Opinione scritta da Franco Pompei
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La grande illusione perduta del novecento
Ad un secolo di distanza dalla rivoluzione d’ottobre leggere questo piccolo romanzo di Orwell continua a lasciare l’amaro in bocca, poiché “La fattoria degli animali” altro non è se non una tristissima rappresentazione della fine della più grande illusione che aveva caratterizzato il passaggio dal XIX° al XX° secolo, ossia che fosse possibile realizzare un’alternativa alle diseguaglianze della società capitalistica, un nuovo paradigma dei rapporti umani in grado di anteporre la giustizia sociale e la condivisione di un patrimonio comune agli egoismi individuali. Tale possibilità, ancora una volta e (probabilmente) per sempre, è stata negata dalla brutale realtà della storia. Al di là della vivida satira della ferocia stalinista, ciò che Orwell sembra voler evidenziare è soprattutto l’incapacità delle collettività sociali di difendersi dalle derive autoritarie e demagogiche e di determinarsi secondo modalità ispirate alla cooperazione ed alla non violenza. In questo senso “La fattoria degli animali” travalica l’allegoria del bolscevismo sovietico e diviene qualche cosa in più: una riflessione sul potere politico e sulla sua “naturale” tendenza a strutturarsi in senso oligarchico ed al contempo populista, sia nei regimi autoritari o totalitari che in quelli liberal – democratici i quali ultimi, pur tuttavia, continuano a costituire il “male minore”.
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Quando due più due fa cinque
A quasi vent’anni di distanza da “Il sosia” (1846), con i “Ricordi dal sottosuolo” (1864) Dostoevskij torna a concentrare la propria attenzione sulle motivazioni più profonde del comportamento umano. L’opera è divisa in due parti: la prima, intitolata “il sottosuolo”, è un lungo monologo nel corso del quale viene aspramente criticato il positivismo (all’epoca ideologia dominante nella borghesia industriale europea), sarcasticamente irriso sia per la sua fiducia illimitata , e quindi ingenua, nel progresso scientifico sia per il suo assunto, a dire il vero non tanto ingenuo poiché subdolamente teso a giustificare “scientificamente” qualsiasi forma di sfruttamento sociale, secondo il quale ciascun uomo, una volta individuatolo attraverso le scienze matematiche ed economiche (il c.d. “due più due fa quattro”), sarebbe “naturalmente” portato al perseguimento del proprio “interesse” e con esso, di quello collettivo. A disvelare la fallacia dell’ideologia positivista, c’è però, secondo Dostoevskij, proprio “il sottosuolo” ossia quella forza irrazionale, ed all’epoca ancora misteriosa, che così di frequente induce l’uomo ad agire “consapevolmente” contro il proprio “interesse” e a godere della sofferenza, non solo altrui ma anche propria. Ed il “sottosuolo” altro non è che l’inconscio: l’insieme di quelle primordiali pulsioni e correlative inibizioni che, decenni più tardi, verranno codificate nei concetti freudiani di “es” e “superego”. Il difficile rapporto fra queste due componenti della psiche umana e la loro altrettanto difficile relazione con la dimensione cosciente (l’ “io” freudiano) generano, quasi inevitabilmente, nevrosi: ed è proprio ciò che viene spietatamente raccontato nella seconda parte dei “ricordi”, intitolata “a proposito della neve fradicia”, nella quale seguiamo il protagonista alle prese con le relazioni umane ed in un continuo alternarsi di masochismo e sadismo. Si tratta di un protagonista nel quale il lettore, suo malgrado, è costretto inevitabilmente a riconoscersi, poiché “l’uomo del sottosuolo” di Dostoevskij rappresenta proprio quel coacervo di spinte emozionali contraddittorie che costruiscono, ed al tempo stesso lacerano, la personalità dell’individuo. Su tutto svetta un egoistico, disperato e continuamente frustato bisogno di riconoscimento sociale, di stima ed, in definitiva, di amore da parte degli altri: “l’uomo del sottosuolo” è perfettamente consapevole che tale bisogno non verrà mai soddisfatto e che, anzi, ogni tentativo in tal senso costituirà un ulteriore motivo di sofferenza non solo per sé stesso ma anche per gli altri “vinti dalla vita” (la prostituta Liza) che incroceranno la sua strada, ma sa anche che, proprio da quella sofferenza scaturirà l’autocommiserazione e, quindi, quella invereconda ma deliziosa “voluttà nel mal di denti” così ben descritta nel primo capitolo dei “ricordi”.
