Opinione scritta da Alessio Barulli
5 risultati - visualizzati 1 - 5 |
Nascere, vivere e morire.
Nella Sardegna al trapasso tra il mondo contadino e la società dei costumi moderni si dipana una storia in cui le protagoniste sono donne. Un’accabadora, colei che finisce, l’ultima madre che accompagna i moribondi al loro destino con un gesto di pietà e sollievo. Una bambina, poi ragazza e donna, che dall’accabadora viene adottata, salvata da un destino di indigenza e con il beneplacito della sua madre naturale.
È un universo di valori lontani dalle prospettive moderne, valori che popolano l’orizzonte duro di una società abituata a far fronte alla miseria.
Su questo sfondo si svolge una vicenda che assume i toni di un romanzo di formazione. Un romanzo che parla di un modo tanto diverso dal nostro di concepire la famiglia, la vita e la morte, i ruolo dei sessi, ma al contempo capace di mostrarlo naturale e condivisibile: se una donna non sa di che sfamare il proprio figlio è normale che un’altra lo prenda come proprio; se alle sofferenze di un malato non c’è più rimedio è naturale aiutarlo a mettervi fine.
Lineare l’intreccio, da potersi quasi dire povero, ma sostenuto da uno stile magistrale, evocativo, capace di gonfiare il significato delle parole. Non manca quel tentativo di ritrovare una lingua primitiva, ancestrale, che lasci trasparire i toni e i suoni di un mondo lontano, sì, ma la cui memoria, con qualche sforzo, può ancora essere ritrovata.
Da leggere senza dubbio.
Indicazioni utili
Dei giudici e degli avvocati
Tutte le professioni devono fare i conti con delle regole morali. Dal medico all’architetto, tutti devono attenersi ad un codice di comportamento. È la deontologia, che salvaguarda ad un tempo il professionista ma soprattutto coloro che del suo operato subiranno le conseguenze. E ciò è tanto più vero per quelle professioni particolarmente sensibili come quelle forensi. Il potere di decidere della libertà di un uomo o l’opportunità di difendere il colpevole di un delitto riprovevole sollevano una nebbia di problematiche e interrogativi nella quale sarebbe impossibile orientarsi senza i fari del codice deontologico. Tuttavia anche questi fari possono fare poca luce se ad essere messo in discussione è lo stesso sistema che ha prodotto quelle regole.
Quando un affermato giudice si rivolge all’avvocato Guido Guerrieri per essere difeso dall’accusa di corruzione in atti giudiziari ecco che il sistema comincia a scricchiolare. I dubbi che un incarico del genere produce sono molti. Guerrieri non è uno che giudica i suoi potenziali clienti, assume la loro difesa applicando le regole del gioco; solo per gli stupratori fa un’eccezione, perché quel genere di reati gli provoca un “eccesso di disagio” che non gli permetterebbe di garantire una difesa adeguata. Ma con un giudice le cose stanno diversamente; egli deve per forza essere innocente, perché «un giudice corrotto, non la sua esistenza, ma il fatto che sia tuo cliente, che il suo destino dipenda in parte da te – fa saltare il sistema, l’impalcatura, l’intero palcoscenico su cui finora hai interpretato il tuo personaggio». È in questo stare in bilico tra il dettame della deontologia e la morale personale che si dipana il dilemma di Guerrieri.
Di delitti efferati o crimini mafiosi in questo romanzo non ce ne sono. È un viaggio nell’universo del processo penale, fin nei suoi angoli più nascosti. Carofiglio introduce il lettore nelle aule di giustizia, suggerendogli le tracce di una decadenza che fa traballare il meccanismo della più sacra delle istituzioni. È pur vero, però, che a raccontare tutto è lo stesso Guerrieri, un uomo in piena crisi di mezza età, molto propenso a mettere in discussione tutto ciò che lo circonda faticando a trovare nuovi riferimenti.
