Opinione scritta da Elena72
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relazioni vuote e tristi
Aveva solo diciotto anni Françoise Sagan (1935-2004) quando, nel 1954, scrisse e pubblicò “Bonjour tristesse”, opera che le regalò il successo e la fama di personaggio “scandaloso”, un mito della letteratura francese, una donna che visse tra eccessi e solitudine. Nel suo testo la Sagan anticipò il Sessantotto dando voce al desiderio di una gioventù disillusa di una maggiore libertà di costumi e alla scelta della trasgressione come modo di vita.
Cécile, diciassettenne oziosa e viziata, trascorre le vacanze estive in una splendida villa in Costa Azzurra insieme al padre Raymond, vedovo quarantenne amante dei piaceri della vita e delle belle donne; insieme a loro c'è anche la giovane Elsa, ultima fiamma di Raymond. Caratterialmente simili e uniti da un atteggiamento complice, padre e figlia si sollazzano all’insegna di una mondanità che ricerca solo edonismo e distrazione: bagni, gite in barca, aperitivi e nottate in discoteca. Due incontri inattesi segnano una svolta nella vacanza: Cécile conosce Cyril, giovane di bell'aspetto che si invaghisce perdutamente di lei e Raymond riceve l'inaspettata visita di Anne, amica della madre di Cécile, morta quando la ragazza era ancora molto piccola. Anne è aristocratica, raffinata, discreta nell'esprimersi e nell'agire: Raymond ne resta a tal punto affascinato che le propone di sposarlo al loro rientro a Parigi. La notizia suscita in Cécile una gelosia incontrollabile che resta mascherata da risposte equivoche e atteggiamenti all'apparenza concilianti. Cécile è tormentata da sentimenti ambigui e contraddittori: pur capendo che Anne potrebbe essere un valido punto di riferimento, in lei prevale il timore di perdere le attenzioni di suo padre e le libertà di cui fin a quel momento ha potuto godere. Come evitare che Anne entri definitivamente nella loro vita? Con la complicità di Elsa e di Cyril, Cécile non esita ad ordire un piano affinché suo padre ripiombi tra le braccia della sua precedente amante e abbandoni l'idea di convolare a nozze. Il tranello funziona, la messinscena tra Cyril ed Elsa per pungere nell'orgoglio Raymond colpisce nel segno. Questi atteggiamenti superficiali ed egoisti hanno però conseguenze tragiche ed inaspettate sulla vita di Anne; quell'estate lascerà per sempre in Cécile la sensazione di una profonda tristezza.
“Bonjour tristesse” è un testo breve, costruito attraverso sequenze di tipo cinematografico tra scorci paesaggistici, pensieri della protagonista e rapidi scambi di battute. Colpisce fin dalle prime pagine per la sua atmosfera, avvolgente e sensuale: le calde giornate sulla spiaggia, il profumo dei pini, la freschezza dell'acqua. I personaggi, seppur descritti con pochi tratti, sono ben delineati. Cécile e suo padre hanno un legame ambiguo che lascia intuire un tentativo inconscio della figlia di sostituirsi alla madre defunta. Raymond e Cécile sono egocentrici ed incentrati sul soddisfacimento dei propri piaceri e desideri. Raymond è un padre dalla mentalità adolescenziale, preoccupato solo di non perdere la sua avvenenza fisica: amico e complice della figlia, la lascia vivere senza regole e senza punti di riferimento. Cécile è una figura complessa e contraddittoria: all'apparenza forte e sfrontata, in realtà fragile, profondamente insoddisfatta, desiderosa di affetti sinceri e di guide coerenti. Il ruolo di Anne risulta altrettanto interessante: inizialmente presentata come fredda e sprezzante, si rivela invece nel corso degli eventi sensibile ed insicura. La storia e i personaggi infondono nel lettore una sensazione di smarrimento e profonda malinconia.
Il testo della Sagan, che fece scalpore negli anni Cinquanta vendendo milioni di copie, è ancora oggi molto attuale: fa riflettere sull'assenza di valori della nostra società e sui difficili equilibri nelle relazioni interpersonali e familiari.
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la forza della solidarietà
Siamo a Belleville, un quartiere popolare e multietnico di Parigi negli anni Settanta. Al sesto piano di un vecchio condominio senza ascensore Madame Rosa, anziana prostituta ebrea, si occupa clandestinamente di un gruppo di bambini ai quali offre, in cambio di un compenso mensile, la possibilità di non finire in orfanotrofio. I piccoli sono “figli dell'errore”, aborti mancati che le colleghe di Madame Rosa hanno evitato di denunciare all'anagrafe per non rischiare di vederseli sottrarre dalle autorità.
Mohamed, protagonista e voce narrante di questa storia, è un ragazzino arabo di dieci anni che ricorda di essere giunto da madame Rosa quando era molto piccolo; sensibile e curioso, Momo riflette sull'esistenza con ingenuità ed ironia, ma soprattutto si chiede come mai la sua mamma non si sia mai presentata per riprenderlo con sé, anche solo per trascorrere con lui qualche ora. Crescendo Momo si affeziona a Madame Rosa come ad una madre, è partecipe delle angosce e delle paure che, sopravvissuta alla deportazione, ancora la turbano e la sostiene in un crescendo di cure e di attenzioni anche quando, ormai inferma e gravemente ammalata, Madame Rosa con tenacia si rifiuterà di farsi ricoverare in ospedale. “La vita davanti a sé” è una storia d'amore tenera e commovente tra una donna ed un bambino, la testimonianza di una molteplicità di gesti di affetto e di solidarietà, una possibilità di sentirsi parte di una famiglia anche al di là dei legami di sangue.
Pubblicato in Francia nel 1975 “La vita davanti a sé” è un romanzo che mi ha coinvolta e commossa e che ho apprezzato perché sottende temi di ordine sociale ed etico ancor oggi di grande interesse. L'autore ci presenta una società multietnica in cui i problemi non mancano (prostituzione, droga, violenza) ma in cui sono possibili il superamento del pregiudizio, l'accettazione della diversità e gesti di grande solidarietà. Ancora più attuale e controversa è la questione relativa al diritto di ogni persona di poter scegliere come vivere la malattia e la vecchiaia. Tra le righe si intuiscono temi quali l'angoscia del passare del tempo, la paura dell'infermità mentale e il timore della perdita dell'autonomia personale. Attraverso la voce di Madame Rosa, Gary invoca il diritto alla rinuncia alla medicalizzazione forzata e, senza citarla esplicitamente, auspica la possibilità di una scelta estrema ed indubbiamente discutibile quale l'eutanasia.
Tematiche scottanti che emergono con delicatezza da una voce narrante, quella del piccolo Momo, in un giusto equilibrio tra ironia e profonda malinconia, una voce che non drammatizza, ma nello stesso tempo evita di scadere nella superficialità.
“La vita davanti a sé” è un libro che si legge in modo rapido e scorrevole; i capitoli sono brevi, il linguaggio semplice e colloquiale. Un'ultima considerazione: avendo letto il testo sia in lingua originale sia in traduzione, consiglio se possibile di leggerlo in francese in quanto a mio avviso la versione italiana non rende appieno la freschezza e la spontaneità del linguaggio del piccolo protagonista.
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le due madri
Una voce narrante di cui non sapremo mai il nome racconta la sua dolorosa storia, fatta di abbandoni e di ritorni, di dubbi e di sconcertanti verità.
Siamo in Abruzzo, negli anni Settanta: dopo tredici anni una bambina viene inspiegabilmente riconsegnata alla sua prima, vera, madre. La donna che fino a quel momento si è occupata di lei e che la bimba ha da sempre chiamato mamma, ora non può più tenerla con sé. La famiglia a cui è stata restituita la vede come un'estranea e la tratta con una certa ostilità. Cresciuta nel benessere della città, tra lezioni di nuoto e di danza, brava a scuola e sempre ben vestita, la ragazza si ritrova, apparentemente senza un valido motivo, in un'abitazione malmessa e sovraffollata, sporca e maleodorante; è stata lasciata come un pacco in mezzo a persone che parlano solo il dialetto e usano tra loro modi bruschi, se non addirittura violenti. Il cibo a tavola scarseggia, i fratelli la imbarazzano e il maggiore, Vincenzo, la considera già una donna alla quale rivolgere le sue attenzioni. Solo la piccola Adriana, la sorellina di appena dieci anni, si lega fin da subito alla “ritornata” regalandole tutto ciò di cui lei ha bisogno: affetto, protezione, complicità.
La storia de “L'arminuta” è la ricerca di una verità che si stenta a comprendere e che ancora più difficilmente si riesce ad accettare.
Ho letto questo libro tutto d'un fiato: non sono riuscita a staccarmene fintanto che non sono arrivata all'ultima riga. Il modo di scrivere dell'autrice è molto coinvolgente: asciutto, ma così incisivo e tagliente da far chiaramente percepire tutto il dolore, la solitudine, il senso di colpa, la vergogna della protagonista. Insieme a lei sono rimasta sconvolta dalla povertà umana e materiale della sua famiglia d'origine, mi sono commossa di fronte alle tragedie che l'hanno colpita, mi hanno intenerita i gesti generosi della piccola Adriana. L'aspetto che più ha destato la mia coscienza è però quello relativo alle figure delle due madri. Ho continuato a pormi delle domande su di esse, sui motivi delle loro scelte. Seppur di estrazione sociale e culturale diversa, hanno agito in modo simile, rinunciando, di fatto, ad una figlia. In un primo momento non ho potuto che disprezzarle, poi ho colto in esse il dramma di una scelta sofferta e senza via d'uscita. Sono vittime, come la protagonista, di una mentalità ottusa e maschilista che anziché mettere in primo piano i bambini, preferisce salvaguardare le convenzioni, il perbenismo e gli egoismi degli adulti. Ma anche nelle situazioni più buie ci sono episodi che riportano luce e speranza. Amiche, vicine, insegnanti: tante sono le occasioni, anche in questo libro, in cui la solidarietà femminile crea una rete di aiuto e di sostegno; credo che l'autrice abbia voluto lasciarci questo messaggio: le donne riescono sempre a trovare la forza per superare le difficoltà. "Avevo dentro, oltre la paura, una forza luminosa" (p. 109)
Ogni donna può essere una buona madre, sia che abbia figli propri, sia che si occupi di creature da lei non direttamente generate purché sappia davvero accogliere le esigenze dei più piccoli che chiedono innanzitutto di essere ascoltati.
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un inno all'immaginazione e all'amore
“Se tu ami veramente qualcuno o qualcosa, dagli tutto quello che hai e anche tutto quello che sei” (p.15)
L'amore è il tema di questo splendido romanzo: l'amore per una donna, per i propri ideali, per la libertà. Romain Gary pubblicò questa sua ultima opera nel 1980, pochi mesi prima di porre fine, con un colpo di pistola, alla sua esistenza. “Gli aquiloni” è il suo testamento, la sintesi di ciò in cui ha creduto: un inno alla fratellanza, alla solidarietà, alla memoria del passato e alla capacità di immaginare il futuro.
Il romanzo si divide in due sezioni: nella prima, che va dal 1930 all'occupazione della Polonia, l'autore presenta il contesto in cui si svolge la vicenda e ne delinea i personaggi principali. Nella seconda parte, a conflitto ormai conclamato, l'azione prende il sopravvento e l'intreccio si fa più complesso; in un crescendo di colpi di scena la storia termina con lo sbarco degli Alleati. Tutto ha inizio a Cléry, un villaggio rurale della Normandia dove Ludovic, a soli dieci anni, incontra in un bosco Elizabeth Bronicki, erede di un'aristocratica famiglia polacca che trascorre ogni estate le vacanze in Francia. I due bambini si scambiano poche parole, ma Ludo resta incantato da quella “bionda e severa apparizione” che sarà per sempre la sua unica ragione di vita. Lila è ambiziosa, volitiva, alla ricerca di se stessa e desiderosa di compiere qualcosa per cui essere ricordata. Pur dimostrando interesse per Ludo, la ragazza non disdegna le attenzioni di altri pretendenti: l'altero Hans, soldato prussiano votato alla guerra e il timido Bruno, virtuoso pianista che dovrà rinunciare al suo talento a causa del conflitto.
Alla vigilia dell'occupazione nazista, un tracollo finanziario costringe la famiglia Bronicki a rientrare in Polonia. La guerra distrugge le aspirazioni dei giovani protagonisti che sono costretti a separarsi; Ludo si unisce alla Resistenza e di Lila perde a lungo le tracce, ma non la speranza di poterla ritrovare per coronare il suo sogno d'amore.
“Gli aquiloni” è un romanzo che colpisce il lettore per almeno tre aspetti: la fervida immaginazione, le nobili idee e lo stile originale. “Non vale la pena di vivere nulla che non sia un'opera di immaginazione, sennò il mare sarebbe soltanto acqua salata” (p. 225). Il primo a credere nella fantasia è senza dubbio Gary che attribuisce ai suoi personaggi qualità straordinarie e quel pizzico di follia che rende possibile l'impossibile. Tra tutti spicca il protagonista, Ludovic, dalla prodigiosa memoria e dalla incredibile capacità di calcolo. Non è da meno il suo tutore, lo zio Ambroise Fleury, reduce di guerra, pacifista convinto e abile artefice di splendidi aquiloni. Gli “gnamas” (così li chiama Ambroise) sono un elemento costante della storia, simboleggiano i grandi ideali, purché si abbia l'accortezza di tenerli ben saldi per evitare che “prendano la fuga verso l'azzurro”. Le idee in cui crediamo sono ciò che ci tiene in vita, ma dobbiamo essere cauti: se vanno troppo in alto, si perdono; se toccano terra si infrangono, come gli aquiloni. Gary ci invita a diffidare di chi pensa di essere dalla parte del giusto, ognuno di noi potrebbe essere "il nemico". La guerra insegna che “il lato disumano fa parte dell'umano” e i vincitori non possono dirsi immuni dal commettere ingiustizie.
“La sua faccia mi parve familiare e sulle prime credetti di conoscerlo, ma subito capii che ad essermi familiare era l'espressione di sofferenza (…). Tedeschi o francesi, in quei momenti siamo intercambiabili”. (p. 326)
“Gli aquiloni” è un romanzo scritto in prima persona da una voce narrante, quella di Ludovic, capace di coniugare serietà ed ironia: “la comicità è una grande virtù: è un posto sicuro in cui ciò che è serio può rifugiarsi per sopravvivere” (p. 225).
L'intreccio è appassionante, in alcuni punti rocambolesco, in altri commovente; le vicissitudini belliche restano sullo sfondo, l'autore preferisce soffermarsi sui piccoli o grandi gesti di amicizia, di lealtà e di solidarietà che inaspettatamente uniscono gli uomini anche quando la Storia li schiera su fronti contrapposti.
La lettura scorre rapida, piacevole, curiosa di scoprire un lieto fine che si intuisce, ma di cui non si è certi.
"Gli aquiloni" lascia una sensazione di positività e di speranza; si stenta a credere che Gary abbia potuto compiere, pochi mesi dopo la pubblicazione di questo libro, il gesto estremo.
Tra le righe de “Gli aquiloni”, forse, la risposta:
“Amava appassionatamente l'umanità intera, ma in fondo non aveva nessuno. (…) Per la speranza bisogna essere in due” (p. 91)
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desiderare non basta, bisogna volere
“Silke viene dal silenzio, dall'ordine e dal bianco”. Dal silenzio di una vita che soffoca le emozioni, dall'ordine di una ricca famiglia in cui la reputazione conta più della verità e dal bianco di una città, Innsbruck, in cui tutto appare perfetto. Fugge da un padre che le ha imposto una “maschera capace di nascondere i sentimenti, i desideri, le paure e anche il dolore”, che l'ha costretta a vivere senza la possibilità di scegliere, né di sbagliare. Fugge da un passato di sofferenze, di umiliazioni e di vergogna con la speranza di poter ricominciare “nella direzione opposta” a quella dettata dai suoi genitori. Silke ha ventiquattro anni quando arriva a Marsiglia per trascorrere sei mesi in un monolocale rumoroso e sporco, ma dal quale può “vedere il mare che segna la linea di confine tra l'ordine e il caos”. Agli occhi della ragazza si spalanca finalmente un mondo pieno di colori, di profumi, di voci e di vita. Silke, curiosa ma alquanto spaventata, inizia ad aprirsi e a conoscere persone umili, ma sagge e disponibili ad aiutarla a superare la paura di vivere e di amare. Tre personaggi contribuiscono in modo decisivo alla rinascita della protagonista: Murielle, ex prostituta che si prende cura di lei come una madre, un'anziana gattara che le dispensa saggi consigli e Didier, giovane ed affascinante ladro che le farà battere di nuovo il cuore. Grazie a questi nuovi amici Silke capisce che essere felici è una scelta e che per ottenere qualcosa si deve lottare: “desiderare non mi è mai bastato” le confida Murielle, “io ho voluto. Ho voluto fortemente ogni cosa. E tutto ho strappato alla vita”. (p. 107)
Ho trovato questo romanzo molto piacevole: l'intreccio è semplice e forse per certi aspetti poco credibile, ma coinvolgente soprattutto perché a lungo resta celato il motivo per cui Silke si è trovata costretta ad abbandonare Innsbruck. La vera protagonista di questa storia è, a mio avviso, Marsiglia in cui l'autore ha vissuto e di cui sa trasmettere l'atmosfera multietnica, caotica, inebriante di profumi e di colori. Nicola Lecca, autore premiato in Italia e tradotto anche all'estero, si definisce “un artigiano della parola”: sceglie ogni termine con accuratezza, ha uno stile elegante e scorrevole.
“I colori dopo il bianco” è una favola moderna che trasmette una sensazione di positività, di rinascita, di libertà.
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E se il meglio potesse ancora venire?
La sera è spesso il momento in cui ci si sofferma a pensare a ciò che si è vissuto durante la giornata, talvolta con soddisfazione, talvolta con malinconico rimpianto. E se ci rendessimo conto, al tramonto della nostra esistenza, di aver fatto le scelte sbagliate e di aver perso l'opportunità di essere veramente felici?
Ishiguro entra nei panni di Mr Stevens, un anziano maggiordomo inglese a cui viene concessa una settimana di vacanza nella quale egli decide di visitare le principali attrazioni della zona ed ammirare la grandezza della natura. Il viaggio è l'occasione per rivedere, dopo tanti anni, Miss Kenton (ormai Mrs Benn) che da giovane aveva prestato servizio, come governante, insieme a Mr Stevens presso la prestigiosa dimora di Lord Darlington. Il tragitto verso la Cornovaglia è per il maggiordomo un percorso a ritroso nel passato, la rievocazione dei prestigiosi anni in cui a Darlington Hall si decidevano le sorti dell'Europa, ma è soprattutto la presa di coscienza delle tappe fondamentali di una intera esistenza con la speranza di poter recuperare un'occasione perduta.
Scritto con una prosa impeccabile, uno stile elaborato ed un ritmo compassato ma non privo di un certo humor tipicamente inglese, il romanzo si presenta come il meticoloso diario di viaggio di un personaggio alquanto singolare e, per certi aspetti, irritante. Mr Stevens si esprime e si comporta in modo cerimonioso e studiato in ogni dettaglio: figlio di un maggiordomo, è stato educato a reprimere ogni emozione e a perseguire la “dignità” vista come adesione totale ad un ruolo che non consente mai di svestirsi dei propri panni professionali. In simbiosi con le esigenze del proprio padrone, Mr Stevens adempie alle sue mansioni con orgoglio, votato ad una missione che lo fa sentire, in un certo qual modo, parte della Storia. Abnegazione, irreprensibilità ed efficienza al prezzo di una profonda e completa solitudine. Impassibile sia di fronte alla morte di suo padre, sia nei confronti dei sentimenti di Miss Kenton, Mr Stevens rinuncia, di fatto, agli affetti familiari e all'amore.
Solo al tramonto dei suoi giorni pare rendersi conto degli errori commessi e delle occasioni mancate, alle volte in cui avrebbe potuto agire e parlare in modo diverso, a tutti i fraintendimenti creati, ai “piccoli incidenti” che hanno “reso irrealizzabili dei grandi sogni”. E' ancora possibile rimediare? Sembra chiedersi in extremis Mr Stevens. La risposta arriverà, ancora una volta, dalla saggezza di Miss Kenton: “Non si può più mettere indietro l'orologio. Non si può stare perennemente a pensare a quel che avrebbe potuto essere”. E allora, che fare? Nelle pagine finali di questo splendido romanzo Ishiguro ci invita alla consapevolezza e alla speranza: non esistono esistenze perfette e non ci resta che convincerci “che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati” (p. 286).
Non ci rimane dunque che godere di quel che resta del giorno e far sì che la sera della vita possa essere la parte più bella della nostra esistenza.
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una disarmonia tra uomo e società
Era da tempo che un libro non mi coinvolgeva così profondamente: fin dalle prime pagine sono stata rapita dal misterioso intreccio, dall'accurata caratterizzazione psicologica dei personaggi, dallo stile sobrio e pacato, ma soprattutto sono rimasta turbata dalle inquietanti tematiche affrontate e dagli interrogativi spiazzanti che ancora risuonano nella mia testa.
La storia è narrata in prima persona da Kathy H., giovane “assistente” di misteriosi “donatori”; la ragazza, stanca ma orgogliosa del suo ruolo, nella prima parte del romanzo in un lungo flashback ricorda la sua felice infanzia ad Hailsham, un college immerso nella verde campagna inglese. In quel luogo austero, centinaia di bambini imparano ad aver cura della propria salute e si dedicano ad attività ricreative ed artistiche. I giovani ospiti non hanno genitori, vengono costantemente sorvegliati ed intuiscono di non poter fuggire né da quel luogo, né dal destino per il quale sono stati programmati. Kathy rievoca con nostalgia il suo profondo legame con Ruth e Tommy, divenuti per lei più che amici e con i quali avrebbe desiderato vivere per sempre.
Nella seconda parte del libro i tre ragazzi, ormai adolescenti, si trasferiscono in un cottage in cui, mantenuti dallo Stato, con altri giovani concludono la loro formazione in attesa di diventare prima “assistenti” e infine “donatori”. Tommy e Ruth sono legati da un instabile rapporto di coppia, minato dal profondo legame di Tommy con Kathy che, per rispetto dell'amica, rinuncia ad ammettere i propri sentimenti. Ai giovani del cottage (ed anche al lettore) si fa sempre più lampante un'atroce verità: Kathy, Tommy e Ruth sono cloni, esseri sterili concepiti in provetta, obbligati a donare i loro organi vitali per garantire la salute agli umani considerati di razza superiore.
Nella terza parte, il romanzo prende una svolta tragica: Kathy lascia il cottage per diventare assistente, mentre Ruth e Tommy iniziano le loro donazioni. Il destino li farà rincontrare quando le loro sorti saranno oramai inevitabilmente segnate, senza speranze per il futuro e consapevoli di un passato che, forse, avrebbe potuto essere diverso.
