Opinione scritta da Mane

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Romanzi
 
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Mane Opinione inserita da Mane    09 Dicembre, 2018
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Padre e figlio

Raramente si può carpire abbastanza di un libro
aprendone una pagina a caso o sbirciando le prime per testarne il nostro gradimento.

All’opposto, “L’ultimo inverno”, offre subito qualcosa in questo senso:
già sulla soglia respiriamo l’atmosfera, difficile non sentire un appello sui primi passi,
specialmente se si coltiva una discreta passione per la scrittura evocativa.

Come accade in diversi fantasy (sebbene il romanzo in questione non possa essere annoverato tra questi), affacciarsi sul “varco magico” ci trascina repentinamente dentro un maestoso vortice che porta lontano.

“L’ultimo inverno”, come il titolo suggerisce, è una storia che comincia da un epilogo, ma come spesso accade in Letteratura, da “La fine è il mio inizio” a “Memorie di Adriano”, nelle modalità più diverse, diventa un coinvolgente espediente per dar vita alla narrazione.

Così Crosby George Washington, figlio di Howard l’ambulante, approssimandosi a lasciare il capezzale riscaldato dall’affetto dei suoi familiari, intraprende un viaggio cadenzato dal ticchettio dei suoi orologi (passione di una vita), sommerso da una policroma, sonora e odorosa marea di ricordi, progressivamente ricongiungendosi e riconciliandosi con la misteriosa figura paterna.

- Il piano superiore gli crollò addosso, con il telaio in pino mai completato e i tubi ancora incappucciati e scollegati dal lavabo e dal water che avrebbe voluto installare, seguiti da sfilze di vecchi vestiti, scatole di giochi da tavolo dimenticati, puzzle, giocattoli rotti, mucchi di foto di famiglia […] ma ormai era quasi un fantasma, senza più sostanza, e così tutto quel legno, il metallo, i fasci di cartoncini stampati a colori vivaci […] gli scivolarono via come arredi di scena, facsimili di oggetti autentici, ma scomparsi da tempo proprio come lui. […] Il tetto cedette di schianto […] ora davanti ai suoi occhi c’era il cielo, coperto di nuvole piatte che navigavano nel blu come una flottiglia di incudini. George senti le lacrime che montavano […] Le nuvole si fermarono, restarono immobili, poi gli piombarono sulla testa. Il blu del cielo seguì a ruota riversandosi dall’alto in quella cavità di cemento ingombra di cianfrusaglie. -

Oltre che la commovente storia alla riscoperta del rapporto tra un padre e un figlio, la cifra definitiva di questo romanzo è senz’altro la sua stupefacente potenza espressiva che straborda dalle pagine grazie ad una scrittura vibrante, sicché spesso, dimentichi di star leggendo, ci si proietta a diretti partecipi delle vicende.

Dentro alla trama si accarezza inoltre con poesia il delicato tema dell’epilessia, malattia che scuote il quieto corso del carretto dell’ambulante nei suoi viaggi, schivando la via più analitica per prediligere una descrizione che ha occhi di bambino e parole incantate.

Benchè poche pagine di vite minute e di piccole cose,
l’intensità fa di questo romanzo uno straordinario micro-universo, meritevole di essere visitato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mane Opinione inserita da Mane    29 Aprile, 2018
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Inghilterra vista Giappone

Bellissima copertina.

Ma…

Astenersi bramosi di thriller.

Pochissimi giri di vite alla trama, comunque avara di colpi di scena.

Londra Ottocentesca (senza troppo accorgercene), i servizi segreti, un imperscrutabile orologiaio orientale artefice di mirabolanti ideazioni meccaniche, una giovane scienziata ribelle sconfessata dalla famiglia, seppur buoni ingredienti, non bastano a fare di questo romanzo una storia avvincente.

Benché scorrevole e servito di uno stile accurato e gradevole alla lettura, per lunghi tratti il testo è caratterizzato da un rincorrersi di dialoghi che non dicono abbastanza dei personaggi né di ciò che li circonda; ne risulta un dipinto piuttosto povero di particolari accattivanti.
Gli sparuti personaggi hanno lo stesso spessore dei fogli di carta che scorrono con la lettura e peraltro paiono precipitati sulle pagine bianche senza troppa cognizione di causa, orfani di un intreccio che li coniughi tra di loro scongiurando gli espedienti più grossolani.

