Opinione scritta da Chiara77
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Sarebbe finita la disperazione
«Sarebbe finita la disperazione.» Max Porter, Grief is the thing with feathers
Martha, che ha appena compiuto 40 anni, viene lasciata dal marito Patrick. Siamo nel Regno Unito, la vicenda si svolge tra Londra e Oxford, dove Martha e Patrick erano andati a vivere qualche anno dopo il matrimonio in una Prestigiosa Villetta che fa parte di un Elegante Contesto Abitativo.
Leggendo queste prime frasi introduttive potrebbe sembrare l’ennesimo romanzo sulla crisi di una coppia che apparentemente ha avuto tutto dalla vita. Invece no. Questo è un romanzo sull’enorme disagio che è provocato, in una normale esistenza, dalla malattia mentale. Quando infatti Martha aveva soltanto 17 anni è esplosa una malattia nel suo cervello, che ha influenzato enormemente, in maniera negativa, le sue scelte di vita, le sue relazioni personali, la possibilità di essere autentica e felice. Il racconto si dipana dalla stessa voce di Martha, una voce sì piena di dolore ma anche colorata di ironia e sarcasmo, che, attraverso analessi, ripercorre tutta la sua storia, fino a tornare al punto di partenza della narrazione, ossia la separazione dal marito Patrick.
Si tratta di un romanzo che affronta il tema della malattia mentale in modo diverso rispetto ad altri che ho letto in passato, ben più drammatici e intrisi, spesso, di disperazione. Qui possiamo percepire la sofferenza di Martha, la sua difficoltà nell’affrontare la vita, ma è una sofferenza che ci sembra familiare, è un disagio che riconosciamo come prossimo, vicino. La malattia mentale specifica non viene mai nominata, forse per lasciarla volutamente nell’indeterminatezza. Invece i problemi di Martha sono abbastanza comuni: il fallimento nelle relazioni di coppia, l’inadeguatezza che percepiamo, a una certa età, sentendo di non aver realizzato le proprie aspirazioni, la difficoltà nel rapportarsi con i familiari, che pure amiamo.
Chi è che non ha mai provato almeno uno, se non tutti, questi fallimenti? Chi è che non si è sentito, almeno una volta, inadeguato e incapace di aver vissuto con efficacia la propria vita?
“L’opposto di me stessa” è un romanzo intenso e doloroso, introspettivo e triste, coinvolgente grazie alla prosa brillante, ironica e ricca di citazioni della sua autrice.
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Diventare grande tra solitudine e abbandono
«Non essere mai meschino in nulla, non essere mai falso, non essere mai crudele. Io potrò sempre sperare in te.»
Charles Dickens, “David Copperfield”.
L’ultimo romanzo che ho finito di leggere è stato “Demon Copperhead” di Barbara Kingsolver, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa 2023 e edito da Neri Pozza. Vi si racconta, attraverso la sua stessa voce, la vita di un giovane orfano originario della Lee County sui monti Appalachi, Virginia.
Il modello letterario di riferimento espressamente dichiarato dall’autrice è il “David Copperfield” di Charles Dickens: anche qui il protagonista racconta la propria difficile esistenza, a partire dalla nascita. Fin dalle prime pagine la voce di Demon riesce a catturare il lettore e trascinarlo in una storia tanto drammatica quanto coinvolgente. Il suo racconto ci parla di un ragazzino abbandonato e solo, che ha dovuto lottare fin da piccolo per affermare il suo diritto a esistere, a essere accudito, protetto, rassicurato, amato. Ha dovuto combattere per conquistarsi questi diritti, che chiamiamo inalienabili, che ogni bambino dovrebbe avere garantiti solo per il fatto di essere al mondo.
Ma Demon è nato già orfano del padre e la bionda madre adolescente, anch’essa con una storia di abbandono e solitudine alle spalle, è tossicodipendente. Si prospetta una strada completamente in salita per questo bambino.
I pregi più elevati di questo ricco romanzo, secondo il mio modesto parere, sono sostanzialmente due: il primo è che tratta tematiche abbastanza note in modo però originale. Mi spiego meglio. È presente il tema del disagio sociale, dei diritti negati agli individui più fragili e alle comunità più in difficoltà, molto presente di solito nella letteratura americana. Ma qui si parla di individui e comunità che non ti aspetteresti di incontrare nella realtà degli Stati Uniti degli anni Duemila: bambini orfani sfruttati che vengono fatti lavorare, maltrattati, abbandonati; bianchi poveri, montanari e campagnoli, ex minatori o coltivatori di tabacco, i Melungeon, una popolazione diffusa nel Sud Est degli Stati Uniti, probabilmente discendente da colonizzatori spagnoli e portoghesi mescolata a tribù di nativi, di cui ignoravo l’esistenza. Di solito, pensando all’America vengono in mente altri scenari, invece questo romanzo ci offre uno spaccato su una comunità rurale poco considerata e un po’ disprezzata dagli stessi americani.
«Mostratemi quell’universo al cinema o alla tv. Montanari, gente di campagna e delle fattorie, noi non ci siamo mai, da nessuna parte. È un fatto, siamo invisibili. Arrivi al punto che cerchi di fare più rumore possibile solo per vedere se sei ancora vivo.»
È presente anche il tema della tossicodipendenza, soprattutto nella seconda parte del romanzo, quando alcune atmosfere mi hanno ricordato “I cieli di Philadelphia” di Liz Moore. Il contesto è però diversissimo, qui siamo di fronte a frotte di persone che hanno iniziato a drogarsi prendendo antidolorifici dati inizialmente su prescrizione medica, a ragazzi lasciati da soli, indifesi davanti alla complessità della vita, senza gli strumenti per poter crescere in modo sano e equilibrato.
«Se non conoscete il drago al quale davamo la caccia, le parole non bastano. La gente parla dello sballo, della botta che ti arriva, ma non è tanto quello che provi quanto quello che non provi più: la tristezza e il terrore viscerale, tutta la gente che ti ha giudicato inutile. Il dolore di un ginocchio esploso. Quel laccio che dovrebbe farti sentire attaccato a qualcosa per tutta la vita, che sia una casa o i genitori o la sicurezza, che ti ha lasciato sventolare attorno, sciolto, per tutto il tempo, strattonando le radici del cervello, frustando l’aria con tanta forza da rischiare di cavarti un occhio. E poi di colpo quel laccio si blocca a terra, e sei tranquillo.»
L’altro grande pregio di questo romanzo è lo stile, che dà vita a una narrazione ricca e complessa ma allo stesso tempo vivace e coinvolgente. La voce di Demon è una voce lucida nei confronti della propria realtà e della propria responsabilità, critica verso le ingiustizie che ha dovuto subire, compassionevole verso se stesso. Una storia che riesce a uscire dalle pagine di carta e arriva diretta a sfiorare il cuore di chi la legge.
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Le età fragili
«Mi ha offerto una liquirizia e l’ho presa, ma poi non riuscivo a metterla in bocca. Siamo rimasti lì, io con il tocchetto nero nella mano, e tra noi la piccola luce puntata verso il cielo. Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire.»
Siamo in Abruzzo, in un piccolo paese a pochi passi dal Gran Sasso. La voce narrante di questo romanzo è una donna di mezza età, Lucia, fisioterapista e madre di una ragazza di circa vent’anni, Amanda. Dalla voce essenziale ma anche dolce, fragile ma anche forte nel mostrare questa fragilità della narratrice, emerge il racconto di un momento difficile. La figlia, che era partita un anno e mezzo prima per frequentare l’Università a Milano, è tornata precipitosamente a casa. Certo, c’è il covid. Ma Amanda non è tornata per studiare a distanza. È stanca, non si alza dal letto, ha difficoltà a mangiare, non esce più di casa. Che cosa le è successo? E, soprattutto, come può aiutarla Lucia?
Intanto l’anziano padre della protagonista ha intenzione di donarle i suoi terreni e le proprietà in eredità. Sente che la fine sta arrivando, Fra i beni del padre c’è anche il terreno sul quale sorge un vecchio campeggio abbandonato da decenni. Lucia e suo padre si ritrovano di nuovo in quel luogo, dove molti anni prima è accaduto un fatto tremendo. Mentre Lucia è costretta a assistere, relativamente inerme, alla perdita della vitalità e della felicità della figlia, inizia anche a ricordare e ripercorrere la drammatica esperienza che aveva vissuto, anche se non direttamente, durante i suoi vent’anni al Dente del Lupo, sulle montagne abruzzesi.
Veramente un bel romanzo “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del premio Strega 2024.
Qual è l’età fragile? È quella che ci sorprende mentre siamo giovani, pieni di energia e di mille progetti per il futuro, quella in cui ci illudiamo di essere forti e invincibili e che poi ci tradisce brutalmente mostrandoci chiaramente che basta un niente per atterrarci? Oppure l’età fragile è quella in cui siamo ormai adulti con un lungo tempo alle nostre spalle, abbiamo imparato un pochino a conoscere il mondo ma non sappiamo come fare per aiutare e sostenere le persone che amiamo di più. Non sappiamo come portarle al sicuro mentre vediamo che si stanno spingendo pericolosamente verso un baratro? Probabilmente sono entrambe età fragili. Probabilmente la stessa vita è una lungo, rischiosa e tortuosa, età fragile.
Siamo di fronte a una scrittura in grado di indagare questi e altri temi, come quello che riguarda il legame tra il luogo in cui siamo nati e la nostra identità, attraverso uno stile scarno, diretto e essenziale ma particolarmente efficace per suscitare introspezione e empatia.
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Una donna fatta di buio
Che cos’è la marabbecca? Si tratta di una figura del folclore siciliano: una donna fatta di buio, che emerge dal buio per trasformare anche te in quel buio. Di solito le persone ne sono terrorizzate, invece Clotilde, la protagonista di questo romanzo, è affascinata dal suo potere.
« […] la produzione di buio a partire dal buio. La produzione del nulla. Non la trovavo una cosa spaventosa, ma tenera. Tutti vogliono qualcosa di simile a sé. I fortunati trovano un buio così simile al proprio da formare un’unica oscurità: una notte impenetrabile e serena. Gli altri restano tenebre incomplete.»
Ho finito da poco di leggere “Marabbecca”, romanzo di Viola Di Grado edito da La nave di Teseo e sto provando delle sensazioni contrastanti. Insomma, banalmente: ma questo libro mi è piaciuto oppure no?
Senza dubbio è scritto con uno stile coinvolgente e ricercato. L’autrice sa condurre il lettore all’interno della storia. Fin dalle prime pagine ci sentiamo avviluppati in questo racconto inquietante. Proviamo un senso di smarrimento e serpeggiante angoscia.
La voce narrante è quella di una donna di circa trent’anni, Clotilde, che ha appena avuto un incidente d’auto insieme al suo compagno, Igor, un medico epatologo un po’ più grande di lei. Il racconto di Clotilde prende avvio in concomitanza con il momento dell’incidente e si snoda per i mesi successivi. Ciò che colpisce fin da subito è l’atmosfera strana e allucinata che si delinea dalle parole di Clotilde. La sua voce è quella di un narratore inaffidabile, così inaffidabile e inquieto che rende tutta la narrazione fortemente pervasa da un alone di tristezza, desolazione, disagio. È per questo intenso senso di malinconia, lutto, morte e depressione che il libro emana che non sono sicura che mi sia piaciuto, non certo per le sue qualità letterarie, che mi sento di riconoscere in pieno.
Mi ha ricordato un po’ Shirley Jackson, quelle atmosfere inquietanti e desolate, quelle protagoniste un po’ disturbate. Andando avanti nel racconto si arriva a momenti horror che richiamano anche Stephen King (non c’è niente di paranormale ma semplicemente umano raccapricciante). La stessa Sicilia e in particolare Catania, luogo in cui si ambienta questa vicenda, è descritta vividamente ma sempre attraverso lo sguardo di una persona fortemente inquieta; tutto è desolazione, sporcizia, dolore e senso di morte che aleggia incontrastato.
Consiglio questo romanzo se cercate una storia destabilizzante unita a una scrittura potente.
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La pantera
Siamo a Ginevra, in Svizzera, i primi di luglio del 2022. Si sta svolgendo una rapina in una gioielleria del centro.
Il nuovo romanzo di Joël Dicker si apre così. Il lettore è fin da subito rapito dalla storia e si trova a girare una pagina dietro l’altra senza nemmeno accorgersene. Lo stile di Dicker ha questa caratteristica, ti fa immergere nella trama senza nessuno sforzo, puoi leggere senza preoccuparti della noia, sarai solo piacevolmente solleticato a ricostruire tutte le tessere dell’enigma fino alla conclusione.
Il romanzo si sviluppa ripercorrendo alcune settimane precedenti alla rapina, durante le quali due coppie con figli fanno amicizia. La prima coppia vive in una villa ultralussuosa dalle pareti di vetro, immersa nella foresta appena fuori Ginevra: sembrano avere una vita perfetta, ricchissimi, realizzati nel lavoro, molto belli e sempre in forma smagliante, hanno una famiglia da spot pubblicitario e sono intensamente innamorati l’uno dell’altra. Gli altri due invece vivono nella stessa zona ma in una delle villette a schiera che i più ricchi chiamano “L’obbrobrio”. Hanno una vita piuttosto ordinaria, fatta di impegni lavorativi e familiari. La coppia appare in evidente crisi, in particolare il marito, che è alla ricerca di nuove emozioni.
Non voglio svelare di più riguardo alla trama per non rovinare a nessuno il piacere della lettura.
Dal romanzo, che è un accattivante page turner e una buona lettura da intrattenimento, emerge anche una certa analisi sociale sullo sfondo: la curiosità, l’ammirazione e l’attrazione che si trasforma facilmente in invidia, verso chi sembra avere tutto: i soldi, l’amore, la felicità. Nella nostra società dove i social media hanno una parte integrante è di fondamentale importanza mostrarsi e apparire in un certo modo. Il concetto che poi questa apparenza non sempre corrisponda alla realtà, che è espresso nel romanzo più volte, personalmente mi sembra abbastanza scontato e non certo originalissimo da trattare.
In ogni caso l’obiettivo di Dicker non è quello di elaborare una approfondita analisi psicologica o sociologica, il suo obiettivo è quello di raccontare una storia e di catturare completamente l’attenzione del suo lettore. E questo ritengo che lo abbia centrato in pieno.
Lettura consigliata per trascorrere delle ore piacevoli.
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In Romania nel 1940
Harriet e Guy si sono sposati da poco in Inghilterra e stanno raggiungendo in treno Bucarest, dove Guy insegna inglese all’Università. Siamo nell’autunno del 1939 e la Germania ha appena attaccato e invaso la Polonia.
I coniugi Pringle rimarranno in Romania durante quei mesi frenetici e drammatici per la storia dell’Europa e del mondo, trascorrendo le loro giornate tra le attività all’Università, le conversazioni nei bar e i pranzi e le cene nei ristoranti più o meno di lusso, feste e spettacoli teatrali che riuniscono la società autoctona e quella straniera.
La narrazione è in terza persona ma filtrata secondo il punto di vista di Harriet. È attraverso lo sguardo della giovane che anche noi possiamo osservare la capitale rumena nei delicati mesi che vanno dall’autunno del 1939 fino all’inizio dell’estate del 1940. Possiamo conoscere i personaggi che popolano il mondo intorno ai coniugi Pringle, dagli intellettuali inglesi amici e colleghi di Guy, a personaggi a dir poco singolari come Yakimov, un inglese di origini russe dell’alta società ormai decaduto e impoverito, ai rumeni, come appaiono ad una ragazza inglese emigrata in quel luogo nel 1940. L’occhio di Harriet è acuto, sa cogliere e osservare la realtà che la circonda. Nel romanzo sono riportati gli stati d’animo, le vicissitudini, le emozioni e i sentimenti della donna; Manning racconta tramite Harriet la vita in un Paese straniero, le preoccupazioni per la guerra, la conoscenza approfondita del marito, che non c’era stata prima del matrimonio, l’esplorazione di una interiorità che si svela al lettore attraverso descrizioni si situazioni e scarne ma lampanti frasi di commento.
Il racconto di Manning non vuole sviscerare e approfondire motivazioni o dilungarsi sulle cause dei problemi: è più simile a una narrazione per immagini – in effetti l’autrice aveva una formazione alla Portsmouth School of Art come pittrice- suggestivo, dettagliato, nitido, in cui è semplice entrare e è facile comprendere.
« […] Guy entrò di corsa dietro di loro. A causa della lite di quella mattina, per Harriet fu come vederlo con occhi nuovi: un uomo disinvolto dotato di un’ampiezza di vedute e di un’imponenza fisica e mentale disarmanti. La sua stazza le dava l’illusione di sicurezza, poiché quello era, e Harriet se ne rendeva ormai conto: un’illusione. Guy era un porto che si era rivelato troppo poco profondo: non c’era modo di entrarvi. Per lui, i rapporti personali erano accessori. La sua realizzazione risiedeva nel mondo esterno.»
“La grande fortuna” di Olivia Manning è stato pubblicato in Inghilterra nel 1960 ed ora Fazi ce lo ripropone nella traduzione italiana. È il primo volume della trilogia dei Balcani. Non vedo l’ora di leggere anche i prossimi!
