espedienti e di servili accomodamenti ai potenti e ai prepotenti, Luce entra appunto in contatto con Carmen, la moglie di un camorrista, e il figlio, cercando informazioni che depongano a sfavore della donna e consentano al padre di portarselo via. Ma ben presto imparerà a guardare al di là delle apparenze, si lascerà conquistare dall’intelligenza e dalla vivacità del piccolo Kevin, scoprirà i tratti umani di una madre (ma anche di un padre) capaci di allevare un figlio sensibile, buono, misurato, esemplare al di là di ogni aspettativa, contro ogni facile determinismo sociologico. Circola nel romanzo l’idea catartica di un amore che vince ogni cosa, anche i condizionamenti sociali ed etici più insani e negativi. E forse proprio qui, in questo approccio consolatorio a situazioni umane che le cronache ci hanno purtroppo abituato a considerare ben più devastanti e diseducative, sta il principale elemento di debolezza del romanzo. A partire da Kevin e Carmen, si costituirà un nucleo familiare anomalo, basato sulle scelte e non sull’appartenenza di sangue, del quale faranno parte anche il vecchio vicino don Vittorio, il nuovo amore di Luce, Thomas, che ha sostituito il “bastardo”, liquidato in una furiosa scena di vendetta femminile, fino a comprendere, in un rapporto rigenerato, anche il fratello e la madre. Ma perché le fratture del passato si ricompongano del tutto, occorrerà un disvelamento finale riguardante la figura del padre, che abbandonò anch’egli la famiglia e Luce quand’era piccola (ma la colpa dell’abbandono sarà anche in questo caso edulcorata dalla simpatia umana di questa inaffidabile figura paterna: Marone sembra tendere sempre ad un’armonia nella quale gli opposti si conciliano) .
Qui l’autore, con sapienti interruzioni e sospensioni, sa tenere desta l’attenzione del lettore, lasciando immaginare senza definire e chiarire, se non nelle pagine conclusive, le amare vicende familiari che hanno indurito, ma non irreversibilmente incattivito, la protagonista della storia.
C’è la Napoli del lavoro precario, della sottomissione forzata, dei compromessi morali necessari per sopravvivere e conservare un lavoro, ma il messaggio finale sembra essere di speranza. Da questa realtà si potrebbe e dovrebbe fuggire, ma forse non tutto è perduto. Perciò, “magari domani resto”, annuncia Luce, diversamente dalla rondine ferita e curata da Kevin, pronta a librarsi in volo e a dire addio per sempre alla famiglia che si era allargata fino a comprendere anche lei.

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"La tentazione di essere felici" di Lorenzo Marone.
Film "La tenerezza".
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Romanzi storici
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    25 Settembre, 2017
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Nella storia, oltre la storia

Nel film “Nostra Signora dei Turchi” Carmelo Bene immagina, sulla base di una leggenda, che uno dei teschi conservati nella cattedrale di Otranto e appartenuti ai martiri del 1480, si rivesta di carne e recuperi prodigiosamente i suoi occhi. La scena potrebbe suggerire che in quei resti sussistano vita e anima per guardare alle cose del mondo e che l’energia sprigionata dal loro dolore li renda ancora vitali: il condizionale è d’obbligo perché, a voler seguire le intenzioni dell’autore, tentare di dare un significato alla sua narrazione sarebbe non solo inutile, ma sbagliato. Più appropriato, allora, attingere ai Sepolcri e alla suggestione ispirata dal brano in cui Foscolo immagina che a coloro che costeggiavano l’Eubea apparissero ancora le scene della battaglia di Maratona, il balenare degli elmi, le spade cozzanti delle “larve guerriere”, quasi che il gesto eroico travalicasse il tempo e l’ardore del combattimento vincesse l’inerzia della materia e il nulla della morte.