Kathy, Tommy e Ruth sono eroi tragici: accettano con stoica abnegazione il ruolo che la società ha loro assegnato. Dotati di grande sensibilità, non rinunciano ad interrogarsi sulla loro sorte, indagano alla ricerca della verità e cercano, seppur debolmente, di opporsi al destino appellandosi all'arte e all'amore che si riveleranno, per loro, solo mere e fugaci consolazioni.
“Non lasciarmi” è un testo ucronico che si presta a numerose chiavi interpretative: può essere una rilettura del passato (Hailsham ricorda certi esperimenti fatti nei campi di concentramento nazisti) o l'anticipazione di una società in cui in nome della scienza è legittimo compiere le atrocità descritte nel libro. “Non lasciarmi” può però anche essere visto come la metafora del mondo attuale in cui è ancora utopistico garantire a tutti un'istruzione, la possibilità di scegliere un lavoro dignitoso e il diritto di vivere perseguendo i propri sogni.
Potrebbe infine essere data anche una lettura in chiave psicologica, più intima e personale in cui le parti del libro alludono alle tre fasi dell'esistenza: l'infanzia che ripone fiducia nel futuro, la giovinezza che costringe a prendere coscienza della realtà e la maturità che ormai lascia spazio solo al rimpianto.
Concludo riportando le parole pronunciate dalla presidente della commissione che ha attribuito quest'anno ad Ishiguro il premio Nobel per la letteratura: “nei suoi romanzi di grande forza emotiva ha svelato l’abisso al di là dell’apparente senso di connessione nel mondo”; non posso che consigliarne caldamente la lettura.
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si cresce solo quando si ama
“L'amore salva?” per rispondere a questa domanda posta all'inizio del suo ultimo romanzo/saggio l'autore ci presenta la vita di trentasei donne che hanno amato artisti e letterati di fama internazionale quali L. Van Beethoven, V. Van Gogh, A. Modigliani, A. Hitchock, F. Fellini, G. Leopardi, J. Keats, P. Solinas, D. Foster Wallace, J. R. R. Tolkien, J. Cortazar solo per citarne alcuni. Donne che hanno donato o negato il loro amore, donne che sono state muse o che con le muse hanno dovuto lottare: mogli, amanti, compagne, amiche spesso rimaste nell'ombra sebbene fossero loro le vere artefici di tanta ispirazione.
Attraverso aneddoti, testimonianze, lettere e citazioni l'autore fa rivivere dedizione e passione, ma anche delusione e tradimento, storie di vita reale costituita da fugaci gioie e numerose sofferenze. Molte sarebbero le figure meritevoli di essere qui ricordate, mi limito a riportarne due che mi sono rimaste impresse. Anna Magdalena, cantante d'opera, entrando in una chiesa rimase rapita dalla musica celestiale di J. S. Bach e da quel momento dedicò la sua vita a lui, già vedovo e con quattro figli, per essergli fedele fino alla morte nel suo ruolo di moglie e madre dei tredici figli che allevarono insieme. La musica rimase sempre la loro principale forma di dialogo e quando il grande compositore divenne cieco, lei continuò a scrivere le partiture per lui tanto che alcuni critici hanno dubitato che certe opere siano frutto del genio di Magdalena più che di quello del suo noto consorte.
Molto toccante anche la storia di Anna che, giovanissima, fu assunta da F. Dostoevskij come stenografa per scrivere i libri che lui, dedito all'alcool e al gioco d'azzardo, per bisogno di denaro doveva consegnare al suo editore in tempi brevi. Il loro matrimonio durò quattordici anni, Anna lo accompagnò con devozione fino alla morte e anche nel momento del trapasso si confessarono la loro fedeltà e il loro reciproco amore.
L'amore è da sempre “il motore di tutte le storie”, l'antidoto in grado di fermare e dilatare il tempo, la compensazione all'insaziabile desiderio di infinito dell'uomo. Il filo conduttore, quel filo rosso che attraversa trama ed ordito dell'immagine di copertina, è l'archetipo di tutte le storie d'amore, il mito di Orfeo ed Euridice. D'Avenia con meticolosità analizza in dieci “soste” ciò che la tragica metamorfosi narrata da Ovidio trasmette al lettore contemporaneo andando anche oltre il significato letterale; in queste tappe l'autore si sofferma su temi di carattere filosofico: il tempo, il dolore, la felicità, l'arte e ovviamente l'amore. La storia di Orfeo è emblematica: solo dopo aver accettato e superato il dolore della perdita, per ben due volte, dell'amata Euridice e solo dopo la sua stessa morte, atrocemente dilaniato dalle Baccanti, Orfeo potrà ricongiungersi con la sua sposa in una dimensione nuova, quella di un amore puro, eterno, libero.
“L'amore è scampare alla morte come un naufrago e aggrapparsi al perimetro di un abbraccio, riconoscere il dolore dell'altro e farlo diventare anche il proprio. In questo continuo perdono della mortalità, dell'insufficienza, del limite altrui, l'amore dà scacco al tempo, e quindi alla morte. (p. 280). E così torniamo alla domanda iniziale: “L'amore salva?” la risposta è senza dubbio affermativa. “Ogni storia d'amore è una vittoria sulla morte” (p. 303). Rimane tuttavia aperta un'altra, ancor più difficile, questione con cui si chiude il saggio di D'Avenia: “Che l'amore possa salvare non è un mistero, il mistero è perché respingiamo la salvezza, gettandoci nelle spire del disamore” (p. 309). Ma questa è un'altra storia, quella della libertà che l'uomo ha di scegliere il proprio destino.
“Ogni storia è una storia d'amore” è un'opera densa: ad ognuna delle trentasei figure prese in considerazione l'autore dedica poche pagine, ma molti sono gli spunti che sollecitano la curiosità ed invitano ad approfondire la vita e le opere dei numerosi artisti citati e delle donne che li hanno ispirati. Alla densità di contenuti si accompagna inoltre uno stile piuttosto elaborato, ricco di citazioni, spiegazioni, argomentazioni atte a coinvolgere il lettore forse più sul piano intellettivo che su quello emotivo.
Una lettura arricchente ed appassionante consigliata a tutti coloro che credono nella forza e nel potere dell'amore perché, come afferma l'autore, “si cresce solo quando si ama” (p. 116)
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Si amavano. Mi amavano
“L'amore, come sempre, è causa di bellezza” (p. 131)
Richard Ford è nato nel 1944 a Jackson (Mississippi) da genitori che, per l'epoca, potevano dirsi attempati: suo padre, Parker, aveva 39 anni e sua madre, Edna, 33. Provenivano entrambi da famiglie problematiche, si erano conosciuti molto giovani e nell'arco di poco si erano felicemente sposati. Parker lavorava come rappresentante per una ditta di amido per il bucato e la moglie lo seguiva nei suoi viaggi a bordo di un'auto aziendale a due porte tra alberghi, ristoranti e locali notturni. Erano già sposati da quindici anni e pensavano di non poter avere figli quando la gravidanza li colse di sorpresa; il lieto ma inatteso evento costrinse la coppia ad acquistare una casa a Jackson ed Edna decise di non seguire più suo marito nelle lunghe trasferte.
L'infanzia di Richard è da lui stesso definita meravigliosa: Parker ed Edna accudirono sempre il loro unico figlio con amore e grande senso di responsabilità fino alla morte. Parker morì d'infarto quando Richard aveva solo sedici anni, Edna invece lo accompagnò molto più a lungo e si spense a causa di un cancro nel 1981.
“Tra loro” è un testo di carattere biografico in cui Ford, considerato uno dei più importanti scrittori americani contemporanei, con grande umiltà rende omaggio ai suoi genitori che, nella loro semplicità, sono stati per lui concreto ed impareggiabile esempio di vita e di amore coniugale.
Con pochi ma efficaci tratti l'autore delinea il carattere dei suoi genitori e rende il lettore partecipe degli aneddoti che hanno lasciato preziosi insegnamenti. Dal padre, uomo dal fisico possente e dal carattere gioviale, Richard apprende la capacità di affrontare le inevitabili difficoltà dell'esistenza, ma soprattutto impara che la stabilità è una personale, faticosa, conquista.
Edna è una donna “intuitiva, appassionata, candida, perspicace, gaia, e ogni tanto impetuosa ed estrema”, ma è soprattutto una madre premurosa e molto rispettosa delle decisioni del figlio. Edna insegna a Richard ad accettare ciò che accade nella vita con grande dignità e senso di responsabilità, avendo sempre a cuore la sua realizzazione. Anziana e ormai ammalata gravemente, Edna era solita chiedere al figlio. “Richard, sei felice? (…) Tu devi essere felice. E' così importante.” ( p. 109).
Ford riconosce alla madre il merito di avergli insegnato “la finalità della vita e il suo più autentico valore” e di averlo messo sulla strada che lo ha portato a diventare uno scrittore: “è stata lei che in un modo o nell'altro mi ha reso possibile esprimere i miei sentimenti più sinceri, con un atto paragonabile a quello che la grande letteratura compie nel suo devoto lettore.” (p. 123)
Il libro è breve e di agevole lettura: Ford ha uno stile semplice ed essenziale, molto efficace. Il tono della narrazione è pacato, soprattutto nella prima parte dove, rispetto al padre, si percepisce un maggior distacco emotivo. Più sentita e coinvolgente è invece la seconda parte, quella dedicata alla madre con la quale Ford ha avuto modo di instaurare un legame più duraturo e molto più profondo. Completa la lettura la presenza di numerose fotografie in bianco e nero inframezzate alla narrazione: si ha la sensazione di sfogliare un vecchio album di famiglia e le immagini rendono ancor più concreti i volti dei personaggi già ben descritti dall'autore.
“Tra loro” è un libro che ho molto apprezzato, mi ha dato modo di riflettere su diverse tematiche: il rapporto di coppia, il ruolo genitoriale, l'amore filiale. Ho colto da questo testo l'importanza di saper riconoscere ai nostri genitori il merito di averci consentito, nel bene o nel male, di essere ciò che siamo. “Tra loro” è l'esemplare testimonianza di una famiglia che ha saputo fare dell'amore il suo punto di forza:
“Si amavano. Mi amavano. Il resto non aveva importanza.” (p. 86)
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una pagina di storia da ricordare
Il breve romanzo di Anna Rottensteiner è poetico e suggestivo: con delicatezza rievoca i momenti salienti di due vite intrecciate e segnate dal dramma della seconda guerra mondiale. Costruito attraverso una serie di immagini e flashback, la storia si apre in modo misterioso: una coppia che vive su una lontana isola nordica vaga in cerca di sassi che la donna sceglie con cura meticolosa, con amore ed attenzione per poi realizzarne ritratti in pietra. Voce narrante del romanzo è Franz che, ormai anziano, ricorda la sua infanzia in un maso del Trentino insieme alla madre, rimasta vedova in giovane età, ma risoluta ad occuparsi del figlio e del lavoro senza alcun aiuto. Nell'estate del 1939 Franz, ormai adolescente, conosce Dora, giovane figlia di un maestro di origini siciliane inviato dal regime al Nord ed ospitato, tra le maldicenze della gente, proprio nel maso in cui vive il ragazzo. Dora arriva da Roma, è esuberante, solare e convinta ammiratrice di Mussolini; Franz, più timido ed introverso, rimane affascinato da Dora ma non può che provare una certa ostilità per il fascismo che ha imposto alla sua terra una lingua ed una cultura percepite come estranee e ha obbligato gli altoatesini a scegliere con chi schierarsi. Terminata l'estate, Dora e Franz si separano, ma la guerra e il destino li faranno ritrovare in un crescendo di situazioni drammatiche che, come le tessere di un mosaico, andranno a ricostruire la vicenda umana e sentimentale dei due protagonisti.
“Sassi vivi” fa riflettere su un periodo della nostra storia attraverso un punto di vista diverso e apre uno spaccato su alcuni aspetti e situazioni spesso poco conosciute: l'italianizzazione forzata del Trentino e l'obbligo, formalizzato nel 1939, alla “opzione” che portò gli abitanti di questa regione a dover scegliere se rimanere in Italia o emigrare in territorio tedesco.
Anna Rottensteiner, nata a Bolzano nel 1962, è una studiosa di letteratura germanica e slava; questo è il suo primo romanzo edito da Keller nella collana “Confini”, un progetto che “racconta attraverso la letteratura internazionale la Prima guerra mondiale e le sue conseguenze: cosa è accaduto, come ha segnato la vita del Novecento e talvolta del tempo in cui oggi viviamo”.
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Accettare e perdonare se stessi
Michela Marzano è oggi è una donna di successo impegnata su molti fronti: insegna filosofia in un'università parigina, scrive saggi e romanzi tradotti in diverse lingue e si batte politicamente per portare avanti le idee in cui crede. Eppure la sua vita, sebbene costellata di gratificazioni, non è sempre stata per lei serena come ci si potrebbe aspettare. Assillata fin da bambina dal desiderio di essere “la prima della classe” per sentirsi stimata ed accettata da tutti, ha sofferto di disturbi psicologici che per un lungo periodo l'hanno intrappolata nel tunnel dell'anoressia.
“Per anni, la mia vita è stata una corsa disperata e folle verso la “riuscita”. Riuscire a fare tutto quello che dovevo fare. (…) Fare a tutti i costi. Rinunciando a tutto il resto. Con l'angoscia permanente di non farcela, di non essere all'altezza, di fallire... Fino al momento della verità: la certezza di aver passato anni e anni della mia vita a rincorrere qualcosa che in fondo non volevo.” (p. 204-205).
Pur di soddisfare le aspettative di suo padre, Michela fin da bambina ha fatto del senso del dovere la sua ossessione, obbligandosi ad una vita di sacrifici e di rinunce in nome del successo in ogni campo, soprattutto in quello scolastico. “Volevo essere una farfalla” è la confessione di un desiderio irrealizzabile, quello di essere incorporea, leggera al punto di non pesare sugli altri, l'illusione di poter rinforzare la propria volontà fino a negarsi la necessità di un bisogno primario come l'alimentazione. L'anoressia, ci dice la Marzano, non è che il sintomo di un disturbo che ha radici più profonde, che spesso restano oscure a noi stessi. L'autrice in questa sua opera autobiografica ricerca, nella memoria, le cause delle sue insicurezze e ripercorre gli episodi che, dall'infanzia all'età adulta, sono stati da lei vissuti in modo traumatico. Un improvviso ricovero della madre, le attenzioni morbose di un professore al liceo, un incidente con il motorino, un amore giovanile che l'ha fatta soffrire fino a spingerla ad un tentativo di suicidio, un matrimonio fallito: il tutto riletto come un lungo e sofferto percorso che l'ha condotta a rivedere la luce dopo aver attraversato le tenebre. Le conclusioni a cui giunge la Marzano sono semplici, ma non scontate: non siamo perfetti, non possiamo arrivare a fare tutto sempre e nel migliore dei modi, dobbiamo accettare anche i nostri fallimenti e i nostri limiti.
“E' forse l'unica cosa che ho veramente capito: nella vita non si può fare altro che accettarsi. Ed essere indulgenti. E perdonarsi.” (p.210)
“Volevo essere una farfalla” è una confessione sincera, un susseguirsi di brevi capitoli che non rispettano un ordine logico né cronologico dei fatti narrati. Una serie di riflessioni sull'esistenza scritte in modo schietto, essenziale, con uno stile a tratti telegrafico ma emotivamente coinvolgente. Il testo non è un trattato sull'anoressia, né l'autrice ha la pretesa di voler dare spiegazioni o soluzioni a questo problema: “Volevo essere una farfalla” è la testimonianza di una donna che ha sofferto e che ha faticosamente recuperato, forse anche grazie alla scrittura, un suo equilibrio.
Ho trovato questo libro utile, quasi terapeutico: mi ha dato molti spunti su cui confrontarmi, mi sono rivista in alcune situazioni citate dall'autrice e ho condiviso molti dei suoi pensieri. Consigliato a coloro che spesso tendono ad annullarsi pur di sentirsi amati ed accettati, alle donne che si sentono sempre in colpa per non aver fatto abbastanza, a chi si dimentica che prima di amare gli altri bisogna imparare ad amare se stessi.
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l'angoscia è il prezzo della coscienza
Un appartamento caotico e sporco situato in un immobile londinese di prestigio fa da scenario alle vicende di una coppia in crisi (lui, lei e l'altro, fratello del legittimo consorte) e vede dipanarsi la tragedia di un duplice tradimento e di un omicidio premeditato per avidità ed inespressi antichi rancori. “Nel guscio” mette in scena un dramma ancestrale, quello del fratello cattivo che uccide il fratello buono per potersi impossessare senza scrupoli dei suoi beni e della sua donna. Claude, ricco e becero agente immobiliare, contro John, poeta povero e sconosciuto. Tra i due c'è Trudy, graziosa ventottenne ormai al nono mese di gravidanza, divisa tra il passato amore romantico per John e la presente squallida passione per Claude. E poi c'è lui, il quarto incomodo, il bimbo che sta per nascere, presente nel corpo di Trudy, ma assente dalla sua mente ed ignorato dal suo cuore. Senza corredino, senza un padre e con forti dubbi sull'affetto della madre, il feto è la voce narrante che, ancora prima di nascere, della vita e delle brutture del mondo sa anche troppo e che spesso si domanda se valga davvero la pena di uscire dal grembo materno.
“Saremo sempre angosciati dalla realtà circostante: è il prezzo da pagare per il complicato dono della coscienza. (p. 30)
Le tematiche trattate in questo breve romanzo sono tante e complesse; dalle frequenti riflessioni dell'alter ego dell'autore emerge il quadro di un’umanità egoista, ipocrita ed avida di potere, un'Europa “in piena crisi esistenziale, debole e litigiosa”. Pagine costellate di condivisibili pensieri, direi perfino un po' scontati. Meno scontato invece il dramma esistenziale di chi si ritrova a dover nascere in un contesto pressoché totalmente privo di affetto. Il dubbio di Amleto riveduto e corretto in una chiave un po' diversa: amare o non amare una madre assassina?
“Io la capisco mia madre, le leggo nel cuore. Cerca di considerare i fatti dalla sua prospettiva. (…) il delitto, l’oggetto dei suoi pensieri, non è affatto un delitto. Bensì un errore. Lo è sempre stato. Ne aveva avuto il sospetto. E più se ne allontana, più le è chiaro. Si è semplicemente sbagliata, ma non è cattiva, e non è una criminale. (p. 95)
Accettazione e comprensione. Rimango perplessa e dubbiosa: non so se l'amore di un figlio possa davvero arrivare a considerare semplice errore l'assassinio di un padre innocente perpetrato da una madre volubile, incoerente, egocentrica, vendicativa e totalmente priva di istinto e atteggiamenti materni. Le argomentazioni del nascituro non mi convincono e Trudy resta, a mio avviso, il personaggio più inquietante e disturbante di una vicenda che rimane aperta e per molti aspetti inconcludente.
“Prima il dolore, poi la giustizia e infine il senso. Tutto il resto è caos.” (p. 168)
“Nel guscio” è un'opera difficilmente catalogabile, originale e spiazzante; lo stile è dotto, il periodare articolato, il lessico ricercato (e magistralmente tradotto da Susanna Basso). La penna di McEwan è arguta, spietata e a tratti ironica: si respira tra le pagine un velato umorismo nero, cinico e sferzante. Romanzo piacevole, non imperdibile, coinvolgente a livello cerebrale, ma non sul piano emotivo; di McEwan continuo a preferire “Espiazione”.
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Ascoltare e condividere i dolori dell'esistenza
Un sottile filo rosso collega le nove storie che costituiscono “Tutto è possibile”, l'ultimo romanzo di Elizabeth Strout, nota autrice americana che nel 2009 ha vinto il premio Pulitzer con “Olive Kitteridge”. “Tutto è possibile” è ambientato ad Amgash, Illinois, piccolo paese di provincia sperduto tra i campi di mais dove tutti credono di conoscersi, si incontrano e si salutano con un sorriso, salvo poi criticarsi con ferocia alle spalle e nascondere con accuratezza, nell'intimità delle proprie case, inquietanti scheletri negli armadi. Storie di solitudini incomprese, di sofferenze e di abusi mai confessati; storie di segreti svelati a chi sa ascoltare in silenzio e sa cogliere in uno sguardo un dolore inesprimibile. In “Tutto è possibile” incontriamo uomini e donne che portano ancora i segni indelebili delle cicatrici dell'infanzia: vittime inconsapevoli di padri violenti e madri anaffettive, bambini cresciuti nell'indigenza ma soprattutto nello squallore morale di genitori talvolta più simili a bestie che a esseri umani; ricordi che il tempo, il successo, il matrimonio, i figli non sono riusciti a cancellare, perché certi segni restano per sempre scolpiti nell'anima.
I personaggi che incontriamo nel libro hanno tutti un passato doloroso da raccontare, ma talvolta anche un presente fatto di una serenità conquistata a fatica. Perché “a stare male non si fa mai l'abitudine” e con il dolore si può solo imparare a convivere con la speranza, forse, di capire un po' di più se stessi e gli altri. Tutti i protagonisti di questi racconti meriterebbero di essere citati, mi limiterò a tre figure femminili che mi hanno particolarmente colpita. La prima è Patty, bambina dall'infanzia disturbata e dall'adolescenza inquieta, ora vedova in sovrappeso umiliata e derisa; Patty ha saputo trarre dalla sua esperienza una sensibilità che le consente di svolgere la professione di consulente scolastica: sostiene i giovani in difficoltà e li indirizza verso il riscatto sociale. La seconda protagonista ad avermi coinvolta è Dottie che da piccola rovistava nei cassonetti per trovare qualcosa da mangiare: possiede ora un B&B nel quale accoglie con premura e attenzioni i suoi clienti e ha la rara capacità di saper ascoltare e consolare chi porta nel cuore un dolore indicibile. La terza protagonista che ha catturato la mia attenzione è Mary che, dopo aver sacrificato quasi tutta la sua esistenza con un uomo che l'ha tradita e resa infelice per anni, decide finalmente, ormai anziana, di ritagliare un po' di felicità anche per se stessa andando a vivere in Italia con un giovane compagno, senza l'approvazione della figlia prediletta.
Storie talvolta di riscatto, talvolta di rassegnazione, ma sempre raccontate in modo coinvolgente ed appassionante. La Strout ha una scrittura asciutta, molto efficace: riesce con pochi tratti e brevi dialoghi a far entrare il lettore nel mondo in cui si muovono i personaggi facendone cogliere tutte le dinamiche, sia esteriori, sia intime.
“Tutto è possibile” è un testo amaro che parla di infanzie violate, di famiglie imperfette e di disuguaglianze sociali. Eppure leggendolo ho percepito un messaggio di positività e di fiducia, la speranza nella capacità di ascolto e di condivisione degli uomini e l'incoraggiamento a proseguire in un cammino in cui tutto è davvero possibile.