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Attacco di panico
« Ci sono un sacco di cose sulla Terra che considererei magiche se non fossero reali. Sognare, per esempio. Il fatto che i bambini prendano vita all’interno del corpo delle donne; il concetto in sé del concepimento. I castelli. Gli alberi. Le balene. I leoni. Gli uccelli. Gli arcobaleni. L’acqua. L’aurora boreale. I vulcani. I lampi. Il fuoco.»
“Moriremo tutti, ma non oggi”, romanzo di Emily Austin pubblicato in Italia da Blackie Edizioni, ci parla di Gilda, ragazza ventisettenne, canadese, lesbica, atea, che vive la sua vita con grandissime difficoltà. Ha continui attacchi di panico, ansia, depressione. Non riesce a svolgere le normali attività quotidiane né a tenersi un lavoro. Il personaggio di Gilda si inserisce nella scia delle protagoniste millennial della letteratura anglosassone contemporanea, eroine sovrastate dal male di vivere e devastate dall’incapacità di dare un senso a qualcosa che forse un senso non ce l’ha (tanto per citare Vasco Rossi).
Il romanzo è scritto bene e il suo maggiore pregio è proprio l’ironia, le vicende di Gilda sono tragicomiche e mentre ci fanno sorridere ci strappano anche dei pensieri amari. Tuttavia, secondo il mio modesto parere, l’impianto narrativo non è sufficientemente coinvolgente. La protagonista è, in fondo, riuscita letterariamente, ma la trama è scadente, la vicenda piuttosto banale e grottesca. In conclusione quindi, una lettura piacevole ma non particolarmente toccante.
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Chi era davvero Vittoria?
Quando sono usciti i dodici finalisti del premio Strega 2024 mi sono fatta una mia personale selezione dei libri che avrei voluto leggere.
Il primo che ho recuperato è “Chi dice e chi tace” di Chiara Valerio, edito da Sellerio.
Siamo a Scauri, paesino realmente esistente sulla costa tirrenica al confine tra Lazio e Campania, nei primi anni Novanta del secolo scorso.
«Paese è il posto dove tutti sanno tutto di tutti.»
La voce narrante appartiene a una donna che fa l’avvocato, Lea Russo, vive a Scauri, ha due figlie e un marito professore di fisica al liceo, Luigi. Quasi subito irrompe nella narrazione la notizia, imprevista e dolorosa, della morte di Vittoria.
Vittoria viveva a Scauri da circa vent’anni, ma non era originaria del luogo. Era arrivata da Roma, insieme a quella che allora era una ragazza bellissima, Mara, che non era sua figlia, né una sua parente, e con la quale Vittoria viveva come con una moglie. L’evento inaspettato della morte di Vittoria dà il via al romanzo: Lea si rende conto di non sapere poi molto della donna, fino al giorno del funerale non ne conosceva nemmeno il cognome; eppure, vivendo nello stesso paesino avevano condiviso molti momenti di vita, eventi, chiacchierate, paesaggi, amicizie. Lea comprende in quel momento di essere sempre stata affascinata da Vittoria, una donna libera, moderna, brillante e seducente e, nello stesso tempo, capisce di non aver mai approfondito questa amicizia, di non essere mai scesa in profondità nella relazione con Vittoria.
«Non importa il senso in cui ti piace qualcosa, importa che ti piaccia, e alla fine, quando ti piace e ti avvicini abbastanza, ci finisci dentro.»
La sua morte inoltre fa porre a Lea alcuni interrogativi: come è possibile che Vittoria sia morta annegando nella vasca da bagno quando tutti sapevano che era una nuotatrice provetta? Si tuffava regolarmente in mare, d’estate e d’inverno, e nuotava per chilometri.
Così, quando il parroco di Scauri consegna a Lea il testamento di Vittoria, l’avvocata decide che vuole saperne di più. Inizia quindi l’indagine di Lea, che non sarà la tipica indagine che nei gialli porta il lettore a scoprire chi è l’assassino. L’indagine di Lea porterà a ricostruire chi era veramente Vittoria, perché vent’anni prima era arrivata a Scauri con Mara. Cosa aveva lasciato della sua vita precedente e cosa invece aveva portato con sé. Questo momento di conoscenza di Vittoria avviene però quando lei ormai non c’è più e quindi diventa, per Lea, un momento di riflessione su se stessa. Lea prende maggiore consapevolezza di chi è, da dove è venuta, perché ha compiuto determinate scelte e non altre. Approfondendo la storia di Vittoria Lea – e direi anche noi lettori- si è resa conto di quanto le esistenze degli altri siano così diverse ma anche così simili le une con le altre.
Il romanzo mi è piaciuto molto. La narrazione procede speditamente in una prosa diretta e colloquiale, ma anche molto ricca di citazioni e richiami letterari. Le parole dei personaggi, riportate senza virgolette, sembra che irrompano improvvisamente nella mente di Lea come delle epifanie.
La vicenda è raccontata in modo delicato e allo stesso tempo profondo: gli affondi psicologici e sociologici ci sono ma vanno ricercati e colti dal lettore.
«Come definirebbe l’amore, avvocato, se non come l’oggetto del primo pensiero del mattino per ogni mattino della vita, io, di certo, ho pensato a lei ogni giorno.»
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Il Sacro femminile
“Donne sacre”, interessante saggio di Franco Cardini e Marina Montesano, ci accompagna in un dotto percorso storico e, direi, in parte anche antropologico, di approfondimento riguardo al tema del sacro declinato al femminile. Benché il sottotitolo sia “Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici”, questo studio non è propriamente, a almeno, non esclusivamente, una storia di personaggi femminili straordinari, una biografia di donne eccezionali. È piuttosto un approfondimento del concetto di sacro coniugato alla sfera del femminile.
Innanzi tutto occorre definire bene il concetto di “Sacro”. Sarebbe fuorviante pensare al Sacro come a un concetto che porta con sé necessariamente delle qualità che si attribuiscono al Divino come la Bontà, la Verità, la Giustizia, considerate assolute e perfette: qualità che finiscono comunque per essere antropizzate. Il Sacro invece è “ciò che per sua natura è tutt’altro da noi”.
«Al pari della corrente elettrica, il Sacro non è per sua natura né “positivo” né “negativo”, né buono né cattivo.»
«Il Sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di “altro”, rispetto all’uomo; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche Santo, quindi prossimo al Divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce.»
Nella storia sono esistite, sia nei sistemi religiosi che in quelli mitico-religiosi, delle donne che hanno avuto un contatto privilegiato con il Sacro. Non sempre questo le ha rese migliori o sante, anzi, a volte il diverso presente nella loro natura sacrale può averle rese anche terribili e mostruose.
In questo testo quindi vengono presentate alcune figure femminili che hanno avuto una relazione privilegiata con il Sacro, così come lo abbiamo definito. Infatti, anche se le donne, in alcuni contesti storici, sono state escluse dai ruoli istituzionali del sacerdozio, le figure di sacro femminile certo non mancano nel mito, nella realtà, nella letteratura e nell’immaginario comune. Il Sacro femminile è stato un elemento essenziale di molte culture, un ponte verso il divino, l’altrove, l’aldilà.
Procedendo in questa stimolante lettura possiamo conoscere diverse tipologie di sacralità femminile dell’età antica, tardo antica e medievale, fino ad arrivare alle soglie dell’età moderna e facendo un rapido excursus anche nella contemporaneità.
I primi capitoli esaminano il Sacro femmineo presente nel sistema delle religioni a struttura mitico-immanente, i culti metroaci, le divinità femminili e le sacerdotesse delle religioni politeiste antiche. Lentamente si arriva alla figura di Maria, la Vergine e Madre di Dio secondo i cristiani, alle sante medievali per poi giungere all’approfondimento riguardante le donne che riescono a comunicare con i morti e con l’aldilà, alle donne fatate, magiche e alle streghe. Infine, arriviamo all’ultima parte del testo in cui si approfondiscono alcune figure di donne particolarmente carismatiche, come Eva Perón.
Siamo di fronte ad un saggio molto stimolante, soprattutto per gli appassionati di storia, etnologia e antropologia, che ci permette di approfondire il tema del Sacro femmineo attraversando principalmente le epoche storiche di antichità e medioevo ma con accenni anche a momenti più contemporanei.
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La guerra partigiana
Erano già alcuni anni che volevo leggere questo romanzo ma, per un motivo o per un altro, continuavo a rimandare. Adesso, a lettura ultimata, posso dire: finalmente! Finalmente l’ho letto.
Sì, perché è sicuramente il romanzo sulla Resistenza che mi è piaciuto di più fra quelli letti finora.
Agnese è una donna semplice, ha lavorato sempre nella sua vita, si è presa cura del marito Palita, che da giovane era stato malato di tubercolosi. La guerra, le violenze, i soprusi, la morte irrompono improvvisamente nello scorrere consueto delle sue giornate. Le portano via gli affetti più cari. Allo stesso tempo le rendono chiaro il concetto che non si può continuare a subire in silenzio, che è sbagliato accettare le prevaricazioni e le violenze in modo passivo, che è necessario reagire. Così Agnese diventa una partigiana e partecipa alla guerra di liberazione.
«Lei allungò una mano e toccò l’arma fredda, con l’altra afferrò il caricatore. Ma non era pratica e non ci vedeva. Lo mise a rovescio, non fu buona a infilarlo nell’incavo. Allora prese fortemente il mitra per la canna, lo sollevò, lo calò di colpo sulla testa di Kurt, come quando sbatteva sull’asse del lavatoio i pesanti lenzuoli matrimoniali, carichi d’acqua.»
Il romanzo mi è piaciuto così tanto perché ci permette di entrare, con l’Agnese, nelle formazioni di combattenti partigiani nelle valli di Comacchio. Ci fa rivivere, nel magico tempo della lettura, le loro azioni, ci fa capire come si svolgeva la loro vita, chi erano quelle persone, di diversa classe sociale, genere, formazione e anche nazionalità che decisero di armarsi e partecipare a una guerra odiata ma ritenuta, a un certo punto, inevitabile, da dover assolutamente combattere.
Si tratta di un testo realistico, meno filtrato dalla lente letteraria rispetto a altre opere e quindi forse meno artistico ma più vero e autentico. Più storico. Avventuroso. Emozionante. Commovente.
Il personaggio di Agnese poi è indimenticabile, grandissimo nella sua umiltà, determinato, forte, coraggioso, rimarrà per sempre impresso nell’immaginario letterario di chiunque abbia letto questo romanzo.
Renata Viganò partecipò alla Resistenza e conobbe una donna a cui si ispirò per dare vita all’Agnese letteraria. Scrisse questo romanzo per ricordare quei mesi terribili ma necessari. Per ricordare tutti i compagni morti, come l’Agnese, mentre combattevano nella guerra partigiana di liberazione.
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A chi vuole approfondire la Resistenza anche da un punto di vista storico.
Il pifferaio magico
Ci troviamo a Philadelphia, nel quartiere di Kensigton, popolato di tossicodipendenti e prostitute. Arriva una segnalazione al centralino della polizia, è stato trovato il cadavere di una donna, probabilmente morta per overdose, e Michaela, agente di polizia della stradale, si appresta a raggiungere il luogo del ritrovamento.
La voce narrante che ci accompagna per tutto il romanzo è proprio quella di Michaela, una donna che fin dalla più tenera infanzia ha dovuto confrontarsi con il terribile morbo della tossicodipendenza, anche se mai in maniera diretta. Le persone a lei più vicine, prima i genitori, poi l’amata sorella Kacey le sono stati portati via dall’inesorabile pifferaio magico dell’eroina.
« Sono debole? Forse, in un certo senso: testarda, magari, cocciuta, riluttante a farmi aiutare anche quando ne avrei bisogno. Ho anche paura del dolore fisico: sicuramente non sono una che si prende una pallottola per un amico e nemmeno una che si butta nel traffico all’inseguimento di un criminale in fuga. Povera, sì. Debole, anche. Stupida, no. Non sono stupida.»
La vita di Mickey è stata ed è tuttora molto difficile, dura. Lei è sempre stata una ragazza seria, studiosa, ha scelto di non lasciarsi andare alle facili illusioni, ha un lavoro rispettabile e un figlio di quattro anni che deve crescere da sola.
La sorella, Kacey, è un po’ il suo alter ego: estroversa e ribelle, perfettamente inserita nel suo contesto sociale di riferimento che ha finito, purtroppo, per risucchiarla nel vortice della tossicodipendenza.
Mickey racconta la sua storia in una semplice alternanza di piani temporali: “Allora”- “Adesso” e ricostruisce la sua infanzia segnata dalla morte della madre, il complicato percorso di crescita dell’adolescenza, un percorso che ha dovuto compiere completamente in solitudine, dovendo anche cercare di salvare la sorella. Pagina dopo pagina ripercorriamo gli anni da lei vissuti e siamo sempre più coinvolti nel suo racconto di adesso: Kacey è scomparsa, sono alcuni mesi che non si fa vedere su Kensigton Avenue. Sarà in pericolo? Chi è il misterioso killer che si aggira nel quartiere e uccide le giovani donne che si prostituiscono per pagarsi la droga?
“I cieli di Philadelphia” è solo apparentemente un thriller. Certo la narrazione si snoda con abilità da parte dell’autrice, ci sono colpi di scena e momenti ricchi di suspense. Lo scopo del romanzo però non è certo capire chi è il colpevole o scoprire che fine ha fatto Kacey. Il cuore pulsante del libro si trova nel racconto delle esperienze di vita a Kensington, nella durezza, nella tristezza, nella disperazione e nell’abbondono delle esistenze di queste persone, raccontate con partecipazione quasi poetica dall’autrice. Il cuore pulsante di questo romanzo è nell’emozione che incredibilmente si prova leggendo un lungo elenco di nomi di persone morte a causa della droga.
Liz Moore ha la rara capacità di rendere i suoi personaggi veri; di saperli far uscire dalla carta della pagina e di umanizzarli. La protagonista, Mickey, è infatti descritta in maniera magistrale e molto riuscita dal punto di vista letterario.
Nei ringraziamenti l’autrice cita le fotografie di Jeffrey Stockbridge, che ha raccontato nel 2009 attraverso le immagini il quartiere di Kensington: l’empatia dolorosa che percepiamo vedendo queste foto è la stessa che proviamo leggendo questo intenso romanzo.
«Continuiamo a camminare in silenzio. Poi lei prosegue il racconto. “Connor può fare cose cattive” dice “ma non è del tutto cattivo. Quasi nessuno lo è”. »
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La sindrome di Shehrazade
Paul Sheldon riemerge da uno stato di incoscienza: si trova in una camera che non ha mai visto, accudito da una donna che non conosce, ha un intenso dolore alle gambe. Piano piano comincia a ricordare: era andato a finire di scrivere il suo nuovo libro in Colorado e, arrivato alla conclusione del romanzo, aveva deciso d’impulso di prendere la macchina e viaggiare verso ovest, invece di salire sul solito aereo per New York. Ma si era messo alla guida dopo aver bevuto troppi bicchieri di champagne e, per giunta, era incappato in una bufera di neve. Aveva avuto un brutto incidente stradale: era ridotto davvero male. E adesso perché non era in ospedale? E quella donna che l’aveva tirato fuori dall’auto, alimentato con flebo e imbottito di antidolorifici a base di codeina, chi era? E cosa voleva da lui?
Nel corso di un racconto intenso, che vi porterà nel climax di angoscia, paura e disperazione provate da Paul, potrete avere la risposta ad ognuno di questi interrogativi.
“Misery”, capolavoro dell’horror pubblicato nel 1987, è un romanzo che riesce a tenere il lettore incollato alla pagina dall’inizio alla fine della narrazione. In un primo momento vogliamo capire cosa è successo, vogliamo conoscere Annie, vogliamo sapere fin dove si può spingere il suo essere psicopatica. In seguito ci schieriamo con Paul, personaggio estremamente convincente: coraggioso e anche vigliacco, vizioso e capace di resistere, vittima che però riesce a reagire, scrittore popolare che sa padroneggiare perfettamente la sua arte. Come non rimanere affascinati dall’uomo che, chiuso in una micidiale spirale di terrore, cerca di ricavarsi un passaggio verso la salvezza scrivendo una storia che sia in grado di piacere alla sua aguzzina? Ci troviamo catapultati lì vicino e ci immaginiamo di sussurrargli: “Paul, Puoi! Non lasciarti distruggere dall’orrore, non smettere di provarci, non arrenderti anche se è quasi impossibile!”
“Misery” è un romanzo veramente avvincente, scritto in modo magistrale da Stephen King. Contiene anche interessanti riflessioni sulla scrittura, sulla letteratura e più in generale sull’arte popolare. Non lasciamoci allontanare da quest’ultima a causa di un atteggiamento troppo snob. Non sottovalutiamo il suo potere sulla vita delle persone.
Buona lettura!
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Donne e romanzo
« Qui dunque, Mary Beton smette di parlare. Vi ha raccontato come è arrivata alla conclusione – conclusione prosaica – che se dovete scrivere romanzi o poesia è necessario che possediate cinquecento sterline l’anno e una stanza con una serratura alla porta. »
Dello scritto di Virginia Woolf, “Una stanza tutta per sé”, del 1928, colpiscono la lucidità dell’analisi del problema, la chiarezza delle argomentazioni, la piacevolezza dello stile.
Il celebre saggio si basa su due conferenze tenute da Woolf presso la Arts Society di Newnham e la Odtaa di Girton sul tema, complesso e affascinante, “Donne e romanzo”.