Così, nel romanzo della Corti, i protagonisti di quella tragica vicenda sembrano riprendere vita, già nell’introduzione, laddove l’autrice, osservando i pescatori sul molo, immagina che abbiano solo dato il cambio, a metà del viaggio, ai protagonisti di ieri, e che, in questo passaggio di testimone, essi continuino ad esistere attraverso i loro epigoni: “Ma mettiamo di soggiornare a lungo nella vecchia Terra d’Otranto, di scendere al crepuscolo verso il molo del porto […] E’ suppergiù come aprire una finestra che dia in un luogo segreto e appartato. Le cose allora cambiano, ogni senso di favola si fa impossibile: sono ancora Loro che abbiamo davanti, gli stessi pescatori, salvo qualche dettaglio, qualche frastuono momentaneo attorno alla loro persona; gli stessi piccoli uomini dalla squisita capacità di comportarsi bene, nell’ora destinata”. E analogamente, nelle ultime parole del romanzo, Aloise De Marco, un ufficiale ritornato ad Otranto al seguito del duca Alfonso nella cittadina riconquistata, voltandosi a guardare il colle della Minerva, dove i martiri vennero sacrificati, si chiede: “Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?”. Le vie cittadine, le palle di pietra ancora presenti sulle soglie delle abitazioni, le mura entro le quali scoccò “l’ora di tutti” - l’occasione che la storia offrì e ancora offre di rivelarsi agli altri, ma soprattutto a se stessi nel proprio latente, insospettato valore- la cattedrale che ospita le reliquie, sembrano varcare le soglie del tempo e annullare ogni distanza da quegli eventi lontani.
Il romanzo si iscrive, ovviamente, nel genere storico e i fatti narrati trovano la loro cornice nelle aspirazioni di Maometto II al dominio nel Mediterraneo, nel suo interesse a indebolire il Regno di Napoli che lo contrastava, nel tacito favore che Venezia accordò al sultano, che con la sua politica di espansione colpiva uno stato rivale: calcoli di potere, rivalità piccole e spesso meschine che richiamano alla mente la critica storica di Machiavelli e Guicciardini e che ogni volta, puntualmente, dai palazzi dei potenti si riversavano (si riversano), col loro strascico di orrori, sulle popolazioni inermi. Molti personaggi del romanzo sono storici, da re Ferrante al figlio Alfonso, dal capitano Zurlo all’arcivescovo Pendinelli. I popolani sono frutto di una fantasia filtrata però dalla documentazione. Ma l’intento dell’autrice travalica i confini del genere, per sua stessa ammissione. Così la vicenda di Otranto diventa simbolo di ogni resistenza che si opponga ad una volontà efferata di dominio e alla prepotenza dei conquistatori, e la tragedia del popolo otrantino rispecchia la millenaria storia di sfruttamento, di sudditanza, di ingiustizia e diseguaglianze sociali delle popolazioni meridionali. “Se avevamo denari, restavamo cristiani e restavamo vivi. Non c’è bene per i poveri a questo mondo”, afferma Nachira, uno dei personaggi-narranti destinati al martirio, nel penultimo capitolo. Ma già l’epigrafe, tratta da “Canto General” di Neruda, preannunciava una precisa scelta di campo e richiamava il clima ideologico del secondo dopoguerra: “Voglio morire insieme ai poveri, che non ebbero tempo di studiarla, mentre li bastonavano quelli che hanno un cielo suddiviso e regolato”.