E’ un vero peccato, perché dentro questo libro stanno alcune intuizioni brillanti che sarebbero potute fiorire in modo interessante, ma sono rimaste boccioli: fra queste il dono sinestesico di Thaniel, il protagonista, capace di tradurre mentalmente in colore le tonalità sonore percepite dall’orecchio.

Paradossalmente per una storia che parrebbe avere come punto di svolta l’entrata in scena del suddetto misterioso orologiaio, la prima parte è abbastanza intrigante mentre tutto precipita clamorosamente proprio nella seconda parte, dove si dovrebbero trarre le fila dei presupposti generati nell’incipit.

E invece niente, il tendone del circo si sgonfia piano e mestamente,
altro che “un orologio gli sconvolgerà la vita”…

Ad ogni modo, dategli una possibilità, magari incappate in quel qualcosa che io non ho trovato.

- “Tra tutte le cose che potrebbero accadere, finisce per accaderne una sola, ma […] a volte ciò che è improbabile è molto più bello o interessante del probabile.” -

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Consigliato a chi ha letto...
Il Miniaturista di Jesse Burton (sebbene quest'ultimo, a mio parere, sia di livello ben superiore)
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Mane Opinione inserita da Mane    22 Aprile, 2018
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Fior di birbante

Molto autocelebrativo, Educazione di una canaglia,
da brava canaglia tradisce presto le aspettative legittimamente nutribili nei confronti di un libro che prometterebbe di portare il lettore in visita nel microcosmo dei penitenziari statunitensi.

Attraverso il racconto in prima persona dell’autore, piuttosto che immergerci nelle estreme atmosfere della condizione di reclusione, sembriamo assistere indifesi alla roboante narrazione delle gesta del prode “fior di birbante” tra vari istituti detentivi fin dalla giovane età.

“Fior di birbante” sguscia tra una grata e l’altra con fare smargiasso, uscendo sempre incredibilmente appena ammaccato dalle percosse bibliche subite, fonte inestinguibile di battute sagaci anche quando il fiato dovrebbe scarseggiare, gagliardo nei faccia a faccia, intrepido e orgoglioso, ovunque rispettato dai galeotti più terribili.

Lungi dal sindacare sul realismo, quantunque sia stato fatto appello alla licenza romanzesca, la narrazione avrebbe forse giovato di una prospettiva meno incentrata sui fatti scarni e stereotipati e di una maggior caratterizzazione dei personaggi e degli spazi.

Se però gradite sintonizzarvi sulle onde di una personalissima epica ambientata in uno scenario insolito ai classici, probabilmente coglierete con favore la lettura di queste pagine.

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Mane Opinione inserita da Mane    26 Settembre, 2017
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Eppure non sono pazzo...

Un uomo misterioso munito di lucerna scandaglia imperturbabile l’abisso;
intrepido, visita i recessi dell’animo umano in cui, più o meno sepolte, giacciono le ancestrali radici della paura.

In questa raccolta di racconti, sfavillante nella pregevole veste dell’edizione BUR Deluxe ornata delle illustrazioni di Harry Clarke (atmosfere oscure, drappi gotici e sguardi inquietanti, perfettamente in tema), ritroviamo un ampio, curatissimo campionario della genesi del terrore secondo Edgar Allan Poe. Guidati da una narrazione immersiva, spesso rigorosamente in prima persona, in cui ogni parola è calibrata allo scopo di generare tensione, saggiamo l’angoscia per l’attesa nel buio, viviamo il panico dell’impotenza davanti alla furia degli Elementi, scopriamo l’orrore dell’efferatezza, misuriamo i passi dentro l’oblio, sperimentiamo lo sgomento per l’incomprensibile e la follia.

- E ogni sera, verso mezzanotte, giravo il paletto della sua porta e aprivo l’uscio… ah quanto piano! E poi ottenuta un’apertura sufficiente perché la mia testa potesse passarvi, mettevo dentro una lanterna cieca, tutta chiusa, ben chiusa, in modo che non ne uscisse nessuna luce, e poi spingevo innanzi il capo. […] Lo muovevo lentamente, molto, molto lentamente […] –

Proprio la follia, tema ricorrente in ogni capitolo, costituisce la chiave di volta di buona parte del lavoro dello scrittore americano, presentata come variabile imprevedibile della condotta umana, scarsamente intellegibile e per questo fonte di dubbio, superstizione e timore.