Partendo dall’analizzare la situazione a lei contemporanea, riguardante la letteratura e le donne, Virginia Woolf delinea un quadro profondamente maschilista e patriarcale della società in cui vive, che ha portato inevitabilmente ad una affermazione molto più lenta e difficoltosa nel tempo delle scrittrici rispetto agli scrittori maschi. La funzione della donna, per secoli, è stata quella si specchio riflettente per la figura dell’uomo; lo scopo della donna si è esaurito nel compiacere il senso di superiorità del maschio.
Non sarà quindi difficile scoprire la vera causa per cui nel corso del tempo quasi nessuna donna ha scritto poesia o opere teatrali. Certamente non si tratta di inferiorità intellettuale, di minori capacità del cervello femminile, come, purtroppo, è stato anche pensato e dichiarato dalla società maschilista e patriarcale. Molto semplicemente invece, sottolinea Woolf, la ragione va cercata nella disparità di condizioni materiali, che hanno portato alcune donne, anche dotate dello stesso ingegno creativo dei corrispettivi maschi, a dover rimanere in disparte, mute, in silenzio, costrette a privarsi di impegno intellettuale. Ecco spiegato perché è stato impossibile che una donna abbia scritto le opere di Shakespeare, all’epoca di Shakespeare.
E una volta trascorsi i secoli, e, arrivati finalmente al momento in cui alcune coraggiose donne, appartenenti alla classe media hanno rotto il tabù e hanno scritto, perché si sono cimentate con successo soltanto nel genere letterario del romanzo? Anche in questo caso occorre cercare la risposta non in questioni fisiologiche o in sospette disparità intellettuali fra i due sessi, ma nel fatto che, nell’Ottocento, una famiglia della classe media possedeva una sola stanza di soggiorno per tutti i suoi componenti e una donna che volesse scrivere era costretta a farlo soltanto nel soggiorno comune, dove veniva continuamente interrotta dalle incombenze familiari e dai visitatori. Inoltre, l’educazione letteraria che una donna riceveva agli inizi dell’Ottocento era unicamente un’educazione rivolta allo studio del carattere e all’analisi delle emozioni.
«Da secoli la sua sensibilità veniva educata sotto l’influenza della stanza di soggiorno comune.»
Nonostante tutto questo, possiamo dire, abbiamo avuto Jane Austen, Emily e Charlotte Bronte, George Eliot.
E siamo giunti ai primi decenni del Novecento, quelli in cui scrive Virginia Woolf. Qualche progresso era stato fatto rispetto al passato, ma ancora in quel momento pochissime donne erano laureate, quasi nessuna era una professionista, per non parlare dell’affermazione in politica, nell’esercito, nella diplomazia o nelle alte sfere economiche. Eppure erano pronte per entrare nella stanza della loro forza creativa.
Potremo mai dare una voce alla sorella di Shakespeare? E a tutte le donne che invece di studiare, pensare e scrivere si sono dedicate a allevare bambini, lavare i piatti e accudire genitori anziani? Secondo Virginia Woolf, che scriveva circa un secolo fa, sì, possiamo farlo. E effettivamente, lo stiamo facendo.
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Un romanzo fatto di inizi
«Vorrei poter scrivere un libro che fosse solo un incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità dell’inizio, l’attesa ancora senza oggetto. Ma come potrebb’essere costruito, un libro simile? S’interromperebbe dopo il primo capoverso? Prolungherebbe indefinitamente i preliminari? Incastrerebbe un inizio di narrazione nell’altro, come le Mille e una notte?»
“Se una notte d’inverno un viaggiatore”, pubblicato da Italo Calvino nel 1979, ebbe fin da subito un grande successo di pubblico e critica. Si tratta di un grande gioco a incastro nel quale l’Autore ha voluto scrivere un romanzo fatto solo di incipit. La narrazione che segue una continuità cronologica, come nel romanzo ottocentesco, qui è esplosa: siamo di fronte a una serie di possibilità che prendono forma e consistenza loro propria, un romanzo plurale, o un “iper romanzo” come amava definirlo lo stesso Calvino.
Il personaggio principale è un Lettore, che acquista l’ultimo libro di Italo Calvino e inizia a leggerlo. Dopo poche pagine però si rende conto che non può continuare la lettura a causa di un errore di impaginazione. Ritorna allora in libreria per cambiarlo e qui incontra Ludmilla, la Lettrice, alla quale è accaduta la stessa cosa. I due continuano a frequentarsi e si innamorano, mentre cercano inutilmente di completare la lettura di tutta una serie di altri romanzi (ben dieci!) che appartengono a generi letterari molto diversi e dei quali riescono sempre a leggere solo le prime pagine. Si va dal thriller psicologico, al racconto erotico giapponese, dal romanzo rivoluzionario russo, all’epos latinoamericano. Calvino passando da un romanzo all’altro cambia stile, lessico, ritmo. E intanto dialoga con i personaggi, soprattutto con il Lettore, a cui si rivolge con un incosueto “tu”.
Senza dubbio la scommessa di Calvino può dirsi vinta, il romanzo ha avuto e ha tuttora moltissimi estimatori e un posto di riguardo nella nostra Letteratura.
Personalmente purtroppo non ho trovato così avvincente il protrarsi delle vicende caotiche e il moltiplicarsi senza limiti delle riflessioni sulla lettura, sulla scrittura, sulla letteratura. Ho apprezzato come sempre l’ironia di Calvino e la ricerca di una nuova espressività creativa.
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Racconto dell'orrore
In “Sorella, mio unico amore”, Joyce Carol Oates si ispira liberamente a un fatto di cronaca avvenuto nel 1996 in Colorado, quando una bambina di soli sei anni, che era stata proclamata reginetta di bellezza, venne trovata uccisa nella cantina della sua ricca casa di famiglia.
Il romanzo di Oates è scritto sotto forma del memoir che scaturisce dalla penna e soprattutto dalla mente del fratello di una bimba uccisa, a soli sei anni, nel locale caldaia della sua abitazione a Fair Hills: la bambina, Bliss Rampike, era considerata una promessa del pattinaggio sul ghiaccio. Il ragazzo, Skyler , mentre scrive ha diciannove anni, è un tossico disperato e sfinito che ripercorre nella scrittura tutta la sua infanzia fino al momento della morte della sorellina e tutta la sua adolescenza segnata dal terribile lutto e da un inquietante e potentissimo senso di colpa che lo sta distruggendo. Attraverso il suo racconto, tagliente e raccapricciante per come descrive la sua triste esistenza, possiamo cogliere come le sfrenate e malate ambizioni per raggiungere la fama e il successo presenti in una famiglia americana dei sobborghi abbiano generato mostri.
I genitori, in particolare, sono due personaggi particolarmente squallidi. Il padre sembra concentrarsi solo sulla carriera, pone ogni sforzo nel cercare di aggiungere altri soldi ai tanti che ha già, è assente nei riguardi dei suoi figli e intreccia in continuazione relazioni extraconiugali. La madre cerca spasmodicamente il successo sociale e la celebrità, vuole essere ricercata dai mezzi di comunicazione. Per riuscire in questa impresa però non ha grandi doti personali che le permettano di eccellere in qualcosa: non è così tanto bella, non svolge una professione, non è una campionessa sportiva. (Siamo alla metà degli anni Novanta, non esistono ancora le influencer). Così ci prova con i due figlioletti: inizia con Skyler, il suo “ometto”, il maschio primogenito. Ma il povero bambino non ha nessuna particolare dote sportiva o di altro genere che lo renda un fenomeno mediatico. Anzi, cercando di eccellere nella ginnastica ha un brutto incidente che lo porterà a zoppicare. Non rimane che concentrarsi sulla figlia femmina, che, inaspettatamente, rivela un incredibile talento per il pattinaggio sul ghiaccio. Così la bambina, a soli quattro anni diventa una stella: televisioni che la riprendono durante le esibizioni, allenamenti intensivi, cure mediche ossessive e farmaci per performare di più, trattamenti estetici invasivi per accaparrarsi nuovi contratti pubblicitari… Finché, un giorno, la povera Bliss viene trovata uccisa nel locale caldaia della sua opulenta abitazione a Fair Hills. Chi l’avrà uccisa? I suoi familiari? Lo stesso fratellino Skyler? Oppure un pedofilo che si è introdotto nella casa senza che nessuno se ne sia accorto?
Si tratta di una lettura molto coinvolgente, lo stile dell’autrice riesce a ricreare i tormenti interiori e la profonda sofferenza di Skyler. Le abbondanti pagine che costituiscono il romanzo scorrono via velocemente, portandoci in territori che svelano l’orrore che può annidarsi in esseri umani ricchi e di successo e in relazioni, come quella genitori-figli, in cui al primo posto si dovrebbe trovare l’amore e non certo lo sfruttamento e la violenza.
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Molcho ovvero... l'elaborazione del lutto
In questo caldissimo agosto torno al mio amato scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua. Questa volta ho letto il terzo romanzo della Trilogia di amore e di guerra, che comprende anche il celebre “L’amante” e “Un divorzio tardivo”.
Molcho è un cinquantenne un po’ sovrappeso, un impiegato del Ministero degli Interni con tre figli ormai grandi. A Molcho è appena morta la moglie dopo una estenuante e penosa malattia durata sette anni. La loro non era una storia d’amore alla Romeo e Giulietta; erano piuttosto compagni di vita, avevano una famiglia, dei figli e un progetto esistenziale da compiere insieme. Era infatti la moglie, nella coppia, quella più colta, l’intellettuale, l’amante della musica, quella più inflessibile, più rigorosa. Era lei a trainare Molcho, a guidarlo per i percorsi della vita. Poi c’è stata la malattia, lunga, dolorosa e terribile e durante la malattia è stato Molcho a guidare la coppia, a prendersi cura fino all’estremo di quella moglie così necessaria. E adesso è arrivata la morte di lei (siamo proprio all’inizio del romanzo) e davanti a Molcho si apre una prospettiva di apperente libertà, in realtà inizia per lui un momento molto delicato, sospeso fra il desiderio di tornare alla vita e il dolore per la perdita della moglie.
« Subito fu come succhiato dentro, come se la morte che aveva lasciato dietro a sé in autunno gli fosse corsa avanti a precederlo qui, in questo sperduto angolo di Galilea, come un cane crudele che avesse morso a sangue qualcuno e ora se ne stava accovacciato e stanco sotto la tavola, sonnecchiando.»
Molcho non è un eroe tragico, è solo un uomo come tanti, è solo un uomo che ha perso una parte importantissima della sua vita e reagisce come può, cerca di trovare un nuovo equilibrio, cerca di non farsi risucchiare dalla morte ma di risvegliarsi alla vita, e lo fa, a volte, anche in modo ridicolo o assurdo.
Si tratta di un romanzo da leggere con calma, gustandone la particolare intensità. Yehoshua sembra dirci, con le sue storie così affondate nella quotidianità da sembrare strane, che siamo tutti sulla stessa barca, in fondo. La vita è già di per sé una difficile missione. Non giudicate gli altri, ma cercate di comprenderli.
« - Uri,- balbettò, succhiando di nuovo una sigaretta, -Uri cerca una missione, un significato, non cerca solo di sapere quanto piacere si può ottenere e quanto male si deve evitare-. Molcho chiese: -Quale missione? – Beh, è proprio il fatto di cercare continuamente, proprio questo. –Sì, lo so, - disse Molcho in tono un po’ ironico, -questo ce lo diceva quando eravamo ragazzi, trenta e più anni fa, me lo ricordo, ma cosa ha trovato, da allora?- Lei cercò di spiegare: - Non è un’Idea che si possa trovare, ma qualcosa che si deve vivere. –Però, la vita stessa non è già in sé una missione?- chiese lui; -il fatto di vivere semplicemente la propria vita, e non fallire, non cadere e non morire per strada, ma tenere sempre duro, tutto questo non è già di per sé una cosa pregna di significato?- »
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Spinoza ovvero il filosofo della gioia
«Non deridere, non compiangere, non disprezzare, ma comprendere le azioni umane.»
Baruch Spinoza
Conoscete Baruch Spinoza? Forse non così tanto se non siete proprio dei filosofi; pare infatti che anche al liceo non venga trattato in modo così approfondito. Se Spinoza vi incuriosisce e volete avere una panoramica chiara e essenziale del suo pensiero, questo saggio di Frédéric Lenoir fa al caso vostro.
Si tratta di un’opera destinata alla divulgazione filosofica, rigorosa nella sua sinteticità. A mio parere la chiarezza e la capacità di sintesi sono delle qualità eccellenti e Lenoir, un filosofo che ha molto studiato e approfondito Spinoza, ne è fortunatamente molto provvisto.
Possiamo quindi addentrarci in modo piacevole nel sistema di pensiero del grande filosofo olandese, che durante la sua vita, nel XVII secolo, fu osteggiato e poco conosciuto dai contemporanei, a causa delle sue idee a dir poco anticipatrici sui tempi, ma che poi è stato molto rivalutato, soprattutto a partire dall’Ottocento. Lenoir ci guida in un percorso veramente interessante di prima conoscenza, chiarendo i punti fondamentali del pensiero spinoziano: a partire dalla sua lettura critica della Bibbia, fino alla presentazione dell’Etica, opera veramente complessa, soprattutto per la sua struttura, che si prefigge di spiegare la concezione filosofica del mondo dimostrandola attraverso l’ordine geometrico.
Spinoza nacque nel 1632 nei Paesi Bassi; proveniente da una famiglia ebrea, elaborò un pensiero religioso completamente diverso da tutte e tre le religioni tradizionali monoteiste, per questo fu espulso dalla sua comunità di origine ma non ebbe nemmeno il favore dei cristiani, né cattolici né protestanti.
Lo scopo della filosofia di Spinoza è capire qual è la via per raggiungere la felicità per l’uomo e a questo filosofare si dedicò liberamente durante tutta la sua esistenza, lavorando come ottico per mantenersi e scrivendo le sue opere ma limitandone molto la pubblicazione e la diffusione. È straordinario quanto il pensiero di Spinoza possa essere considerato moderno, le sue speculazioni filosofiche hanno anticipato in qualche senso la psicoanalisi e non possono che trovare consenso fra pensatori razionali e contemporanei. Sicuramente è un filosofo da conoscere e apprezzare.
«Avrai capito, caro lettore, che amo profondamente Baruch Spinoza. Quest’uomo mi commuove per la sua autenticità e immensa coerenza, per la sua dolcezza e tolleranza, anche per le sue ferite e sofferenze, che ha sublimato nella sua incessante ricerca di saggezza. Mi piace anche perché è un filosofo dell’affermazione. È uno dei rari filosofi moderni a non sprofondare nel negativismo, in una visione essenzialmente tragica della vita, ma a considerare l’esistenza in modo positivo e a proporre un percorso di costruzione di sé che arriva alla gioia e alla beatitudine.»
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Esercizio di stile
Quando ho comprato, qualche settimana fa, “Trust”, di Hernan Diaz, la libraia mi ha assicurato che si trattava di uno dei libri più belli e coinvolgenti degli ultimi tempi. Inoltre, il romanzo ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa nel 2023, così mi sono avvicinata alla lettura con aspettative molto alte e piena di speranze di appagamento intellettuale.
In effetti, dopo aver finito di leggere l’ultima pagina, non posso dire che questo non sia un buon romanzo, ben costruito e che cerca espressamente l’attenzione e l’approvazione del lettore più smaliziato e intelligente. Tuttavia, nel mio caso, non è scattata quella scintilla che permette di affermare di aver amato quel libro. È rimasta una lettura fredda, che non mi ha coinvolta.
L’autore gioca deliberatamente con il concetto di finzione e realtà che appartiene in modo intrinseco al concetto di narrativa. Quando il lettore legge un romanzo sa che sta leggendo qualcosa di non vero, di inventato; tuttavia sceglie di dar fiducia a chi racconta quella storia e la legge come se fosse vera; anzi, deve credere alla storia perché quest’ultima possa diventare veramente sua e dare un contributo alla sua vita reale. Fra autore e lettore quindi esiste un patto di fiducia che dà vita alla Letteratura. Diaz ha voluto porre l’accento su questo aspetto e farci notare quanto la narrazione sia sempre costruita in bilico tra realtà e finzione. Ha così dato vita a un romanzo che è formato da quattro voci diverse che raccontano la stessa storia.
Anni Cinquanta, New York. Harold Vanner pubblica un romanzo, “Fortune”, in cui racconta le esperienze biografiche, la fortuna e l’ambiguo rapporto con la moglie di un ricchissimo finanziere. La vita dell’uomo rivela luci e molte ombre, diversi punti oscuri che riguardano in particolare il suo eccessivo e per questo giudicato molto dubbio, arricchimento, e la relazione con la moglie, terminata con la prematura morte di lei. I fatti narrati si riferiscono agli anni Venti e Trenta del Novecento. Successivamente Diaz, senza dare molte spiegazioni e quindi provocando un iniziale straniamento nel lettore, riporta anche il punto di vista del ricco finanziere, filtrato dalla voce della sua segretaria, Ida Partenza, incaricata di scrivere la sua reale biografia; e il punto di vista della moglie, filtrato nella scrittura di un diario personale.