La struttura si articola in cinque voci diverse, che narrano la stessa vicenda, cogliendone momenti solo leggermente sfalsati, a parte l’ultimo, che è quello della riconquista, avvenuta tempo dopo. Si tratta di Colangelo, il pescatore che assurge a simbolo dello spirito di resistenza che emerge in modo semplice e quasi istintivo nei momenti più bui della storia tra le classi popolari; di Idrusa, la cui “bellezza selvaggia” rispecchia una embrionale forma di rivendicazione femminile che la rende diversa agli occhi degli altri e fa ricadere su di lei un giudizio morale negativo che ella ribalterà nel gesto finale con cui strapperà un bambino dalle mani di un soldato turco e ucciderà un “dellì” che tentava di stuprarla; di Nachira, cui viene delegata la narrazione delle ultime fasi, culminate col rifiuto di abiurare alla fede cattolica e col martirio sul colle della Minerva (e qui si vede come sostanzialmente la Corti abbia fatta propria, pur tra qualche riserva, la versione del martirio per fede, che la bibliografia più recente, con Vito Bianchi in prima linea, tende invece a smentire o a ridimensionare). Nel secondo capitolo la narrazione è affidata al capitano Zurlo, il personaggio meglio risolto, il tipico intellettuale meridionale che guarda alle cose del mondo e della storia con il distacco necessario di chi “ha capito il gioco”, ma non si sottrae per questo al compito che gli è stato affidato e vive anche lui, sia pure con una consapevolezza maggiore, “l’ora di tutti”. E’ proprio qui che la narrazione si fa più fluida e avvincente, le soluzioni espressive più convincenti, la dialettica tra i personaggi più serrata e rivelatrice dei diversi caratteri (si veda, in particolare, il contrasto tra il lucido realismo di Zurlo e l’idealismo dissennato ed adolescenziale del figlio Giovannello, o quello generoso ma goffo di Don Felice, uno dei pochi spagnoli a non scappare al manifestarsi della minaccia turca). Ma già il modo quasi casuale in cui l’aristocratico viene investito da Ferrante I d’Aragona del comando di Otranto, in tempi non ancora sospetti, alla fine di una messa in Santa Chiara cui assiste anche il re, l’atmosfera plumbea di quel rito e di quella presenza rivelano una vena robusta e richiamano certe atmosfere della grande letteratura meridionale, De Roberto in primo luogo, dove il dato storico trascolora in senso di decadenza e in presagio di morte: “Fu allora che feci una scoperta: non c’era in tutto il regno una faccia che avesse il potere di spandere intorno a sé tanto gelo quanto la faccia del re, nemmeno quella di un cadavere, la quale avrebbe avuto il vantaggio sulla faccia del re di ricordare la fragilità umana e la debolezza della vita. La faccia del re ricordava qualcosa di simile al fato, con tutto ciò che di agghiacciante comporta tale genere di correlazione”. La narrazione avviene “post mortem”, come nell’Antologia di Spoon River ed è una soluzione naturale, perché nessuno di questi personaggi se ne è veramente andato e dalle bacheche della cattedrale essi ci guardano con i loro occhi e ci dicono che siamo come loro, che siamo Loro. Qualche piccolo anacronismo può sorprendere, trattandosi di una grande filologa, ma non inficia minimamente la ricostruzione storica. Prima ancora di consigliare altri testi, si raccomanda una visita alla cittadina pugliese, con un atteggiamento non da turista in cerca di effimere emozioni- ce lo chiede l’autrice stessa- ma da lettore che vuole sentire, immedesimarsi, ascoltare, capire una vicenda che è ancora la nostra.

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Vito Bianchi, Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    11 Settembre, 2017
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Romanzo incompiuto di una nazione incompiuta

Maggiani fonda la sua ultima fatica letteraria sul mito della nazione, che non è lo stato e nemmeno il popolo, ma una comunità di uomini e donne che accettano di mettersi insieme e di stabilire un vincolo collettivo fatto di condivisione e di solidarietà, mettendo a disposizione degli altri impegno, competenze, sacrificio, lavoro. Per questa via, lo scrittore si immette nel solco di un filone letterario, e non solo, ben radicato nel comune sentire postunitario, quello che denuncia il tradimento delle speranze risorgimentali, e che da Carducci (“Oh non per questo dal fatal di Quarto/ Lido il naviglio de i mille salpò”) arriva, attraverso il Pirandello de “I vecchi e i giovani”, al “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Anche un medico dell’arsenale di La Spezia, Enrico Farina, prima di morire –racconta Maggiani- fa in tempo a spedire al Regio Parlamento una memoria sulle condizioni della classe lavoratrice, accompagnandola col medesimo grido di delusione per le speranze troncate: “Non è questa l’Italia ch’io sognava”. E la stessa frase pronuncia Garibaldi quando, in visita allo stesso Parlamento, vede i deputati in marsina e riconosce tra loro molti di quelli che qualche anno prima avevano combattuto con lui in camicia rossa. Le simpatie anarchiche