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Quando il diavolo ci mette lo zampino
Fedor Sologub (pseudonimo di Fedor Kuz’mic Teternikov) è uno scrittore poco conosciuto in occidente nonostante la sua primaria rilevanza nel panorama letterario russo del periodo compreso fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. “Il demone meschino” è la sua opera maggiore, alla quale dedicò ben dieci anni della sua vita (dal 1892 al 1902) e si presenta come un romanzo complesso, soggetto a molteplici chiavi di lettura. La trama principale in sé è molto semplice: Peredonov, professore di ginnasio di una piccola città di provincia, al contempo sadico e paranoico, distrugge sé stesso nell’ossessivo desiderio di un avanzamento di carriera. Lo spunto della vicenda è sicuramente autobiografico: lo stesso Sologub per molti anni svolse il mestiere di insegnante e conobbe la dura realtà della provincia russa, fatta di miseria, ignoranza, violenza ed alcolismo. Tuttavia, nonostante l’impietosa descrizione della grettezza della vita di provincia ed i frequenti riferimenti alla realtà russa dell'epoca, “Il demone meschino” si distacca dal filone del romanzo realistico e non solo per la ricorrente presenza del tema dell’orrido e del diabolico, rappresentato dall’ “innafferabile" (la piccola e informe creatura che tormenta il protagonista) e dalle altre allucinazioni di Peredonov, ma anche e soprattutto perché l’autore, attraverso l’apparente realismo, rappresenta un simbolo: quello di una condizione umana dominata dal caos e da un’irrazionalità autodistruttiva. L’intero romanzo, infatti, è pervaso da un’atmosfera, spesso grottesca, di generale follia che si manifesta non solo nei pensieri e nelle azioni del protagonista ma anche nel fatto che gli altri personaggi non riconoscano nel comportamento di Peredonov alcun sintomo di patologia psichica e lo considerino, a seconda dei casi, o uno stravagante buffone o un ingenuo da turlupinare: l’unico ad insospettirsi è il direttore della scuola che chiede un consulto al medico del ginnasio, ma il medico stesso si limita a rispondere con una facezia dicendo che “Peredonov non poteva uscir di senno, perché non ne aveva, e che faceva sciocchezze semplicemente perché era stupido”. Del resto, non solo Peredonov, ma anche quasi tutti gli altri personaggi manifestano sintomi evidenti di varie psicopatologie e parafilie: così ad esempio c’è il mercante che, per un’irresistibile compulsione, risponde ai propri interlocutori con ritornelli del tutto avulsi dall’oggetto della conversazione ma rigorosamente rimati; c’è la moglie del notaio con impulsi sadici nei confronti del figlio, che fanno subito scattare un’intesa erotica con Peredonov. Ci sono poi i vari notabili della città, ai quali il protagonista si rivolge con insensate e comicamente controproducenti richieste di protezione, presentati al lettore in una carrellata dall’irresistibile sarcasmo e tutti accomunati da una sorta di demenza che, al di là della pazzia di Peredonov, esclude a priori qualsiasi possibilità di comunicazione razionale: così ad esempio abbiamo il sindaco Skucaev che, dopo aver pronunciato un discorso vuoto e inconsistente (potremmo dire automatico, cioè da automa), si affloscia nella poltrona come un “vecchio rimbambito”; oppure l’iracondo procuratore Avinovickij con i caratteri tipici del disturbo esplosivo intermittente. Da questo universo cupo e delirante sembrerebbe salvarsi la sensuale relazione fra i personaggi più “freschi” del romanzo, il ginnasiale Sasha Pylnikov e la giovane Ljudmila; tuttavia, sebbene essi apparentemente contrappongano un