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ricordi di una signora d'altri tempi
“Caro papà (…) da quando te ne sei andato, tante volte ho sentito il bisogno struggente di averti vicino per raccontarti gioie e tristezze, ma tu non c'eri più” (p.7).
Bice Cairati (Sveva Casati Modignani è uno pseudonimo) in questa sua ultima opera racconta con sobria eleganza la sua carriera lavorativa, il percorso che l'ha portata, dopo anni di dura gavetta, a scrivere e pubblicare il suo primo romanzo. L'autrice sente di dover ringraziare suo padre che, con costante ma discreta presenza, l'ha sempre sostenuta ed incoraggiata. Diventare un'autrice di successo non è stata per la Modignani un'impresa facile né scontata. Costretta ad abbandonare la facoltà di lettere a causa delle scarse risorse economiche della famiglia, per anni si dovette adattare ad un impiego come segretaria. Dapprima in uno studio commerciale, poi presso una prestigiosa galleria d'arte in via Manzoni, nel cuore della Milano degli anni del boom economico l'autrice ebbe l'opportunità di dialogare con artisti ed intellettuali di fama internazionale. Coinvolgente ed emozionante l'incontro con Lucio Fontana che, al tavolino di un bar, le spiegò l'origine e il significato dei famosi tagli che caratterizzano le sue tele: la Modignani ci fa respirare il clima straordinario e nello stesso tempo familiare di quell'episodio e ci trasmette dell'artista un'umanità inaspettata.
Bice è una persona che sa adattarsi, ma il ruolo di segretaria non poté gratificarla: un improvviso ed ingiustificato licenziamento divenne per lei l'occasione di cambiare radicalmente vita e professione; prima presso la redazione de “La Notte”, poi come inviata di famose testate di Rizzoli e Mondadori, la Modignani riuscì finalmente a dedicarsi alla scrittura. Redattrice di articoli di cronaca mondana, intervistò molti personaggi famosi tra cui Luchino Visconti, Gino Cervi, Wanda Osiris, Joséphine Baker, Susanna e Gianni Agnelli.
Con discrezione ed eleganza la Modignani rende il lettore partecipe di aneddoti curiosi e trasmette l'atmosfera di quei tempi, la nostalgia per un mondo in cui, forse, si respiravano altri e più alti valori. Non nasconde però anche la consapevolezza delle difficoltà vissute per potersi affermare dal punto di vista professionale in un'epoca in cui le donne erano considerate più adatte ai fornelli che alla macchina per scrivere. Dopo le nozze e la nascita di suo figlio, “stanca di cronache e di interviste” decise di lasciare il giornalismo e, sostenuta dal marito, riuscì finalmente a pubblicare la sua prima opera: “avevo realizzato il sogno che inseguivo da tutta la vita. Caro papà, lo devo a te se da quarant'anni scrivo romanzi, a partire dal mio primo romanzo che ti aveva tanto commosso. Grazie, mille volte grazie” (p. 163)
Pur non avendo mai letto opere della Modignani, ho deciso di accostarmi a questo testo colpita dal titolo, attirata dalla copertina e incuriosita dalla tematica autobiografica. La Modignani mi ha coinvolta con il suo stile sobrio ed elegante, i suoi aneddoti raccontati con discrezione, la sua capacità di trasmettere emozioni. Lettura scorrevole, leggera, piacevole.
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amori, speranze e delusioni
Adalberto Casteggi è un affascinante oculista quarantenne di Milano che accetta di sostituire un anziano dottore all'ospedale di Bellano; incantato dalle atmosfere lacustri, per essere più vicino all'ambulatorio affitta un delizioso appartamentino a Varenna, una “bomboniera” in cui “scappare il fine settimana o quando gliene fosse capitata l'occasione”. I modi gentili e il bell'aspetto di Adalberto colpiscono, già dalle prime visite, più di una paziente e Rosa Pescegalli, proprietaria di una profumeria di Bellano, trentasei anni ben portati e una scollatura mozzafiato, non si sottrae alle attenzioni del prestante dottore. Tra i due scatta fin da subito un'intesa che si trasforma ben presto in una relazione tra cenette romantiche e notti nel buen retiro sulle rive del lago. Il Casteggi, però, porta la fede al dito, tiene nel cassetto del comodino un paio di occhiali molto femminili e nel suo letto si respira un inebriante profumo di donna. Scontato pensare che si tratti di tracce della moglie, ma Rosa non ne è convinta e comincia ad indagare. La Pescegalli non è certo un'ingenua e lei delusioni dagli uomini non ne vuole più avere: le brucia ancora la scottatura presa anni addietro quando, piena di belle speranze, si era fidanzata con Salvatore Locitri, promettente terzino ingaggiato dal Lecco nella stagione '55-'56. Cosa nasconde l'avvenente Adalberto? Quali sono le sue reali intenzioni? E la storia avuta con il bel Salvatore, quanto influisce ancora nella vita della seducente Rosa?
Andrea Vitali, classe '56, medico e scrittore prolifico ed apprezzato dal pubblico e dalla critica, ci porta anche con questo suo ultimo romanzo tra le atmosfere della vita di provincia e ci coinvolge in una storia leggera, ma non banale. La trama è ben costruita e si dipana su diversi piani temporali lasciando ampio spazio, nella parte centrale del libro, ad un lungo flashback che narra la giovinezza di Rosa e la sua tormentata relazione con il promettente calciatore Salvatore Locitri. Gli eventi dominano sulle riflessioni, i fatti sui sentimenti: Vitali non indugia sulla psicologia dei personaggi, ma li fa agire e dialogare in modo rapido, diretto. Storie semplici di gente semplice scritte con un linguaggio che arriva al lettore con schiettezza, con una prosa spesso molto vicina al parlato, ricca di espressioni colorite ed ironiche. “Bello, elegante e con la fede al dito” è un romanzo che va letto senza la pretesa di avere tra le mani un capolavoro, ma con l'idea di passare qualche ora di piacevole distrazione. Consigliato a chi già conosce ed ama questo autore o a chi desidera una lettura poco impegnativa.
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essenzialità e armonia
Non ho mai amato dedicarmi alle faccende domestiche e ho sempre pensato che riordinare fosse una inevitabile scocciatura: il libro della Kondo ha cambiato questa mia opinione e mi ha indotta ad introdurre nella gestione dei miei spazi domestici radicali cambiamenti. Dopo un lungo processo di selezione, eliminazione e ricollocamento degli oggetti (non ancora del tutto concluso) ora posso dire che la mia casa mi piace molto di più, la sento in armonia con le mie esigenze e quelle della mia famiglia e anche riordinare e pulire quotidianamente è diventato molto più rapido, facile e piacevole!!
Ma veniamo alla sintesi dei contenuti del testo. Per prima cosa dobbiamo avere in mente l'obiettivo finale: come immaginiamo la nostra casa ideale? Il secondo passo è fare una cernita di tutti gli oggetti che possediamo in modo da poter eliminare tutto ciò che non non ci serve, non utilizziamo e non ci trasmette emozioni positive. Per evitare quello che l'autrice chiama effetto boomerang, non bisogna riordinare stanza per stanza, ma per tipologie di oggetti seguendo questo iter: abbigliamento, libri, documenti, utensili e infine ricordi. Solo così, procedendo per categorie ed affrontando prima ciò che è meno emotivamente coinvolgente, ci renderemo conto della quantità talvolta esagerata di cose che abbiamo accumulato nel tempo e saremo in grado di eliminare il superfluo. Soltanto dopo aver terminato la cernita, potremo procedere con la risistemazione degli oggetti che andranno riposti in armadi e cassetti in modo semplice e funzionale con pochi utensili su mensole e scaffali in modo da avere le superfici libere e quindi molto più agevoli da pulire.
Tenere poche cose e assegnare loro un posto in cui rimetterle dopo il loro utilizzo. Fino a qui nulla di nuovo. E allora perché questo libro ha avuto tanto successo? Perché nel testo della Kondo c'è qualcosa di più: l'autrice, fin da bambina, ha coltivato la passione del riordino fino a farne una professione: il suo testo è il frutto della sua esperienza, ma anche di quella di molte persone che lei ha aiutato ad uscire da un disordine fisico che spesso è lo specchio di un disagio psicologico. Riordinare ci mette in relazione con noi stessi in un percorso che ci costringe a confrontarci con i ricordi, talvolta dolorosi, del passato e con le ansie del futuro. Rimettere ordine nella propria casa per la Kondo significa rimettere ordine nella propria vita e solo congedandoci consapevolmente dal passato potremo finalmente fare spazio al nuovo. Prendersi cura dei propri oggetti e ricercare nella loro disposizione l'armonia ha per la Kondo un effetto “magico”, quasi terapeutico: rinforza l'autostima, gratifica, rilassa e può portare a riscoprire gli hobby e le passioni che avevamo riposto in un cassetto e dimenticato di avere.
“Il magico potere del riordino” è un manualetto di agevole lettura, ripetitivo su certi concetti e per molti aspetti anche molto discutibile. L'autrice è giapponese e per alcuni anni è stata sacerdotessa scintoista; per lei anche gli oggetti hanno una sensibilità e soffrono se vengono mal riposti o male utilizzati e devono essere ringraziati prima di essere buttati. Ecco, su queste considerazioni ho sorvolato. Per il resto però ho trovato validi spunti di riflessione e consigli pratici che in effetti, come dicevo all'inizio, mi hanno aiutata a rimettere ordine ed armonia nella mia casa.
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legami che fanno soffrire e crescere
"L'estate sancisce spesso un cambiamento. La fine dell'adolescenza o l'arrivo della vecchiaia. La fine di un matrimonio o la nascita di un nuovo amore. Ma, soprattutto per una famiglia, l'estate coincide anche con alcuni presagi.” (p. 115)
Il libro di Francesca Barra parla proprio di tutto questo: della famiglia, dell'adolescenza, dei legami più profondi che talvolta si rovinano; racconta della difficile relazione tra tre sorelle che si troveranno a provare reciproci rancori per molti anni a causa di incomprensioni, desideri inespressi, inspiegabili rinunce. La storia è divisa in due parti: nella prima l'autrice rievoca l'adolescenza di Ida, Rossella e Beatrice, un po' complici e un po' rivali fino al giorno in cui Beatrice, bella e spregiudicata, decide di lasciare il paese della Basilicata in cui è nata e dove lei, ormai, si sente soffocare. Beatrice coglie l'occasione e si aggrega ad un amico d'infanzia, Salvatore, che si reca a Milano per frequentare l'università anche se lei, di studiare, non ha alcuna voglia. Salvatore accetta di partire e di condividere con Beatrice la vita al Nord, ma nella sua esistenza rimane l'ombra dell'insoddisfazione e il dolore di un segreto rancore. Il ragazzo, infatti, è da sempre innamorato di Rossella che, ancora troppo giovane ed immatura, non ha voluto ammettere di provare un sentimento così impegnativo e non si è sentita pronta per lasciare la famiglia e la terra d'origine. La partenza di Beatrice e Salvatore segna per sempre il destino delle tre ragazze che prenderanno strade diverse e resteranno separate per anni senza comprendersi.
La seconda parte del libro vede invece protagonisti i figli, ormai adolescenti, di Ida e di Beatrice; Rossella, infatti, non si è mai sposata, Ida ha partorito Nicola e Miriam mentre Beatrice, dalla relazione con Salvatore, ha avuto Giulia e Lorenzo che, dopo l'ennesima crisi nel matrimonio dei loro genitori, si ritrovano a passare due mesi di ferie in Basilicata dai nonni. Nati e cresciuti in Brianza, Giulia e Lorenzo all'inizio faticano ad ambientarsi, poi stringono nuove amicizie e soprattutto conoscono meglio i loro cugini, Nicola e Miriam; quest'ultima, un tempo molto dinamica e dedita agli sport, è ora, a causa di un tuffo da una scogliera, invalida e costretta a muoversi su una sedia a rotelle. La presenza dei nipoti regala ai nonni un po' di vitalità e consente anche a Miriam e alla sua famiglia di riconsiderare con occhi diversi e migliori prospettive la disabilità che le è capitata. Bagni al mare, giornate in campagna, risate in compagnia, nuovi amori e qualche litigio: l'estate porterà a tutti, anche a Ida, Rossella e Beatrice, la possibilità di chiarirsi e di ridisegnare le strade delle loro esistenze.
Il romanzo di Francesca Barra, strutturato in modo semplice e schematico, mette a confronto due generazioni, adolescenze vissute in tempi e modi differenti ma comunque accomunate dal desiderio di incontrare l'amore e trovare la propria strada. Tratto unificante tra la prima e la seconda parte è il sentimento forte che lega genitori e figli, rapporto non sempre facile e talvolta in contrasto con il desiderio dei giovani di conquistarsi il diritto ad essere felici. Altro tema dominante è il rapporto tra fratelli (o tra cugini) che, seppur caratterizzato talvolta da gelosie e incomprensioni, resta un legame forte che può aiutare a superare le difficoltà della vita.
Lo stile della Barra è lineare, piuttosto asciutto, molto scorrevole. Si respira tra le righe l'amore dell'autrice per la sua terra d'origine di cui descrive abitudini, profumi e colori. Un romanzo semplice e piacevole che lascia una sensazione di positività.
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un linguaggio creativo che ambisce alla conoscenza
“Nessuno scrive quello che è ma ciò che vorrebbe essere.” (p.13)
Ad un anno dalla morte di Péter Esterházy (Budapest, 14/04/1950 - Budapest, 14/07/2016), scrittore e matematico, discendente da una delle più nobili e antiche famiglie ungheresi, Feltrinelli pubblica “Esti”, uscito per la prima volta in Ungheria nel 2010 e ora tradotto anche in italiano da Giorgio Pressburger.
Péter Esterházy è uno degli scrittori ungheresi più conosciuti all'estero e le sue opere sono state pubblicate in più di 20 lingue; ha vinto premi in Francia, Austria, Germania, Slovenia e Norvegia. Nel suo paese, tra i numerosi riconoscimenti conferitigli, si segnala nel 1996 il prestigioso Premio Kossuth mentre in Italia, nel 2013, gli è stato assegnato il Premio Mondello Autore straniero.
“Esti” è un omaggio a Kornél Esti, un famoso eroe ungherese frutto dell'ingegno di Dezso Kosztolányi, è il soprannome dell'autore quando frequentava l'università, ma è soprattutto una biografia sui generis: 77 storie in cui l'autore si diverte a stravolgere i canoni della scrittura tradizionale passando in continuazione dalla prima alla terza persona, diventando di volta in volta soggetto e oggetto della narrazione. Così se Esti, all’inizio, si rivela il rampollo di una famiglia ungherese di origini nobiliari, esattamente come l’autore del libro, subito dopo ammette di contenere in sé le esperienze vissute da chi l’ha preceduto. Esti può trasformarsi indifferentemente da uomo a donna, può essere la cameriera eletta La Bella del Kentucky, costretta per contratto a mangiare quantità inverosimili di hamburger, ma può anche assumere le sembianze di un cane; Esti può perfino diventare un oggetto inanimato: ad un certo punto è trasformato in un dipinto. Stretto tra le quattro pareti della sua cornice, Esti si sente come Gregor Samsa: vittima di una misteriosa metamorfosi, non può che rimanere in attesa di essere stracciato dal suo artefice.
Esti dialoga con personaggi storici, reali o immaginari: in un capitolo Esti racconta di essere stato amico di Pierre Menard (fantomatico scrittore francese protagonista di un racconto del 1944 di Jorge Luis Borges) autore di un “Don Quijote” perfettamente speculare a quello di Miguel de Cervantes.
“Esti” è un romanzo alla ricerca di una identità frammentata, poliedrica ed incoerente; il testo è un intreccio labirintico, altalenante tra passato e presente, totalmente fuori dagli schemi tradizionali. La narrazione non segue alcun ordine, è frastagliata e composta di aneddoti e citazioni. Solo alcuni episodi (presenti soprattutto nella seconda parte) sembrano rispettare i canoni di una classica biografia: in un capitolo l'autore riporta ricordi di quando era bambino, l'acquisto della sua prima bicicletta e la delusione che ne seguì per l'inaspettato ed incomprensibile furto. Da questo episodio si evince l'ambiguo rapporto tra il protagonista e suo padre, relazione caratterizzata da affetto, ma anche da profonde incomprensioni e da valori ed interessi diversi.
Ancora più complesso dell'intreccio è il linguaggio: considerato "uno dei più interessanti e originali scrittori del nostro tempo" da Mario Vargas Llosa, Péter Esterházy ha sempre fatto dello sperimentalismo formale e della ricerca stilistica la cifra della sua scrittura. Esterhazy è un fuoco d'artificio di neologismi, latinismi, termini tratti da diverse lingue straniere, citazioni colte di ordine filosofico, storico, musicale, frammenti letterari che, per poter essere compresi, richiedono al lettore una cultura non indifferente. Il suo stile è quanto di più vario si possa trovare, passa con estrema nonchalance da termini colti a termini triviali, in una commistione tra stile alto e basso, tono drammatico e tono ironico.
La lettura di questo romanzo è stata per me un'esperienza alquanto faticosa e non molto appagante; come ho già detto, il testo manca di una struttura tradizionale, lo stile è sperimentale, il linguaggio molto ardito. Nel modo di scrivere di Péter Esterházy si percepisce uno spirito innovativo e ribelle che solo in parte sono riuscita ad apprezzare, ma è indubbiamente un mio limite.
“Il linguaggio della letteratura non è quello dei dialoghi tra persone intelligenti. Questo linguaggio non mira alla comprensione, ma alla creazione. La creazione è un affare oscuro, nebuloso, fare qualcosa dal nulla non va da sé. Ma vogliamo sperare che sia profondamente umano. (…)
Il linguaggio della letteratura non ambisce alla comprensione, ma alla conoscenza.” (p.338)
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- sì
- no
la felicità dilata il tempo
Godolphin è l'immaginario tranquillo quartiere di Boston in cui sono ambientati la maggior parte dei venti racconti di “Intima apparenza”, l'ultima raccolta di Edith Pearlman.
Protagonisti di queste storie sono uomini, ma soprattutto donne, che sanno ascoltare le confessioni di chi custodisce un segreto e sanno vedere oltre l'apparenza per carpire ciò che si nasconde nell'animo umano. Vite esternamente soddisfacenti, talvolta ben mascherate da professioni appaganti, ma interiormente devastate da un dolore che trova consolazione solo nel riconoscimento, negli altri, della medesima condizione.
Storie di solitudini e di rimpianti, come nel caso di Page, protagonista del primo racconto, e di Bobby, cliente del salone di pedicure che lei gestisce; Page vive nel rammarico di non essere stata in grado di preservare la vita di suo marito, partito per la guerra senza che lei si opponesse con decisione. Bobby, tranquillo professore universitario, è stato invece lasciato dalla moglie per via di un'incompatibilità nata nel giorno in cui lui si rifiutò di fermarsi per soccorrere degli automobilisti coinvolti in un incidente di cui era stato testimone. Page e Bobby si ritrovano così accomunati dal peso di un inesprimibile senso di colpa che dovranno scontare fino alla fine dei loro giorni.
Storie di desideri inconfessabili: Ingrid, protagonista del racconto “Pietra”, a settantadue anni lascia New York per recarsi in una cittadina del Sud dove il nipote Chris, che ha una falegnameria, l'ha invitata a collaborare come segretaria. Chris è sposato ed ha una bambina; Ingrid, ancora avvenente, due volte vedova e una figlia ormai adulta, si inserisce nella vita della famiglia finché non si accorge che tra lei e Chris, nonostante trent'anni di differenza, sta nascendo una forte attrazione. Ingrid, per preservare la serenità della famiglia di Chris e scongiurare un eventuale scandalo, deciderà di tornare a New York senza aver mai fatto trasparire il suo sentimento.
Tema ricorrente di molti racconti è la capacità delle persone più sensibili di vedere oltre ciò che appare, ma l'autrice ci avverte: “i segreti bisogna conservarli nel cuore” e “troppa conoscenza uccide la gioia”. Emblematico a tal proposito il racconto “Aspetta e vedrai” che narra di un bambino con un dono speciale: ha una visione pentacromatica che gli consente di percepire più colori rispetto ai normali esseri umani. Questa dote, all'apparenza positiva, reca al ragazzo numerosi disagi sia livello fisico, sia a livello psicologico. Lyle si sente combattuto tra l'accettazione e il rifiuto della sua condizione fintanto che gli vengono regalati degli occhiali che gli inibiscono la percezione multicromatica: Lyle accetta di metterli consapevole che “la verità non ha niente a che fare con la testimonianza degli occhi”.
Significativo sul tema della percezione dei segreti e dei dolori altrui è anche “La Golden Swan”, testo che mi è piaciuto in modo particolare. Il titolo si riferisce al nome della nave da crociera su cui viaggiano due giovani cugine, Robin e Bella. Il racconto è filtrato dallo sguardo di Bella, ragazza insicura, solitaria, affetta da disturbi alimentari; si intuisce che il suo disagio è anche esistenziale, la ragazza si sente sola ed estranea al mondo circostante. Durante il viaggio Bella acquisisce una nuova consapevolezza, inizia a percepire anche in chi la circonda la sua stessa sofferenza e la sua vita si anima di un nuovo appetito, la curiosità. Emozionante il finale del racconto: Bella segue, non vista, la donna delle pulizie che lei aveva considerato, fino a quel giorno, un essere insignificante, spento ed inespressivo e scopre che, nella parte nascosta e più profonda della nave, la donna nasconde un segreto di cui anche Bella si renderà complice.
Edith Pearlman (Rhode Island, 1936) ha ottenuto nel 2012 il National Book Award con la raccolta di racconti “Visione binoculare” (Bompiani); ha pubblicato oltre 250 storie nelle migliori riviste e nelle più famose antologie americane ed è stata insignita di diversi premi letterari; la sua scrittura è stata definita dal New York Times, «intelligente, acuta, divertente, ottima». Il suo stile è stato paragonato ad autori come John Updike, Alice Munro e William Trevor.
I racconti della Pearlman mi sono piaciuti molto, sia per le tematiche trattate, sia per come sono strutturati: gettato in medias res il lettore è reso partecipe della vita del personaggio nel momento in cui sta per accadere qualcosa che ne cambierà l'esistenza; rapide descrizioni e brevi flashback ne inquadrano età, professione, studi, relazioni e come in un puzzle viene ricostruito il retroscena necessario alla comprensione della storia. Lo sviluppo della vicenda è sempre filtrato dallo sguardo del protagonista che conduce il lettore, un passo alla volta, su tragitti talvolta ingannevoli salvo poi svelare, all'ultima pagina, una fulminante verità oppure lasciare la vicenda con un finale aperto.