Sicuramente si tratta di un buon libro, costruito in modo intelligente. Ciò che non mi ha convinto è stato lo stile. Ho trovato tutte e quattro le narrazioni, pur molto diverse fra loro e in alcuni casi volutamente piatte e particolari, poco coinvolgenti. La vicenda ne è uscita monotona e incolore. Il primo testo, “Fortune”, è stato paragonato nello stile ai romanzi di Edith Wharton o di Henry James, ebbene, non sono per niente d’accordo. Non mi sembra una scrittura nemmeno lontanamente simile. Ed anche gli altri racconti mi sono sembrati troppo meccanici e quindi pochissimo coinvolgenti. L’autore si è molto preoccupato di rendere i diversi punti di vista e di creare stili di scrittura diversi e c’è riuscito perfettamente, ma a scapito dell’anima del testo, che, a mio avviso, non c’è.
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Amaro e potente
Torniamo a Bois Sauvage per il completamento della trilogia iniziata con “Salvare le ossa”, con il romanzo “La linea del sangue”, pubblicato in Italia da NN Editore nel 2020. In realtà questo volume è il primo uscito dalla penna di Jesmyn Ward. Siamo di nuovo in questa cittadina del bayou del delta del Mississipi, Bois Sauvage appunto, e ritroviamo molte delle atmosfere e dei personaggi di “Salvare le ossa”.
I protagonisti stavolta sono due gemelli adolescenti, Joshua e Christophe. La storia si apre il giorno del loro diploma: i due ragazzi sono riusciti a terminare la scuola superiore e devono festeggiare. Il quel momento speciale la famiglia che è presente non è rappresentata dai genitori però, ma dalla nonna, anziana e quasi completamente cieca, e da alcuni zii e cugini. La madre è a Atlanta, ha abbandonato i figli quando erano piccoli affidandoli alle cure della propria madre. Il padre non è mai stato presente, è un tossico della zona che compare in paese in determinati periodi, di solito dopo aver trascorso qualche anno a disintossicarsi.
Joshua e Christophe sono uguali ma anche diversi, legati dal sangue ma anche dall’amore che nasce dalla condivisione e dalla vita trascorsa insieme. All’inizio del romanzo sono due ragazzi cresciuti in un ambiente sociale duro e difficile, che non offre particolari opportunità. Nonostante questo e nonostante il dolore che devono portarsi dentro per essere stati abbandonati dai genitori, sono due ragazzi generosi e affidabili. Joshua, Christophe e la nonna sono legati da un affetto sincero e potente, da cui tutti e tre attingono la forza per affrontare la vita. Ma il giorno del diploma non è un traguardo fine a se stesso e il preludio ad un futuro sfavillante: in realtà il passaggio alla vita adulta presenta molti lati oscuri e si apre davanti ai gemelli un percorso difficoltoso, nel vero senso della parola. Infatti adesso devono pensare a lavorare, a guadagnare per tirare avanti e mantenersi da soli. I soldi della pensione di invalidità della nonna non possono bastare. Lo scenario che si apre loro davanti non è certo allettante o ricco di opportunità; Bois Sauvage offre ben poco per costruire un futuro con un semplice diploma di scuola superiore: andare a lavorare come commesso in qualche negozio, da McDonald’s, in un minimarket. Oppure spostarsi di qualche chilometro e trovare un lavoro al porto come operaio. Tutte queste soluzioni non sono entusiasmanti ma i gemelli sono chiaramente decisi a centrare uno di questi obiettivi e non altro, al di fuori della legalità.
Un giorno squilla il telefono, stanno chiamando dal cantiere del porto, uno dei gemelli è stato assunto. Uno solo, non tutti e due. Da questo momento inizia un periodo di crisi, che vede i fratelli allontanarsi e prendere strade diverse. Dalla loro unione scaturiva la forza e la dolcezza della vita, dalla loro separazione nasce la crisi, la debolezza, il disastro.
Leggere questo libro mi ha riportata, per contenuti e ambientazione, a “Salvare le ossa” e questo mi è piaciuto perché, della trilogia di Bois Sauvage, mi è sembrato il romanzo più potente: è quello che, a distanza di anni dalla lettura, ricordo di più. Anche “La linea del sangue” è un romanzo molto coinvolgente, in cui l’amarezza dei contenuti si fonde con lo stile poetico dell’Autrice. L’occhio di Ward sa cogliere la bellezza e la sua penna la sa descrivere: quella bellezza che si manifesta, forte, nella grandezza della natura e nel volto delle persone che amiamo.
«Adesso Joshua capiva perché a Ma-mee era piaciuto tanto quel viaggio: nella luce del tramonto, nel vento forte, l’erba di palude tremava e frustava l’aria, girandosi da una parte e dall’altra per catturare la luce, passando dal verde al dorato, al rosa, al colore del grano. La vegetazione fremeva piegandosi alla carezza dell’aria che dal golfo soffiava fino al lago, attraversando la stretta la stretta lingua di sabbia, erba e pini; tutto scintillava e risplendeva come il viso di Laila, gli occhi di Ma-mee, o un piccolo pitbull tarchiato dalle gambe storte mentre balza in aria –una bellezza del tutto gratuita, qualcosa che chiede di essere adorato solo per il fatto di esistere.»
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Uno studio di vita provinciale
Il 2023 per me è un anno di intensa lettura di classici; in questo caldo mese di luglio è arrivato anche il momento di “Middlemarch”.
Capolavoro dell’età vittoriana di George Eliot, alias Marian Evans, si tratta di un romanzo dalla struttura policentrica, in cui l’elemento unificante non è la figura di un protagonista ma una intera città, Middlemarch appunto, immaginaria cittadina inglese degli anni Trenta dell’Ottocento.
Siamo di fronte ad un’opera corale costruita su trame diverse nella quale confluiscono le vicende di alcuni personaggi principali ma anche i pettegolezzi, le chiacchiere delle persone del luogo, le regole sociali condivise da quella comunità. Non è un caso infatti che il titolo completo dell’opera sia “Middlemarch. Studio di vita provinciale.”
L’azione si svolge nel centro urbano di Middlemarch, nelle tenute di Sone Court e Freshitt Hall e nei villaggi di Lowick e Tipton in un periodo che va all’incirca dal 1829 al 1832.
Come già affermato poco sopra, il romanzo non ha un vero e proprio protagonista, ma senza dubbio i due personaggi più importanti sono Dorothea Brooke e Tertius Lydgate.
Dorothea all’inizio della narrazione è una ragazza bella e ricca; è una giovane appassionata, dalla forte spiritualità e intensa vita interiore. Le sue scelte sono motivate da ragioni diverse rispetto alla scontatezza della maggior parte delle persone. Questo non significa che tali scelte non possano rivelarsi comunque sbagliate. Dorothea dovrà soffrire per le sue illusioni, per aver voluto vivere in modo diverso rispetto alla superficialità degli altri; nonostante tutto però rimarrà sempre fedele a se stessa e al suo appassionato coraggio di vivere. Devo ammettere che Dorothea è il personaggio che ho più amato.
L’altro personaggio fondamentale è Lydgate, un medico che si è trasferito a Middlemarch da poco; ama profondamente la sua professione, che vorrebbe contribuire a migliorare, anche attraverso ricerche scientifiche da lui condotte. Lydgate dovrà scontrarsi con la dura realtà della vita e perdere le illusioni che lo avevano animato.
Le due vicende principali sono affiancate da altre trame: ad esempio la storia d’amore tra Fred Vincy e Mary Garth, oppure la storia del banchiere Bulstrode. Tutto ciò, magistralmente tenuto insieme dal disegno dell’Autrice, contribuisce a creare un grande affresco della provincia inglese degli anni Trenta dell’Ottocento.
Si tratta di una lettura da assaporare senza fretta, che procede lentamente ma piacevolmente portandoci nell’immaginaria Middlemarch, nella vita di persone di una Inghilterra dell’Ottocento che lavorano, amano, cercano uno scopo alla loro esistenza, tra illusioni e dura realtà, tra aneliti ideali e religiosi e bisogno di vile denaro.
«Il suo spirito fine ebbe ancora espressioni di grande finezza, anche se queste non suscitarono l’interesse generale. La forza della sua natura, come il fiume di cui Ciro soggiogò la violenza, si disperse in rivoli privi di importanza su questa terra. Ma gli effetti che ebbe su coloro che le stavano intorno si diffusero in maniera incalcolabile, perché il bene sempre più grande che c’è al mondo dipende in parte da atti che non hanno storia; e il fatto che a noi le cose non vadano così male è in gran parte merito dei molti che hanno vissuto una vita onesta e oscura, che riposano in tombe che nessuno visita.»
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Oblomovismo
La Letteratura elabora e trasmette figure e fantasie che abitano nella mente dell’uomo, serve a creare miti e leggende, ma anche a decodificare comportamenti e valori che possiamo trovare negli altri e in noi stessi.
Leggere “Oblomov” è stata un’esperienza affascinante e, in parte, anche sconvolgente per me, perché una parte di Oblomov abita in me e perché una parte di lui ha abitato a lungo nella mia vita.
Oblomov è un uomo di circa trent’anni, un nobile possidente che vive di rendita nella Russia della metà dell’Ottocento. Non ha bisogno di lavorare per vivere e, dopo una piccola parentesi in cui ha provato a farlo, ha abbandonato l’idea. Passa le sue giornate dal letto al divano, in una casa trasandata, non si dedica a nessuna occupazione culturale o sociale. Non riesce a gestire le situazioni pratiche della vita, come traslocare, occuparsi dei propri affari, persino scrivere delle lettere. Non vuole uscire di casa, non trova piacere e gioia nella partecipazione ad eventi mondani, spettacoli o manifestazioni. Assolutamente non vuole viaggiare. È un uomo adulto che non è maturato, è stato abituato fin da piccolo a non essere autonomo, a farsi addirittura mettere le scarpe dal proprio servo e ora non riesce a vivere: è estremamente passivo, incapace di qualsiasi azione.
Oblomov incarna perfettamente l’immobilismo di molti russi della sua classe sociale nell’Ottocento; in questa opera letteraria è senza dubbio presente una critica a questo particolare tipo sociale, l’uomo superfluo, l’inetto che non riesce a trovare una occupazione che possa riempire di significato la sua vita e motivare le sue azioni. Ma quello che arriva potente ed è in grado di parlare ancora oggi perfettamente al lettore del 2023 dal 1859 non è una valutazione storica e sociale ma è la descrizione, perfetta, attraverso l’opera letteraria, dell’Oblomovismo. Perché l’Oblomovismo non riguarda soltanto alcuni nobili russi vissuti nella seconda metà del XIX secolo e nemmeno soltanto alcuni protagonisti di romanzi che sono diventati dei classici. L’Oblomovismo, infatti, riguarda l’essere umano. Come accennavo prima, ad esempio, io l’ho conosciuto molto da vicino, perché affliggeva una persona che mi è stata accanto per molti anni e, lo riconosco, a volte affligge anche me. Ed è proprio in questi casi, quando la Letteratura fa rivivere, sotto forma di testo narrativo, alcuni snodi fondamentali della vita degli esseri umani, quando ci mostra sotto forma di racconto scritto le nostre fragilità, debolezze e sofferenze, è proprio in questi casi che la Letteratura diventa necessaria, importante per noi, vitale. Non voglio aggiungere altro, se non consigliare fortemente questa illuminante lettura.
« Perché è finito tutto?” disse d’un tratto alzando la testa. “Chi è che ti ha maledetto, Il’ja? Cosa fai? Tu sei buono, intelligente, tenero, nobile, e… vai in rovina! Chi è che ti ha rovinato? Non c’è nome a questo male…”
“C’è…” disse lui in modo appena percettibile.
Lei lo guardò con uno sguardo interrogativo, gli occhi pieni di lacrime.
“Oblomovismo,” sussurrò lui, poi le prese la mano, avrebbe voluto baciarla, ma non poté, le premette solo forte sulle labbra, e delle lacrime amare le gocciolarono sulle dita. »
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Il manicomio è pieno di fiori, ma non si riesce a
Il manicomio si trova su una collina, nella vasta pianura lucchese. È un “castello” che contiene 1039 matti, circa duecento infermieri, un medico e 19 suore.
«Fuori c’è la vita, la gioventù, la bellezza, la gioia che ride; e qui mille matti rinchiusi, prigionieri dei loro delirî, sudati, sporchi, poveri.»
Mario Tobino scrive questo testo che nell’intenzione dell’autore è di fiction, ma che in realtà attinge a piene mani dall’esperienza dello psichiatra e scrittore toscano. Tobino fu direttore dell’ospedale psichiatrico di Lucca e in queste pagine si è liberamente ma concretamente lasciato ispirare da alcuni frammenti di vita e di malattia che ha incontrato nel suo percorso di vita.
Si tratta di una lettura toccante e in alcuni punti difficile, poiché mostra senza filtri una realtà inquietante, poiché parla di malattia: di vite spezzate, violentate, spente o addirittura pacificate dalla pazzia. Siamo nel periodo precedente all’introduzione degli psicofarmaci nella terapia delle malattie mentali (1953) e le persone – prevalentemente donne- rinchiuse nel manicomio di Magliano vivono fino in fondo la loro condizione. Sono intrappolate nel loro dolore, o forse, chissà, in qualche modo anche liberate dalla loro follia.
Il medico-scrittore vive in questo mondo, un po’ universo parallelo e realtà alternativa, che si nutre del mondo reale ma allo stesso tempo ne viene respinto e scacciato. Il manicomio ha le sue regole, le sue gerarchie, le sue familiarità e atrocità. Un luogo dove la sofferenza svela senza più alcun pudore la vulnerabilità umana e per questo permette di amarla.
«La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo.»
Un libro intenso e emozionante che ci arriva attraverso una scrittura frammentata e poetica.
«Cosa significa essere matti? Perché si è matti? Una malattia della quale non si sa l’origine né il meccanismo, né perché finisce o perché continua.
E questa malattia, che non si sa se è una malattia, la nostra superbia ha denominato pazzia.»
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Capolavoro dimenticato
« Alla prima curva, si scoprì la Valdelsa. C’era un mare di nebbia, laggiù: da cui emergevano come isole le sommità delle collinette. Ma il sole, attraversando coi suoi raggi obliqui la nebbia, accendeva di luccichii il fondovalle. Mara non distoglieva un momento gli occhi dallo spettacolo della vallata che si andava svegliando nel fulgore nebbioso della mattina.»
“La ragazza di Bube”, romanzo vincitore del premio Strega nel 1960, è probabilmente il capolavoro di Carlo Cassola. Vi si narra la storia d’amore tra Mara, giovanissima contadina di Monteguidi e l’ex partigiano Arturo, da tutti conosciuto con il soprannome di Bube.
La guerra è appena finita e Bube si reca a conoscere la famiglia del suo migliore amico Sante, morto durante la lotta per la Liberazione. Sante abitava a Monteguidi, piccolo borgo frazione di Colle Valdelsa e, oltre ai genitori e a un fratellino più piccolo, aveva anche una sorella di sedici anni, Mara. Bube e Mara si piacciono fin dal primo sguardo e iniziano una relazione. All’inizio del romanzo sono due ragazzini, lei è bella, si rende conto che il suo corpo è quello di una donna che piace ma i suoi pensieri e ragionamenti sono ancora quelli di una bambina. È insomma un’adolescente in piena regola. E come tale ha anche una grande voglia e propensione verso l’innamoramento. Lui è poco più grande, è cresciuto senza padre, è istintivo e volitivo. Benché abbia già vissuto esperienze come la guerra, non è maturo. Anzi, è un giovane troppo esaltato dal senso di potere procurato dall’uso delle armi e dalla facile approvazione della massa popolare che vuole giustizia dopo gli eventi del fascismo e della guerra civile.
I due inizialmente si piacciono ma poco dopo avviene ciò che non sempre è detto che accada tra due persone che si piacciono, anche più mature o che si sono frequentate di più… Avviene che Mara e Bube si innamorano davvero. Il problema è che Bube, nel suo essere poco maturo e troppo istintivo, compie un grave errore che segna irreparabilmente il suo percorso di vita. Entrambi a quel punto ne dovranno subire le conseguenze, poiché Mara si sente legata a Bube dal sentimento dell’Amore.
Cassola ha scelto di ambientare questa vicenda, probabilmente ispirata ad una storia realmente accaduta, nel complesso momento di trapasso dalla lotta di Liberazione al dopoguerra, quando, venuta a cadere la piena fiducia nella solidarietà collettiva, ciascuno doveva trovare le risorse per crescere ed evolvere soprattutto sul piano privato. Mara è il simbolo quindi della realizzazione e della maturazione dal punto di vista personale e non più collettivo.
“La ragazza di Bube” è un bellissimo romanzo di formazione e una toccante storia d’amore. I protagonisti compiono un percorso di crescita attraverso l’amore e la sofferenza che li renderà consapevoli nei confronti della vita e di loro stessi. Buona lettura!
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La Bella e la Bestia
Come affermava Umberto Eco, Victor Hugo continua ad affascinarci a causa dei suoi innumerevoli difetti. Romanziere, poeta, drammaturgo di eccezionale fama e di innegabile valore, sovrasta il lettore con la potenza della narrazione, con le memorabili descrizioni, con la supremazia della parola scritta.
“Notre Dame de Paris”, capolavoro del Romanticismo e capostipite del romanzo storico ad ambientazione medievale per quanto riguarda la Letteratura francese, è un romanzo che fu pubblicato nel 1831 ed ottenne, fin da subito, un grande successo di pubblico.