dell’autore si collocano sulla medesima lunghezza d’onda e lo avvicinano al repubblicanesimo mazziniano, lo inducono a soffermarsi sullo scontro a distanza tra le due figure antitetiche di Mazzini e Cavour, parteggiando ovviamente per il primo, a studiare e trasmettere molteplici storie di mazziniani e garibaldini, a raccontare aneddoti poco noti su Garibaldi, a tessere l’apologia della Repubblica romana e della sua costituzione, basata sul principio che la sovranità non è del popolo, ma è nel popolo. In questa ottica, il luogo di massima concentrazione semantica del racconto è proprio l’arsenale di La Spezia, dove il nascente stato italiano riunisce i tecnici, i lavoratori, gli esperti dei più svariati ambiti per costruire la "Dandolo", la più grande corazzata della sua flotta militare. Qui ufficiali ex borbonici che venivano dall’accademia militare della Nunziatella, ingegneri, esponenti della tecnocrazia sabauda, artigiani qualificati ed abilissimi, marinai di straordinaria perizia, ma anche morti di fame degli Appennini, ergastolani, perfino rivoluzionari ricercati dalle polizie di tutta Europa e qui marcati stretto, ma tollerati, condivisero per anni il sogno di una grande costruzione comune, che stabilì tra loro un legame più potente di qualsiasi ordine costituito. Li ritroveremo tutti uniti nel festeggiare il varo della nave, ma anche nel fronteggiare la terribile epidemia di colera con la quale questa straordinaria esperienza comunitaria si esaurì nel segno di un ormai consolidato spirito di solidarietà. Quello che altri stati come la Francia con la rivoluzione e gli Stati uniti con la guerra di secessione riuscirono a compiere, da noi balenò solo a sprazzi, senza mai concretizzarsi, ora con la grande epopea della Repubblica romana, ora con la microstoria dell’arsenale spezzino. Fallimentare fu invece la fondazione dello stato unitario: del resto, come poteva costituirsi in nazione –si chiede l’autore- uno stato nel quale votava solo il due per cento della popolazione, su basi censitarie? E come poteva restare senza conseguenze la decisione del re di non aggregare all’esercito sabaudo, con pari dignità, le truppe garibaldine, che pure gli avevano portato l’inaspettato dono del Meridione? Certe assenze di generosità e di lungimiranza si pagano e pesano, nel tempo, sul destino di tutti.
Fonte primaria di documentazione è, per l’autore, il padre, combattente ad El Alamein, quindi partigiano e comunista. Un fondatore potenziale di nazioni, elettricista, innamorato della scuola, convinto della necessità di una buona istruzione, perfino, in segreto, poeta d’amore ispirato da una moglie anaffettiva, coniatore di quell’aforisma “Vivere di sogni è un’utopia” che il figlio ritrova tra le sue carte e sul cui reale significato si arrovella continuamente, facendone il filo rosso che lega tra loro le vicende dei suoi fondatori potenziali di nazioni. Un ritratto che si conclude con un’altra “morte del padre”, dopo quella raccontata da Saverio ne “Il coraggio del pettirosso”: lì, a causarla, era un ritorno di fiamma per la patria lontana, solo in apparenza dimenticata, ed il gesto inconsulto di una traversata a nuoto impossibile. Qui invece assistiamo ad un tenero tramonto, fatto di oblii, ma forse anche di un rapporto recuperato e intensificato tra padre e figlio, in una casa di cura, dove la malattia non sembra spegnere, ma rinsaldare i vincoli dell’umanità e della pietà filiale. E però, poi, che tristezza quel funerale lungo una strada vuota, nessuno degli amici e compagni a dargli l’estremo saluto e tutto che finisce in un terribile nulla. E’ che il mito della nazione, come tende inesorabilmente a dilatarsi al di là dai confini nazionali, oltre il senso stretto che la storiografia gli assegna, fino a identificarsi con una sorta di utopia anarchica, così è costantemente attraversato, nel romanzo, da una malinconia esistenziale che contrappone, alle speranze e agli entusiasmi, il senso di un vuoto ricorrente, più esistenziale che storico-politico. Un’altra “nemica della nazione” è, su un fronte diverso, Adorna, la madre schiva, determinata, implacabilmente chiusa nella sua dimensione familiare e verrebbe quasi da dire familistica. Ma questo non impedisce all’autore di raccontare di lei con verve affettuosa e divertito distacco, come quando la sua idea fissa che dietro ogni disgrazia ci sia sempre qualche donna (“Ghe de mezzo quarche d’una”) la porta a concepire assurdi sospetti sulla morte di Togliatti. La mano è felice anche quando tocca tutti gli altri componenti di quest’universo familiare contadino, premoderno, prestatale, nel quale non è assente, nei personaggi delle prozie, la componente magica studiata da Ernesto De Marino in altre aree geografiche: un caleidoscopio indimenticabile, all’interno del quale il colore più intenso e toccante è quello della nonna Anita, che esprime nel gesto di tenere chiuse a pugno le mani il dolore della malattia e la consapevolezza del declino e di non poter essere più, per il nipote e per tutti gli altri, il solito-solido rifugio di sempre.