Le storie si differenziano per struttura, tema, voce narrante, ma nonostante ciò si percepiscono, in tutta la raccolta, una certa uniformità di stile, pacato ed elegante ed una rassicurante atmosfera di calma e di fiducia nel destino e nelle qualità dell'uomo.
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non si può vivere per sempre
Samantha ha una vita apparentemente perfetta: una famiglia unita, tre amiche inseparabili e Rob, un fidanzato che tutte le invidiano. Insieme a Lindsay, Elody ed Ally, Samantha frequenta il quarto anno del liceo Thomas Jefferson, nel Connecticut, dove abbigliamento e modi di fare dividono la popolazione studentesca in due categorie: i “popolari”e gli “sfigati” cui le quattro amiche non risparmiano scherzi crudeli ed infamanti pettegolezzi. Belle ed ammirate possono infatti permettersi di infrangere le regole, frequentare solo i ragazzi più sexy e denigrare tutti coloro che non rientrano nel loro entourage senza curarsi delle conseguenze. E' il 12 febbraio, il giorno dei Cupidi e la popolarità a scuola si misura dal numero di rose ricevute: è l'ennesima occasione per confermare quanto le quattro amiche siano stimate da tutti. Inevitabile una festa a conclusione della giornata, nella casa di Kent, uno “sfigato”con una splendida villa nel bosco; impossibile mancare e Sam ha promesso a Rob, il suo ragazzo, che quella sarà la loro serata: lui ha la casa libera e dopo la festa potranno finalmente rendere completa la loro unione. Ma Sam non ha fatto i conti con il destino: la strada è scivolosa e Lindsay, alterata dall'alcool e distratta dalla cenere di una sigaretta, esce di strada. Un bagliore improvviso, urla agghiaccianti, rumore di metallo che si accartoccia: nell'incidente Samantha perde la vita.
Fine della storia? No. Questo è solo l'inizio. A Samantha la sorte ha riservato altri sette giorni: potrà vivere (o meglio, rivivere) il 12 febbraio per altre sette volte come se nulla -o quasi- fosse accaduto per tentare in ogni modo di cambiare il proprio destino. Sapendo di dover morire, anzi, consapevole di essere già morta, la protagonista avrà l'opportunità di riconsiderare i rapporti con tutte le persone che la circondano: coglie i difetti e i limiti delle sue migliori amiche; mette in dubbio il legame con il suo ragazzo; si accorge delle debolezze (e dello squallore) di alcuni professori; rivaluta il rapporto con chi, fino a quel momento, aveva sottostimato o accuratamente evitato: i suoi genitori, sua sorella e alcuni ragazzi e ragazze della scuola che erano da lei stati ingiustamente emarginati. Samantha capisce che ogni gesto può avere conseguenze devastanti non solo nella nostra vita, ma anche in quella di chi ci circonda; grazie al suo nuovo atteggiamento, più attento e sensibile, riesce quindi a fare luce sulle cause e sulle circostanze dell'incidente che ha determinato la sua tragica fine. La protagonista affronta, post mortem, un doloroso percorso di espiazione, una sorta di ascesa: prende coscienza dei propri errori, abbandona lo stile di vita trasgressivo e cerca nel rapporto con gli altri la vera amicizia e il vero amore fino alla maturazione della sua ultima inevitabile, drammatica, scelta.
In occasione dell'uscita dell'omonimo film, nelle sale italiane dal 19 luglio 2017, ritroviamo nelle librerie il romanzo d'esordio di Lauren Oliver; copertina e titolo rinnovati per un testo edito da Piemme nel 2010 con il titolo “E finalmente ti dirò addio” che già riscosse grande successo tra il pubblico young adult e non solo. “Prima di domani” è un'opera dal forte impatto emotivo in cui dominano temi come la morte, l'amore, l'amicizia, il bullismo e il difficile equilibrio tra le aspirazioni dei giovani e le convenzioni della società adulta. La voce narrante esprime con parole semplici, ma di grande effetto, i disagi e le paure degli adolescenti e fa emergere le motivazioni che talvolta li spingono a comportarsi in modo pericoloso e sconsiderato. L'autrice lascia trasparire messaggi educativi forti: la vita è una sola e non va sprecata, ad ogni azione corrisponde una inevitabile catena di conseguenze di cui ci dobbiamo ritenere responsabili. Samantha imparerà infatti a costo della propria vita a ponderare ogni suo gesto consapevole del fatto che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo.
Tenuto conto del pubblico a cui il testo è principalmente rivolto, ho trovato questo romanzo interessante e coinvolgente: la narrazione in prima persona crea empatia con la protagonista, l'intreccio è intrigante (anche se un po' ripetitivo nel susseguirsi delle sette giornate); lo stile è vario: a momenti di tensione si alternano episodi romantici; le azioni e i dialoghi rendono la lettura scorrevole ed avvincente.
“Se oltrepassi il confine e non succede niente, il confine non significa più nulla (…) Tracci il confine sempre più lontano, e ogni volta lo superi. E' così che si finisce per avventurarsi oltre il limite. Non avete idea di quanto sia facile schizzare fuori dall'orbita, dilatarla fino al punto in cui nessuno può più toccarti. Perdere se stessi, smarrirsi” (p. 182-183).
“Cercate di non giudicarmi. Ricordate che siamo uguali, io e voi. Anch'io pensavo di poter vivere per sempre” (p. 125)
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felicità ed armonia
“Per gli estimatori dei glicini e del sole. Piccolo castello medievale italiano sul Mediterraneo affittasi ammobiliato per il mese di Aprile. Servitù essenziale inclusa”
Il mare, il sole, il profumo dei fiori, un castello: chi non sarebbe tentato di rispondere ad un tale annuncio? Mrs Wilkins, giovane ed insoddisfatta signora inglese, non resiste all'idea di un po' di evasione ed insieme a Mrs Arbuthnot, altra infelice signora conosciuta per caso in un club, progetta una splendida vacanza per fuggire dalla routine e dai rispettivi mariti ormai fonte solo di incomprensioni e litigi. Le spese di affitto sono consistenti, ma le audaci signore hanno la soluzione: invitano con un annuncio altre partecipanti; si uniscono quindi al soggiorno la giovane ed avvenente Lady Caroline e l'anziana e altolocata Mrs Fisher. Quattro donne che non si conoscono si ritrovano dunque in uno splendido castello a picco sul mare in Liguria, immerse in una lussureggiante e profumata vegetazione. La convivenza inizialmente non è facile, la reciproca diffidenza crea qualche screzio ed ogni ospite desidera riservatezza e tranquillità; poi, come per incanto, l'atmosfera del castello e l'armonia della natura infondono negli animi delle protagoniste una predisposizione al cambiamento. Immerse nel clima vacanziero e lontane dalle quotidiane incombenze, le quattro donne hanno modo di ripensare a un bilancio della propria vita. Problematiche solitamente rimosse riaffiorano con insistenza e fanno percepire le frustrazioni di matrimoni insoddisfacenti, di vite inconcludenti e prive di affetti sinceri. Ognuna reagisce in modo diverso: Mrs Wilkins, fin da subito rigenerata, è la prima a sentire il desiderio di aprirsi agli altri con generosità ed ottimismo; Mrs Arbuthnot avverte invece dentro di sé il vuoto e un senso di depressione; l'anziana Mrs Fisher, inoperosa ed inattiva, ha l'impressione di sprecare il suo tempo e le sue energie; la giovane Lady Caroline giunge invece alla conclusione di aver vissuto fino a quel momento in modo mediocre, chiusa in se stessa come una bambina viziata. La confidenza che piano piano nasce tra di loro, unita alla capacità introspettiva di Mrs Wilkins, dolce e disponibile nei confronti delle nuove amiche, consentirà ad ognuna di risvegliare desideri da tempo sopiti e mettere in atto le opportune strategie per poterli realizzare. L'arrivo di tre uomini al castello sarà l'occasione per vivacizzare la vacanza e dare una svolta alle vite delle signore che a maggio torneranno a Londra felici, piene d'amore e rinvigorite dal sole, dal mare e dal profumo dei glicini.
Elizabeth Von Arnim iniziò la stesura di questo romanzo grazie ad un'esperienza autobiografica: nell'aprile del 1921 affittò, insieme a degli amici, un castello a Portofino per trascorrere una vacanza in Italia. Elizabeth a quell'epoca aveva cinquantacinque anni, vedova del conte Von Arnim si era risposata nel 1916 con J. F. S. Russel, relazione infelice e di breve durata. La vita di Elizabeth fu dunque movimentata e non le fu risparmiato nemmeno il dolore, nel 1916, per la morte prematura di una figlia. Eppure in questo romanzo si respira un'aria di rinascita, di felicità, di armonia con la natura e con le persone. La Von Arnim sa descrivere con grande meticolosità la bellezza del paesaggio, degli ambienti, dei fiori da lei tanto amati e già decantati ne "Il giardino di Elizabeth". Entra con discrezione nelle vite delle protagoniste facendone percepire il punto di vista, le angosce e i desideri. Si ritrovano anche in questo romanzo i temi cari all'autrice: la necessità di raggiungere un equilibrio interiore e il bisogno di tempi e di spazi di autonomia. La scrittura della Von Arnim è curata, elegante, leggermente ironica.
Il romanzo riscosse fin da subito un grande successo e le descrizioni dei luoghi in cui è ambientato fecero del castello Brown una meta ambita dai viaggiatori amanti della letteratura. Ho trovato questa lettura molto piacevole: mi ha trasmesso una sensazione di pace, di tranquillità, ma anche la voglia di immergermi in un ambiente naturale rigenerante e riconciliante con il mondo e con se stessi.
"Questa invece era pura felicità per l'armonia con ciò che la circondava, la felicità che non chiede nulla e semplicemente accetta, respira, esiste" (p. 80)
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il coraggio di proseguire la propria strada
“Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell'aria cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e tremante.” (p. 9)
Polvere e cenere, cielo plumbeo, pioggia, neve e freddo. Padre e figlio camminano con una carrello e una pistola in cerca di cibo, entrano in qualche vecchia abitazione distrutta, il padre prende ciò che trova, mangiano, dormono e riprendono il cammino verso sud, verso un mare che poi si rivelerà anch'esso grigio e senza vita. Il mondo è diviso in buoni (pochi) e cattivi che uccidono senza pietà gli altri uomini e se ne nutrono. Uno scenario post-apocalittico in cui solitudine e devastazione hanno cancellato tutto: spazio e tempo si sono annullati, non esiste la speranza che qualcosa possa cambiare. Solo la presenza del bambino dà al padre la motivazione per non arrendersi, la forza per proseguire:
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te" (p. 42)
McCarthy ci presenta un mondo tornato alla preistoria della civiltà, in cui la fame è la caratteristica dominante, popolato da bande di predoni nomadi pronte ad uccidersi pur di mangiare. Non sappiamo cosa sia accaduto prima, quale catastrofe abbia ridotto il mondo in queste condizioni: il padre ha qualche ricordo, talvolta sogna, ma i sogni non possono dare consolazione né speranza e il padre invita il bambino a diffidare dell'immaginazione:
“Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso.” (p. 144)
L'importante è non arrendersi, andare avanti, qualunque cosa accada. Padre e figlio hanno un'unica certezza: sanno di essere “i buoni” e portano il fuoco che in questo testo ha un potente valore simbolico: in un mondo buio, freddo e senza amore è l'elemento che, forse, consentirà di ricreare una civiltà nuova fatta di luce, calore e solidarietà. Il bambino ha questo ruolo: è lui a portare il fuoco perché è l'unico ad aver mantenuto caratteristiche "umane", non vuole uccidere per mangiare, è terrorizzato dal cannibalismo, vuole sempre aiutare chi incontra offrendo il poco cibo disponibile.
“La strada” è un romanzo molto suggestivo, dal forte impatto emotivo, angosciante. L'autore si esprime con una prosa essenziale, incisiva, in forte sintonia con il contenuto, tanto che a tratti risulta destabilizzante. Il testo è ricco di simboli e significati che il lettore è libero di interpretare, non sono mancate letture in chiave religiosa visto che all'inizio si dice “Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.” (p. 4).
“La strada” è un libro che all'inizio mi ha spiazzata, poi coinvolta e alla fine commossa. Appena terminata la lettura ero perplessa, ho dovuto attendere qualche giorno per metabolizzarne i contenuti e le impressioni, per capirne il significato e per apprezzarne lo stile che, al primo impatto, mi era sembrato eccessivamente monotono. Ora posso dire che, alla fine, "La strada" mi è piaciuto; il mondo descritto da McCarthy non è poi così lontano: l'egoismo, la solitudine e la mancanza di speranza da sempre possono rendere la vita un inferno in cui solo l'amore può darci la forza di alzarci e la determinazione per proseguire nella nostra strada.
“Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Alzarmi stamattina, disse.” (p. 207)
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Sincerità e senso di appartenenza
Dal confronto tra Mauro Corona (scrittore, alpinista e scultore) e Luigi Maieron (musicista e scrittore) amici friulani, amanti della montagna, della natura e della “cultura del fare”, nasce questo testo che è un compendio di pensieri, citazioni e aneddoti che ci fanno rivivere il gusto delle storie narrate attorno al focolare e delle canzoni d'autore accompagnate dal suono della fisarmonica.
Otto capitoli che vedono alternarsi due voci su argomenti comuni: i rapporti tra le persone, il perdono, la sconfitta, il senso della vita, l'educazione dei giovani.
Corona e Maieron si esprimono con semplicità, spesso citando parole o proverbi in dialetto, lingua che meglio “esprime pensieri legati al reale”. Tra una riflessione e l'altra raccontano le vicende, divenute leggendarie, della loro gente, persone di cui non è rimasta traccia nei libri, ma che hanno ancora molto da insegnare. Storie di donne coraggiose e tenaci come Anna che, dopo aver percorso chilometri nella neve per raggiungere il marito in Carinzia, reagisce all'umiliazione del tradimento con il silenzio, sfilandosi la fede nuziale e tornando al paese dai suoi figli. Storie di uomini mutilati nel corpo, ma non nello spirito che hanno continuato a suonare, a lavorare, a godersi la vita anche se privati di un dito o dell'intera mano; storie di giovani fucilati in tempo di guerra, accusati di tradimento, vittime innocenti della cieca stupidità degli uomini.
Coinvolgenti gli accenni autobiografici dei due autori: Corona racconta in più occasioni di suo padre, uomo violento e molto autoritario che spesso ha definito il figlio un fallito; alla luce dei ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza, lo scrittore rilegge la sua vita come una reazione alle umiliazioni subite e l'alcolismo di cui è stato vittima come una fuga sbagliata dalla sofferenza. A questo argomento ribatte l'amico Maieron affermando che la fuga va trovata in una passione che, indipendentemente dai risultati, possa riempire l'esistenza e lenire il dolore. Maieron a tal proposito cita la storia di sua madre quando, appena sedicenne, rimase incinta di un uomo già sposato, giunto in Friuli per lavoro. La ragazza affrontò con coraggio una gravidanza indesiderata e invisa alla gente del posto e con orgoglio perseguì la sua passione, la musica, portandosi il piccolo Luigi in motocicletta durante le serate. Il dolore non si può evitare, aiuta a crescere e “le lacrime servono ad asciugarci gli occhi per poi vederci meglio” ci ricorda Maieron citando il motto preferito di sua madre: “preferisco una sconfitta alle mie condizioni a una vittoria alle condizioni degli altri”.
Corona e Maieron guardano con sospetto ad una società in cui ai giovani vengono risparmiate le fatiche e ci mettono in allerta rispetto ad un'educazione che elargisce troppe gratificazioni; gli autori invitano i genitori di oggi a non aver paura di sottoporre i bambini alle difficoltà, perché è dalle prove che emerge il carattere. La critica più accesa è però rivolta alla frenesia di un mondo proiettato al successo individuale, al primeggiare per sentirsi elogiati ed invidiati dagli altri in una comunità ormai costituita per la maggior parte da persone fragili incapaci di reagire alle sconfitte.
“Qui c'è tutto quello che mi serve, quasi niente” afferma Corona riferendosi al suo rifugio di montagna, “un angolino dell'anima dove nascondersi. Nascondersi un po' da tutto, dalla gente, dal paese, dagli amici, trovare il tempo per ricordare e riflettere” (Mauro Corona, p. 150)
“Oggi si muove un nuovo concetto di minoranza (…) uomini e donne che sentono il bisogno di accordare il proprio comportamento con quanto batte nel loro cuore (…). Si accontentano di poco, quasi niente, e mettono sincerità e senso di appartenenza al primo posto” (Luigi Maieron, p. 155)
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la nascita è una nave che parte per la guerra
“Sofia”, disse l'infermiera a voce alta, “lo sai che cos'è la nascita? E' una nave che parte per la guerra” (p.9)
La vita di Sofia Muratore assomiglia proprio ad una guerra, una continua battaglia per la sopravvivenza. Un parto prematuro la pone fin da subito in una situazione di precarietà, in bilico tra la vita e la morte: la piccola viene posta in rianimazione e affidata alle premurose cure di un'ostetrica. Sua madre, Rossana, aspirante artista, non sembra in grado di occuparsi continuativamente della figlia: alterna infatti momenti di euforia a crisi depressive che le impediscono di prendersi cura della bambina. Suo padre, Roberto, ingegnere all'Alfa Romeo, sopravvive ad un matrimonio infelice dapprima buttandosi a capofitto nel lavoro, poi trovando consolazione in un'amante. Roberto, sebbene animato da buone intenzioni, non pare però trovare un canale di comunicazione efficace con la figlia che proverà ad avvicinarsi a lui solo quando sarà troppo tardi. La sola persona che sembra dare conforto a Sofia è la zia Marta, sorella di suo padre: personaggio dalla vita molto alternativa e combattiva, la zia è l'unica che si accorge della sofferenza della nipote e si attiva per supportarla offrendole ospitalità quando Sofia, devastata da una situazione familiare insostenibile, tenta il suicidio inghiottendo psicofarmaci e superalcolici.
Sofia è prima una bambina sensibile, poi un'adolescente fragile: i litigi dei genitori, la malattia psichiatrica di sua madre e la morte di suo padre, la portano a prendere le distanze dalle persone che ama nel tentativo di difendersi dalla sofferenza. Anche dal punto di vista sentimentale, infatti, Sofia non sembra in grado di mantenere legami stabili e non a caso alla fine del romanzo verrà paragonata a Holly Golighly, la famosa protagonista di Colazione da Tiffany, affascinate e sfuggente.
Non so spiegare cosa ci sia nei libri di Cognetti che mi cattura: sicuramente non è la trama, tutto sommato non trovo le sue storie così originali; non posso nemmeno affermare che siano i personaggi a rapirmi, anch'essi sembrano infatti emergere dalla banalità del quotidiano. Credo dunque che a piacermi, di Cognetti, sia il modo di raccontare, semplice e diretto: con poche parole sa dare vita a personaggi molto credibili, autentici.
Questo romanzo è costruito ad episodi: in ogni capitolo, che può essere letto anche come un racconto a sé stante, emerge un personaggio secondario che, temporaneamente, assume il ruolo di protagonista. Storie brevi che formano un quadro unitario, legate da un sottile, ma ben saldo, filo conduttore.
“Sofia si veste sempre di nero” mi ha lasciato una sensazione di tristezza, di malinconia, di sofferenza, ma non di disperazione. La vita è una guerra che ci costringe a combattere ogni giorno la nostra battaglia: a volte perdiamo, a volte riusciamo a conquistarci quel poco che ci basta per essere, come afferma Sofia, felici adesso.
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Segreti e bugie
Giulia ha un buon lavoro, un marito premuroso, un amante appassionato, una sorella affettuosa e un po' ingenua e una madre sempre al suo fianco, pronta a cogliere nel suo sguardo e nei suoi atteggiamenti ogni minimo problema per poterlo subito risolvere. Giulia ha sposato Emanuele perché riesce a farla ridere, ha un'ottima posizione sociale, ma soprattutto perché quell'uomo così brillante piace alla suocera. Emanuele non sa che sua moglie, quando aveva solo sedici anni, ha avuto un bambino che ha lasciato in Inghilterra perché la madre di Giulia ha deciso che era meglio così, per salvare le apparenze e poter garantire a suo nipote, ma soprattutto a sua figlia, un futuro. Spesso Giulia si chiede come sarebbe stata la sua vita se quel bimbo, che ha potuto vedere solo per un istante, fosse cresciuto con lei, se sua madre non avesse avuto così tanto potere decisionale sulla sua esistenza. Il segreto di quel figlio è un peso sul cuore fintanto che non conosce Federico, uno scrittore sposato, padre di due figli, che ha narrato una storia simile alla sua, quella di una madre che ha dovuto dare in adozione la sua creatura. Federico ora è il suo amante, si frequentano con cautela e si vedono di nascosto in un piccolo appartamento sul mare; Giulia crede che anche Emanuele abbia un'altra, lo ha capito dalle sue assenze e dai suoi silenzi, quindi perché farsi degli scrupoli? Ma la vita le riserva delle sorprese: Federico improvvisamente si sente male e anche Emanuele, nello stesso giorno, ha un incidente stradale. Federico era con lei in quel momento e Giulia è costretta a mentire, a dire che era una passante che ha soccorso un uomo in difficoltà. Ma anche Emanuele non era solo in auto al momento dell'incidente, con lui c'era una donna che si presenta a Giulia per darle delle spiegazioni che lei si rifiuta di sentire perché pensa di sapere già tutto. I due uomini vengono ricoverati nello stesso ospedale e Giulia si trova lì, divisa in due tra l'amore per il marito e quello per l'amante, costretta per l'ennesima volta a mentire a tutti. Cosa accadrà ora nella vita di Giulia? Come uscirà dalla trappola in cui è caduta a causa dell'amore?
Non conoscevo Sara Rattaro e la lettura di questo romanzo è stata per me una piacevole scoperta, mi ha tenuto compagnia per un paio di pomeriggi con la sua scrittura frizzante, leggera, molto scorrevole, a tratti anche ironica. La narrazione risulta alquanto coinvolgente: ad esprimersi, in prima persona, è la stessa Giulia che ai fatti presenti alterna i ricordi del passato; inserisce inoltre, come se fossero delle frasi in sovrimpressione, brevi monologhi interiori che svelano al lettore i pensieri nascosti della protagonista che spesso agisce e parla in modo contraddittorio rispetto a ciò che desidera. L' intreccio è molto dinamico, non scontato e anche le tematiche trattate sono interessanti: una madre opprimente, una maternità non desiderata, un matrimonio in crisi, una scelta difficile. Eppure, nonostante gli aspetti positivi, c'è qualcosa in questo romanzo che non mi ha convinta. La storia parte bene, ma poi si perde sul finale, sbrigativo, moralista, poco credibile. Giulia è un personaggio fragile e contraddittorio con cui non sono riuscita ad entrare in empatia: mi è sembrata un'eterna adolescente, incapace di decidere cosa sia giusto fare della propria vita, succube di una figura materna che si è sempre sostituita a lei nelle scelte importanti. Giulia non è mai in grado di dire ciò che pensa, ciò che vuole, mente a sua madre, a suo marito, a sua sorella, ma soprattutto mente a se stessa costringendosi ad una vita soffocante, come quando cade in preda agli attacchi d'asma cui è soggetta. Pare riscattarsi solo nel finale, quando ormai i giochi sono fatti: può una donna pensare di recuperare un matrimonio costruito sulle menzogne e sui tradimenti? Può una madre presentarsi, come se nulla fosse, ad un figlio abbandonato ventidue anni prima? Nella vita, come nei libri, tutto è possibile...e allora, buona lettura!