Lo stile di Carofiglio fa scorrere velocemente le pagine, sulle quali si sviluppa una vicenda accattivante benché priva di azione. Un po’ di movimento è dato dalle vicende collaterali, dalle parentesi – talvolta divertenti - con Annapaola, l’investigatrice che collabora con Guerrieri. Forse lasciano appena un poco perplessi alcuni riferimenti gastronomici o le ricorrenti citazioni letterarie e cinematografiche, che ad occhi malevoli potrebbero apparire vagamente radical-chic.
A parte ciò un romanzo certamente piacevole, consigliato a che si lascia appassionare dall’universo giudiziario e dalle figure che lo abitano.
Indicazioni utili
Chi copa deve coparsi.
Che cosa accadrebbe se si mescolassero lussuria, desiderio frustrato di maternità e amicizia tradita, in un ambiente violento e carico di superstizione come le montagne friulane di inizio Novecento? Ne scaturirebbe un romanzo quasi di impronta verista. E in questa storia di Mauro Corona gli elementi di un racconto naturalista ci sono tutti: un ambiente inclemente che obbliga alla fatica e alla miseria, pulsioni primordiali che trovano il loro epilogo nella violenza, un brutale senso della giustizia che si codifica in un’unica, inflessibile norma: «Chi copa deve coparsi» (Chi uccide deve uccidersi).
Il punto di vista del narratore è completamente calato nel mondo che descrive. Come nei più classici dei romanzi, qui tutto ha inizio con un manoscritto che fortunosamente è finito nelle mani dell’autore: è il racconto autografo del protagonista, Zino, che alla fine di tante tribolazioni affida alla carta le proprie confessioni. Che il manoscritto esista davvero (e così assicurano le parole di Corona in post-fazione) o si tratti un espediente letterario poco importa. Ciò che conta è il risultato: una narrazione che rapisce per autenticità, che colpisce il lettore netta e implacabile come un colpo d’ascia.
Ovvio che la lingua che Mauro Corona (o per meglio dire Zino Corona) impiega qui ricalchi per lessico e sintassi la parlata del protagonista: solecismi e sgrammaticature sono letteralmente elevate a sistema. Ma inesattezze nella concordanza verbale, assenza di doppie, vocaboli dialettali non tolgono nulla né alla comprensibilità né alla piacevolezza del testo, che anzi appare caricato di una profondità di significato e di una poeticità primitiva impensabili da ottenere con un registro ripulito.
«Non è niente di peggio che abbandonare la sua patria dove si è nati e vissuti» dice il narratore in apertura «e stati coi genitori, e i amici, e nei boschi a fare legna, e nei prati a falciare l’erba, e guardare a venire l’autunno, e aspettare Natale vicino al fuoco […] La gente sta bene a casa sua ma non sempre si può stare. Io invidio chi può farlo e mi fanno anche rabbia perché si lamentano sempre e dicono che vorrebbero andare via e non sanno invece la fortuna che hanno a stare là. Quando volti la schiena al tuo paese è da piangere. Non si dovrebbe mai andar via da casa sua.»
Oltre a Zino, Raggio, e gli altri disperati che popolano questo romanzo, è di certo l’ambiente, uno dei principali personaggi. In ogni momento emerge il legame strettissimo del protagonista con le montagne, i boschi, il Vajont. E non potrebbe essere diversamente, perché in fondo si direbbe che sia proprio da quella terra «selvatica e ripida che non da niente di buono ma che a me [Zino] piace tanto» che emergano i drammi e le sofferenze ineluttabili cui i protagonisti sono condannati.
Un romanzo selvaggio, spesso violento, ma anche tenero e commovente, come la carezza di una mano ruvida per la fatica.
Indicazioni utili
Camminare: un atto rivoluzionario
Che fine ha fatto la via Appia? La strada voluta dal severo Appio Claudio Cieco esiste ancora? Se si cominciasse a camminare a Roma si potrebbe arrivare a Brindisi calpestando le stesse pietre calpestate dal poeta Orazio? Solo uno era il modo per rispondere a queste domande: camminare. Un passo dopo l’altro, dalla capitale, fino al profondo Sud; l’esplorazione di un’Italia minore, ricca di umanità, storia e cultura, ma il più delle volte dimenticata dai governanti e povera di autostima. Prima si è dovuto incrociare dati cartografici antichi e moderni per rintracciare sulle mappe la Regina viarum, con i 619 chilometri; poi la si è riportata alla luce, calcandola con le scarpe per 29 giorni, tappa dopo tappa, incontro dopo incontro.