Lo scrittore mostra infatti una straordinaria capacità di ritrarre personaggi, tenendosi miracolosamente in bilico tra controllo razionale e abbandono emotivo, lirismo e ironia: una nota davvero tutta sua, una cifra personale che ha nel linguaggio un adeguato corrispettivo formale, a cominciare dall’espressione dialettale, riportata frequentemente, ma non incorporata nel tessuto linguistico, salvo alcune scelte lessicali selezionate dal registro basso e colloquiale. Frequente, talora spiazzante, l’anacoluto, che trapassa, come avviene nei grandi scrittori, da anomalia sintattica a strumento espressivo. Ad esso si affianca spesso la struttura a ripresa, per cui una frase si appone alla precedente, riprendendone una parte, in genere quella conclusiva, e contribuendo così a dilatare il pathos narrativo. Il periodare, elegante e lessicalmente vario e preciso, tende al paratattico e si fa quasi concitato nei momenti di maggiore empatia, fino a ridursi talvolta ai soli elementi essenziali e ad assecondare la modalità di uno stile nominale, dietro il quale si coglie una propensione incessante a dialogare con le figure ritratte, indulgendo ai sentimenti più teneri della compassione e della pietà. Vicende e personaggi arrivano allo scrittore, in parte, dalla esperienza diretta, più spesso dalla testimonianza orale, fonte primaria della costruzione romanzesca, senza trascurare la documentazione storica, le carte, purché esse “cantino”, o meglio l’autore sappia farle cantare, riscattarle cioè dalla loro funzione meramente documentaria e vivificarle con le proprie emozioni (un difficile equilibrio tra ricostruzione romanzata con forte impronta soggettiva e fedeltà alle fonti, che ricorda Emmanuel Carrère).
Tra personaggi pubblici e politici da una parte e componenti del microcosmo familiare dall’altra, il romanzo ondeggia, privo e volutamente incapace sia di avere un centro sia di trovare una conclusione.
Già l’incipit ne era una spia: “Avevo in mente di scrivere il Romanzo della Nazione, questa era la mia ambizione, ma disgraziatamente lo scorso inverno è morto mio padre. Mio padre era la fonte principale di documentazione, il serbatoio dove erano conservate le spoglie della Nazione. Lo scrigno. E’ un’ambizione quella del Romanzo della Nazione che ho nutrito per un decennio […]. Ma di fronte alla morte anche il proposito più saldo vacilla. Sfido io”. Sembra dunque che non solo la nazione ma il romanzo stesso della nazione sia irrealizzabile.