I protagonisti della vicenda sono Quasimodo, orrendo campanaro della cattedrale di Notre Dame, gobbo, deforme, sordo, ma dall’animo buono e nobile e la bellissima Esmeralda, ragazza che si guadagna da vivere cantando e ballando nelle piazze di Parigi in compagnia di una capretta. Intorno a loro si innesca un intreccio di amore e morte. Il Medioevo in cui Hugo ambienta la narrazione è quello pittoresco e cupo tipico del Romanticismo, e tipici del Romanticismo sono anche il mescolamento di sublime e grottesco e la rappresentazione di grandi e potenti passioni che animano i personaggi e li conducono verso un destino ineluttabile.
Siamo a Parigi, nel 1482. Sulla città si staglia imponente la cattedrale di Notre Dame. A Quasimodo viene ordinato dall’arcidiacono Claude Frollo, suo padre adottivo e padrone, di rapire la bellissima Esmeralda, per la quale prova un’insana passione. Il rapimento però viene scongiurato da Phoebus, giovane e aitante capitano delle guardie reali. A questo punto i vari personaggi si innamorano perdutamente uno dell’altro: purtroppo, però, non in maniera reciproca. E nemmeno, direi, in modo molto sano. Ma abbiamo detto che siamo di fronte ad un capolavoro del Romanticismo e come tale deve essere letto il romanzo.
Su tutto poi si erge la grandezza di Victor Hugo, autore veramente immenso; forse, in alcuni casi, troppo.
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C'è davvero posto per tutti?
«Alla fine Carlson disse: “Se vuoi sbarazzo subito ‘sto rottame dalla sua pena e la facciamo finita. Non gli è rimasto niente: non riesce a mangiare, non riesce a vedere, non riesce nemmeno a camminare senza soffrire.”
“Non ce l’hai la pistola,” disse Candy speranzoso.
“Accidenti se ce l’ho. Ho una Luger. Non lo farà soffrire per niente.”
“Magari domani,” disse Candy. “Aspettiamo domani.”
“Non ne vedo la ragione,” disse Carlson. Andò alla sua cuccetta, tirò fuori da sotto una sacca e prese una Luger. “Facciamola finita,” disse. Non si può dormire con la sua puzza dappertutto.” »
Due uomini camminano, uno davanti all’altro, sulle rive del fiume Salinas, in California. Siamo negli anni Venti del Novecento. Il primo è piccolo e svelto, scuro e dai lineamenti affilati e marcati. Il secondo è invece un uomo enorme, dalle forme poco definite, gli occhi chiari e grandi; cammina strascicando i piedi e anziché dondolare le braccia per assecondare il movimento, le tiene penzoloni e flosce lungo il corpo. I due viaggiano insieme, cercando di racimolare un po’ di soldi lavorando come braccianti nei ranch della zona. Hanno un sogno da realizzare insieme: comprare un piccolo appezzamento di terra da cui ricavare il necessario per vivere sereni. Potranno avere un piccolo orto dove coltivare verdure, allevare dei polli e dei conigli. Potranno finalmente avere un luogo sicuro dove poter stare in pace e in compagnia l’uno dell’altro, un luogo da poter chiamare casa.
Molti altri braccianti offrono il loro lavoro in cambio di qualche soldo: sono persone sole che si aggirano per la campagna cercando un po’ di conforto nei bar o nei bordelli. Ma Lennie e George viaggiano insieme e hanno un sogno da realizzare, l’obiettivo sembra a portata di mano, sembra che il sogno finalmente si realizzi… ma veramente basterà volerlo? Veramente nella società c’è posto per tutti? Perché Lennie è diverso. Lennie è buono ma ha una forza enorme che non sa dosare, perché non è intelligente. Questo lo rende estremamente pericoloso.
Romanzo breve o racconto lungo di John Steinbeck pubblicato negli Stati Uniti nel 1937 “Uomini e topi” arriva potentemente dritto al cuore del lettore, passando attraverso la ragione. E’ lo stesso effetto che provoca anche la lettura di “Furore”, altro celeberrimo romanzo dello stesso autore, nonostante la differenza nel numero di pagine. Un piccolo gioiello della Letteratura in grado di commuovere e far riflettere.
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Leggerezza
La parola chiave che mi viene in mente per descrivere questo romanzo è “leggerezza”; leggerezza non nel senso di superficialità ma nel senso di dolcezza, ironia e piacevolezza.
Scritto da Nancy Mitford e pubblicato nel 1945, subito dopo la fine della seconda guerra, racconta la vita e soprattutto le avventure sentimentali di una ragazza appartenente ad una numerosa ed eccentrica famiglia dell’aristocrazia inglese, Linda Radlett.
La voce narrante tuttavia non appartiene a Linda ma a sua cugina Fanny, ragazzina abbandonata dai genitori dopo la separazione e cresciuta dalla zia Emily, una sorella della madre di Linda e della madre di Fanny. Il racconto di Fanny è estremamente ironico e pungente, soprattutto quando descrive la condizione della donna di quell’epoca e di quel mondo, una donna in ogni caso ricca e privilegiata, ma ancora incasellata in uno specifico e ben delimitato ruolo. Inoltre la penna di Mitford riesce a descrivere brillantemente una classe sociale eccentrica e originale, con pregi e difetti ma che sicuramente è in grado di ridere e sorridere di se stessa.
Linda è una bella ragazza piena di sentimento e voglia di vivere; ha grandissima fretta di tuffarsi finalmente nella vita adulta, di appagare e realizzare il suo scopo in questo mondo: innamorarsi e sposarsi. D’altronde, si sa, la vita di una donna ruota tutta intorno a questo punto, a Linda è stato impedito di studiare e di pensare a qualunque altro tipo di realizzazione personale: una brava ragazza deve pensare solo al futuro marito e al formare la sua famiglia. Ma cosa succede se si fallisce al primo colpo? In effetti non è così semplice e scontato centrare perfettamente l’obiettivo al primo tentativo, soprattutto per le persone estremamente sensibili, sentimentali e ingenue come Linda. Quale sarà dunque il suo destino? Riuscirà a trovare il vero amore e la felicità?
“Non so bene perché, ma in qualche modo sentii che Linda era stata nuovamente ingannata dalle sue emozioni, che quell’esploratrice del deserto aveva visto solo un altro miraggio. C’era il lago, c’erano gli alberi, i cammelli assetati erano scesi ad abbeverarsi sul far della sera; ma ahimè, le sarebbe bastato avanzare di qualche passo per ritrovare lo stesso deserto di prima.”
In conclusione quindi si tratta di un romanzo piacevole e brillante, i cui punti di forza sono costituiti sicuramente dall’ironia e dall’effervescenza ma attraverso il quale si vogliono portare all’attenzione del pubblico anche questioni più profonde, che si celano sotto una maschera di apparente superficialità.
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L'orrore della guerra
Cosa direbbe Remarque dell’attuale guerra in Ucraina? Delle devastazioni, i bombardamenti, le fosse comuni, le stragi… Lui che da descritto così vividamente l’orrore della guerra, la violenza, le uccisioni, il sonno della ragione che ha generato mostri. Sembra impossibile che ancora l’uomo non abbia imparato a vivere in pace e debba ripetere continuamente errori tanto gravi.
Ernst Graeber è un soldato tedesco che sta combattendo sul fronte russo. Sono ormai lontani i giorni vittoriosi del 1940, quando i tedeschi erano entrati con spavalderia in una Parigi sconfitta e sottomessa. Adesso i germanici si stanno ritirando, la guerra non è più così favorevole per i nazisti ma non se ne può parlare: si rischia di essere uccisi, giustiziati per aver avvilito il morale dei combattenti. Ernst ha combattuto anche in Africa, sono due anni che è sul fronte senza aver avuto una licenza.
«La morte aveva, in Russia, un odore diverso che in Africa. Sotto il massiccio fuoco inglese i cadaveri in Africa, fra una linea e l’altra, erano rimasti a lungo insepolti. Ma il sole aveva lavorato rapidamente. Di notte l’odore era arrivato col vento, dolce, soffocante e greve: il gas aveva gonfiato i morti e questi si erano alzati come spettri alla luce delle stelle straniere, quasi combattessero ancora in silenzio, senza speranza, ciascuno per sé; ma già il giorno seguente avevano incominciato ad aggrinzirsi, ad aderire alla terra, infinitamente stanchi, come per insinuarsi sotto il suolo; e più tardi, quando era possibile andare a prenderli, taluni erano più leggeri e rinsecchiti, e di quelli che si trovavano dopo settimane non rimaneva quasi altro che lo scheletro ciondolante nelle divise ormai troppo comode. Era una morte asciutta nella sabbia, al sole e al vento. In Russia, invece, la morte era fetida e imbrattata.»
Graeber è giovane, è nato durante la prima guerra mondiale; da ragazzo ha conosciuto soltanto il nazismo, la dittatura e la follia razzista. Eppure riesce ugualmente a discernere quello che è giusto e quello che è sbagliato: è un essere ragionevole che non ha perduto la propria umanità. Graeber riceve finalmente l’ agognata licenza e può tornare per tre settimane in Germania, a casa. E’ un momento delicato e prezioso per il suo equilibrio psico-fisico così profondamente scosso dalla guerra: vorrebbe una pausa, una parentesi sicura e tranquilla in cui poter finalmente pensare liberamente.
Mentre si avvicina a destinazione però si rende conto di quello che già i soldati stavano percependo al fronte: la Germania non è più un luogo sicuro, è diventata essa stessa un campo di battaglia, un luogo di devastazione e di morte. E di profondo orrore. La guerra è arrivata nelle case, nelle famiglie, l’odio e la paura serpeggiano ovunque. Nonostante tutto questo, Ernst vuole vivere, ne ha profondamente bisogno. Ha bisogno di tornare a respirare, a mangiare e a dormire, e soprattutto ha bisogno di amare.
“Tempo di vivere, tempo di morire” è un romanzo davvero intenso, sconvolgente ed emozionante. Remarque ha la rara capacità di scrivere facendo entrare il lettore nella storia: ecco che siamo con Graeber sul fronte, in Russia, ecco che siamo in Germania cercando di ripararci da un bombardamento aereo, dobbiamo trovare un posto dove dormire perché la nostra casa è stata distrutta. Ma non si tratta solo di bravura nel coinvolgerci negli eventi, l’autore è soprattutto in grado di farci entrare nella mente e nel cuore del protagonista, devastato dal suo crudele destino, costretto ogni giorno all’insicurezza della vita, privato dei più basilari conforti dell’esistenza, allontanato con violenza dalla coscienza e dall’umanità. Da leggere per emozionarsi e per riflettere.
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Prolisso
“Emma”, penultimo romanzo di Jane Austen, è, secondo lo stile dell’Autrice, di nuovo un novel, una narrazione di costume contemporanea e realistica, e non un romance, cioè un romanzo storico o di fantasia. In questo caso si concretizza pienamente la dichiarazione di poetica della scrittrice, quella di voler lavorare con la sua scrittura come se fosse un’artista della miniatura, che si affatica su un pezzettino d’avorio largo due pollici con un pennello sottilissimo producendo poco effetto. Infatti, anche in questo romanzo, ci troviamo davanti a pochi personaggi e a pochi temi, quelli cari all’Autrice, l’amore, l’amicizia, il matrimonio.
Emma, la protagonista, stavolta non è particolarmente simpatica e non attira l’empatia del lettore. E’ una ragazza bella e ricca, che non ha dovuto affrontare particolari problemi nella sua vita, a parte la morte prematura della madre. Non è come l’eroina di altri romanzi di Austen, non deve migliorare la sua condizione economica, non ha bisogno di cercare un marito e infatti inizialmente non lo vuole. Emma non ha molti pregi, ma, benché sia oggettivamente superficiale e un po’ immatura, è molto amata dalla famiglia e dagli amici. L’unica dote di Emma è l’intelligenza, ma una intelligenza non collegata alla lungimiranza e all’empatia. Questo la porterà a trovarsi implicata in una serie di equivoci che faranno soffrire però, non lei, ma le persone che ha intorno.
Non è il primo romanzo di Austen che leggo e quindi il mio giudizio non è certo sull’Autrice, sulla struttura del romance o sui temi trattati, ma questo purtroppo non mi è piaciuto. Non solo e non tanto perché la protagonista non è simpatica e il lettore ne rimane sempre un po’ distante. I problemi di questo libro, secondo la mia personale e soggettiva opinione, sono che è troppo lungo, eccessivamente prolisso e noioso e che rimane troppo freddo e scarsamente coinvolgente.
Va bene, l’Autrice voleva concentrarsi su pochi personaggi, quattro o cinque famiglie che vivono nella campagna inglese e che conducono un’esistenza basata su passatempi e conversazioni. L’Autrice rappresenta quindi questa realtà, quella che conosce e che vuole rappresentare per scelta: eccoci quindi a leggere per pagine e pagine di insulsi dialoghi, pranzi, feste in famiglia, preoccupazioni per il tempo meteorologico e gitarelle nella natura a piedi o in carrozza. Troppo. Troppe pagine.
Inoltre, avendo letto altri romanzi di Austen, aspettavo il momento della storia d’amore, le dichiarazioni, la passione, anche se sempre sottoposta alle rigide regole dell’epoca e con il fine ultimo e sommo del perfetto matrimonio, ma anche su questo punto sono rimasta delusa. C’è troppa freddezza nelle pagine, che non permette di arrivare ad una rappresentazione soddisfacente della storia d’amore.
Quindi, in conclusione, un romanzo nello stile Austen, ma ce ne sono, secondo il mio modesto parere, di più riusciti. Questo è estremamente prolisso, ripetitivo, noioso, una miniatura troppo piccola per i miei occhi.
Il trauma dell'abbandono
Iris è una donna di mezza età, sopravvissuta a un attentato terroristico e a un abbandono profondamente lacerante subito durante l’adolescenza. Tutto questo ha riempito la sua vita di dolore; un dolore intenso, persistente e lancinante che non vuole andarsene, nemmeno adesso che sono passati anni e anni e che la sua esistenza ha conquistato una tranquilla e confortante routine. Ma si tratta di una routine riempita di atti e gesti ripetitivi e privi di vero significato, Iris non ha piena consapevolezza di ciò che vuole e di ciò che può farla stare bene: si è trascinata giorno dopo giorno, ha formato una famiglia, ha raggiunto un’ottima posizione professionale ma non è in grado di gestire l’improvviso e inatteso ritorno del dolore.
Siamo davanti ad un romanzo che vuole scavare a fondo nelle profondità di un animo femminile ferito che si confronta, come può, come proviamo a fare tutti in fondo, con il dolore che scaturisce dai nodi irrisolti, dalle frustrazioni e dalle piccole o grandi sconfitte che attraversano qualunque esistenza.
Lo stile dell’Autrice è perfettamente congruo a sviscerare questa tipologia di tematiche, si tratta di un flusso di coscienza narrato in terza persona che ci fa entrare nella mente della protagonista ma attraverso il quale non corriamo il rischio di rimanere intrappolati dentro. Rimane sempre aperta una via di fuga, ed emerge spesso uno sguardo ironico con cui sorridere della protagonista – e anche di noi stesse. La prosa di Shalev è davvero originale, intensa e poetica.
“Dolore” quindi sembrava avere tutte le caratteristiche per poter essere un grande romanzo, ma alla fine purtroppo non lo posso affermare. La storia cattura fin da subito, lo stile è avvincente ed espressivo, ma la trama non si sviluppa come dovrebbe, è come se rimanesse in sospeso fino alla fine e rimangono quindi davvero troppi nodi irrisolti. Quindi, in conclusione, non uno dei migliori di Zeruya Shalev, secondo il mio modesto parere.
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Oh fortuna...
L’orfano Pip vive in un villaggio nelle paludi alla foce del Tamigi. È stato allevato dall’unica sorella rimasta viva, di circa vent’anni più grande di lui e dal marito di lei, il semplice fabbro dall’animo gentile, Joe Gargery. Un giorno, mentre Pip si aggira nel cimitero a contemplare le tombe dei genitori e degli altri fratelli morti, la sua esistenza di bambino viene sconvolta dall’incontro con un forzato evaso dalla nave carcere. L’uomo gli chiede del cibo e una lima per liberarsi dai ferri alle caviglie; in realtà, più che una richiesta è una minaccia.
Si apre così una narrazione ampia e sapientemente costruita dal grande scrittore Charles Dickens, che ci accompagnerà, nel corso di più di cinquecento pagine, nel percorso di formazione e maturazione di Pip. Un percorso fortemente influenzato dagli avvenimenti, e dagli incontri, molti dei quali inconsueti e straordinari, che porteranno Pip lontano dal destino che lui stesso immaginava per sé e che getteranno una luce nuova, ma anche inquietante e misteriosa, sulla sua vita.
Pip sarà quindi segnato per sempre da ciò che la sorte gli ha riservato: l’incontro con la signorina Havisham e con Estella, l’improvviso e inaspettato cambiamento di status sociale ed economico. Il personaggio di Pip non è statico e con una psicologia definita ma è un ragazzo in crescita, profondamente influenzato dai repentini avvenimenti che gli capitano ma anche coerente con se stesso, con la sua educazione e i suoi affetti familiari. Possiamo quindi seguirlo con partecipazione in mezzo alle vicissitudini che gli accadono in gran quantità.