mondo leggero e luminoso a quello tetro e disperato di Peredonov, anche il loro rapporto non sfugge ad una sottile atmosfera di tensione violenta che lo colloca apertamente nei canoni della relazione sadomasochistica, con Ljudmila nel ruolo della dominatrice - padrona e Sasha in quello del dominato - schiavo. Del resto la figura di Ljudmila, sebbene parzialmente nobilitata da un animo esteta ed appassionato, è corrotta, al pari di quelle degli altri personaggi, dal continuo ricorso alla menzogna ed alla maldicenza. Altro elemento stilistico essenziale dell’opera è, come già accennato, quello dell’orrido e del diabolico. Peredonov infatti è al centro di un mondo demoniaco ed egli stesso, con un costante crescendo nel corso della narrazione, è frequentemente in preda a quelli che, nella tradizione popolare, sono alcuni fra i sintomi “classici” della possessione demoniaca: teme l’incenso, blatera frasi incomprensibili ed è spesso soggetto ad allucinazioni. Peraltro, anche in questo caso, analoghe connotazioni diaboliche si disvelano progressivamente in quasi tutti gli altri personaggi ed in particolare in quelli femminili che assumono veri e propri caratteri stregoneschi: ad esempio la Vershina è scura, sempre vestita di nero, avvolta in una nuvola di fumo di tabacco ed attrae Peredonov nel suo giardino con gesti ammalianti; la Grushina ha “occhi maliziosi e dissimili: quello di destra più grande e quello di sinistra più piccolo”; Ljudmila viene paragonata da Sasha ad una “rusalka”, una specie di demone femminile della mitologia slava. Inoltre molto spesso sia i personaggi maschili che quelli femminili si danno improvvisamente a danze lascive ed estatiche, a veri e propri “sabba”. La stessa natura è ostile e diabolica: il gatto di Peredonov, brutto e grasso, in un tragicomico parallelo con il suo padrone, diventa sempre più aggressivo e “spiritato”; ai crocicchi appare spesso un inquietante montone (che nel delirio del protagonista rappresenta la trasfigurazione dell’ “amico” - idiota Volodin); anche le piante che crescono ai margini delle strade o nei giardini sono di specie velenose e allucinogene, come l’aconito e lo stramonio (non a caso noto popolarmente come erba del diavolo o delle streghe). Altri motivi portanti di questo romanzo di Sologub sono, infine, l’inganno ed il paradosso. Il primo viene annunciato già nell’incipit della narrazione (“...pareva che in quella città si vivesse d’amore e d’accordo. E persino in allegria. Ed era invece soltanto un’impressione.”) ed accompagna il lettore fino alla fine: dalla falsa lettera della principessa che promette a Peredonov la nomina ad ispettore scolastico all’assurda diceria che Sasha Pylnikov sia una ragazza. Il secondo poi si ripete in continuazione: Peredonov vive nel terrore di essere calunniato e sarà proprio lui a calunniare; crede di guadagnarsi l'appoggio delle autorità cittadine ed invece ottiene l’effetto esattamente opposto; vive nel sospetto che tutti possano nuocergli e, proprio in ragione di tale sospetto, finirà con il concentrare la sua paranoia sull’unica persona per lui veramente innocua, lo sciocco Volodin. Per concludere, prendendo in prestito le parole dello stesso Sologub, in quel “profondissimo mascalzone” che è Peredonov e nel suo mondo terribile ed allucinato c’è tutto questo e probabilmente “molto altro, tutti gli elementi di cui è composta la vita nelle sue multiformi manifestazioni”: sta al lettore scoprire e …riconoscersi, perché, sebbene in pochi siano disposti ad ammetterlo, almeno una volta, anche solo nei nostri pensieri più inconfessati, siamo stati tutti un po’ Peredonov.