Questo mancato compimento, questa insuperata impasse, trova il proprio omologo formale in un altro aspetto fondamentale della struttura e della scrittura stessa, che sono divaganti, continuamente attratte lontano dal centro, fino ad arrecare una qualche irritazione al lettore, il quale deve però ben presto rassegnarsi all’evidenza: questa forza centrifuga è l’anima stessa del libro e muove da un bisogno incoercibile di captare, raccogliere, ascoltare, documentarsi, riferire, raccontare. Storie proliferate da altre storie, piccoli dettagli che spostano continuamente il focus narrativo da un personaggio all’altro, da una vicenda all’altra, perfino abbozzi di altri romanzi rimasti in germe e mai compiuti. Piacere a tratti puro di una sempre coinvolgente affabulazione, che si ripete fino alla fine, lasciando nel lettore la tipica sensazione di una struttura aperta e la convinzione che essa si possa dilatare all’infinito: ecco dipanarsi l’una dietro l’altra, l’una nell’altra (ma è solo un esempio) le storie di don Giovanni Verità, che salva Garibaldi prendendoselo in spalla e resta ad “assisterlo” in punto di morte, lui odiatore di preti, col suo ritratto, nella casa di Caprera; del vecchio maestro di scuola repubblicano che si vede recapitare, in mezzo alle montagne in cui vive isolato dal mondo, ogni mattina, il “Resto del Carlino” da un misterioso aviatore; del professor Vitaliano, collezionista di tutti i bollettini della sezione internazionale del Comitato centrale del partito comunista cinese, uno dei quali dedicato ai libri che Mao teneva nel suo zaino durante la Lunga Marcia: la “Divina Commedia” di Dante, “Il Principe” di Machiavelli e un estratto de “La rivoluzione italiana “ di Carlo Pisacane, tre italiani a fare compagnia al grande mito rivoluzionario di un tempo che fu... Ma qualche pagina prima una analoga fecondità narrativa era scaturita dalla ricerca dell’amico Nino sulla figura del nonno, Menotti Serra, e dalla indagine che egli decide di compiere con la figlia Anna sulle tracce dello zio ucciso dai partigiani, nell’intento di dargli sepoltura (e di qui il richiamo a una storia più alta, quella che vede contrapposti, in Antigone e Creonte, la legge degli dei e la legge degli uomini, cioè, nei termini dell’ideologia di Maggiani, la nazione e lo stato: l’ennesima divagazione con la quale, quasi trascendendo la impostazione ideologica del romanzo, l’autore finisce con l’ammettere la necessità storica dell’ordine statuale, pena il caos, come avevano intuito gli stessi Greci).
Questa sorta di bulimia narrativa nasce dalla convinzione che ognuno di noi sia un romanzo e ogni vita una storia che aspetta di essere raccontata e liberata dall’oblio.
Per questo, sembra dire l’autore, il suo racconto dovrebbe fare come da stimolo ad un’impresa collettiva, unirsi e fondersi con tanti altri, con tutti gli altri che ne verranno di conseguenza, per recuperare tutta intera una memoria condivisa, senza la quale il sogno della nazione resterà per sempre tale. La nazione e la sua epopea sono, in definitiva, due aspetti inscindibili e, sembra di comprendere, l’una non può esistere senza l’altra.
In uno degli episodi più accattivanti del romanzo, un importante critico letterario invita il romanziere ad un convegno e gli fa recitare un brano. Lo ritiene il migliore esempio di postmoderno in Italia. Ma un accademico lo stronca, citando l’uso che ha fatto della parola “uccelletto” come testimonianza di un linguaggio obsoleto e improponibile. Ebbene, in questa disputa, non si può non schierarsi dalla parte dell’autore e del suo sostenitore.

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Il coraggio di un pettirosso di Maurizio Maggiani
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    19 Giugno, 2017
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Il disegno che non esiste

Storia di donne raccontata da un uomo. La prima a comparire è Gill, alla quale la zia Rosamond ha affidato quattro cassette, incise in punto di morte. Destinataria Imogen, ultima discendente di una sorta di saga familiare, che ha in Beatrix (la nonna, cugina di Rosamond) e in sua figlia Thea, la madre di Imogen, le altre due rappresentanti (senza dimenticare la bisnonna Ivy, da cui origina questa catena del disamore). La vicenda, narrata attraverso una serie di venti fotografie, è intessuta di scelte sbagliate, di piccole e grandi tragedie familiari, che sembrano ispirate ad una sorta di determinismo naturalistico, con poca "race" e molto condizionamento ambientale e comportamentale.
L'autore, fedele alla sua poetica, punta da un lato alla suspense, che gli consente di tenere viva l'attenzione del lettore, dall'altro alla sperimentazione formale, ancora una volta basata sull'uso di strutture e forme comunicative diverse (le cassette, le fotografie, la lettera rivelatrice di Beatrix nel finale) e sul variare della voce narrante e della focalizzazione. Un colpo al cerchio del grande pubblico dei lettori, l'altro alla botte della critica letteraria, con un esito tutto sommato equilibrato tra le due istanze. Certo siamo lontani dall'originalità e dallo studio sociale del capolavoro, "La famiglia Winshaw", ma non mancano né intensità né sapienza costruttiva.