La scrittura di Dickens è vivida e densa; l’autore sa rendere con una forza straordinaria le immagini e le scene che vuole rappresentare e il lettore è quasi portato a vedere e a partecipare a queste scene grazie alla potenza di questa narrazione. Seguire le avventure di Pip sarà quindi davvero piacevole, commovente ed avvincente. Buona lettura.
«Fu quella una data memorabile per me, poiché portò a molti mutamenti in me stesso. Avviene la medesima cosa in ogni esistenza. Immaginate un dato giorno distaccato da tutti gli altri, e pensate come avrebbe potuto esserne differente tutto il corso. Fermati, tu che leggi, e rifletti per un istante sulla lunga catena di ferro od oro, di spini o fiori, che non ti avrebbe mai avvinto, se non si fosse formato il primo anello in quell’unica memorabile giornata.»
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Storie di ordinaria umanità
“Vicolo del mortaio” è un romanzo scritto nel 1947 dal premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz. Vi si raccontano storie di ordinaria umanità di alcuni abitanti di una stradicciola de Il Cairo: molti di questi personaggi devono fare i conti con la povertà, la malattia, con il bisogno di riscatto, con il desiderio di soddisfare i loro impulsi e le loro aspirazioni e progetti. Insomma, devono fare i conti con la banale e al tempo stesso imprevedibile e capricciosa esistenza.
«Il tramonto si annunciava e il Vicolo del Mortaio andava coprendosi di un velo bruno, reso ancora più cupo dalle ombre dei muri che lo cingevano da tre lati. Si apriva sulla Sanadiqiyya e poi saliva, in modo irregolare: una bottega,un caffè, un forno. Di fronte ancora una bottega, un bazar e subito la sua breve gloria terminava contro due case a ridosso, entrambe di tre piani.»
Leggendo queste pagine non ho potuto non pensare ad un altro Autore che ha descritto con ironia e delicatezza questa smania che abbiamo noi esseri umani di trascinarci oltre la squallida sopravvivenza cercando l’amore e la felicità e sfidando, a volte con coraggio, a volte con incoscienza e scarsa consapevolezza, i capricci della fortuna e la nostra sorte. In effetti si tratta di un Autore particolarmente lontano nel tempo e nello spazio dall’arabo Mahfuz ma che, almeno in questo scritto, lo richiama davvero molto: Boccaccio. Sì, gli abitanti del Vicolo del Mortaio mi hanno ricordato i personaggi delle novelle del Decameron. In comune gli uni e gli altri hanno il desiderio di vivere una vita felice e appagante che molto spesso però viene frustrato dalla realtà di un mondo ingiusto, iniquo, disonesto e scorretto che si manifesta con il volto capriccioso di un destino che elargisce o toglie doni o soddisfazioni a caso. E noi poveri esseri umani rimaniamo lì, incapaci di comprendere davvero; confortati ora dall’ironia ora dalla speranza che ci sia un Essere Superiore che ci protegge.
“Vicolo del Mortaio” è un romanzo effervescente, fresco e piacevole nella sua prosa quasi cinematografica, che ci porta sì in un angolo de Il Cairo durante la seconda guerra mondiale ma ci accompagna anche, come una buona opera letteraria dovrebbe fare, all’interno di storie di ordinaria e anche straordinaria, umanità.
«Nelle prime ore della giornata l’aria nel vicolo ombroso era umida e fredda. Il sole vi penetrava solo quando giungeva allo zenit, superando lo sbarramento delle case. Eppure fin dal primo mattino ogni angolo si animava. Cominciava Songor, il ragazzo del caffè, a sistemare le sedie e ad accendere il fuoco. Poi arrivavano gli impiegati del bazar, a due a due o alla spicciolata, quindi appariva Gaada che portava l’asse con la pasta di pane.»
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La seconda possibilità
Pubblicato postumo nel 1818, un anno dopo la morte dell’Autrice, “Persuasione” racconta la seconda possibilità data ad Anne Elliot per essere felice.
Otto anni prima infatti aveva rifiutato di sposare l’unico uomo che avrebbe mai potuto amare, Frederick Wentworth, giovane bello e volitivo, ma in quel momento senza posizione sociale né patrimonio. L’uomo era entrato in marina e, dopo pochi anni, era diventato il valoroso e più che rispettabile capitano Wentorth. Anne invece era rimasta a vivere con un padre e una sorella oltremodo superficiali e vanitosi, che non l’amavano né la rispettavano particolarmente, rifiutando ogni altra proposta di matrimonio.
Poiché questa non è la dura e noiosa realtà ma un romanzo di Jane Austen, Anne e il capitano Wentworth avranno una nuova opportunità per coronare il loro sogno d’amore. Il padre e la sorella di Anne infatti si trovano in difficoltà economiche e sono costretti ad affittare la loro proprietà di Kellynch Hall… E a chi la affittano? Ma a un certo ammiraglio Croft, la cui moglie è proprio la sorella del capitano Wentworth!
Da questo momento la trama si smuove, non avvengono fatti molto eclatanti ma si sussegue la vita quotidiana e sociale delle persone di quel periodo e di quel determinato ambiente. L’Autrice come al solito delinea perfettamente il carattere dei personaggi e della sua protagonista, Anne, una donna in cui la lucida intelligenza si coniuga alla dolcezza del carattere e ai modi miti e gentili. Forse in passato Anne si è fatta convincere a fare qualcosa che non avrebbe mai voluto fare, solo per assecondare con i suoi modi accoglienti i consigli troppo invadenti di amici e parenti, ma adesso è cambiata, è maturata, è una donna adulta che sa e può decidere per se stessa.
Un altro romanzo di Austen perfettamente riuscito, piacevole da leggere, che trasporta il lettore in atmosfere romantiche e indaga a fondo nei sentimenti e nelle relazioni tra persone a partire non da fatti particolarmente strani o eccezionali ma a partire da situazioni che –nonostante gli oltre duecento anni che ci separano- potremmo ritrovare tranquillamente nelle nostre normali esistenze.
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Elizabeth e Darcy
Jane Austen fu la figlia del reverendo George Austen: ed è questo che c’è scritto sulla lapide della sua tomaba, nella bellissima cattedrale di Winchester. Ma fu anche molto altro, per la fortuna di generazioni di lettori, fu una grandissima scrittrice.
Jane viveva nella provincia inglese, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, aveva molti fratelli e un’amata sorella, Cassandra. La sua vita scorreva tra incombenze domestiche, balli, pettegolezzi e schermaglie d’amore. Nel frattempo scriveva. Come le eroine dei suoi romanzi viveva corteggiamenti e innamoramenti ma, al contrario delle protagoniste dei suoi libri viveva anche le delusioni tipiche della vita reale. Con occhio penetrante riusciva a cogliere le dinamiche delle relazioni umane e le rendeva materia vibrante dei suoi scritti. Ancora oggi, dopo più di duecento anni dalla data di pubblicazione, un libro come “Orgoglio e pregiudizio” ci coinvolge, ci diverte, ci appassiona; è un libro che diventa un amato compagno nelle lunghe ore dedicate alla lettura perché sa parlare alla nostra mente e sa solleticare le nostre emozioni: insomma, è un vero e proprio classico della letteratura.
Le cinque sorelle Bennet vivono con i genitori nella tranquilla provincia inglese, quando, in un normale giorno d’autunno, la quiete viene spezzata dalla notizia dell’arrivo, in una tenuta vicino alla loro, di un gentiluomo ricco e scapolo, Mr Bingley. La signora Bennet è subito presa dalla smania di riuscire a far sposare una delle figlie, più o meno tutte già in età da marito: Jane, che è bella e dolce, Elizabeth, carina e intelligente, Mary, studiosa e bruttina, e le ultime due, Kitty e Lydia, civette e sconsiderate.
Non appena avviene l’atteso incontro appare subito evidente l’attrazione e l’interesse di Bingley per Jane; ma il gentiluomo non è solo, è accompagnato da un amico, ancora più ricco ma anche antipatico e sprezzante (almeno alla prima apparenza), Mr Darcy. E fra Darcy e la spumeggiante Elizabeth scocca subito un curioso incontro-scontro; un amore-odio alimentato dall’orgoglio di lui e dal pregiudizio di lei.
L’Autrice ci conduce in questa storia come se ci facesse assistere ad una rappresentazione teatrale, la vicenda si apre con l’arrivo di Bingley e Darcy nell’Hertfordshire, da lì in poi i fatti si susseguono velocemente, non c’è spazio per lunghe descrizioni, riflessioni o digressioni: Austen ci mette di fronte ai fatti, ai dialoghi e alla caratterizzazione dei personaggi. Si susseguono eventi e colpi di scena fino al finale, in cui saranno finalmente superati l’orgoglio, la vanità e i pregiudizi individuali e sociali.
Buona lettura.
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Viaggio in Africa orientale
Dopo l’attribuzione del Nobel per la Letteratura nel 2021 a Abdulrazak Gurnah la casa editrice “la nave di Teseo” ha iniziato la ripubblicazione dei romanzi di questo autore.
“Paradiso”, edito per la prima volta nel 1994, racconta la storia di Yusuf, ragazzo di dodici anni dato dal padre come pegno per il pagamento di un debito ad un ricco mercante. La vicenda si svolge alla vigilia della prima guerra mondiale nell’Africa orientale, fra Tanzania, Kenya e Uganda, in quella zona che all’epoca era definita Africa Orientale Tedesca.
Il romanzo si incentra quindi sulla figura di Yusuf, e racconta della sua vita, da quando, poco più che bambino, viene ceduto dalla sua famiglia al seyyid Aziz per ripagare un debito, fino a quando il ragazzo si affaccia alla soglia della vita adulta. Insieme alla crescita di Yusuf noi lettori possiamo seguire i percorsi delle carovane dei mercanti fra i profumi, i colori e i paesaggi potenti e inquietanti di quella parte dell’Africa; conoscere narrazioni e personaggi di diversa natura e cultura e lasciarci trasportare in questo affascinante viaggio.
Lo stile di scrittura di Gurnah è senza dubbio un grande pregio del romanzo, l’autore sa suscitare coinvolgimento e attrattiva nei confronti di chi legge, la sua prosa è elegante e allo stesso tempo efficace nel descrivere paesaggi esteriori ed interiori.
Il personaggio di Yusuf è chiaramente ispirato al Giuseppe della tradizione biblica, entrambi sono venduti dalla famiglia e dovranno cavarsela e crescere lontano da casa, entrambi si guadagnano il favore del loro signore ed entrambi dovranno subire l’innamoramento della moglie del padrone. Entrambi hanno una particolare sensibilità che si manifesta nei sogni.
Con “Paradiso” Gurnah racconta, insieme alla storia di Yusuf, anche le vicende di un mondo che sta per scomparire, che di lì a poco sarà ingoiato dall’uomo bianco europeo che farà scomparire tutto quello che c’era prima.
In conclusione quindi, siamo davanti ad un romanzo il cui maggior pregio è quello di riuscire a farci viaggiare nel tempo e nello spazio; che sa farci entrare in un mondo diverso dal nostro ma alla fine non così lontano come potrebbe sembrare.
“Quando, durante la notte, aprì gli occhi, la visione del vagone buio e pieno solo a metà gli fece venir voglia di piangere. L’oscurità là fuori era un vuoto sconfinato, e aveva paura che il treno vi si fosse addentrato troppo a fondo per poter essere sicuri di tornare. Cercò di concentrarsi sul rumore delle rotaie, ma il loro ritmo irregolare ebbe come unico effetto quello di tenerlo sveglio. Sognò che sua madre era un cane con un occhio solo che una volta aveva visto schiacciato sotto le rotaie del treno. In seguito sognò di vedere la propria vigliaccheria scintillare alla luce della luna. Era appena nata e ancora avvolta nella placenta. Sapeva che era la sua vigliaccheria perché glielo aveva detto qualcuno che non poteva vedere. Ed era viva, respirava.”
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Senso di colpa e redenzione
Stupisce davvero questo bel romanzo di Zeruya Shalev; per la scrittura elegante e in grado di scavare in profondità nell’animo umano; per la trama ben strutturata e coinvolgente, capace di tenere il lettore incollato alla pagina fino al termine della narrazione.
Due donne sono al centro del romanzo, Atara e Rachel, unite dal destino per aver profondamente amato ed essere state respinte dallo stesso uomo, rispettivamente padre della prima e primo marito della seconda.
Rachel è ormai molto anziana, vive per lo più nel ricordo di una giovinezza vissuta con coraggio e determinazione, quando ha fatto parte della resistenza israeliana contro gli inglesi, prima della nascita dello Stato di Israele. Durante quel periodo esaltante e pericoloso aveva conosciuto e poi sposato Manu, Menachem Rubin, il padre di Atara. Ma lui ad un certo punto, inspiegabilmente o forse no, l’aveva abbandonata chiedendo il divorzio.
Atara ha per caso saputo di questa storia e, dopo che suo padre è ormai morto, vorrebbe scavare un po’ più a fondo, conoscere questa donna e magari farsi raccontare qualcosa che possa farle comprendere meglio il genitore così amato e allo stesso tempo così odiato.
Ma chi è Atara? Il lettore inizialmente potrebbe pensare che la vera protagonista sia Rachel e che il fulcro della narrazione sia la storia che lei ha da raccontare, in realtà non è così. La protagonista è Atara, con la sua vita scombussolata ed estremamente reale, con le sue scelte sbagliate e il grande, gigantesco senso di colpa che si porta dentro per aver assecondato la vita e la tentazione di essere felice. Atara e Rachel hanno bisogno l’una dell’altra per trovare una redenzione, una speranza che le aiuti a continuare il loro percorso tormentato. Ma non voglio dire di più, per non rischiare di rovinare a qualcuno il piacere della lettura svelando colpi di scena inaspettati.
Lasciatevi stupire da questo romanzo intenso e coinvolgente.
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In viaggio verso Istanbul
«Vide il rapido sul quale avevano viaggiato perforare il cielo come un razzo. Si avvinghiavano a quel treno tutti quanti, e con tutti gli stratagemmi in loro potere, inclinandosi ora da un lato ora dall’altro, modificando l’equilibrio ora in una direzione ora nell’altra.»
Nel 1932 Graham Green pubblica il suo primo grande successo, “Il treno per Istanbul”. Si tratta di un romanzo che cattura fin dalle prime pagine per la sua ambientazione affascinante: siamo su un treno che viaggia attraversando il cuore dell’Europa, da Ostenda, toccando Colonia, Vienna, Belgrado, fino ad arrivare a Costantinopoli.
Sul treno conosceremo una serie di personaggi indimenticabili nella loro peculiare umanità, uomini e donne che vivono nell’Europa degli anni fra le due guerre mondiali, percorsa da una forte inquietudine sociale. Questa trepidazione sta per deflagrare in aperta violenza; lo capiamo dai brevi lampi in cui si svelano odio e razzismo. E’ notevole quanto l’autore ci sappia trasmettere questa atmosfera a priori rispetto alla Storia, e non a posteriori –ricordo che il romanzo è del 1932.
La narrazione procede spedita come il treno per Istanbul, i vari personaggi entrano nell’intreccio per rappresentare la loro parte; ciascuno ha il suo ruolo che viene interpretato alla perfezione. E’ nell’incontro, nell’intrecciarsi delle relazioni che si determinerà la possibilità del cambiamento. Ma, forse, poiché ciascuno rimane ingabbiato nelle proprie convenzioni e si lascia travolgere da un destino sfavorevole, tutto rimarrà esattamente uguale.
Buona lettura.
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In Russia all'indomani della Rivoluzione
Quando, nel 1928, Stefan Zweig si recò in Unione Sovietica per tenere un discorso durante le celebrazioni del centenario della nascita di Tolstoj, rimase profondamente colpito dall’opportunità di visitare lo sterminato Paese pochi anni dopo la Rivoluzione. Sono le riflessioni emerse in diretta da questo viaggio infatti che danno vita al breve scritto in questione.
Zweig si avvicina alla Russia dei soviet con uno sguardo curioso, con l’atteggiamento dell’uomo che vuole conoscere e capire prima di giudicare e classificare in base all’opinione politica. In particolare apprezza il fervore culturale della Russia in quegli anni; mentre l’altra Rivoluzione –quella francese- si era spogliata di immensi tesori permettendo ai rivoluzionari di saccheggiare chiese e opere d’arte, la Rivoluzione comunista non ha sottratto né distrutto la minima opera d’arte importante. Anzi, nelle settimane del suo viaggio, Zweig nota l’entusiasmo, la passione con cui il popolo russo partecipa alla vita culturale dello Stato, affollando musei e teatri.
Il vivace clima culturale della Russia dei primi anni Venti e il totalitarismo non ancora completamente attuato hanno certamente influenzato lo sguardo positivo di Zweig nei confronti del mondo nuovo e sconosciuto che si accinge a visitare. Successivamente questo giudizio positivo sarà ribaltato nel suo capolavoro “Il mondo di ieri”.
« […] E qui, in questa camera del tesoro, in questo palazzo principesco, più che imperiale, da zar, in tutta questa città costruita su una ricchezza smisurata e su un folle sperpero, la prima cosa che salta all’occhio, da un punto di vista europeo, è l’incomprensibile tensione tra questi due mondi passati: il mondo di sopra e quello di sotto, tra il folle e il sacrilego sperpero degli zar e la smisurata, quasi infernale miseria dei villaggi affamati moscoviti. Con un tuffo al cuore si prende coscienza della tensione universale tra ricco e povero, che qui si è estesa negli ultimi due secoli a dimensioni titaniche. E si comprende perché essa ha finito per esplodere una volta per tutte con tanta violenza, con un tale colossale scossone.»