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Ivan Il'ic ovvero l'uomo e la morte
“il fatto stesso della morte di un conoscente intimo suscitava in tutti coloro che venivano a saperlo, come sempre, un sentimento di gioia perché era morto lui e non loro.” (da “La morte di Ivan Il’ic”)
La difficoltà di instaurare una reale comunicazione nelle relazioni interpersonali e la solitudine di fronte alla malattia e all’approssimarsi della morte, la disperata ricerca di un sollievo da parte di chi vede avvicinarsi la fine: questo ci rappresenta Tolstoj in uno dei suoi racconti più strazianti. Ivan Il’ic è il paradigma dell’uomo comune poiché al di là della sua contestualizzazione storica e sociale (è un magistrato della Russia zarista della seconda metà del XIX secolo), possiede indubbi caratteri di universalità: come la maggior parte di noi, nel corso della sua vita ha commesso qualche azione della quale non andare particolarmente fiero ma non può essere definito una cattiva persona, anzi, sul lavoro è onesto e scrupoloso e non abusa mai dei poteri di cui è investito in ragione del suo ufficio, in famiglia è un marito gentile ed un padre affettuoso ed “in società” è sempre affabile e cordiale con tutti. Nel corso degli anni Ivan Il’ic riesce laboriosamente a costruirsi un sistema di vita quanto più possibile gradevole, “schivando” abilmente tutte quelle situazioni che possono minacciare tale gradevolezza (ad esempio per evitare le scenate della moglie, gelosa e nevrotica, trascorre sempre meno tempo in casa e si rifugia nel proprio lavoro e nella vita sociale esterna). Questo modus vivendi gradevole e “decoroso” che Ivan Il’ic è riuscito a conquistarsi, però, ad un certo punto viene sconvolto da una banale quanto tragica fatalità: un piccolo trauma dovuto ad una caduta ed apparentemente privo di gravi conseguenze è l’evento scatenante di una lunga e misteriosa patologia che lentamente ed inesorabilmente conduce il protagonista alla morte. Per una sorta di terribile legge del contrappasso, da questo momento in poi saranno tutti quelli che gli stanno intorno a “schivare” Ivan Il’ic, ossia, a fingere di non riconoscere la gravità della sua malattia ed in effetti questa finzione altro non è se non un’inconscia “strategia difensiva” dall’orrore della malattia, del tutto analoga a quella per tanto tempo adoperata dallo stesso Ivan Il’ic per sottrarsi alla sgradevolezza della sua vita familiare. Per Ivan Il’ic inizia un lungo calvario nel corso del quale ad un’iniziale alternanza di momenti di speranza e di terrore fa seguito una sempre maggiore consapevolezza dell’avvicinarsi della fine. Terribilmente angoscianti sono le pagine nelle quali Tolstoj descrive l’incomunicabilità che spesso ancora oggi, purtroppo, caratterizza la relazione fra medico e paziente: ad Ivan Il’ic viene quasi rimproverato, con sussiego dottorale, di voler conoscere la reale gravità della sua malattia, di voler sapere se c’è o meno speranza di guarigione. Con il progredire della malattia, alla sofferenza fisica ed alla paura si aggiunge per Ivan il’ic un altro tormento: quello derivante dalla rabbia per “la menzogna” che lo vuole “malato ma non moribondo”, una menzogna alla quale egli stesso viene costretto a partecipare. Sono pagine toccanti nelle quali l’autore descrive magistralmente il supplizio della malattia e la sua drammatica capacità di portare alla luce quei bisogni che, in condizioni di normalità, le convenzioni etiche e sociali impongono di tenere nascosti, prima ancora che agli altri, a sé stessi (“in certi momenti, dopo lunghe ore di sofferenza, anche se si sarebbe vergognato a confessarlo, aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini”). Gli unici momenti di conforto per il protagonista, in questo oceano di solitudine e disperazione, sono quelli trascorsi in compagnia del servo Gerasim, il solo a non “mentire” e a dimostrare per il padrone un’empatia tradotta in gesti semplici, ma così importanti per Ivan Il’ic, come il dargli sollievo dal dolore tenendogli sollevate le gambe: in questo Tolstoj anticipa una tematica, quella della contrapposizione fra l’ipocrisia “borghese” e la spontaneità “popolana”, che verrà ripresa da diversi autori europei del secolo successivo (si pensi ad esempio a Pasolini). Giunto allo stremo delle proprie forze Ivan Il’ic costringe se stesso ad un’impietosa autoanalisi che termina con un'amara constatazione: tutti i momenti della sua vita che prima gli erano sembrati i migliori, i più piacevoli, adesso gli appaiono “qualcosa di insignificante, spesso di ripugnante”; si salvano solo l’infanzia e la primissima giovinezza nelle quali il protagonista intravede qualcosa “che sarebbe stato pronto a rivivere, se avesse potuto tornare indietro. Ma la persona che aveva provato quei momenti piacevoli non c’era più: sembrava il ricordo di qualcun altro”. A questa constatazione si accompagna infine, nella visione religiosa maturata da Tolstoj negli ultimi anni della sua produzione letteraria, un nuovo senso di pietà del protagonista ormai non più solo per sé stesso ma anche per tutti quelli che gli stanno intorno ed una improvvisa e nuova visione della morte quale definitiva liberazione di sé stesso e degli altri dalla sofferenza.