Solo sfiorato il tema dell'omosessualità, attraverso le relazioni che unirono Rosamond prima a Rebecca e poi a Ruth, anche se non mancano insinuazioni e malignità che alludono ad un'esistenza non del tutto pacificata e ad una società chiusa e retriva di fronte alla diversità. Maggior rilievo viene dato invece alla maternità negata e vagheggiata che spinge la protagonista a riversare il suo affetto su Imogen.
Ma il vero tema del romanzo, si affaccia nelle pagine finali del romanzo, che lo chiudono ad anello e gli conferiscono il significato conclusivo. Gill vi traccia una breve sintesi delle corrispondenze che sembrano legare, talora misteriosamente, la storia delle tre donne e parte della propria, piccoli e gravi incidenti, la fuga di un cane che si ripete con esiti drammatici a distanza di anni, il merlo sbattuto sul parabrezza della sua auto, forse proprio nel momento in cui la tragedia giungeva al suo epilogo. Nel frattempo arriva la notizia di un'altra infelicità femminile, quella di cui è vittima la figlia di Gill, abbandonata dal compagno. Tutto per un attimo sembra ricollegarsi e formare un mosaico nel quale ciascun frammento di vita potrebbe trovare una sua collocazione e, pur nel dolore, una sua rasserenante sublimazione. Ma poi, la disillusione finale: "Il disegno che stava cercando era scomparso. Peggio ancora, non era mai esistito. Quello in cui aveva sperato era un'invenzione, un sogno, una cosa impossibile. come la pioggia prima che cada". Per un attimo la mente corre ad Eco, all'ordine ipotizzato dai suoi personaggi (Guglielmo, Casaubon), che si rivela poi frutto di una mera ricostruzione soggettiva, di un bisogno proprio dell'uomo di imprimere un significato e un'interpretazione complessiva al caos del mondo, scambiando le coincidenze per segni. Allo stesso modo, l'immagine di quel merlo schiantato, presagio di una tragedia qui contemporanea, lì imminente, ricorda una scena analoga nel film "Dimenticare Venezia". Ancora "corrispondenze", stavolta letterarie e cinematografiche, che la lettura di questo romanzo potrebbe suggerire.

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"La famiglia Winshaw" di Jonathan Coe
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Poesia italiana
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    20 Mag, 2017
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Una leggerezza che conforta

Ci sono libri che hanno bisogno di tempo per liberarsi da una qualche incrostazione di noia scolastica, di studio forzato, per recuperare la loro verginale freschezza. Uno di questi è certamente l'Orlando Furioso. Volete inseguire duelli, combattimenti, scontri cruenti, ma anche ristorarvi, nel pieno delle vicende più sanguinarie, con la intima profondità di un sentimento totalizzante d'amicizia, come quella tra Cloridano e Medoro? Privilegiate il filone guerriero, lo scontro tra Cristiani e Mori. Se invece vi interessa di più cogliere il legame tra l'autore e i signori rinascimentali presso i quali operava e dai quali era apprezzato (però come amministratore e diplomatico, non certo come poeta...), il filone della storia sul quale vi dovrete soffermare è la vicenda d'amore tra Ruggiero e Bradamante, individuati dal poeta, qui anche cortigiano, quali progenitori degli Estensi. Ma la storia più bella è quella di Orlando, che da innamorato, come lo aveva voluto Boiardo, predecessore di Ariosto, diventa pazzo per la sua Angelica. Su questo asse del poema, incrocerete tra l'altro alcuni episodi simbolici nei quali la nostra umanità continua a rispecchiarsi a distanza di cinque secoli: il palazzo d'Atlante, nel quale ciascuno crede di vedere l'oggetto del suo desiderio fino a perdersi al suo interno, o il volo di Astolfo sulla luna, nel vallone delle cose che gli uomini perdono sulla terra. E non vi stancherete mai, perché l'abilità di questo autore grandissimo ed amabile, epico e familiare nello stesso tempo, sta nell'alternare toni, sentimenti, registri in nome di un'armonia che appartiene tanto allo stile, quanto alla visione del mondo. La classicità rinascimentale trova qui la sua manifestazione letteraria più luminosa. Leggetelo, leggetelo magari in un pomeriggio d'estate caldo e assolato: la leggerezza profonda del Furioso sarà per voi una brezza di incomparabile sollievo.

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