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The passing
« La vita di Belle da Costa Greene mi è sembrata così eccezionale e romanzesca che ho sentito il bisogno di rispettare tutti i fatti di cui sono a conoscenza senza alterare niente, nemmeno nel caso di episodi che possono apparire minori, con personaggi di secondo piano. »
Così scrive nell’Appendice l’autrice Alexandra Lapierre riguardo al suo scritto “Belle Greene”.
Il libro infatti è una biografia a tutti gli effetti e racconta la vita di un personaggio femminile a dir poco molto particolare: Belle da costa Greene, una donna statunitense vissuta fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Belle nasce nella comunità nera di Georgetown, suo padre è un famoso attivista che rivendica i diritti degli afroamericani, Richard Greener, un uomo colto ed energico, ma anche inaffidabile ed inconsistente nei confronti della sua famiglia.
Belle, sua madre, suo padre e tutti i suoi fratelli hanno una particolarità fisica: non hanno l’aspetto dei neri, hanno la pelle ambrata, gli occhi e/o i capelli chiari. Siamo negli Stati Uniti dei primi anni del Novecento,con la fine della guerra di Secessione, nel 1865, la legge aveva riconosciuto il diritto di voto e l’uguaglianza civica agli ex schiavi. Ma pochi anni dopo questi diritti vennero sconfessati nei fatti con l’emanazione delle leggi Crow, che istituivano la segregazione razziale e la discriminazione. Per una persona di colore era concretamente impossibile riuscire ad avere le stesse opportunità di un bianco e salire i gradini della scala sociale.
Belle, la madre e i suoi fratelli, dopo essere stati abbandonati dal padre, decidono di non rinunciare alla possibilità di avere una vita migliore subito, anche a costo di mentire, anche a costo di rompere per sempre i legami con la loro comunità di appartenenza. Scelgono di compiere The Passing. Belle, facendosi passare per bianca pur essendo nera per la legge, non solo ebbe le stesse possibilità dei bianchi, ma le sfruttò in modo incredibile. Infatti, pur essendo donna, riuscì a diventare la bibliotecaria direttrice della Morgan Library, realizzandosi al massimo grado nella vita professionale e sociale.
L’autrice ha compiuto un ottimo lavoro di ricerca e documentazione e ci ha consegnato una storia interessantissima che si legge come un romanzo avvincente. Non va dimenticato però che si tratta del racconto della vita di un personaggio realmente esistito e non di un’opera letteraria di fiction. Dalle pagine non possiamo aspettarci esercizi di stile, riflessioni sull’identità, sul razzismo, sulla legittimità di aver scelto di mentire e vincere invece che di combattere e soffrire. Possiamo invece leggere l’appassionante ricostruzione della vita di Belle da Costa Greene, pensieri e considerazioni si faranno spazio comunque inevitabilmente nella nostra testa.
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Due volte regina
Régine Pernoud ci offre un approfondito racconto della vita di un personaggio storico dai tratti sicuramente eccezionali, Eleonora d’Aquitania.
L’autrice vuole restituire questa donna straordinaria alla conoscenza veicolata dalle fonti storiche e non a leggendari pettegolezzi che spesso hanno alterato la realtà dei fatti. Certamente una figura particolare, regina di Francia prima e successivamente regina d’Inghilterra, madre e nonna di sovrani in svariate parti d’Europa, Eleonora ha senza dubbio attirato, durante la sua lunghissima vita, anche maldicenze e cattiverie. Régine Pernoud invece ce la consegna illuminata dalla luce dell’obiettività storica e emerge così il ritratto di una donna di potere: bellissima e un po’ frivola durante la giovinezza, era una ragazza appassionata, che si lasciava coinvolgere dall’amore per un uomo, per la Letteratura e per la sua terra; indomita e volitiva, aveva l’obiettivo di governare e mal sopportava di essere messa in un angolo. Non era per niente il tipo che si accontenta: dopo aver sposato il re di Francia Luigi VII, che pure era innamorato di lei, non sentendosi pienamente appagata e soddisfatta del suo ruolo di moglie e di regina, chiede l’annullamento del matrimonio e si sposa con Enrico Plantageneto, che in breve tempo diventa re d’Inghilterra e con cui avrà otto figli, fra i quali i leggendari Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra.
Era una donna piena di energia e risolutezza, che nel XII secolo arriva alla non trascurabile età di circa ottant’anni e che soprattutto, fino agli ultimi mesi di vita, non si ferma ma continua a compiere missioni da svolgere per il suo ruolo di regina, anche pericolose, viaggiando da una parte all’altra dell’Europa.
Si tratta quindi di una lettura molto interessante che va al di là della biografia di Eleonora d’Aquitania, siamo di fronte all’appassionante racconto delle vicende politiche e sociali della Francia e dell’Inghilterra del XII secolo, che possiamo goderci accompagnati da una grande medievista.
Un unico appunto, l’autrice ha volutamente non inserito le note in questo testo per rendere la lettura più scorrevole; sinceramente non so quanto questa scelta possa essere condivisibile, infatti, pur essendo chiara l’approfondita conoscenza delle fonti da parte dell’autrice, perché privare il saggio della sua connotazione rigorosamente storica?
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L'insoddisfazione nelle nostre vite
La famiglia Hildebrandt si prepara a celebrare il Natale del 1971, siamo a New Prospect, una cittadina immaginaria vicino a Chicago. Il padre, Russ, è un pastore protestante, la madre, Marion, si occupa della casa e dei quattro figli. E come ci si potrebbe aspettare dal miglior Franzen gli Hildebrandt non sono certo una famiglia felice e serena.
Russ e Marion sono in piena crisi matrimoniale, lui vorrebbe sedurre una giovane vedova sua parrocchiana, mentre Marion cerca di annegare l’insoddisfazione proveniente dalla sua vita e dal suo matrimonio nella depressione e nel cibo. Anche i figli adolescenti non stanno molto meglio; in particolare il giovane Perry, sensibile e geniale, sta facilmente cadendo nella dipendenza dalle droghe.
La trama del romanzo è incentrata sulle vicissitudini e sulle relazioni dei personaggi, che Franzen riesce a far uscire dalla carta e rende tridimensionali. Ciascuno di loro sta affrontando la propria crisi morale ed etica e si dibatte nel personale rapporto con Dio, per poi rendersi conto, insieme ad una considerevole dose di disgusto, che il fulcro delle azioni che guidano o hanno guidato la loro esistenza sono state mosse da pulsioni e istinti.
Franzen è un maestro nel delineare il disagio in cui si attanagliano gli esseri umani: tendono al bene supremo, alla bontà, alla generosità, ma sono guidati come gli altri animali dalla necessità di dover soddisfare i bisogni primari, gran parte dei quali, proprio fisiologici. Ed è in questa intercapedine che si annida l’insoddisfazione, il senso di colpa, che può amplificarsi fino a sfociare nella malattia mentale. Ed è ancora in questo spazio che si inserisce anche la religione, il bisogno di spiritualità e della ricerca di Dio, che è fondamentale per tutti i protagonisti di questo intenso romanzo.
“Crossroads” quindi, come il titolo di una canzone di Robert Johnson che ha dato il nome al gruppo giovanile cristiano a cui partecipano o hanno partecipato quasi tutti i membri della famiglia Hildebrandt, ma anche “crossroads” proprio come incrocio, luogo in cui ci fermiamo e dobbiamo decidere da che parte andare.
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Logica deduttiva
« […] Sarò riconoscente a voi perché senza di voi non mi sarei probabilmente scomodato e così mi sarebbe sfuggito lo studio più interessante che si possa desiderare: uno studio in rosso, come direbbe un pittore.
Di che magnifico rosso non è infatti questo filo tinto del sangue di un misfatto e che si perde fra gli arcani meandri della matassa scompigliata dell’esistenza umana! Spetta a noi dipanarla, isolarla, studiarla filo per filo.»
Arthur Conan Doyle pubblica nel 1887 il romanzo “Uno studio in rosso” con il quale entra in scena il leggendario detective Sherlock Holmes.
Gran parte della narrazione avviene dal punto di vista del dottor Watson, medico militare britannico ferito nella battaglia di Maiwand che, dopo essere tornato a Londra, sta cercando un coinquilino con cui dividere le spese di un appartamento in centro. Per caso Watson entra in contatto con l’eccentrico ma allo stesso tempo rigoroso e metodico Holmes e, in brevissimo tempo, i due si ritrovano a condividere l’appartamento in Baker Street. Il dottor Watson è chiaramente affascinato da Holmes e, a poco a poco, si rende conto di quale sia la sua attività e di come egli la svolga seguendo un efficacissimo metodo deduttivo.
Una mattina Holmes riceve una lettera da parte di un poliziotto di Scotland Yard, gli sta chiedendo aiuto per risolvere un caso che sembra complicatissimo e misterioso. Lui e Watson si dedicheranno così al caso dello “studio in rosso”.
La narrazione secondo il punto di vista di Watson però non interessa tutto il romanzo, è presente una seconda parte che, catapultando il lettore in un luogo e in un tempo del tutto avulsi dal contesto precedente, serve a spiegare le ragioni più profonde che hanno dato origine al delitto.
Anche se lo straordinario successo internazionale di pubblico e critica arrivò per l’autore soltanto quando uscì la seconda avventura di Sherlock Holmes, “Il segno dei quattro”, ci troviamo con “Uno studio in rosso” già alle prese con un romanzo di eccezionale fama. Non credo quindi di poter aggiungere qualcosa di particolarmente originale rispetto a quanto è già stato scritto o detto su questo mitico personaggio letterario o sulle sue avventure. Posso limitarmi a riportare la mia personale esperienza rispetto a questo lettura che, devo ammettere, è stata molto piacevole e avvincente. Nonostante conoscessi già Holmes – chi non lo conosce?- attraverso film, serie TV, brani antologizzati, e, di conseguenza, non avessi una forte curiosità o desiderio di leggere proprio questo romanzo, sono rimasta positivamente colpita. Sì, davvero i due personaggi di Watson e Holmes sono particolari, il primo che avvince con il suo modo di raccontare pacato e modesto, sotto le cui sembianze si cela evidentemente l’alter ego dell’autore e il secondo, con la sua esuberante genialità che in alcuni momenti diventa comica che ormai rappresenta nell’immaginario collettivo l’investigatore per eccellenza.
Infine, mi ha piacevolmente stupita la bipartizione della narrazione secondo due diversi punti di vista e con ambientazioni così differenti.
In conclusione quindi, si tratta di una lettura coinvolgente e appassionante che ha senz’altro anche la potenza di un classico.
Buona lettura!
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Addio all'odio
L’ormai anziano Saleh Omar decide di lasciare la sua terra e la sua storia dolorosa e andare a trascorrere il tempo che gli resta da vivere nella sicura Inghilterra. Dopotutto una vita ha un suo valore intrinseco e una persona ha diritto alla pace e alla sicurezza a qualsiasi età. Ma Saleh Omar ha già alle sue spalle tanti anni, tante esperienze, incontri, sofferenze, successi e privazioni.
Adesso vive in un paesino sulla riva del mare, ma quanto è diverso dal caldo oceano verde dove ha trascorso la maggior parte della sua esistenza! E quanto è difficile vivere la mezza vita dello straniero, non avendo neppure la possibilità che ha un giovane di avere tanto tempo davanti. No, Saleh Omar continua il suo percorso ma lo sguardo rimane rivolto indietro, la mente continua a tornare laggiù e lo riporta nel passato, a Zanzibar. Inaspettatamente è proprio il presente che lo spinge a ripercorrere i luoghi amari e allo stesso tempo confortanti della memoria: quando per un caso fortuito entra in contatto con il figlio dell’uomo di cui Omar ha preso il nome arrivando in Inghilterra.
Entrambi avranno molto da dirsi per rendersi finalmente protagonisti di una necessaria e dolce riconciliazione, proprio là, nella nuova terra dove sono approdati per trovare quella pace e sicurezza che non poteva esserci davvero senza il catartico superamento di vecchie ostilità.
Dopo il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 2021, la nave di Teseo sta ripubblicando tutti i romanzi di Abdulrazak Gurnah. “Sulla riva del mare” è uno scritto dalla prosa magnetica che ci fa avvicinare, attraverso una vicenda individuale e privata, alla condizione difficile e ambivalente del rifugiato. Buona lettura!
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L'insensatezza della guerra
Mi sono avvicinata alla lettura di questo romanzo mossa da aspettative molto alte: mi aspettavo che vi si raccontasse la vicenda tragica e appassionante di tre giovani in un momento storico particolarmente drammatico e in una terra, l’Ucraina, resa tristemente nota negli ultimi mesi purtroppo di nuovo dalla guerra.
Ed in effetti i fatti narrati sono questi, siamo a Kiev, nel dicembre 1918; nella Città in quel momento governa l’etmano, ridicolo capo dell’esercito e dello Stato che è stato eletto nell’aprile di quello stesso anno in un circo. L’autorità dell’etmano ha i giorni contati: le forze contrastanti dei tedeschi e dell’avventuriero Petljura si contendono la Città. Oltre naturalmente ai bolscevichi che stanno lentamente arrivando.
In mezzo a questo drammatico caos si muovono le esistenze dei tre fratelli Turbin, Aleksej, Elena e Nikolka, appartenenti alla nobiltà intellettuale della società ucraina, che vedono sgretolarsi e crollare il loro vecchio mondo sconvolto dalla guerra e dalla violenza.
Sì, i fatti narrati sono proprio questi, ma il romanzo mi è sembrato, per come è scritto, veramente poco avvincente. Nonostante il tema trattato sia estremamente valido ed attuale e nonostante Bulgakov sia uno degli scrittori più illustri del Novecento, ho trovato lo stile abbastanza respingente. Le vicende vengono narrate in modo caotico, cambiando ambientazione all’improvviso; si alternano passaggi realistici a scene oniriche, il piano spazio-temporale è confuso e frammentario. Sono degli elementi voluti, inseriti dal grande autore per ricreare il clima di quei giorni, per dare maggiore risalto all’insensatezza della guerra, che sconvolge il mondo ordinato e sereno dell’umanità con la sua brutalità senza senso. E, sembra voler suggerire Bulgakov, tutti quanti si muovono e si affannano in una specie di corsa senza meta, non c’è un vero fine che giustifichi la violenza e la morte. L’unico fine possibile è l’esistenza stessa, che ha la necessità di dispiegarsi nella sicurezza e nella pace.
Quindi, senza dubbio siamo di fronte a letteratura di qualità. Tuttavia, non posso affermare che il romanzo mi abbia coinvolto, anzi. Anche le vicissitudini dei personaggi che avrebbero dovuto suscitare partecipazione emotiva mi hanno lasciata piuttosto indifferente, proprio a causa del modo in cui sono state scritte, distaccato, freddo. In conclusione dunque un romanzo di elevato valore letterario ma anche molto faticoso, noioso, davvero poco emozionante.
“Ma perché c’era stato? Nessuno lo dirà. Pagherà qualcuno per il sangue?
No. Nessuno.
Semplicemente la neve si scioglierà, spunterà la verde erba ucraina, coprirà la terra… germineranno le biade rigogliose… tremolerà l’aria torrida sui campi e del sangue non resterà traccia. Costa poco il sangue sui campi vermigli, e nessuno lo riscatterà.
Nessuno.”
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Mai fidarsi delle apparenze
Nuovo caso da risolvere per i detective privati Ellacott e Strike: stavolta si tratta di un cold case, avvenuto circa quarant’anni prima. Una sfida difficile quindi, la scomparsa della dottoressa Margot Bamborough, ex coniglietta di Playboy, madre di una bambina di un anno e moglie di un promettente ematologo. Margot quel giorno aveva lavorato nello studio medico di cui faceva parte, fino all’incirca alle 18 del pomeriggio; finito il turno con un po’ di ritardo per aver visitato anche una paziente che non era nella sua lista degli appuntamenti, la dottoressa esce dallo studio, sotto una pioggia battente, per raggiungere un’amica in un pub. Ma l’amica non la vedrà mai arrivare: Margot letteralmente scompare nel breve tragitto che porta dal suo luogo di lavoro al pub.
Ora sono passati quarant’anni, la figlioletta di Margot è ormai una donna adulta e assume Cormoran Strike in un impeto forse di esagerata fiducia e speranza, per provare a conoscere la verità su sua madre. Fin da subito il caso si mostra nella sua complessità: è passato davvero tanto tempo, alcuni testimoni e persone coinvolte sono morte; inoltre il detective della polizia che all’epoca si occupò inizialmente della scomparsa di Margot, l’ispettore Talbot, purtroppo in quel periodo aveva dei seri problemi di salute che lo avevano portato a compiere le indagini basandosi, invece che sulla razionale logica deduttiva, su influssi astrologici e paranormali. Quindi, anche il lavoro di investigazione fatto sul momento, non può essere utilizzato con vantaggio ma risulta più un complicato rompicapo senza senso.
Nonostante tutto ciò, Robin e Cormoran accettano la sfida. Sarà un lavoro complesso, impegnativo, lungo. Le piste da seguire sono molte, la più inquietante è forse quella che collega la scomparsa di Margot al terribile serial killer Dennis Creed e sicuramente niente va tralasciato.