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L'insostenibile serenità di Meursault
La negazione di qualsiasi significato trascendente dell'esperienza umana e la sua conseguente assurdità costituiscono il tema portante di questo romanzo di Camus. E' un concetto che l'autore avrà poi modo di teorizzare e precisare ulteriormente nel suo saggio "il mito di Sisifo". Il protagonista è "straniero" agli uomini perché accetta in modo incondizionato la mancanza di senso dell'esistere e quindi non sente la necessità, che invece da sempre ha attanagliato il genere umano, di credere che la vita abbia uno scopo, un significato. Ed proprio per questo che il cosiddetto "consorzio civile" dapprima lo relega ai suoi margini ed infine lo annienta. Meursault viene mandato al patibolo non tanto per l'omicidio commesso quanto, piuttosto, per il suo atteggiamento di imperturbabile e quindi “disumana” accettazione dell’assenza di significato dell’esistenza, atteggiamento che viene percepito dalla "umana" collettività come potenzialmente distruttivo, perché in grado di destituire di fondamento ogni regola funzionale al mantenimento di un qualsiasi ordine sociale se non, addirittura, di attentare alla possibilità stessa della convivenza sociale. Ma l''irrazionalità ed il "non senso", dal quale tutti gli ordinamenti sociali cercano di difendersi, riemergono, prepotentemente, in ogni aspetto della vita dell'uomo: ed, infatti, irrazionali ed assurdi sono il processo a carico di Meursault e la condanna a morte pronunciata "in nome del Popolo Francese", irrazionale è l'amore di Maria per Meursault ed essa stessa sembra inconsapevolmente rendersene conto ("ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione"), irrazionale è la religione con la sua pretesa di fede in un al di là. L'unica forma di conoscenza possibile della realtà sembra essere, dunque, quella che si può avere attraverso le sensazioni fisiche (caldo, fame, sete, sonno, desiderio sessuale ecc.) provate dal protagonista e così vividamente descritte nel corso della narrazione e Meursault è "straniero" al resto degli uomini proprio nei termini in cui non prova sconcerto e sconforto di fronte ad una simile conclusione, accettandola serenamente fino alle sue estreme conseguenze. Contribuiscono infine a rendere questo breve romanzo un capolavoro anche la concisione dello stile e l'efficacia delle descrizioni, sia dei paesaggi, dei quali vengono mirabilmente ed intensamente evocate luci, colori, rumori, odori, sia dei personaggi, di cui l'autore è in grado di rendere, con pochi tratti, l'intensa fisicità.