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La memoria come forma di conoscenza
“L'idea che potrei morire senza aver scritto di colei che presto ho preso a chiamare 'la ragazza del '58' mi ossessiona. Un giorno non ci sarà più nessuno per ricordarsene. Ciò che è stato vissuto da quella ragazza, e da nessun'altra, resterà inspiegato, vissuto invano.” (p. 22)
La ragazza del '58 è Annie alla vigilia dei suoi diciotto anni, poco appariscente, alta, con i fianchi larghi, molto miope; un'adolescente desiderosa di “ballare, ridere, fare baccano, cantare canzonacce goliardiche, flirtare” (p. 87) lontano dallo sguardo severo e giudicante di sua madre. Vuole staccarsi dalla famiglia, gustare la libertà, piacere agli uomini e diventare una donna.
L'estate del '58 è la sua occasione: fa l'assistente educatrice in una colonia estiva ed è libera di dare il suo corpo a H, un professore ventiduenne di ginnastica, il primo a rivolgerle qualche attenzione. Ma H è già fidanzato, non la ama, la usa e poi, come un oggetto, la sostituisce con una ragazza più attraente; Annie viene messa in disparte, derisa ed insultata con epiteti volgari. Da questa esperienza esce sconfitta, umiliata, piena di vergogna “la vergogna dell'orgoglio di essere stata un oggetto del desiderio. Di avere considerato la sua vita alla colonia come una conquista della libertà” (p. 152). La mentalità nel '58 è perbenista e maschilista e “nulla può far sì che che quanto è stato vissuto in quel mondo, quello prima del '68, un mondo che l'ha condannato con le sue regole, possa radicalmente cambiare di senso un altro mondo” (p. 152). L'esperienza dolorosa cambia per sempre Annie che prende le distanze da se stessa, dalla 'ragazza del '58'. Da quel momento i suoi obiettivi diventano lo studio, il lavoro, la ricerca di un senso di quanto le è accaduto; grazie alla lettura di Simone de Beauvoir, la Ernaux trova una risposta alle sue domande e decide che non sarà mai più un oggetto, ma un soggetto libero. Tutto questo non basta però a lenire la sua sofferenza, perché “avere ricevuto le chiavi per capire la vergogna non dà il potere di cancellarla” (p. 170) e la sofferenza di Annie si radica nel suo corpo, la induce ad abbuffate e a digiuni cui solo vent'anni dopo saprà dare il giusto nome: bulimia.
La colonia che nel '58 l'aveva assunta rifiuta, per l'estate successiva, la sua candidatura, Annie lavora per altri istituti, poi frequenta per cinque mesi la Scuola Normale di Magistero; è un altro fallimento: viene ritenuta non idonea a fare la maestra. Parte per l'Inghilterra come ragazza alla pari, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova immagine di sé, quella della 'signorina a modo', dell'impeccabile educatrice. Tornata in Francia si iscrive a Lettere e lì, tra gli scaffali delle biblioteche e le aule universitarie si sente, finalmente, felice; studia con profitto e inizia ad abbozzare il suo primo romanzo: si fa strada in lei la consapevolezza di voler essere una scrittrice.
Nel '62, durante un viaggio verso la Spagna con un'amica, Annie si ferma davanti al sanatorio in cui aveva lavorato nell'estate del '58: “ero tornata per dimostrare quanto ero diversa e per affermare la mia nuova identità, quella di una brillante e rispettabile studentessa di Lettere, consacratasi alla letteratura e al superamento di tutti i concorsi per diventare una professoressa, per avere una misura dello scarto esistente tra chi ero stata e chi ero” (p. 232)
“Memoria di ragazza” è un libro molto sofferto: nasce dalla vergogna, dalla negazione di una parte di sé volutamente rimossa e in parte dimenticata. La Ernaux confessa di aver impiegato più di cinquant'anni prima di decidersi ad “esplorare il baratro” e scrivere di quegli eventi che tanto l'avevano segnata e che all'epoca non era stata in grado di comprendere. La memoria per lei è una forma di conoscenza e la scrittura assume una valenza terapeutica. L'autrice si guarda con distacco, si analizza e si osserva dall'esterno, “come uno storico di fronte a un personaggio del passato” (p. 150). Il linguaggio della Ernaux è asciutto, molto essenziale, senza enfasi, privo di sentimentalismi; eppure mi sono sentita molto coinvolta nella lettura di questo testo, l'ho trovato vicino alla mia sensibilità e mi ha trasmesso le emozioni di quella 'ragazza del '58' non così diversa dalle adolescenti di sempre, proiettate verso un futuro incerto, alla conquista della libertà e alla ricerca della felicità.
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il dolore più grande
Una gravidanza molto desiderata e la scoperta, al settimo mese, di una displasia scheletrica che non consentirà al bimbo di vivere, forse neanche di sopravvivere al parto: che fare?
Era da tempo che mi proponevo, incuriosita dalle numerose recensioni, di leggere questo libro che ha fatto molto discutere; eppure ogni volta che mi capitava tra le mani, qualcosa mi tratteneva dall'aprirlo; forse temevo di trovarvi un dolore che non sarei riuscita ad affrontare o forse non mi sentivo pronta a rispondere alla domanda che ogni madre si pone di fronte al dramma che la protagonista ha vissuto: e io, al suo posto, cosa avrei fatto?
Luce e Pietro da tempo cercano di avere un figlio e ora il loro desiderio sta per avverarsi: per Lorenzo hanno già preparato tutto: corredino, cameretta e un immenso amore. Ma l'amore a volte non basta ad arginare ciò che non è prevedibile: Lorenzo ha una malformazione genetica che non dà speranze. Luce, sconvolta, non sa prendere una decisione; l'istinto la spingerebbe ad andare avanti, a proteggere la sua creatura contro tutto e contro tutti. Ma Pietro è di un altro parere: come potrebbe vivere un bimbo le cui ossa non sono in grado di crescere? Con quali prospettive? Quali sofferenze? Le leggi italiane non danno scelta: al settimo mese un aborto terapeutico non è consentito e così Luce e Pietro si recano a Londra per sentire l'ennesimo consulto e per avere la possibilità di decidere se mettere al mondo Lorenzo, oppure evitargli un tale dolore.
“Nessuno sa di noi” è un libro dal forte impatto emotivo, in cui al lettore non viene risparmiato nulla. La Sparaco descrive magistralmente un iter che si dipana tra esami, consulti medici e freddi ambulatori. Un calvario fatto di ansie, dubbi, sensi di colpa, solitudine, impotenza, rassegnazione, disperazione, depressione. Luce e Pietro vengono duramente messi alla prova, la loro esistenza non sarà più quella di prima: dovranno affrontare un periodo di profonda crisi e di incomunicabilità, proveranno il desiderio di fuggire, saranno sopraffatti dall'odio per chi il sogno di avere un figlio lo ha realizzato senza fatica, proveranno rabbia verso chi, con superficialità, si permette di giudicare senza sapere.
La scelta dei protagonisti di questo romanzo è discutibile: non li condanno, capisco le loro motivazioni; posso solo dire che io al loro posto avrei agito diversamente.
Il romanzo della Sparaco mi ha profondamente scossa, ha fatto riemergere un dolore che nella mia esperienza di madre molti anni fa ho vissuto e avevo in parte rimosso. E' un libro che ha il pregio di far riflettere su una tematica scottante e dolorosa che vede protagoniste madri che non potranno mai abbracciare la creatura che tanto avevano desiderato, madri di cui si preferisce non parlare, non sapere.
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L'armonia della natura
A quale donna, moglie e madre di tre vivaci bambine, non piacerebbe avere un po' di tranquillità, del tempo per pensare, per leggere e per dedicarsi alle proprie passioni?
È proprio ciò che vuole fare Elizabeth: meditare nella solitudine e gustare la pace del suo giardino. Il testo della von Arnim è un diario che racconta un'estate in cui alle frequenti osservazioni sulla bellezza della natura e dei fiori, per quali la protagonista nutre un grande interesse, si alternano argute riflessioni sul senso della vita. Sono inoltre citati brevi episodi che rendono l'idea delle attività che si svolgono nella tenuta della ricca famiglia Von Arnim: le lezioni con il maestro privato delle figlie, i giochi all'aria aperta, le passeggiate, le feste, ma anche il reclutamento di un giovane giardiniere, la scelta di un nuovo pastore, il passaggio delle truppe imperiali.
L'autrice non si esime dal citare anche argomenti più seri, come la malattia e la morte di alcuni bambini del luogo, vittime dell'ignoranza delle loro madri che agiscono seguendo tradizioni prive di buon senso e non si fidano dei consigli dei medici. Elisabeth, animata da generoso filantropismo, con discrezione si inserisce nella vita delle persone più umili, dispensa qualche consiglio, fornisce aiuti materiali. Ci rende partecipi delle sue osservazioni che ovviamente non possono che condannare pratiche assurde, ma dalle sue parole traspare sempre comprensione, mai disprezzo. Ne emerge uno spaccato di vita di fine Ottocento che ho trovato molto interessante, raccontato con leggerezza ed eleganza.
È il primo testo che leggo di questa autrice e mi ha piacevolmente colpita per la delicatezza e la grazia che si respirano in ogni sua pagina.
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Sogni, passioni, segreti e desideri
Quando mi accingo a leggere una raccolta della Munro mi devo preparare psicologicamente e materialmente: prendo carta e penna e mentre scorro le pagine annoto qualche appunto. Già, perché se non mi scrivo qualcosa, rischio di arrivare a metà di un racconto con la sensazione di non aver capito nulla, o quasi. Seguire i personaggi e gli intrecci di questa autrice per me non è un'impresa facile: deviazioni, digressioni, ellissi e salti temporali mettono a dura prova la mia attenzione: eppure è proprio questo il motivo per cui mi piace il suo stile e resto sempre affascinata dalle sue opere. Ammiro inoltre la sua capacità di trasformare la quotidianità in qualcosa di straordinario: la Munro ci parla di fatti apparentemente banali, di incontri tra persone semplici, di oggetti di uso comune. Tutto ciò che scrive va colto però con il massimo scrupolo perché nelle sue pagine nulla può essere dato per scontato, anche un dettaglio può nascondere un segreto o essere il sentore di un dramma che sta al lettore intuire e comprendere. Altra incredibile abilità di questa autrice è la sua capacità introspettiva: scruta la mente dei suoi personaggi e ne descrive i pensieri in modo talmente profondo che alla fine del racconto si ha la sensazione di essere entrati a far parte di quelle vite.
Tutte le storie di questa raccolta mi hanno molto emozionata, ma soprattutto quelle che hanno come protagoniste delle madri: donne che lottano tra sensi di colpa e doveri imposti dalla società in cerca di un equilibrio tra realtà e desideri, tra ciò che la vita impone e ciò che invece vorrebbero avere.
Per dare un'idea dell'opera faccio un accenno ai racconti che più mi hanno colpita. "Il sogno di mia madre" è l'ultimo e dà il titolo all'intera raccolta: è forse il più leggero, quello in cui si respira un tono ironico. Voce narrante della storia è una bimba che, appena nata, con il suo pianto mette a dura prova i nervi di sua madre in un climax di eventi tragicomici che si risolveranno in un lieto fine.
"Una donna di cuore" è invece il primo lunghissimo racconto che narra di una infermiera domiciliare che assiste gli ultimi giorni di agonia di un'ammalata che, poco prima di spirare, confida alla protagonista un terribile segreto mettendola nella condizione di non sapere come agire: rivelare o serbare per sé una tale confessione?
"Le bambine restano" racconta invece di una giovane madre, attrice per diletto, che si invaghisce del regista dell'opera che interpreta fino al punto di abbandonare tutto pur di seguire i suoi sogni e la sua passione.
Infine "Prima che tutto cambi", il racconto che più mi ha coinvolta e commossa: è la storia di una ragazza che torna improvvisamente a casa, da suo padre, medico vedovo ormai anziano. Il racconto è costruito attraverso una serie di lettere che la protagonista indirizza ad un destinatario misterioso che poi si scoprirà essere il suo ex fidanzato. Il lettore, in un crescendo di tensione e curiosità intuisce, pagina dopo pagina, le vere ragioni che hanno spinto la ragazza a lasciare gli studi, a rinunciare alle nozze e a tornare da un padre che esercita la sua professione su misteriosi "casi speciali" alquanto inquietanti. Dalle missive, che si fanno via via più esplicite, il lettore verrà a conoscenza di dolorosi eventi, ma anche di gesti di sorprendente umanità. Non posso dire altro: leggetelo.
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una passione travolgente
Dopo la famosa saga de “Le sette sorelle”, Lucinda Riley torna nelle librerie italiane con un romanzo giovanile che uscì nel 1993 con il titolo “Aria” e che recentemente ha rivisto e ripubblicato con il titolo “La ragazza italiana”.
La storia è ambientata tra Napoli, Milano, Londra e New York, tra i più famosi teatri d'Opera del mondo, lussuose suites d'albergo, prestigiosi attici e splendide ville in un crescendo di passione, tradimenti, intrighi e colpi di scena.
Rosanna Menici ha solo undici anni quando a Napoli, durante una festa di famiglia, resta ammaliata dal fascino e dalla voce di Roberto Rossini, ventotto anni, promettente tenore della Scala. Rosanna, timidamente, intona l' “Ave Maria” e Roberto, incantato dalla sua voce, riconosce nella giovane un talento straordinario che egli invita a coltivare con lo studio del canto lirico. Il primo incontro con Roberto segnerà per sempre il destino di Rosanna che da quel momento si sentirà indissolubilmente legata a lui da una passione incontrollabile. Grazie all'impegno del fratello Luca, Rosanna prende le prime lezioni e nel tempo migliora la sua voce al punto di essere notata e scelta, a diciassette anni, come borsista presso la prestigiosa Scala di Milano, città in cui si trasferisce insieme a Luca. Qui i due ragazzi vedranno cambiare radicalmente le loro vite: Rosanna avrà l'occasione di ritrovare Roberto Rossini con cui, travolta dall'amore, condividerà tra mille vicissitudini e non poche delusioni, la carriera e la vita; Luca troverà invece l'amicizia di una giovane ragazza inglese, Abigail, compagna di studi di sua sorella, ma questa relazione entrerà in contrasto con una vocazione religiosa che il ragazzo sente nascere dentro di sé e con cui dovrà fare i conti per molti anni. A tutto ciò si unisce la casuale scoperta, da parte di Luca, di un misterioso dipinto attribuito niente meno che a Leonardo da Vinci, conservato da secoli nella cripta di una chiesa, disegno che terrà in sospeso la storia fino al termine del libro. Ovviamente questo è solo l'inizio di questo romanzo che ha un intreccio degno di una soap opera in una storia che si sviluppa per trent'anni, dal 1966 al 1996 e che tiene avvinto il lettore fino all'ultima pagina.
Non conoscevo questa autrice e non sono una lettrice abituale del genere rosa, ma mi sono avvicinata a quest'opera con curiosità e con leggerezza, senza alcuna pretesa. L'intreccio è, tutto sommato ben costruito: poco credibile, ma avvincente; i personaggi sono caratterizzati in modo un po' stereotipato, poco approfonditi dal punto di vista psicologico e talvolta possono pure risultare irritanti (troppo arrendevoli o troppo sfacciati); la storia è costruita prevalentemente su azioni e dialoghi che mi hanno ricordato, come dicevo, certi sceneggiati televisivi che fanno degli amori travagliati e dei tradimenti i loro cavallo di battaglia. Fatte queste premesse, ho trovato “La ragazza italiana” un romanzo gradevole, di facile e veloce lettura che potrà indubbiamente regalare alle amanti del genere piacevoli ore di svago.
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soli ed infelici
“Essere felici è un talento. Non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità” (p. 124)
Ma in cosa consiste questo “talento”?
Diciotto personaggi raccontano in prima persona un frammento delle loro esistenze: istantanee in cui, attraverso un aneddoto o una breve riflessione, rivelano cosa vorrebbero dalla vita per godere di un attimo di felicità. Racconti che, a seconda di chi parla, risultano lucidi, deliranti, comici, onirici, drammatici ma da cui, sempre, emergono profondi disagi esistenziali, aspettative mancate, tradimenti. Un oncologo di chiara fama, un noto banchiere, un'attrice da copertina, un giornalista, la segretaria di uno studio medico, un autista, un'anziana malata di cancro, la madre di un giovane psichiatrico sono solo alcuni dei numerosi soggetti che, come le tessere di un puzzle, danno vita ad un disegno unitario. I protagonisti sono infatti tutti legati tra loro da parentele, amicizie o rapporti clandestini e svelano, nelle loro confessioni, aspetti nascosti di se stessi o degli altri personaggi; ognuno ha, infatti, una doppia vita: quella di facciata, all'apparenza moralmente ineccepibile, e quella segreta, in cui soddisfa desideri e perversioni. Ognuno cerca di colmare un vuoto esistenziale nel vano tentativo di riempire la propria solitudine usando gli altri senza curarsi della sofferenza che inevitabilmente ne deriva. Coppie senza complicità, frustrate dalla monotonia, logorate da silenzi eloquenti che inducono a cercare nel tradimento una illusoria via di scampo.
Esiste, dunque, una ricetta per essere felici?
Solo due personaggi, l'anziano Ernest Blot e il suo nipotino di nove anni, Antoine, il primo provato dalla malattia e consapevole dell'esaurirsi dei suoi giorni, l'altro ancora incontaminato dalle brutture dell'esistenza, sembrano aver intuito la formula alchemica: “Ecco il segreto, ha detto Ernest, questo bambino l'ha capito, ridurre al minimo le pretese di felicità.” (p. 16)
E il vecchio Ernest, a differenza di tutti gli altri, non ha che un unico desiderio: essere cremato e far sì che le proprie ceneri siano disperse nel fiume dove già furono sparse quelle di suo padre.
“Le cose sono fatte per svanire. Me ne andrò senza storia. Non troveranno né bara né ossa. Tutto continuerà come sempre. Tutto se ne andrà allegramente nella corrente.” (p. 63)
Dopo aver letto Babilonia, mi ero ripromessa di approfondire la conoscenza di questa autrice che mi aveva colpita per l'arguzia, l'ironia e la profonda malinconia che avevo colto ed apprezzato nel suo libro. “Felici i felici” non ha però sortito lo stesso effetto: all'inizio mi è sembrato interessante ma poi, andando avanti, mi ha stancata e delusa. L'idea dei personaggi che si presentano è buona, ma diciotto storie da seguire sono davvero troppe. Inoltre alcune figure e le loro vicissitudini mi sono parse piuttosto insulse se non addirittura irritanti. Le riflessioni dell'autrice sulla vita e sulla felicità (o meglio sulla infelicità) sono ciniche e pessimiste: l'amore non esiste, è solo un inganno; il sesso, per essere appagante, deve avere il gusto del proibito; il matrimonio è un'istituzione mortificante che per funzionare implica la falsità tra i coniugi che si tradiscono ad ogni occasione. Anche le amare conclusioni sul senso dell'esistenza, ridurre al minimo le aspettative ed augurarsi il dissolvimento, mi sono sembrate alquanto deprimenti. Insomma, francamente mi aspettavo qualcosa di meglio, o forse non ero dell'umore adatto per apprezzare lo spirito dissacrante dell'autrice. “Felici i felici” è comunque un libro ben scritto, prosa scorrevole, a tratti molto sciolta (frequente il discorso indiretto libero), ma con qualche volgarità di troppo per i miei gusti.
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il dramma dell'ipocrisia
“Il ragazzo nuovo” di Tracy Chevalier fa parte di un grande progetto internazionale lanciato dalla Hogart Press a quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare (1564-1616): grazie alla collaborazione di famosi autori contemporanei, la storica casa editrice ha pubblicato una collana di opere shakespeariane riscritte in chiave moderna edite, in Italia, da Rizzoli.
“Il ragazzo nuovo” è, in questo progetto, la trasposizione di Otello in cui pregiudizio razziale, invidia e gelosia sono i temi dominanti, ma vengono attualizzati in una scuola americana negli anni Settanta dove un gruppo di adolescenti rivivono le vicende dei protagonisti del noto dramma shakespeariano.
Il romanzo è diviso in cinque capitoli e la storia si svolge nel rispetto delle unità di luogo, tempo e azione: si sviluppa all'interno di un istituto scolastico nell'arco di una sola giornata.
Siamo a Washington nel 1974 e Osei Kokote, tredicenne figlio di un diplomatico ghanese, è costretto per l'ennesima volta a cambiare scuola a causa del lavoro di suo padre. Osei è dunque “il ragazzo nuovo”, l'unico nero in un istituto di soli ragazzi bianchi in un'America in cui il sogno di integrazione di Martin Luther King ha dovuto fare i conti con le idee rivoluzionarie di Malcom X e del Black Power.
Al suo ingresso nel cortile, decine di sguardi diffidenti si posano su Osei; solo Daniela Benedetti, detta Dee, la ragazza più carina e popolare dell'istituto, prova per lui una forte attrazione alla quale Osei non può restare indifferente perché Dee emana una luce particolare, la “luce dell'anima”.
Fatte le presentazioni di rito, Osei si inserisce nel ritmo di una normale giornata scolastica scandita da lezioni, partite di kickball, mensa e momenti di ricreazione. Il primo impatto sembra positivo: Osei, socievole e atletico, conquista subito non solo la simpatia di Dee, ma anche la stima di Casper, il ragazzo più bello ed apprezzato dell'Istituto. Le difficoltà, però, non tardano a manifestarsi: una mano posata sulla guancia di Dee, una semplice carezza data nel cortile della scuola, suscita lo sguardo indignato di alunni e docenti che, abbagliati dal pregiudizio (“Me l'aspettavo, è tipico di quella gente!” commenta un professore) etichettano come inadeguato e disdicevole il comportamento di Osei. La popolarità inaspettata del ragazzo scatena inoltre in Ian, il temuto bullo della scuola, una invidia e una gelosia irrefrenabili. Ian, subdolo manipolatore, fingendosi amico di Osei, architetta un piano distruttivo con la complicità della sua ragazza, la fragile Mimi, e del suo tirapiedi Rod, da tempo invaghito di Dee. Con stratagemmi meschini e malevole insinuazioni, Ian accende nell'animo di Osei il dubbio del tradimento ordito alle sue spalle da parte di Dee e di Casper al fine di umiliarlo. Accecati dai sentimenti negativi instillati da Ian, i ragazzi scivoleranno in un crescendo di reciproche violenze verbali e fisiche fino al tragico inevitabile epilogo, nel rispetto della trama del dramma shakespeariano.