J.K. Rowling – sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith- ci consegna di nuovo un coinvolgente giallo in compagnia dei due famosi detective privati, al termine del quale potremo affermare, ancora una volta, che l’apparenza spesso inganna e che i pericoli possono celarsi dove meno ce li saremmo aspettati.
Si tratta di una lettura estremamente piacevole per i lettori appassionati del genere poliziesco, con quel qualcosa in più che attrae anche le anime romantiche che non vedono l’ora di scoprire se finalmente Strike e Robin di metteranno insieme diventando una coppia anche nella vita oltre che sul lavoro. Chissà. Buona lettura!
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Duetto
Yaari e Daniela sono una coppia di mezza età molto affiatata e complice. Ma per la festa di Hanukkah, diversamente dalle loro abitudini, trascorreranno qualche giorno lontani: lei andrà in Tanzania, a trovare il cognato e lui rimarrà in Israele ad occuparsi di figli, nipoti e dell’anziano padre, oltre che proseguire il lavoro di ingegnere costruttore di ascensori.
Daniela ha deciso di partire da sola per vivere più intensamente il dolore per la perdita dell’amata sorella, avvenuta da alcuni mesi. Il cognato, Yirmiyahu, non solo non vuole tornare a vivere in Israele, ma è deciso a tenersi lontano da tutto ciò che gli ricordi il suo essere israeliano. Qualche anno prima infatti suo figlio è stato ucciso durante un’azione nei territori occupati; rimasto vittima di “fuoco amico” da parte del suo stesso esercito.
Seguiamo quindi Yaari e Daniela in un vivace alternarsi di brevi narrazioni che costituiscono una specie di duetto, in grado di ricomporre il loro stare lontani fisicamente in un continuo scambio di pensieri.
Mentre Daniela comprende a poco a poco il punto di vista del cognato, senza comunque arrivare a condividerlo, Yaari a casa cerca di prendersi cura di tutte le generazioni che formano la sua famiglia, tutti bisognosi, ciascuno nel suo modo specifico, delle amorevoli attenzioni dell’uomo. Intanto è inverno in Israele e il vento entra nel vano ascensore di un grande palazzo, provocando dei suoni angoscianti. Sarà un difetto di fabbricazione dell’ascensore oppure riguarderà un errore nella costruzione dell’edificio? Yaari, in quanto proprietario dell’impresa di ascensori, cerca di capire l’origine di questi strani suoni e risolvere il problema.
“Fuoco amico” è un romanzo denso di significato, richiede una lettura calma e ragionata. Solo apparentemente è la narrazione delle vicende quotidiane riguardanti la famiglia di una coppia di israeliani di mezza età; in realtà l’autore, attraverso la sua scrittura lieve e impreziosita di leggera ironia, sta cercando di interrogarsi sull’identità del suo popolo e sull’utilità di certe scelte politiche che sono state attuate facendo pagare un caro prezzo a moltissime persone, anche israeliane.
Mentre il vento invernale si insinua nel vano dell’ascensore di un grattacielo e provoca come dei lamenti angoscianti che tacciono solo con il calmarsi del vento. In ebraico “ruach” significa vento, ma anche spirito.
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Toccante
“Anche lui, come tutti i testimoni di questa storia con cui ho parlato, sembrava raggiungere un punto della conversazione in cui i piani del presente e di quella notte si intrecciavano, risucchiandolo in una dimensione sospesa e in grado di modificare la sua percezione del qui e ora. Per lunghi minuti, Iaccarino pareva essersi dimenticato di trovarsi seduto con me in una macchina parcheggiata sotto un albero vicino al mare di Meta di Sorrento. Avevo l’impressione che fosse tornato a bordo della Concordia. Con i ricordi, ma anche emotivamente. Come se quella nave, ormai rimossa e demolita da tempo, fosse ancora alla deriva, uno spirito rimasto dentro di lui e nella coscienza collettiva dei suoi naufraghi.”
Aprite il libro di Pablo Trincia “Romanzo di un naufragio”, iniziate a leggere: non potrete staccarvi dalla storia, vi ritroverete lì, insieme ai naufraghi, insieme ai testimoni, conoscerete questa tragedia con una consapevolezza nuova.
Da venerdì 13 gennaio 2012 infatti chi non ha seguito la notizia del terribile – e incredibile- naufragio, chi non ha visto immagini, ascoltato testimonianze, chi non è stato prontamente informato dai media di tutto ciò che è accaduto alla Concordia?
Quindi, qualcuno potrebbe obiettare, cosa può offrirci di nuovo una ulteriore ricostruzione di questi avvenimenti? Invece, vi assicuro, si tratta di un libro veramente coinvolgente, da leggere.
L’autore affronta la ricostruzione dei fatti con serietà e documentato approfondimento ma con uno stile avvincente, che vi farà entrare fin da subito dentro a questa storia, narrandola con una rara empatia e sensibilità nei confronti dei protagonisti.
Eccoci così a bordo insieme a queste persone, ciascuna salita sulla nave insieme al proprio vissuto, ai propri affetti – fisicamente vicini o lontani che fossero- insieme alle proprie aspettative e con lo sguardo naturalmente rivolto al futuro, alla vita. Ed eccoci a rivivere l’impatto, i momenti peggiori, le storie di altruismo, di paura, di generosità, di salvezza e di morte.
Un libro quindi capace di prendervi per mano e portarvi dentro una drammatica storia vera, per conoscere, per approfondire, ma direi soprattutto per condividere questa dolorosa esperienza.
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La lotta contro l'estinzione
« “Restava l’umile topo d’acqua. Il Creatore chiamò proprio lui. Wazhashk. L’animaletto si immerse. Restò giù per molto tempo, moltissimo tempo, poi finalmente Wazhashk tornò in superficie. Era annegato ma aveva la zampina serrata. Il Creatore aprì le zampe palmate di Wazhashk. Vide che il topo muschiato aveva riportato su un piccolo frammento preso dal fondo. Da quella minuscola manciata di terra, il Creatore dette vita all’intero pianeta.” »
Primi anni Cinquanta del Novecento, riserva dei chippewa della Turtle Mountain.
Thomas Wazhashk tutte le sere si reca al lavoro alla fabbrica di rubini dove fa il guardiano notturno. Wazhashk, cioè, topo muschiato. Thomas è proprio così, laborioso e tranquillo come il suo animale totem: uno su cui si può contare davvero; umile, con i piedi per terra, ma con lo sguardo rivolto al cielo.
Così, quando arriva la notizia che il Congresso degli Stati Uniti vuole attuare la House Concurrent Resolution 108, una proposta di legge che implica l’estinzione di tutte le tribù indiane, Thomas ne comprende subito la pericolosità e, in qualità di presidente tribale, inizia una determinata e concreta opposizione verso il tentativo di abrogare i trattati bilaterali.
Intanto, nella riserva la vita continua seguendo il ritmo delle stagioni, del lavoro umano e delle umane passioni.
Pixie, o meglio, Patrice Paranteau ogni giorno lavora intensamente nella fabbrica di rubini: è molto brava, veloce e precisa e con il suo stipendio di 85 centesimi all’ora deve mantenere la sua intera famiglia. Suo padre è un ubriacone molesto che dà pace solo quando si allontana, mentre sua sorella maggiore, Vera, è andata a vivere a Minneapolis ed è scomparsa: Patrice deve assolutamente andare a cercarla.
“Il guardiano notturno” è un bellissimo romanzo corale che ha come filo conduttore l’opposizione della tribù chippewa al tentativo di estinzione che voleva attuare il Congresso degli Stati Uniti. Ci racconta come si svolgeva la vita nella riserva in quegli anni, ci fa immergere nella cultura di una delle tribù degli indiani d’America, etnia sicuramente molto affascinante, in grado di vivere in profonda connessione con l’ambiente naturale.
« Prese il sentiero erboso che tagliava per i boschi. Camminare a piedi nudi non era un problema. Era tutta la vita che lo faceva e i suoi piedi erano abituati. Infreddoliti, intorpiditi, ma abituati. Aveva i capelli, le spalle e la schiena bagnati. Ma si scaldava muovendosi. Rallentava quando arrivava nei punti in cui l’acqua affiorava dal tappeto di erba secca. L’unico suono era quello della pioggia che picchiettava attraverso le foglie lucide. Si fermò. La sensazione che ci fosse qualcosa, con lei, tutto intorno a lei, che vorticava e vibrava di energia. Con quanta intimità gli alberi si aggrappavano alla terra. E con che delicatezza lei ne faceva parte. Patrice chiuse gli occhi e sentì uno strattone. Il suo spirito si riversò nell’aria come un canto.»
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"Viviamo tutti in un cimitero, ma alcuni di noi so
“Viviamo tutti in un cimitero, ma alcuni di noi sono ancora vivi.”
“La figlia ideale”, romanzo della scrittrice spagnola da poco scomparsa Almudena Grandes, ci porta nella Spagna franchista degli anni Cinquanta del Novecento.
I due protagonisti della vicenda e voci narranti principali che si alternano sono German Velazquez e Maria Castejon.
German è uno psichiatra affermato, che torna in Spagna nel 1954 dopo aver trascorso un ventennio in Svizzera, dove si era rifugiato in seguito alla guerra civile. Maria è una ragazza di circa vent’anni, orfana, che lavora duramente per mantenersi e ha il dono speciale di sapersi raccontare. I due si incontrano nel manicomio femminile di Ciempozuelos e intrecciano la loro relazione intorno alla figura di Aurora Rodriguez Carballeira - terza voce narrante del romanzo- una donna affetta da grave paranoia che, circa vent’anni prima, aveva ucciso la propria figlia. Entrambi, sia German che Maria, sono legati a donna Aurora per motivazioni diverse che risalgono alle loro rispettive storie familiari.
Si tratta di un romanzo molto ricco, corposo, denso di narrazioni personali che, partendo dal manicomio di Ciempozuelos vanno a raggiungere e toccare tantissimi argomenti e tematiche, come la guerra civile spagnola, il genocidio degli ebrei, la condizione degli esuli e dei rifugiati di guerra, la vita sotto una dittatura, la discriminazione degli omosessuali, la condizione delle donne.
La scrittura di Almudena Grandes è coinvolgente, capace di catturare il lettore e farlo entrare nella vicenda narrata.
Ciò che all’inizio non mi aveva molto convinta era stata la sovrabbondanza dei temi affrontati, che venivano sviscerati uno dopo l’altro a partire dalle complesse vicissitudini personali dei protagonisti. Ho un po’ faticato insomma a riportare tutte le questioni aperte ad una sorta di unità e coerenza di fondo che alla fine noi lettori ci aspettiamo da una narrazione. Infine penso di aver capito che il tema basilare su cui è costruito questo romanzo così denso e stratificato sia stata la necessità di elaborare il passato spagnolo, quel passato figlio della guerra civile e di una dittatura pluriennale che non poteva essere forzatamente ricondotto ad una unità ma che doveva essere raccontato come pluralità e complessità.
“ «Fai bene» mi disse, senza modificare la curva raggiante delle sue labbra. «Sarà più facile lassù. La Spagna non è un paese per gente come lei.»
Avrei potuto piantarlo in asso. Avrei potuto girarmi a destra e andare a prendere un calice di vino. Avrei potuto spostarmi a sinistra per salutare il dottor Robles. Avrei potuto fingere di non aver sentito le sue parole. Avrei potuto, ma non lo feci.
« La Spagna è il mio paese, padre Armenteros.» Sorrisi a mia volta, invece. « Anche se la cosa la manda in bestia. So che avrebbe preferito che i suoi amici annientassero tutti gli spagnoli come me, ma non ci sono riusciti, e non perché non ci abbiano provato, tra l’altro. Per cui la Spagna è tanto mia quanto sua, le piaccia o no. Lei non è più spagnolo di me. E non ha nessun diritto di stabilire se mi conviene o no restare. Sarò io a deciderlo, se non le spiace.» ”
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Un incontro che avvicina alla Grazia
“A volte Jack chiamava la vita che aveva vissuto morte preveniente. Aveva imparato che nonostante tutti i suoi agi e disagi, innanzitutto il silenzio di tomba, chiaramente non contemplava alcuna tregua dal fare del male.”
Di nuovo un romanzo che racconta la solitudine e il tentativo di superarla, l’umanità e la ricerca della Grazia. Di nuovo un romanzo di Marilynne Robinson.
Questa volta seguiamo Jack, il figlio dissennato del reverendo Boughton, nel momento più cruciale della sua torbida eppure così profondamente umana esistenza, il momento in cui anche lui, come la maggior parte degli esseri toccati dalla Grazia, incontra l’amore. E’ un incontro che porta salvezza, che permette di superare la solitudine. Un po’ come era avvenuto per l’incontro che aveva finalmente dato conforto alle esistenze tormentate di Lila e del reverendo Ames. Ma Jack è pur sempre Jack. Jack è la pecora nera del gregge, è il “Principe delle tenebre”, è colui che si è imposto come primario obiettivo quello di non nuocere. Quindi anche il suo incontro, quell’incontro che può rendere una persona migliore, che permette di perdonarsi e pretendere di più da se stessi, sarà complicato, pieno di ostacoli.
Jack è un’anima tormentata, un personaggio molto riuscito, credibile nella sua debolezza. Si innamora di una ragazza giovane, bella, che svolge una professione che ama, è un’insegnante, è figlia, come lui, di un pastore. Ma lui invece è quasi un senzatetto, spesso beve, tende a passare le giornate cercando di non causare problemi. Lei è nera e lui bianco, nella St. Louis degli anni Quaranta del Novecento. La forza del personaggio di Jack sta nella sua umanità, e debolezza, nella sua profonda difficoltà a realizzarsi e a rompere le catene dei sensi di colpa. A differenza di Lila, che ha subìto la tempesta della sua vita senza averne responsabilità, Jack è stato sempre amato, protetto, perdonato. Eppure la sua sofferenza sta proprio qui: lui è vittima di se stesso, delle sue ombre, della sua fragilità. E l’incontro salvifico diventa difficile da realizzare, da mettere in atto. Forse si tratta semplicemente di una storia d’amore.
Un quarto romanzo si aggiunge alla trilogia di Gilead, stavolta ambientato lontano dalla cittadina dell’Iowa. Ci troviamo davanti di nuovo alla potente scrittura di Marilynne Robinson, capace di raccontare sentimenti profondamente umani con una sensibilità quasi mistica.
“Il pensiero di una presenza benigna toglie la maledizione della solitudine, per un motivo che è naturale quanto la solitudine stessa, una mediazione necessaria che ha reso la condizione umana meno disagevole.”
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Di nuovo una nuova vita
Quante ore ci vogliono per acconciarsi i capelli afro in treccine? Certo, dipende dalla lunghezza e da quanto sono folti. A Ifemelu ci vorranno circa sei ore. E’ così che inizia il romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, “Americanah”, quando la protagonista, ormai presa la decisione di tornare a casa in Nigeria e lasciare tutto quello che aveva costruito in circa dieci anni di vita negli Stati Uniti, trascorre diverse ore in uno scalcinato salone da parrucchiera per rifarsi le treccine. Cosa troverà a Lagos? Rivedrà il suo ragazzo di allora, Obinze, lasciato quasi improvvisamente per andare in America e che non ha mai dimenticato?
In questo momento Ifemelu inizia, consapevole e determinata, di nuovo una nuova vita. Nel corso del romanzo noi lettori saremo portati a conoscere anche ciò che è avvenuto prima, durante la sua infanzia e adolescenza in Nigeria, durante anni trascorsi tra le certezze del presente e le indefinite speranze riguardo a un futuro luminoso. Ifemelu è una giovane donna che si sta formando per aspirare al meglio che la vita, in quel dato luogo e tempo, le può offrire. E quel meglio al quale può e deve aspirare è l’America. Andare a studiare e a vivere negli Stati Uniti, coronare il sogno che i migliori giovani della sua generazione e classe sociale avevano.
Quasi all’improvviso, quasi senza averla nemmeno cercata in modo particolare, arriva l’opportunità. Ifemelu può andare a completare gli studi negli Stati Uniti, può arrivare concretamente a quella vita migliore a cui molti suoi amici e lo stesso Obinze aspiravano profondamente. Dovrà lasciare gli amici più cari, i suoi genitori e soprattutto il suo ragazzo, ma non è del tutto sola negli Stati Uniti, può contare su altri amici e familiari che già avevano lasciato l’Africa in cerca di migliori opportunità. All’inizio non sarà facile, Ifemelu si rende conto per la prima volta nella sua vita di essere nera e che le razze esistono e, negli Stati Uniti, condizionano gran parte della vita sociale e privata delle persone. Ma la ragazza è brillante, bella e sicura di sé, e alla fine raggiunge l’affermazione lavorativa e sentimentale fondando un blog di successo e intrecciando una relazione con un professore universitario di colore. E’ diventata un’emigrata di successo. Ma non si sente soddisfatta, non riesce ad avere un reale appagamento da questa situazione. Vuole tornare nel luogo dove non deve sforzarsi per essere pienamente se stessa.
Stavolta Chimamanda Adichie ci consegna una storia più vicina al nostro tempo, andando ad indagare temi attuali come l’emigrazione, il razzismo, l’identità, e costruendo ancora una volta un romanzo coinvolgente, denso ed appagante. Buona lettura.
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