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Pasolini scopre Roma
Edito nel 1955, “Ragazzi di vita” è il primo romanzo di Pasolini e nasce dall’impatto dello scrittore con la realtà della periferia di Roma, impatto destinato a lasciare, direttamente o indirettamente, il segno su tutta la sua successiva produzione letteraria e cinematografica. Nel 1950 infatti, a seguito di un’accusa di corruzione di minorenni che ne comporta anche l’espulsione dal P.C.I., il poeta è costretto ad abbandonare il piccolo centro friulano di Casarsa della Delizia e a trasferirsi con la madre nella capitale. I primi anni in città sono difficili per Pasolini a causa delle ristrettezze economiche, ma gli danno l’opportunità di conoscere un contesto per lui del tutto nuovo: quello dei ragazzi del sottoproletariato romano, nei quali lo scrittore, al di là della miseria e della violenza, riconosce una primordiale vitalità non intaccata né dal perbenismo borghese di quegli anni né dalla, ancora lontana, azione omologatrice e frustrante (che Pasolini definirà “genocidio culturale”) del neocapitalismo e del consumismo di massa. Questi sono quindi i “ragazzi di vita”: tutti giovanissimi e quasi tutti identificati non da un nome ma da un soprannome, si muovono fra le borgate della Roma dell’immediato dopoguerra e dei primi anni cinquanta dove, accanto alle disperate baracche abitate dagli sfrattati dal centro storico e da sfollati ed emigrati provenienti da mezza Italia, hanno già iniziato a sorgere i primi orrori della speculazione edilizia. Per i “ragazzi di vita” il centro della città è un altro mondo, distante in tutti i sensi e teatro di occasionali incursioni per qualche furto, per qualche “marchetta”, oppure quando decidono di andarsi a divertire “dentro Roma”. Ciò che colpisce in questo romanzo è innanzitutto la notevole padronanza del linguaggio delle borgate romane che Pasolini ha maturato dopo solo cinque anni di vita in città: il romanzo è in italiano ma la struttura sintattica utilizzata è spesso quella del dialetto romanesco, con frequente impiego di parole e locuzioni dialettali e gergali, molte delle quali, peraltro, nel giro di un paio di decenni sono cadute in disuso nelle stesse periferie romane, travolte dall’uniformazione linguistica iniziata dagli anni sessanta in poi (alla fine del libro è presente un piccolo glossario di questi termini a cura dello stesso Pasolini). Altro aspetto evidente, e che anzi costituisce il tratto fondamentale dell’opera, è la netta separazione fra l’universo dei “ragazzi di vita” e quello degli adulti: nei confronti di quelli che in borgata hanno la fama di “guappi” può esserci ammirazione e timoroso rispetto (si vedano, ad esempio, i personaggi di Amerigo e di Alfio Lucchetti); tutti gli altri invece, in particolare quelli di estrazione borghese, sono o “micchi” da borseggiare e rapinare o “frosci” con i quali prostituirsi. Ed è proprio in conseguenza della loro radicale alterità rispetto al mondo adulto “borghese” che i “ragazzi di vita” ne ignorano completamente i paradigmi etici e sociali: sono brutalmente tesi alla soddisfazione di tutte le loro pulsioni primordiali, privi di qualsiasi rimorso per le proprie azioni più crudeli ed, allo stesso tempo, capaci di impeti generosi e spontanei appunto perché non condizionati da ipocriti moralismi e prudenti opportunismi. Emblematica a questo proposito è l’evoluzione del protagonista del romanzo, il “Riccetto” (anche se il termine protagonista forse non è del tutto appropriato perché “Ragazzi di vita” rimane piuttosto un romanzo corale): mentre all’inizio della narrazione, nonostante sia un piccolo delinquente senza scrupoli, non esita a tuffarsi nel Tevere, rischiando di annegare per la forte corrente, pur di salvare una rondine, al termine del romanzo, quando ormai è diventato un giovane adulto ed “ha messo la testa a posto”, ovverosia quando si è uniformato ai canoni della classe piccolo-borghese (alla quale continua tuttavia a non appartenere), sopraffatto dalla paura e dall’egoismo non interviene in soccorso del piccolo Genesio che sta affogando nell’Aniene. Altro mondo del tutto a parte rispetto a quello dei “ragazzi di vita” è quello femminile: donne e ragazze delle borgate conducono un’esistenza completamente separata e spesso ancora più dura di quella dei maschi a causa della violenza di padri o mariti; con ragazze appartenenti a ceti sociali, anche di poco, più elevati ai “ragazzi di vita” è preclusa, in radice, qualsiasi possibilità di approccio; le sole donne che interessano veramente ai giovanissimi personaggi del romanzo sono le prostitute, spesso gravide o anziane, che rappresentano l’unico strumento possibile d’iniziazione e di soddisfazione sessuale. Lo sguardo di Pasolini nei confronti di questi ragazzi è partecipe e commosso, specialmente nei confronti dei più piccoli: ne viene descritta la feroce violenza ma anche, talora con toni addirittura umoristici, la folle spensieratezza con la quale affrontano le miserie ed i pericoli della vita di tutti i giorni e, come nel caso del piccolo Marcello, la rassegnata dignità con la quale si pongono di fronte alla morte.
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