Ho letto “Il ragazzo nuovo” con grande curiosità, sia perché avevo già apprezzato questa autrice in altre sue opere (cito, fra tutte, “La ragazza con l'orecchino di perla”) sia perché mi sembra interessante il progetto sostenuto dalla Hogart press in merito alla riedizione in chiave moderna delle opere di Shakespeare.
Il risultato raggiunto dalla Chevalier è, a mio avviso, degno di considerazione ma, data l'ambientazione e l'età dei protagonisti, lo ritengo particolarmente adatto ad un pubblico di giovani. Il testo, costruito principalmente su azioni e dialoghi, si presta infatti ad una lettura scorrevole e poco impegnativa, ma non banale soprattutto perché offre spunti di riflessione e approfondimento su sentimenti universali e tematiche sempre di grande attualità. Un romanzo che ci dà l'occasione per ripensare al concetto di integrazione spesso mascherato da un'ipocrita tolleranza:
“Per certi versi il razzismo spudorato degli ignoranti era più facile da digerire. Lo feriva di più l'ipocrisia dei ragazzi che erano gentili con lui a scuola, ma che poi non lo invitavano alle feste di compleanno. La gente che smetteva di parlare quando entrava in una stanza. Le considerazioni poco lusinghiere sui neri seguite dai distinguo: «Non parlavo di te, Osei. Tu sei diverso»” (p. 188)
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la dura vita nelle fazendas
"Ho cercato di raccontare in questo libro, con un minimo di letteratura per un massimo di onestà, la vita dei lavoratori delle fazendas di cacao del Sud dello stato di Bahia. Sarà un romanzo proletario?"
Rio, 1933, J.A.
Pubblicato nel 1933, Cacao è la seconda opera del famoso autore brasiliano Jorge Amado che scrisse questo testo quando era poco più che ventenne. La storia è in parte autobiografica: Amado nacque infatti nel 1912 in una fattoria nell'interno di Itabuna, nello stato di Bahia. Figlio di un grande proprietario terriero produttore di cacao (un cosiddetto "fazendeiro"), fu testimone fin da bambino delle lotte violente che venivano scatenate per il possesso della terra; tali ricordi sono stati da Amado più volte utilizzati nella stesura delle sue opere.
Protagonista e voce narrante di Cacao è Josè Cordeiro, detto il Sergipano per via della regione del Nordeste da cui proviene, un ragazzo di origini benestanti che, per sfortunate vicende familiari, si ritrova a quindici anni a fare l'operaio e poi, a venti, a tentare la fortuna nel Pirangi a Ilhéus, “terra del cacao e del denaro”. Lì José viene assoldato come bracciante nelle roças, terre strappate alla foresta e trasformate in piantagioni grazie allo sfruttamento degli “affittati”, uomini, donne e bambini praticamente ridotti in schiavitù.
Nella fazenda Fraternità, José si confronta con un'umanità che Amado descrive con pochi, ma efficaci tratti: Honorio “nero, forte, alto, attaccabrighe” con “grandi mani da assassino” ma “la coscienza pulita e limpida come acqua di fonte”; Joao Grilo, “magro come uno spiedo, un mulatto simpatico che raccontava un sacco di storie” e Colodino, carpentiere “che passava le sue dita sulla chitarra e faceva i conti”. Su tutti sovrasta la figura del coronel Mané Frajelo, il re del cacao, signore feudale della Fazenda Fraternidade “un vero flagello, grasso, di settant'anni, che parlava con voce strascicata e che vestiva poveramente”. Non mancano le figure femminili, donne dalle mani callose e dai piedi grandi, invecchiate anzitempo, strumenti di piacere fin d bambine, destinate ad amori infelici che sovente sfociano in delitti d'onore. Solo Maria, la superba figlia del coronel, si distingue per i suoi capelli biondi e la sua pelle chiara, per la sua passione per la letteratura e la poesia; al fascino della ragazza, audace e passionale, José non potrà restare indifferente.
La vita nella fazenda è durissima: un piatto di fagioli per lavorare da mattina sera al ritmo di piogge incessanti e febbri malariche, una tavola per dormire un sonno “senza sogni e senza speranze”, pochi soldi da spendere allo spaccio o a Pirangi in divertimenti, qualche ballo, pinga e prostitute.
Esistenze dominate dalle piante di cacao che crescono maestose, con i cocchi che maturano gialli come lanterne appese mentre sotto le foglie, sparse al suolo come un tappeto, dormono e si nascondono i serpenti. Le mani si tagliano e si consumano, i piedi si rivestono di una crosta spessa che l'acqua del fiume non riesce a lavare; i bambini, pallidi e gialli con le pance gonfie, mangiano jaca come animali e valgono meno di un cocco acerbo di cacao.
Josè nel suo percorso, da figlio di ricchi a povero bracciante, non può restare indifferente di fronte alle profonde ingiustizie e alle vessazioni avallate da una religione infarcita di superstizioni sostenute da una chiesa asservita al potere e da preti “vestiti di oro e di seta”. Nel giovane uomo si matura giorno per giorno la coscienza di classe e la consapevolezza della necessità di “una lotta col cuore pulito e felice” che possa ridare dignità ai braccianti e agli operai. Josè seguirà dunque la sua strada, voltando le spalle alla possibilità di diventare un fazendeiro pur di restare fedele al suo unico vero amore, quello per il popolo.
Un libro breve, poco più di un centinaio di pagine, scritto in modo semplice e diretto, ricco di dialoghi espressi con un linguaggio che si adatta al contesto e ai personaggi. Non conoscevo Amado, ma ne sono rimasta piacevolmente colpita: mi si è aperto un mondo su un luogo e su una storia di cui avevo solo lontanamente sentito parlare, ma soprattutto mi è sorta la curiosità di leggere altre opere di un autore che ha cercato con la sua opera letteraria e il suo impegno politico di ridare voce e valore alle culture negate dei diseredati brasiliani.
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dolore inesprimibile
“I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo” (p.52)
Una lunga lettera destinata ad una sorellina morta nel 1938, a soli sei anni, di difterite; un tentativo di saldare un debito perché, se Annie è nata, lo deve a lei, a Ginette, la bimba di cui nessuno in famiglia osava parlare, “una santa”, “più buona di quella lì” e “quella lì” era lei, Annie.
Solo a distanza di molto tempo (il testo è del 2010) l'autrice decide di rielaborare un ricordo sconvolgente: la scoperta casuale, a dieci anni, di aver avuto un'altra sorella, scomparsa due anni prima della sua nascita. Annie è dunque “l'altra figlia”, quella venuta al mondo per compensare una perdita incolmabile, per sanare una ferita inguaribile. Di Ginette, Annie non sa quasi nulla, ne conserva solo qualche fotografia; non ha nemmeno mai osato chiedere, perché un tempo certi argomenti in famiglia erano tabu inviolabili.
Annie in questa lettera ci parla soprattutto di sé e dei suoi genitori, del disagio che ha vissuto nel rapporto con sua madre:
“Scriverti significa parlare di lei in continuazione, lei, la padrona del racconto, colei che ha proferito il giudizio e con la quale il combattimento non è mai terminato, se non alla fine (…). Tra lei e me è una questione di parole” (p. 41)
La prima di queste parole, la più ricorrente è “dolore”: per la consapevolezza di essere nata per sostituire la sorella, per aver creduto di essere amata per quello che era mentre forse, per i suoi genitori, rappresentava solo una replica mal riuscita, un vano tentativo di rimpiazzare un originale perfetto.
Dolore per tutto ciò che non è mai stato detto, per quella barriera che, di fatto, aveva creato un'incolmabile distanza: “con il silenzio proteggevano anche se stessi. Proteggevano te. Ti mettevano fuori dalla portata della mia curiosità, che li avrebbe torturati” (p. 52).
Dolore respirato da Annie in tutto ciò che la circondava: “il loro dolore l'ho sentito a lungo senza identificarlo, l'ho conosciuto senza riconoscerlo” (p.57) nel modo in cui sua madre cantava durante le processioni, nel suo mutismo, nell'apprensione e nel rimprovero per ogni minimo ritardo.
Dolore per essersi sentita una figlia sbagliata ed incompresa, costretta a fuggire altrove: “non sono buona come lei, sono esclusa. Dunque non sarò nell'amore, ma nella solitudine e nell'intelligenza” (p. 74-75)
Dolore per non aver mai proferito una parola davanti alla lapide di Ginette, per non essere riuscita ad amare una sorella cui avrebbe dovuto essere grata, ma per la quale ha invece nutrito per molti anni solo un sordo risentimento: “Forse ho voluto saldare un debito immaginario dandoti a mia volta l'esistenza che la tua morte mia ha dato. Oppure farti rivivere e rimorire per liberarmi di te, della tua ombra. Sfuggirti. (p. 80)
“L'altra figlia” è un testo che, come “Il posto”, ho apprezzato molto sia per le tematiche trattate, sia perché testimonia il potere evocativo e terapeutico della scrittura che apre ferite, ma è anche in grado di sanarle e consente di fare pace con i fantasmi del passato. Un libro che mi ha colpita per la capacità dell'autrice di scavare dentro se stessa come se si osservasse dall'esterno, con freddezza, ma a mio avviso con grande efficacia.
La prosa della Ernaux è incisiva, scarna ed essenziale: non usa mai una parola di troppo, ma quelle che scrive si incidono nell'anima.
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quando il destino si accanisce
Attirata dal titolo, dalla fama dell'autore e dalle positive recensioni, mi sono immersa nella lettura di questo romanzo piena di aspettative. Troppe o forse troppo elevate, il risultato è che il testo mi ha un po' delusa e non sono riuscita a scorgervi la profondità e la bellezza riscontrate da molti lettori.
Mirta è una giovane moldava giunta a Roma a lavorare per dare a se stessa e ai suoi cari rimasti in patria l'opportunità di una vita migliore. La morte improvvisa di sua madre la costringe a collocare suo figlio dodicenne, Ilie, in un orfanotrofio nel quale trovano ospitalità sia i bambini senza genitori, sia i casi come Ilie, definiti 'orfani bianchi'. Nella speranza di poter guadagnare abbastanza per consentire al figlio di raggiungerla in Italia, Mirta, con qualche sotterfugio riesce ad aggiudicarsi un impiego come badante presso la ricca famiglia di un'anziana colpita da ictus, ormai ridotta a “corpo in decomposizione” e stanca di vivere. Superate le prime difficoltà relazionali con l'inferma, la fortuna sembra arridere a Mirta: oltre ad un lavoro ben pagato, riceve infatti anche una seria proposta di convivenza da parte di un caro amico e si prospetta per lei e per il figlio l'opportunità di avere finalmente una casa e una famiglia. Ma quando tutto pare volgere al lieto fine, irrompe nella storia un duplice tragico evento che chiude improvvisamente e in modo drammatico l'intera vicenda.
L'intreccio è coinvolgente e le tematiche affrontate in questo romanzo sono attuali e complesse, inoltre non si può dire che a Manzini manchi la capacità di tenere il lettore incollato alle pagine dalla prima all'ultima riga; eppure, a mio avviso, qualcosa non va, ci sono diversi elementi che non mi hanno convinta.
Innanzitutto la caratterizzazione dei personaggi: fatta eccezione per Mirta, tutto sommato ben delineata, le altre figure risultano stereotipate, spesso costruite su discutibili luoghi comuni e poco approfondite dal punto di vista psicologico tanto da risultare scarsamente credibili. Cito, a titolo di esempio, l'anziana signora Eleonora, la donna di cui Mirta si occupa. Descritta come molto malata, incapace di muoversi e perfino di parlare (viene definita “mummia”) fa alla badante una serie di dispetti espletando ripetutamente le proprie funzioni fisiologiche, gettando a terra stoviglie, mordendole la mano con la dentiera. A questi fatti, discutibili, ma ancora plausibili, se ne aggiungono altri che rendono il personaggio incoerente: misteriosamente, di notte, Eleonora si muove e parla esprimendo non solo le proprie volontà, ma dando anche prova di acute riflessioni su ciò la circonda. La signora Eleonora, che avrebbe potuto svolgere un ruolo chiave nella vicenda, ne esce invece come una “macchietta” artefice di gag tragicomiche le quali, pur strappando un sorriso, fanno a mio avviso scadere il romanzo, soprattutto alla luce del tragico finale.
La conclusione del libro è poi un altro elemento che mi ha lasciata perplessa: presentati i personaggi, costruito l'intreccio e intavolate scottanti tematiche (l'inconsolabile disagio dei bambini lasciati dalle madri migranti nelle terre d'origine, la difficile convivenza tra culture ed etnie diverse, la drammatica solitudine degli anziani, il desiderio di poter porre fine alla propria vita quando non è più considerata dignitosa) Manzini tronca il tutto bruscamente con un colpo di scena in netto contrasto con l'atmosfera che stava delineando nel testo.
Pertanto pur avendo apprezzato di “Orfani bianchi” l'idea e le tematiche, sono rimasta delusa dal modo superficiale con cui l'autore le ha affrontate; avrei inoltre preferito maggiore coerenza stilistica e una conclusione meno precipitosa. Proverò a dare a Manzini un'altra possibilità leggendo uno dei suoi gialli, magari partendo con aspettative diverse.
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difficili equilibri
Un prato, un'altalena basculante, una bambina che, nel dondolarsi, tiene in sospeso il suo papà. L'immagine di copertina dell'edizione italiana di “Tre piani” dell'autore israeliano Eskhol Nevo (ed. Neri Pozza) ci fa intuire le tematiche di questo libro: le relazioni familiari e il ruolo genitoriale. Un rapporto dal difficile equilibrio, in cui i figli tendono ad assumere un peso tanto rilevante da impedire ad un padre, o ad una madre di stare, come si suol dire, con “i piedi per terra”.
Il romanzo, diviso in tre capitoli come i piani di un tranquillo condominio di Tel Aviv in cui sono ambientate le vicende, vede infatti protagonisti tre genitori inadeguati che vivono il loro ruolo come una responsabilità destabilizzante; persone che sentono l'urgenza di confessare sogni e segreti, forse per sgravarsi dai sensi di colpa, o forse solo per avere qualcuno che dia ascolto alle loro storie senza giudicarle.
Nel primo racconto la voce narrante è quella di Arnon, giovane padre ossessionato dal sesso e facile preda di impulsi distruttivi. In crisi con la moglie, più obiettiva e razionale, confessa ad un amico le sue angosce: la prima ha a che fare con la figlia che lui ammette di aver trascurato per egoismo delegandone la cura ad una anziano vicino affetto da lieve demenza e di cui sospetta attenzioni pedofile; la seconda riguarda invece un tradimento che, se scoperto, rischia di far tracollare definitivamente il suo matrimonio.
Il secondo episodio vede invece protagonista una giovane madre che si sente a un passo dalla follia; sola e frustrata, Hani vorrebbe conciliare i suoi desideri con la realtà. Soprannominata dai vicini “la vedova” per via del marito sempre all'estero, desidera un compagno premuroso con cui condividere il peso dell'accudimento dei figli per i quali ha rinunciato ad ogni sua ambizione. Trova ascolto, complicità e consolazione nel fratello del marito, un truffatore che bussa alla sua porta perché ricercato da creditori e poliziotti; con quest'uomo, dal fascino ambiguo, Hani vive (o immagina?) una fugace relazione che risveglia in lei un desiderio da tempo assopito.
Infine la terza storia in cui Dvora, giudice in pensione e madre ormai vedova, registra in una vecchia segreteria telefonica le sue confessioni al marito defunto per renderlo partecipe del segreto che le ha cambiato l'esistenza. In un paese sconvolto dalla crisi economica, Dvora offre la sua collaborazione ad un gruppo di manifestanti grazie ai quali conosce Avner, affascinante personaggio che la corteggia fino a condurla in un luogo misterioso. Tramite Avner, Dvora avrà l'occasione di dare una svolta alla sua vita e riconciliarsi finalmente con il figlio Arad che, non sentendosi amato ma solo giudicato dai suoi genitori, da anni se ne era volontariamente allontanato senza lasciare alcuna traccia di sé.
La scrittura di Nevo è coinvolgente e scorrevole e ha la particolarità di adeguare lo stile alle personalità delle voci narranti: prosa concitata e inframmezzata da termini triviali nel primo episodio in cui Arnon si sfoga con un amico; linguaggio colloquiale e confidenziale nel secondo capitolo in cui Hani scrive una lunga lettera ad una cara compagna d'infanzia; tono complice, affettuoso ma anche stile più raffinato nel terzo racconto nel quale Dvora immagina di poter comunicare con il defunto marito.
“Tre piani” a me è piaciuto molto, sia per le tematiche affrontate, sia per i messaggi che ne ho colto, soprattutto nel terzo racconto, a mio avviso, il più bello. Per quanto una coppia possa essere in crisi, l'amore per i figli deve rimanere prioritario perché è questo che loro si aspettano da un genitore: di essere ascoltati e compresi; solo così, forse, si possono superare gli inevitabili ostacoli.
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“Ti amo soprattutto perché esisti”
“Lo scopo per cui ti sto scrivendo è quello di dirti cose che ti avrei detto se fossi cresciuto con me, cose che a mio avviso dovrei insegnarti come padre” (p. 139)
A scrivere queste parole è il pastore congregazionalista John Ames, un uomo provato dal lutto e dalla solitudine, padre anziano di un bambino che non potrà vedere crescere; decide dunque di consegnare alla carta i suoi più intimi e sinceri pensieri, l'eredità che vuole lasciare a suo figlio per poter dialogare con lui anche quando fisicamente non potrà più essergli accanto.
La vicenda è ambientata negli anni Cinquanta a Gilead, una sperduta cittadina dello Iowa; Ames nelle sue memorie alterna le osservazioni sul presente ai ricordi del passato: della sua infanzia rievoca il conflittuale rapporto tra suo padre, pastore pacifista, e suo nonno, abolizionista militante tra i guerriglieri di John Brown.
Del momento attuale, invece, osserva e commenta le vicende relative a Jack Boughton, figlio ribelle dell'amico Robert, anch'egli pastore ormai anziano e debilitato dalla malattia. Jack, ritornato alla casa paterna dopo una vita dissoluta e fallimentare, con il suo atteggiamento ambiguo e talvolta provocatorio inquieta le giornate di Ames che lo percepisce come un pericolo per l'incolumità della moglie e del figlio. Solo dopo diversi incontri e una confessione da parte del giovane Boughton, Ames capirà che anche Jack è un'anima tormentata alla ricerca di un'oasi di salvezza, un figliol prodigo caduto in disgrazia a causa delle sue debolezze, ma anche una vittima di assurdi pregiudizi religiosi e razziali. Solo allora John riuscirà finalmente a cogliere in Jack quello spiraglio di redenzione di cui fino a quel momento aveva dubitato, proverà per quell'uomo una sincera compassione e riuscirà ad impartirgli il suo perdono e la sua benedizione.
John Ames è un personaggio magistralmente delineato a tutto tondo: l'autrice ne fa percepire ogni moto interiore evidenziandone dubbi, paure, risentimenti e gelosie. Ames è un uomo che gioisce di fronte all'alba che inonda di luce ogni cosa, che si commuove al tocco dei capelli di suo figlio, che si incanta nel contemplare i gesti premurosi della giovane moglie. Il suo sguardo sulla realtà è pieno di stupore e gratitudine:
“Ci sono due occasioni in cui la sacra bellezza del Creato diventa di un'evidenza abbacinante, e queste si presentano contemporaneamente. Una è quando sentiamo la nostra mortale inadeguatezza rispetto al mondo, e l'altra è quando sentiamo la mortale inadeguatezza del mondo rispetto a noi.” (p.225)
In questa lunga lettera l'autrice dà voce ad un teologo e il filo conduttore, il rapporto padre-figlio, è analizzato in un orizzonte di fede che non può prescindere dalla relazione che l'uomo ha con Dio; attraverso le parole di Ames, l'autrice affronta questioni quali il peccato, la grazia, il perdono, la predestinazione, la salvezza. A brevi annotazioni sulla quotidianità si alternano meditazioni e citazioni su passi e figure bibliche: la lettura di questo testo potrebbe pertanto risultare, in certi passaggi, piuttosto impegnativa.
La scrittura della Robinson ripaga però da ogni fatica: una prosa apparentemente semplice che cura ogni dettaglio stilistico regalando splendide descrizioni di ambiente e creando un'atmosfera dal tono sommesso che infonde nel lettore un senso di pace e tranquillità.
Ho molto apprezzato questo testo perché l'autrice, priva di qualunque intenzione di indottrinamento, sa toccare argomenti molto lontani dalla nostra quotidianità come il peccato, il pentimento, il perdono con grande autenticità, senza retorica e senza fanatismi. Inoltre, da genitore, sono rimasta colpita dal profondo sentimento di Ames per suo figlio, un amore che non pone condizioni, disposto a perdonare ed accogliere, fiducioso e pieno di speranza.
“Pregherò perché tu diventi un uomo coraggioso in un paese coraggioso. Pregherò perché tu trovi un modo per renderti utile” (p. 257)
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un bambino che crea mondi
Un titolo curioso, un disegno in copertina emblematico - un bimbo che si protende per prendere una mela appesa ad un filo, ma non riesce ad afferrarla- poche pagine scritte da un giovanissimo autore, un grande successo editoriale. La storia è autobiografica: Giacomo, con leggerezza e a tratti con ironia, racconta l'annuncio e l'attesa di Giovanni, un bimbo definito dai genitori “speciale” che Giacomo scoprirà essere affetto dalla sindrome di Down. Giacomo a cinque anni non vede l'ora di poter giocare con suo fratello come con un super-eroe, ma poi, crescendo, si rende conto che le caratteristiche di Giovanni sono ben lontane dai super-poteri che aveva immaginato.
In questo libro l'autore ci fa entrare nella vita di Gio, simpatico e un po' dispettoso, ci rende partecipi dell'atmosfera allegra e giocosa della sua famiglia, ma soprattutto ci racconta la sua adolescenza fatta di emozioni, aspirazioni, dubbi e paure. Con parole sincere confessa di essersi vergognato di suo fratello, di aver cercato di nasconderlo per proteggerlo e per salvaguardare se stesso dal giudizio degli altri. La svolta si ha quando Giacomo, nel suo percorso di maturazione, inizia a vedere il mondo e le persone attraverso gli occhi di Giovanni e con questo sguardo impara ad avere un nuovo rapporto con la realtà, più libero e più sereno.