Paolo Rumiz traccia il resoconto accurato, pulito e al tempo stesso coinvolgente e affascinante di un viaggio anomalo: «in Italia chi va a piedi è un’anomalia». Ma solo andando a piedi si può conoscere davvero un territorio, come certo non lo conoscono molti governanti «di scarpa lustra». Nella nostra epoca i cammini sono considerati solo se collegati alla sfera spirituale: Santiago, la via Francigena, il cammino di san Francesco. Quello di Rumiz e dei suoi compagni è invece un viaggio dalla vocazione civile, per raccontare un Sud lontano dagli stereotipi attraverso la riscoperta di uno dei suoi più grandi beni archeologici: l’Appia Antica.
I luoghi entrano nelle righe del racconto anche grazie alla capacità dell’autore di «registrarne la voce», di fissare cioè nella scrittura quella diversità linguistica che accompagna il viandante nell’attraversare lo stivale dall’alto in basso.
Avvincente come un romanzo, pur non deviando mai dal resoconto preciso e puntuale, Appia sembra invitare il lettore a compiere un atto rivoluzionario: mettere le scarpe ai piedi e camminare, non per fare sport, ma per conoscere il mondo che lo circonda.
Indicazioni utili
Una nuova identità per il commissario De Luca
Siamo a Bologna. L’anno è il 1953, quello della morte di Stalin, del maccartismo negli Usa e del governo di Giuseppe Pella. La guerra è finita e l’Italia ha da poco intrapreso il cammino della democrazia. In questo mondo profondamente trasformato la società italiana cerca di ricostruire la propria identità, dandosi magari un’aria più spensierata, in sintonia con un consumismo che il boom economico sta facendo scoprire. Ma dietro i sorrisi delle reclame sulle riviste patinate e tra le canzoni del festival di Sanremo si annidano i fantasmi di un’altra guerra, “fredda” sì, ma non meno spietata.
Anche il commissario De Luca sembra faticare nel ritrovare la propria identità. Tanto che si fa chiamare anche con un altro nome. Perché ora si è messo a fare la “barba finta”, la spia, in quel proliferare di servizi segreti deviati che segnò il miracolo economico italiano. Non ha capito bene neanche il nome dell’ufficio per il quale indaga sotto copertura, «ma quando gli proposero di collaborare con loro, in incognito, senza credenziali ufficiali e sotto copertura, per risolvere un caso di omicidio, De Luca disse Sì, e lo ripeté, Sì, con la testa e con la voce ».
Una donna della borghesia bolognese, fresca vedova di un brillante professore di fisica, viene trovata affogata nella vasca del pied-a-terre del suo defunto marito. Sullo sfondo la Bologna delle jazz band di universitari esistenzialisti figli di papà, ma anche quella delle orchestrine che suonano la filuzzi nei dopolavori ferroviari. E accanto a questo, un altro enigma consuma il protagonista: una giovane donna, un po’ italiana, un po’ abissina, che canta il jazz ma anche Bella ciao, che alcuni chiamano Franca, ma lei si presenta come Claudia.
Certo a De Luca qualche scrupolo viene, soprattutto quando scopre di che cosa siano capaci i suoi nuovi colleghi; ma nonostante tutto ha una certezza: «Faceva soltanto il suo mestiere. Un altro ufficio, altra gente, altri compiti, altre mansioni, lui no, lui faceva solo il suo mestiere. Neanche dovere, che comporta comunque un’adesione, il suo mestiere […] Sarebbe andato in giro per Bologna, anche di notte, a fiutare le strade come un cane da caccia».
Indicazioni utili
5 risultati - visualizzati 1 - 5 |