“Gio, tra i molti problemi, aveva un talento particolare: sapeva creare una storia diversa con ognuno. Si sarebbe potuto scrivere un libro sul rapporto tra Gio e ogni singola persona che gli gravitava attorno, e sarebbe stata una saga più lunga del Signore degli Anelli. Gio creava mondi. Ognuno di noi camminava con lui lungo una strada personale. E la cosa pazzesca era che riusciva a essere diverso con tutti, ma sempre se stesso.” (p. 123)
Essere sempre se stessi e nello stesso tempo entrare in una relazione profonda con gli altri, fare un pezzo di strada con qualcuno costruendo “storie”, creando “mondi”, cercando di dare un senso a tutto ciò che ci circonda. Trovare, forse, insieme, un modo per raggiungere quella mela appesa ad un filo troppo in alto perché un bimbo, da solo, la possa afferrare.
Il libro di Mazzariol senza alcuna retorica fa riflettere sul rapporto che abbiamo con la diversità, su come scegliamo di affrontare i problemi della vita, su quanto ci facciamo condizionare dalle opinioni degli altri. Il punto di vista di Giacomo è quello di un ragazzo positivo e fiducioso che riesce a trasmettere, attraverso la sua scrittura, un messaggio di speranza e di amore.
“Nella vita ci sono cose che si possono governare, altre che bisogna prendere come vengono. È talmente più grande di noi, la vita. È complessa, ed è misteriosa. [...] – L’unica cosa che si può sempre scegliere è amare – disse. – Amare senza condizioni. (p. 50)
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Le parole della felicità
Gioia è una diciassettenne fuori dagli schemi, ama fare fotografie prendendo le persone di spalle, ascolta i Pink Floyd al massimo volume per isolarsi dal mondo e ha una singolare passione per tutte quelle parole straniere che esprimono ciò che in italiano non è traducibile. Insomma, Gioia è una ragazza davvero particolare, ma i suoi compagni di classe la considerano troppo strana e la sfottono chiamandola "Maiunagioia". Eppure Gioia non sembra curarsene troppo, perché lei ha Tonia, la sua amica immaginaria (una specie di Grillo Parlante) un po' rozza nei modi, ma sempre molto sincera; e poi c'è il Prof. Bove, il suo insegnante di filosofia, sempre disponibile ad ascoltarla e paterno dispensatore di saggi consigli. La famiglia di Gioia è un disastro: i suoi genitori sono spesso ubriachi, litigano e poi fanno pace e Gioia ne soffre molto perché non sopporta di vedere sua madre picchiata ed umiliata da un marito violento.
Una sera, in un bar chiuso e deserto, Gioia incontra un ragazzo che gioca a freccette, un tipo misterioso e sfuggente, ma molto attraente. Tra i due è subito amore, ma Lo, così dice di chiamarsi, nasconde un terribile segreto che gli impedisce di poter vivere la loro storia alla luce del sole. Gioia capisce subito che Lo ha bisogno del suo aiuto, ma per poter salvare il ragazzo dovrà scegliere di fare ciò che è giusto, anche se sa che quella decisione la farà soffrire. La scelta di Gioia la farà uscire dalla sua condizione di adolescente insicura e la porterà ad agire da persona responsabile in un mondo di adulti spesso più fragili dei propri figli.
Enrico Galiano è docente di Lettere in una scuola media ed è un personaggio molto amato nel mondo dei social network (la sua pagina Facebook è seguita da migliaia di fans); l'autore ben conosce dunque il mondo dei giovani e sa sicuramente catturarne l'attenzione. Questo suo primo romanzo ha personaggi ben caratterizzati (anche se alcuni risultano, a mio avviso, un po' stereotipati), la trama è avvincente, la prosa scorrevole, ricca di dialoghi e il linguaggio, tra una citazione colta e un aneddoto filosofico, intercala termini del gergo giovanile. L'opera ha dunque tutti gli ingredienti per essere letta con piacere dal pubblico young adult per cui è stata prodotta.
"Eppure cadiamo felici" è un romanzo di formazione, una storia d'amore, ma forse è soprattutto una bella favola moderna in cui molti adolescenti di oggi sapranno rispecchiarsi. Consigliato dunque a chi ha l'età dei protagonisti o a chi quell'età l'ha già superata ma vuole capire chi, come Gioia, pur considerando il nostro mondo un "pianeta di merda" ha come scopo della vita "fare felice qualcuno".
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esserci l'uno per l'altro
Quattro amici, quattro progetti di vita e quattro anni per poterli realizzare, tra il mondiale di calcio del 1998 e quello del 2002. Sullo sfondo delle violenze e delle ingiustizie di uno Stato senza pace, Israele, Nevo racconta la storia un'amicizia speciale, nata nell'adolescenza e rafforzatasi negli anni “come in un'oasi nel deserto”, un legame indistruttibile che consente di superare qualunque ostacolo. Amichai, Yoav (detto Churchill), Ofir e Yuval, sempre uniti nonostante le inevitabili incomprensioni, le gelosie, le invidie; solidali seppur con caratteri molto diversi e scelte di vita incompatibili; presenti sempre l'uno per l'altro ad affrontare le peggiori prove della vita: il lutto, il tradimento, il fallimento, la depressione. Durante la finale del 1998, su proposta di Amichai, i quattro decidono di scrivere su dei foglietti tre desideri ciascuno e di verificare se, al mondiale successivo, i loro sogni sono diventati realtà. Il destino sembra però mescolare le carte e sottopone i protagonisti a dolorose vicissitudini: i desideri si realizzeranno, ma indipendentemente da come erano stati espressi dai quattro ragazzi; ognuno si troverà infatti ad aver concretizzato, senza averlo scelto, il progetto di un amico. Il finale, aperto e per nulla scontato, tiene il lettore in sospeso fino all'ultima pagina, partecipe delle vicende dei quattro ragazzi e curioso di scoprire se potrà esserci o meno un esito favorevole.
Il testo è ben scritto, la prosa scorrevole, il linguaggio molto accattivante. La voce narrante è quella di Yuval, tra i quattro il più taciturno, sfortunato in amore, poco ambizioso, ma dalla grande sensibilità; l'atmosfera che si respira leggendo è, a mio avviso, dolce e malinconica; in tutto il testo aleggiano un presagio di morte e un senso di inquietudine: si ha la sensazione che tutto ciò che esiste di bello e di vero tra le persone possa dissolversi da un momento all'altro, senza un ragionevole motivo. Nevo ci presenta una generazione fragile alla ricerca di una una felicità non effimera, giovani desiderosi di essere diversi dai loro genitori, ma incapaci di prenderne completamente le distanze, ragazzi che alla fine aspirano a cose semplici, ma non scontate: una famiglia, dei figli, affetti sinceri e duraturi.
“La simmetria dei desideri” è un libro che, all'inizio, ha fatto fatica a coinvolgermi, ma poi mi ha presa e trascinata fino alla fine lasciandomi un senso di tristezza e insieme di speranza.
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il dolore della solitudine
“Non avere nessuno significa non avere nemmeno se stessi. Chi ti ama ti rilascia un certificato di esistenza” (p.121)
Élisabeth, sessantadue anni, un lavoro soddisfacente e una famiglia tranquilla, sente che la vita le sta sfuggendo di mano, senza emozioni, senza gioie, nel rimpianto di un amore giovanile che le ha trasmesso la passione per la fotografia; le piace sfogliare “The Americans”, di Robert Frank, “il libro più triste del mondo”: osserva i volti, gli oggetti, il paesaggio, incantata dal fascino dello scatto fotografico che pietrifica ed immortala ciò che è destinato a dissolversi.
Jean-Lino Manoscrivi, uomo mite e pacifico, “con la biro e il suo giornale e soprattutto il suo cappello”, è un amante delle corse dei cavalli che, nella monotonia della routine, gli danno un brio altrimenti inesistente; non prende mai l'ascensore, Jean-Lino, perché soffre di claustrofobia. Si incontrano così, coinquilini in un palazzo della banlieue parigina, salendo e scendendo le scale, lei fino al quarto piano per tenersi in forma, lui fino al quinto.
Sono entrambi coniugati: Élisabeth con il posato Pierre, Jean-Lino in seconde nozze con la stravagante Lydie, nonna di un pestifero nipotino, Remi, con cui Jean-Lino vorrebbe instaurare un'intesa affettuosa. Con il vicino di casa, Élisabeth ha un rapporto di cortesia -si danno del lei- ma anche di reciproca simpatia e confidenza, in una parola: di amicizia.
Per “creare legame” e vivacizzare la quotidianità, Élisabeth organizza una festa di primavera, un'occasione di condivisione per stare in allegria. Invita anche Jean-Lino e sua moglie a cui chiede la cortesia di prestarle delle sedie. Tutto procede tranquillamente, anche troppo: la festa non decolla, la conversazione languisce; Lydie, animalista convinta, chiede l'origine del pollo che è stato servito e Jean-Lino ne approfitta per fare delle battute e qualche pantomima sulle idee, a suo parere ridicole, della moglie. Terminata la serata e congedati gli ospiti, Élisabeth e Pierre, già a letto, sentono suonare il campanello: è Jean-Lino che, sconvolto, afferma di aver commesso un omicidio. Élisabeth, per curiosità, per incoscienza, ma anche per un sincero affetto nei confronti dell'amico, si lascia coinvolgere dalla richiesta di aiuto di Jean-Lino.
A questo punto il romanzo si tinge di nero: alla descrizione del crimine fanno seguito gli interrogatori e le indagini giudiziarie di cui, ovviamente, è bene non anticipare nulla per non rovinare il piacere della lettura. Una precisazione: i toni sono quelli della commedia grottesca, con situazioni paradossali in cui al dettaglio macabro si associa un sorriso.
“Babilonia”, della nota e premiata drammaturga, scrittrice e sceneggiatrice francese Yasmina Reza, è un romanzo a metà strada tra il filosofico e il poliziesco, un testo in cui, più dei fatti, contano i pensieri, i sentimenti, la fine analisi psicologica dei personaggi e le motivazioni consce e inconsce che li spingono ad agire. Le tematiche affrontate sono molteplici: l'ineluttabilità dello scorrere del tempo, il peso e l'influenza dei ricordi, l'incomunicabilità nella coppia vista solo come vano "tentativo di colmare la propria solitudine con un'altra solitudine", l'assurdità di un'esistenza costruita sulle illusioni e su quelli che l'autrice definisce “concetti vuoti” (creare legame, tolleranza, dovere della memoria, elaborazione del lutto); amara la riflessione sul linguaggio, sul peso e sul potere che le parole hanno di ferire in un modo più subdolo e crudele di un'arma. Parole che possono però anche consolare e conferire “un senso di appartenenza a un insieme oscuro”, come i versetti del salmo che Jean-Lino, da bambino, sentiva leggere da suo padre “Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion” (p.112). L'autrice resta sempre super partes, si limita a scattare istantanee sulla realtà, facendo propria l'affermazione del fotografo G. Winogrand "Il mondo non è affatto ordinato. E' un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto".
“Babilonia” è un testo scritto in prima persona da una voce narrante, quella di Élisabeth, che dapprima getta le premesse della vicenda, poi ricostruisce i fatti riferendo la confessione di Jean-Lino, infine conclude riportando l'interrogatorio della polizia; ai vivaci dialoghi si alternano flashback e profonde riflessioni in una prosa efficace, incisiva, sferzante, capace di strappare un sorriso amaro di fronte alle miserie e alle follie dell'uomo.
Ho trovato questo romanzo molto avvincente, l'ho letto tutto d'un fiato; mi hanno coinvolta soprattutto i personaggi: Élisabeth, intraprendente, positiva e capace di gesti di sorprendente bontà ha catturato fin da subito la mia simpatia, mentre per Jean-Lino, carnefice e vittima di un assurdo destino, non si può che provare compassione e tenerezza; un testo che mi ha fatto riflettere sui piccoli grandi drammi che ognuno di noi vive nella monotonia di ogni giorno, drammi che rischiano di sconvolgerci l'esistenza, ma di cui, forse, talvolta sentiamo il bisogno perché, come afferma un'amica di Élisabeth, "le tragedie della vita quotidiana ti riempiono la giornata" (p. 30)
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ringraziamento postumo
Breve romanzo autobiografico in cui l'autrice, alla morte del padre, ne rievoca le umili origini e la dura vita che lo ha visto passare dalle campagne alla fabbrica fino alla gestione di bar-alimentari in un piccolo centro della Normandia. Un uomo semplice, schivo, brusco, pieno di dignità e orgoglio, attivo, onesto, gran lavoratore. Un uomo che parlava francese, ma in modo talvolta sgrammaticato, che si esprimeva con la saggezza dei proverbi, che temeva di essere fuori posto e si sentiva inferiore di fronte alle persone importanti davanti alle quali preferiva non fare domande per “non mettere l'interlocutore in una posizione di vantaggio” . Un uomo intelligente, che in bicicletta portava la figlia a scuola, anche se la considerava “un universo terribile”, pur di consentirle di studiare fino a conseguire una borsa di studio, un'opportunità per lui incomprensibile, fornita dallo Stato “per girarsi i pollici”, ma finalizzata a “farsi una posizione e non sposare un operaio”. Annie, supportata dai genitori, raggiunge i suoi obiettivi: si laurea, si sposa con un colto borghese, ha un bambino, diventa professoressa di Lettere, proprio due mesi prima della morte di suo padre. Il definitivo distacco dal genitore la induce a riflettere, a scrivere, per darsi una spiegazione di quella distanza che si era creata durante l'adolescenza: “una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome”.
“Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto” (p. 68).
Annie, in un lungo e doloroso percorso, vuole invece far riemergere proprio ciò che il ceto borghese le ha fatto dimenticare; scava nella memoria nel modo più onesto ed oggettivo possibile, senza nulla aggiungere. Si sforza di ridare dignità a ciò che il mondo intellettuale le ha fatto giudicare “di cattivo gusto” nel vano tentativo di riallacciare un dialogo interrotto troppo presto, un'incomunicabilità generazionale resa ancor più aspra da un incolmabile divario culturale.
“Il posto” è il tributo che la Ernaux rende a suo padre, alla sua famiglia, alle sue origini, per “riportare alla luce l'eredità” che, entrando nel mondo del benessere e della cultura, aveva dovuto “posare sulla soglia”. La scrittura come estremo tentativo di espiare la colpa di aver voltato le spalle a chi ci ha messo al mondo, a chi ci ha dato la possibilità di essere diversi, migliori e magari anche più felici. Molto toccante, a mio avviso, il pensiero dell'autrice alla conclusione del libro, considerazione che rende omaggio ai sacrifici di una vita: “Forse il suo più grande motivo di orgoglio o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che lo aveva disdegnato”. (p. 106)
La prosa è asciutta, essenziale, scarnificata, volutamente piatta: “nessuna gioia di scrivere, in questa impresa mi attengo più che posso a parole e frasi sentite davvero (…) perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch'io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un'altra” (p.42)
Malinconico, sofferto, sincero; mi ha fatto riflettere su quanto, nel bene o nel male, dobbiamo ai nostri genitori, anche se non abbiamo il coraggio di ammetterlo.
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homo homini lupus
Immaginate di scoprire che vostro figlio, il classico bravo ragazzo di buona famiglia, ha barbaramente ucciso una senzatetto solo perché di intralcio, con il suo corpo e con il suo odore, presso lo sportello di un bancomat. Immaginate di poter vedere addirittura il video di quanto accaduto, prima trasmesso in un programma televisivo e poi duplicato su internet: di scorgere, anche se non perfettamente riconoscibile, vostro figlio che insulta e sghignazza mentre getta su una persona inerme sacchi di immondizia, una sedia girevole, una lampada da tavolo ed infine una tanica di benzina quasi vuota che esplode, con una piccola fiammata di accendino, senza lasciare scampo. Come reagireste di fronte a tutto questo?
Due coppie di genitori imparentati (i padri sono fratelli) si trovano in un locale di lusso per una cena in cui dovranno discutere del futuro dei loro figli colpevoli di aver ucciso una senzatetto e incastrati da un filmato un po' sfuocato, ma non ancora ufficialmente identificati dalle forze dell'ordine.
I capitoli in cui è diviso il libro hanno come titoli le portate della cena, dall'aperitivo alla mancia finale. La voce narrante è quella di Paul, padre di Michael, forse il principale responsabile dell'omicidio; l'uomo, ai commenti sulle pietanze, inframmezza i suoi ricordi e i suoi pensieri. Tra un piatto e l'altro il lettore viene coinvolto dal fluire dei suoi ragionamenti in cui, a momenti di estrema lucidità e ironia che ne catturano la simpatia, si alternano racconti dai tratti sconcertanti che ne fanno cogliere l'inattendibilità: si scoprirà infatti essere un uomo affetto da una sindrome psichiatrica ereditaria e non sufficientemente curata. Di fronte alla sconvolgente realtà, le due coppie di genitori prenderanno posizioni contrastanti rispetto al da farsi in un crescendo di tensione che sfocia in un finale sorprendentemente ambiguo ed agghiacciante.
Koch inserisce in questo romanzo molte tematiche, forse anche troppe: il ruolo dei genitori nell'educazione dei figli, la responsabilità dei giovani (anche se minorenni) nel compiere le loro azioni, il rapporto tra fratelli (invidie, gelosie, risentimenti) e tra parenti in generale, il perbenismo sociale, il diritto ad avere un futuro, magari anche il successo, nonostante tutto e tutti, la percezione della diversità, il compito delle istituzioni (come la scuola) nella prevenzione della devianza e, ultimo ma non meno importante, il peso che una malattia mentale può avere nel giustificare un atto criminale. Tematiche che emergono dalla lettura, ma sulle quali l'autore non si esprime mai in modo esplicito; anzi, sceglie di spiazzare il lettore con la tecnica dello straniamento data da un punto di vista, quello della coppia dei genitori di Michael, che non solo non condanna l'operato del figlio, ma anzi lo sostiene e lo incoraggia a farsi giustizia da sé per potersi garantire un futuro.
Ciò che più sconvolge in questo romanzo non sono dunque i fatti, bensì i pensieri dei personaggi, le loro coscienze; nessuno si salva, nemmeno i genitori apparentemente disposti a sacrificarsi in nome della giustizia che si dimostreranno più preoccupati di salvaguardare la reputazione, anziché interrogarsi sugli errori commessi. Ogni personaggio fa trapelare, oltre la facciata, un retroscena squallido, fatto di meschinità ed egoismi che non lasciano speranza di redenzione.
"La cena" è un libro che ho trovato molto avvincente e ben scritto: frasi brevi, efficaci, taglienti.
La storia ha un ritmo alternato: procede in un primo tempo a rilento per poi accelerare a tratti, fino alla corsa verso l'epilogo, tutt'altro che scontato. La scelta dell'autore di rallentare e dilatare i tempi della narrazione con delle pause, mi è sembrata ben azzeccata, funzionale sia alla creazione di un'attesa, sia alla riflessione.
Dopo aver scalato le classifiche olandesi nel 2009, “La cena” ha ottenuto grande successo di pubblico e critica in numerosi paesi tra cui l'Italia dove ne è stato tratto anche un film, “I nostri ragazzi” (2014) di I. De Matteo, interpretato da A. Gassmann, G. Mezzogiorno, L. Lo Cascio, B. Bobulova.
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il fascino della natura
Otto racconti compongono quest'opera di esordio (2002) di A. Doerr, vincitore del Premio Pulitzer nel 2015 con “Tutta la luce che non vediamo” e ora nelle librerie italiane con “Il collezionista di conchiglie”.
La prima caratteristica che colpisce e cattura in questa raccolta è l'ambientazione: dal reef del Kenya ai boschi di conifere del Montana, dalle coste oceaniche del Maine alla lussureggiante vegetazione della Tanzania, Doerr trasferisce il lettore in luoghi affascinanti e carichi di suggestioni. Il paesaggio è sempre in primo piano nella narrazione, le descrizioni incantano e gli animali sorprendono per la loro facoltà di comunicare con l'uomo e svelare, a chi li sa ascoltare, messaggi e segreti. Gli elementi naturali assumono un significato simbolico, rappresentano un momento di passaggio, sono l'emblema della morte e della rinascita. La natura si fa specchio dei sentimenti degli uomini, della loro sofferenza e del loro desiderio di essere liberi, felici, in armonia con ciò che li circonda. I protagonisti dei racconti sono colti nel momento della crisi, in procinto di attuare un cambiamento radicale della loro esistenza, nell'atto di compiere quella metamorfosi che li farà rinascere creature nuove, consapevoli di aver finalmente trovato la strada giusta da seguire. I personaggi di Doerr sono quasi sempre in viaggio, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che li possa appagare, che possa dare un senso alle loro vite e colmare il profondo senso di solitudine in cui si trovano.
I racconti sono tutti molto coinvolgenti, la prosa è ricca di immagini, suoni, colori, profumi, suggestioni. In alcuni testi prevalgono le descrizioni e l'introspezione del personaggio (ad esempio in “Certi treni”e in “Un garbuglio presso il fiume Rapid”), in altri a questi elementi si aggiunge l'azione che coinvolge il lettore in rocamboleschi viaggi e nell'incontro di bizzarri personaggi (come in “Così ci raccontavamo la storia di Griselda” e ne “Il 4 Luglio”).
Mi hanno particolarmente coinvolta tre storie. La prima è quella di Dorotea, adolescente protagonista del racconto “Certi treni”; la ragazza, insieme ai genitori, lascia l'Ohio per approdare sulle coste del Maine dove il padre spera di trovare un lavoro e riscattarsi socialmente. Lì, a contatto con l'oceano, Dorotea scopre e affronta le prime delusioni, si appassiona alla pesca, ma soprattutto ha la possibilità di stupirsi di fronte ad una manciata di sabbia in cui si nasconde un brulicare di vita; i sensi di Dorotea si acuiscono: “Il silenzio le sale nell'orecchio come un'onda e si frange in un arcobaleno di rumori minuscoli: un richiamo di civetta, il suono flebile di risa al falò, i pini che scricchiolano, cicale che stridono, riposano, stridono. Roditori che frusciano tra i rovi. Ciottoli che tintinnano. Foglie che dondolano. Perfino le nuvole che marciano. E sotto, il mormorio del mare avvolto nella nebbia. Questo è davvero un mondo pieno. Trabocca.” (p. 104). Doerr ha la capacità di far sentire il lettore parte di un mondo naturale magico, misterioso, affascinante e perfetto in cui è l'uomo l'elemento negativo, quello che guasta l'armonia.
Il secondo racconto ad avermi colpita è “Il guardiano”: in una terra sconvolta dall'orrore dalla guerra, la Liberia, Joseph, prima ladro e poi anche assassino, dopo aver perso sua madre è costretto a fuggire nell'Oregon dove trova lavoro come guardiano in una ricca tenuta. Lì scoprirà un altro orrore, più subdolo, ma altrettanto devastante: la spietatezza e l'indifferenza degli uomini che lo faranno sentire un escluso, un reietto. Joseph viene licenziato, non ha più nulla per cui vivere, ma quando niente sembra più avere un senso, Joseph pianta dei semi, come faceva sua madre, sul terreno nel quale aveva seppellito i cuori di alcuni capodogli spiaggiati, orrendamente mutilati da chi ne doveva smaltire le carcasse. Il desiderio di riscatto non lo abbandona: in una notte in cui lui stesso si sente senza speranza, salva una ragazza che vorrebbe morire annegandosi nell'oceano. I frutti delle sue piantine, due meloni, gustati insieme a Belle, la ragazza che ha salvato, sono una bellissima immagine finale: il simbolo di due vite che rinascono alla speranza.
Infine l'ultimo, splendido racconto: “Mkondo”. Questo termine significa corrente, flusso, ma è anche il gioco che Maima, in Tanzania, faceva fin da bambina: Maima segue un percorso, una strada, fino alla fine e poi fa un passo in più, va oltre, qualunque sia il pericolo, qualunque sia l'ostacolo. Ward, un ricercatore dell'Ohio, giunge in Tanzania per trovare un fossile, si imbatte in Maima e ne resta affascinato. Maima lo corrisponde, lo sposa, si trasferisce in America dove lui continua a lavorare in un museo di storia naturale. La ragazza, relegata in un ambiente chiuso ed asfittico, deperisce come una pianta senza luce, come le poiane incatenate che lei tenta di tenere in cantina, nonostante le lamentele dei vicini. Passano gli anni, Maima e Ward vedono inaridire anche il loro rapporto fintanto che la giovane donna, ormai fotografa affermata, sceglie di tornare in Tanzania. Ward, infelice senza di lei, deciderà di fare anche lui il suo Mkondo, il suo passo oltre le certezze: la andrà a raggiungere in quei luoghi selvaggi ed incontaminati, potrà sentirsi di nuovo vivo e ritroverà l'amore, senza dover dire una parola, con un fiore in mano.
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omnia vincit amor
“Si è inventato tutto lui. I dettagli li ha presi da Holt, i nomi delle strade, i nomi della campagna e la posizione dei luoghi, però quella non è Holt. E i personaggi non esistono. (…) Si è inventato tutto.” (p. 131).
E' vero, Holt non esiste e Haruf si è inventato tutto. Eppure mi piace pensare che possa esserci davvero un luogo in cui due anime, al tramonto delle loro esistenze, si incontrano per parlare, vincere la solitudine, rielaborare i ricordi dolorosi del passato, affrontare le inquietudini del presente. Addie e Louis, vedovi settantenni, coraggiosa e vitale lei, “gentile e degno di stima” lui, la sera si danno appuntamento, bevono qualcosa e poi si stendono nel letto, mano nella mano, per raccontarsi, per sapere tutto l'uno dell'altra. Dalle loro parole, sussurrate nella notte, riaffiorano i lutti, i rimpianti, le incomprensioni vissute con i rispettivi coniugi e con i figli che hanno portato gioie, ma anche tante sofferenze. Gli incontri di Addie e Louis non si limitano però ad una rievocazione nel passato, al contrario; incuranti delle chiacchiere della gente, sprigionano una vitalità invidiabile: assetati di novità, vogliono ancora provare emozioni per non “diventare aridi nel corpo e nello spirito” (p. 132). Grazie all'arrivo inaspettato del piccolo Jamie, il nipotino di Addie, i due settantenni hanno modo di rivivere l'allegria di una giovane famiglia: adottano la cagnolina Bonny, fanno un campeggio in montagna, vedono le partite di softball, partecipano alla fiera annuale di Holt.
Addie e Louis costruiscono la loro relazione con pazienza e rispetto, senza fretta “abbiamo tutto il tempo che vogliamo” ripetono spesso: una frase che, alla loro età, sembra paradossale. Il tempo, però, è qualcosa di soggettivo, dipende da come lo trascorriamo, dalle persone con cui lo viviamo: notte dopo notte Addie e Louis creano un'intimità, una profondità nel loro rapporto che non avevano saputo (o potuto) avere con i rispettivi coniugi nei lunghi anni di matrimonio. Cosa rende questo rapporto così speciale? Leggendo, me lo sono chiesta più volte. Forse la consapevolezza di aver trovato una persona che non pretende nulla, che vive attimo per attimo, in piena libertà, accettando anche le imperfezioni e le debolezze dell'altro.
“Potresti stancarti di me e non volerne più sapere.
Se dovesse succedere possiamo smettere, disse lei. Questo è l'accordo tra noi, no? Anche se non ce lo siamo detti.
Sì, quando ti stanchi puoi dirlo.
Anche tu” (p. 117)
Libertà e rispetto, senza alcuna pretesa, accontentandosi di vivere solo il presente, mano nella mano per superare ogni ostacolo, le invidie e le maldicenze della gente, la gelosia di un figlio egoista, la lontananza forzata, anche solo per poter continuare a parlare, “Fin quando potremo. Finché dura.” (p. 162)
Dopo aver letto la trilogia, ho ritrovato anche in quest'opera la straordinaria abilità narrativa di Haruf, la sua prosa scarna ed essenziale, le sue frasi brevi, dirette, capaci di arrivare con semplicità ed immediatezza al cuore del lettore. Mi sono commossa leggendo questa storia, non tanto per quanto vi è narrato, quanto al pensiero di un autore che si sente pressato dal tempo, che deve dare alle stampe un'opera con qualche imperfezione (questo ci confida, in una nota, il traduttore Fabio Cremonesi) perché sa che la malattia, inesorabilmente, lo sta consumando.
“Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe? Non mi va di finire in un libro, rispose Louis.” (p. 131) ma Haruf, fortunatamente, non lo ha ascoltato e ci ha regalato un'altra splendida storia.
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dieci minuti per cogliere un'occasione
“Che cosa cerco in un libro? […] Leggiamo per noia, per curiosità, per scappare dalla vita che facciamo, per guardarla in faccia, per sapere, per dimenticare, per addomesticare i mostri fra la testa e il cuore, per liberarli.” (p. 109)
Se non mi fosse stato consigliato da un’amica, forse questo libro non sarebbe mai rientrato tra le mie letture ed avrei perso l’opportunità di conoscere un’autrice di cui ora, probabilmente, leggerò qualcos'altro. Anche i libri vanno colti, come le occasioni. Chiara è stata lasciata dopo diciotto anni, di cui otto di matrimonio, da Suo Marito (lei lo chiama sempre così, Mio Marito, con le maiuscole) e si sente persa, demotivata, incapace di andare avanti; Chiara non trova ragioni per vivere, ma neanche motivi per non accettare il suggerimento della psicologa: dieci minuti per fare qualcosa di nuovo, qualcosa di mai fatto prima, ogni giorno, per trenta giorni. Mettere uno smalto fucsia, bazzicare per il mercatino dell’usato, ricamare il punto croce, preparare i pancake, ballare l’hip-hop, vestirsi da babbo Natale, seminare lattuga e peperoncino, cambiare il pannolino ad un neonato sono solo alcune delle cose che Chiara decide di fare nei suoi dieci minuti di gioco, o meglio, di terapia. Ma più che le azioni, di per sé semplici, talvolta insignificanti, sono le occasioni quelle che contano davvero: dare a se stessi e alla propria vita, anche solo per dieci minuti, la possibilità di sorprenderci, di uscire dagli schemi, dai limiti che ci siamo imposti per sentirci al sicuro. Chiara è cresciuta circondata dall'amore di persone che l’hanno sempre aiutata, anche troppo. Ma “quando fanno qualcosa per noi, gli altri ci consegnano o in realtà ci tolgono un'occasione?” (p. 114). Dieci minuti per invitare amici a casa per il giorno di Natale, ascoltare la propria madre, confidarsi con un’amica, occuparsi di un ragazzo dell’Eritrea giunto in Italia senza famiglia e desideroso di portare avanti gli studi. E così, giorno dopo giorno, Chiara si scopre una persona nuova, diversa dalla ragazzina con le trecce che suo marito vorrebbe sempre così, fragile ed insicura e scopre di avere la forza e le capacità per potercela fare anche da sola, perché “il meglio della vita sta in tutte quelle esperienze interessanti che ancora ci aspettano”. (p. 169)
“Per dieci minuti” è un libro breve e scorrevole, strutturato come un diario in cui azioni e riflessioni si alternano in una prosa scarna, incisiva, telegrafica. Consigliato a chi vuole una lettura semplice, ma non banale, leggera, ma non superficiale; a chi pensa che ogni giorno la vita possa offrirci infinite possibilità, a chi crede nel valore del tempo “che è qualcosa di pochissimo, se siamo felici. È qualcosa di tantissimo, se siamo disperati. Comunque sta lì. Con una lunga, estenuante, miracolosa serie di dieci minuti a disposizione”. (p. 184)
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la vita non è un sogno
Talvolta vale davvero la pena di finire un libro anche quando, arrivati oltre la metà, ci stiamo ancora chiedendo dove l'autore voglia andare a parare. L'ultimo capitolo di questo romanzo è infatti una vera boccata di ossigeno, una finestra che si spalanca sul mondo alla luce del giorno e il finale riscatta pagine e pagine pervase da una sensazione di cupa claustrofobia. Per essere un'opera del 1935 (poi rivista dallo stesso autore nel 1939) "Divorzio a Buda" credo abbia ancora molto da dire al lettore contemporaneo: superato lo scoglio iniziale di numerose digressioni un po' prolisse, alcune riflessioni e molti interrogativi colpiscono ancora oggi per l'acume e la profondità. L'incomunicabilità nella coppia, la gelosia, la frustrazione della routine di ogni giorno, il senso di inadeguatezza (di ansia, anzi, di panico) che ci assale in certi periodi della vita, l'estraneità nei confronti di tutto ciò che ci circonda in una ricerca di senso in quello che stiamo facendo: queste, ma non solo, le principali tematiche trattate. Cosa conta davvero nel bilancio di un'esistenza? Un ipotetico giovanile colpo di fulmine o una concreta vita di coppia fatta, talvolta, di incomprensioni e silenzi, ma anche di figli che devono andare a scuola e di un cane che scodinzola per casa? La risposta che dà Marai con questo romanzo si incarna nelle vicende nei suoi due personaggi principali: il giudice Kristof e il medico Imre, coetanei ed amici ai tempi del liceo. Entrambi sposati ed affermati professionisti, ma anche uomini profondamente in crisi, giunti a quello stallo esistenziale in cui ci si sente soli ed incompresi e ci si interroga su cosa sia davvero importante, se esista una formula per vivere senza soffrire. Dopo una lunga notte di confronto tra i due (a chi ha letto "Le braci" non sfuggiranno molte analogie) l'autore sembra dirci che siamo noi a dover scegliere tra la luce del giorno, ovvero tenere salde le redini del nostro destino aggrappandoci ai nostri valori, alla famiglia, agli affetti più cari e al lavoro, oppure restare nel buio della notte fatta di interrogativi sterili, paralizzanti e distruttivi. La vita è fatta di concretezza, non di sogni, di ciò che abbiamo e non di ciò che avremmo potuto avere, di ciò che è, e non di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Splendida l'immagine finale che ci apre alla vita e alla speranza: "Per strada si ode il fracasso del furgone del latte, poi gli uccelli attaccheranno con il loro cinguettio mattutino. Le case, nella luce piena del mattino, se ne stanno salde e imponenti al loro posto. La città, a quanto sembra, vivrà un'altra calda giornata d'autunno. La notte è finita; comincia il giorno." (p. 200)
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La scelta di Ruth
La storia è ambientata a Fingerbone, “afflitta da un paesaggio fuori misura e da un clima stravagante” e narra di due bimbe, Ruth e Lucille, le cui esistenze sono segnate dal lutto, dall'abbandono, dalla solitudine e dall'attesa, ma anche dallo strenuo tentativo di non sprofondare nella disperazione. Tutto a Fingerbone sembra infatti sprofondare, inabissarsi in un lago scuro che inghiotte ogni cosa: prima il treno su cui viaggia il nonno di Ruth e Lucille e poi l'auto della loro mamma che, dopo averle lasciate con un pacco di biscotti per ingannare l'attesa, si getta anche lei in quel lago per porre fine alla sua tormentata esistenza. Le bambine vengono cresciute dalla nonna, poi dalle cognate di quest’ultima ed infine dalla sorella della madre, la zia Sylvie, personaggio bizzarro e poco incline alle convenzioni sociali. Sylvie, vagabonda abituata a viaggiare sui treni merci, si presenta nella vita delle nipoti con l'intento di prendersene cura, ma in modo del tutto inusuale. Preferisce infatti consentire alle bimbe di trascorrere le giornate nei boschi anziché obbligarle a frequentare le lezioni, lascia che la casa, sporca e disordinata, sia invasa dai gatti, colleziona giornali e lattine ovunque fino a suscitare l'inevitabile sospetto della comunità e l'intervento delle autorità. Le ragazzine, inizialmente in simbiosi e propense ad assecondare la zia, con l’adolescenza prenderanno strade diverse: Lucille, desiderosa di “normalità”, amicizie e rispettabilità sceglierà di andarsene dalla casa in cui è cresciuta pur di sentirsi accettata dalla comunità; Ruth, più incline ad una condotta anticonformista, resterà invece legata alla zia e deciderà di condividere con lei un'idea di casa e di famiglia totalmente fuori dagli schemi, lontano dagli abitanti di Fingerbone.
“Le cure domestiche” è un romanzo molto coinvolgente: la voce narrante è quella di Ruth che racconta la sua storia con un linguaggio ricco di immagini e di colori, talvolta fiabesco, a tratti lirico, con molti elementi di carattere simbolico. Colpisce la presenza dominante e quasi ossessiva dell'acqua: solitamente emblema di vita e di rinascita, l'acqua assume in questo romanzo un ruolo ambiguo, malevolo ed ammaliante. Il lago dal basso e la pioggia dall'alto attraggono, incantano, sommergono, isolano dal modo circostante. L'acqua è forse, quindi, simbolo di un tentativo di ritorno ad una pace e ad un equilibrio impossibili nella vita reale, ma anche l'elemento che rappresenta l'esigenza di spiritualità, un rito di passaggio verso una vita nuova. Chi già conosce la Robinson, autrice calvinista nota per la trilogia Gilead, Casa e Lila, non avrà difficoltà a riconoscere, anche in questa sua opera d'esordio (del 1980), una certa tensione religiosa ed un velato misticismo.
“Quando i nostri sensi conoscono qualcosa più a fondo di quando quella cosa ci manca? Ed ecco un altro presagio: il mondo diverrà un tutto unico. Poiché desiderare una mano sui capelli è quasi come sentirla davvero. E così qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo. Benché sogniamo senza neppure saperlo, il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.” (p. 137)
Ho trovato questo romanzo davvero bello: ha suscitato in me diverse emozioni e molteplici interrogativi. Ho apprezzato molto le tematiche trattate: l'elaborazione del lutto, la ricerca di una vita autentica e libera da convenzioni sociali, l'importanza dei legami affettivi, il senso della famiglia e della comunità. Ammetto di avere avuto non poche perplessità sulla figura della zia Sylvie che, seppur amorevole e, a suo modo, affettuosa, mi è sembrata eccessivamente stravagante e troppo alternativa nel suo stile educativo. Ho riflettuto a lungo sul trauma che una madre inevitabilmente lascia in un figlio con un gesto estremo come il suicidio: potrà mai quel vuoto, quel senso di abbandono e solitudine essere colmato dall'affetto, dalle attenzioni, dalle “cure” di altre persone? La Robinson con questo libro non vuole, credo, darci delle risposte: sta a noi decidere se condividere la scelta di Lucille o quella di Ruth consapevoli del fatto che “una volta che qualcuno è solo, è impossibile credere che possa mai esser stato altrimenti. La solitudine è una scoperta assoluta” (p. 142).
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Il dramma del non detto
Quanto è importante il sesso in una coppia? Fino a che punto l'educazione ricevuta e il rapporto con i genitori possono condizionarci nella relazione con il partner? E' bene nascondere agli altri aspettative e paure per il timore di deluderli?
Nell'Inghilterra degli anni Sessanta, Florence ed Edward hanno poco più di vent'anni, si sono appena sposati e stanno per vivere la loro luna di miele in un albergo a Chesil Beach, sulle coste della Manica, tra lo sciabordio delle onde e il rumore dei ciottoli sulla spiaggia. Per i due sposi, giunti vergini al matrimonio, la prima notte sarà però solo una frustrante esperienza, un “pasticcio” dal quale tirarsi fuori il prima possibile. McEwan ci consente di entrare nella stanza dei due giovani, di spiarne ogni dettaglio, dalla cena non finita al letto con le coperte candide e troppo tese, si sofferma sui loro gesti, attimo dopo attimo, fino all'epilogo dell'amplesso, involontariamente tragicomico, a causa dell'inesperienza di lui e delle ritrosie di lei. Ciò che accade quella notte, di per sé banale, assume, agli occhi dei due sposini, un significato amplificato in un crescendo di umiliazioni, delusioni e rabbia. McEwan non si ferma ai fatti, ne scandaglia le ragioni andando a scavare nella psiche di entrambi e mostrando al lettore gli effetti devastanti di un'educazione repressiva, di una mentalità bigotta, ma soprattutto l'influenza di un rapporto con i genitori ambiguo e disfunzionale. Madri anaffettive e padri inadeguati non possono, però, giustificare il fallimento di un rapporto e l'indagine di McEwan prosegue nel mettere in luce aspettative e desideri mai svelati contrapposti a dialoghi “troppo educati, repressi, premurosi” che vanno degenerando in frasi dai termini offensivi e denigratori. L'epilogo della storia è malinconico, pieno di rimpianto e nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
La bravura di McEwan è nota e non ha bisogno dei miei commenti, avevo già avuto modo di apprezzarne le straordinarie capacità descrittive e la profonda analisi psicologica in Espiazione, romanzo che rientra tra i miei preferiti; anche Chesil Beach mi è piaciuto molto, sia per come è scritto, sia per il tema affrontato. Mi ha molto coinvolta il personaggio di Florence, proprio per la complessità della sua caratterizzazione psicologica, per certi aspetti patologica, ma per altri così anticonformista da essere terribilmente affascinante: Florence avrebbe solo voluto essere se stessa, realizzarsi coltivando il suo talento musicale, amare ed essere amata senza condizioni. “Le occorreva soltanto essere certa che lui l'amasse, sentirsi rassicurare sul fatto che non esisteva nessuna fretta, avendo un'intera vita davanti. Amore e pazienza (...) li avrebbero di certo aiutati a superare ogni cosa”. Amore e pazienza. Se lui avesse detto...se lei avesse fatto...ma non sempre accade ciò che vorremmo: “ecco come il corso di tutta una vita può dipendere ... dal non fare qualcosa” e condannarci ad una esistenza di rimpianti.
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La maschera dell'invidia
“Io non ho neanche una faccia, non ho lineamenti, tutto in me è confuso quando non sono truccata. Io ho solo delle maschere”. Chi è Eszter? Nell'Ungheria del secondo dopoguerra, protagonista e voce narrante della vicenda è un'attrice di teatro, bella, benestante ed affermata; in un lungo monologo Eszter confessa al suo amante, Lorinc, come ha vissuto i difficili anni della sua giovinezza, ma soprattutto cosa ha provato e cosa sente nei confronti di Angela, la moglie di Lorinc, la donna a cui ha sottratto l'amore coniugale. In un continuo altalenarsi tra presente e passato, la protagonista rievoca un'infanzia ed un'adolescenza vissute in povertà, tra un padre avvocato, buono, ma incapace di farsi valere e dedito più alla botanica che alle cause in tribunale e una madre pianista, dolce, ma troppo intenta a dare lezioni di musica ai figli dei vicini per accorgersi delle esigenze affettive della sua bambina a cui venivano lasciate tutte le incombenze domestiche. Eszter ricorda con amarezza le sofferenze patite, le scarpe troppo piccole e strette, la penuria di cibo ma, soprattutto, la mancanza di attenzioni: “ero l'unica alla quale mia madre non aveva tempo di dare lezioni”. Solitudine ed incomprensione sono gli ingredienti che sviluppano in Eszter rabbia, gelosia, invidia e odio nei confronti di chi, ai suoi occhi, ha tutto ciò che a lei manca: la dolce ed innocente Angela, la bella allieva di sua madre, la creatura che diverrà, fin dalla tenera età, il bersaglio su cui scaricare le sue frustrazioni. “Ho odiato Angela fin dal primo momento che l'ho vista, sempre, da sveglia e nel sonno, e l'odierò anche da morta, se c'è qualcosa dopo la morte”. L'invidia e la gelosia sono i sentimenti dominanti, sentimenti di intensità devastante, in grado di distruggere qualunque cosa: tutto ciò che appartiene ad Angela viene annientato dalla negatività di Eszter in un crescendo di dolori e sofferenze. Chi è dunque l'altra Eszter? E' veramente la donna “cattiva, scontrosa, irritabile ed invidiosa” che emerge dalle sue confessioni? E' lei stessa a metterci in guardia dal trarre sbrigative conclusioni: “quand'ero bambina, ho taciuto per tanti anni, e poi è stato troppo tardi per imparare a parlare: so soltanto mentire o tacere. La mia biografia è una menzogna”.
Il romanzo è abilmente costruito tra presente e passato in un continuo riemergere di ricordi: ogni elemento del presente, anche solo un banale dettaglio, riaccende nella protagonista un episodio che emotivamente ha segnato la sua vita. I personaggi, numerosi, si presentano al lettore così come appaiono nei pensieri di Eszter e talvolta può risultare difficile inquadrarli e capire le relazioni che tra essi intercorrono. L'impegno richiesto nella lettura viene però ampiamente compensato da una prosa impeccabile, molto coinvolgente e da una caratterizzazione della protagonista straordinaria; il finale, inoltre, è davvero sorprendente, molto emozionante e getta una nuova luce su tutta la vicenda. L'autrice è talmente abile nel farci entrare nella mente della protagonista da indurre il lettore ad un processo di immedesimazione, di empatia: la confessione di Eszter non può lasciarci indifferenti. “Se solo una volta qualcuno, chiunque, mi avesse accettata per quella che sono davvero, senza riserve, senza condizioni...”. Ho trovato questa frase particolarmente illuminante: se si fosse sentita veramente amata ed accettata, Eszter sarebbe stata diversa? Sarebbe stata un'altra Eszter? Questo romanzo mi ha fatto riflettere molto; dalla sofferenza può nascere solo altra sofferenza e più dei fatti oggettivi è determinante la percezione che ne abbiamo avuto: sono questi sentimenti a segnarci per sempre e, talvolta, ad impedirci di essere felici.
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