Discorso a parte meritano i celeberrimi “I delitti della Rue Morgue” e “Il mistero di Marie Roget”, rivelantisi più che racconti del terrore, come misteriosi casi apparentemente indistricabili, risolti soltanto dal provvidenziale intervento delle straordinarie doti analitiche del conturbante Cavalier Auguste Dupin.
Dupin non è un autentico investigatore, ma la sua morbosa inclinazione per la “lettura del pensiero” e l’interpretazione dei fatti ne fanno uno strumento nelle mani dell’autore per sviscerare punto per punto con soddisfazione i complessi casi dei crimini oggetto dei due racconti. Purtroppo per il lettore, il personaggio di Edgar Allan Poe non gode della consistenza e del fascino di uno Sherlock Holmes o di un Hercule Poirot, ragione per cui, contro ogni pronostico legato alla fama, queste pagine deludono, anche e soprattutto perché troppo dedite alla pedanteria del dettaglio e poco all’azione e allo sviluppo di una trama.

Lontano dall’essere raffrontabile agli scritti odierni che affrontano l’horror e il thriller, quello di Poe è uno stile attiguo al decadentismo piuttosto che votato al “brivido”, dotato di una prosa ridondante di vocativi, a tratti lirica, in generale poco incline al cruento, più affine alla filosofia che alle “notti insonni”.
Quindi è bene sottolineare che questa lettura potrebbe facilmente lasciar frustri gli appetiti dei lettori appassionati del genere, soprattutto nella sua esegesi più moderna.

In conclusione rimane comunque un volume imperdibile, pietra miliare per i cultori dei Grandi.

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Mane Opinione inserita da Mane    03 Settembre, 2017
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Glaciale

- Attenzione il testo potrebbe contenere lievi anticipazioni sulla trama -

Ivan Il’ic incarna perfettamente il bersaglio prediletto della letteratura russa, il borghese devoto al denaro e alle apparenze, attore di una vita frivola, estraneo a qualunque vocazione morale.
Eppure il protagonista di questa storia non è il gaudente giovane magistrato, ma l’altra che sta nel titolo: la morte. Annunciata fin dall’incipit, la morte si conquista man mano la scena, prendendo il posto dell’insulsa recita dell’ascesa sociale di Ivan narrata con distacco e voluta indolenza, a rendere il lettore ulteriormente partecipe del disprezzo dello scrittore per il modus vivendi del personaggio.
La morte giunge nei panni di un morbo incurabile, come una sentenza, a pegno di una vita sprecata per cui Ivan stesso nutre dei dubbi.

- Ma come mai? Perché? Non era possibile che la vita fosse così assurda, ripugnante. […] “Forse non ho vissuto come dovevo” gli venne in mente all’improvviso “Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?” -

La quarta di copertina promette un capolavoro nella trattazione del tema del trapasso (certo non nuovo alla letteratura), in realtà le poche algide pagine di questo romanzo a mio avviso distano troppe miglia dalle vette raggiunte invece ne “Tristano Muore” di Antonio Tabucchi e in “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mane Opinione inserita da Mane    26 Agosto, 2017
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"Gradisce una sugus?"

“L’ombra del vento”, degno capitolo d’apertura della fortunata tetralogia del “Cimitero dei libri dimenticati”, è limpida testimonianza di quanto Zafon abbia ampiamente attinto ai più celebri esempi di feuilleton sposandone canoni e metrica pur rinfrescandone l’interpretazione.

La tragedia della Spagna dilaniata da conflitti intestini a ridosso delle Guerre Mondiali, si respira nei colori dello sfondo, senza mai rubare la scena alla “corsa” del giovane Daniel Sempere, figlio di un umile libraio dai sogni smarriti e protagonista di un destino emblematicamente segnato da un libro, riscattato fortuitamente dalla polvere del tempo.

Dalle pagine emergono ben tratteggiate le figure di personaggi enigmatici quanto il loro bagaglio di esperienze: dall’irresistibile ed eclettico clochard Férmin Romero da Torres, al venefico ispettore Javier Fumero, fino allo sfuggente romanziere Julian Carax. Sfortunatamente, meno efficaci e più semplificate risultano invece le presenze femminili, all’apparenza troppo spesso agenti e cogitanti in sola funzione delle controparti maschili. Gli ambienti e le atmosfere di una Barcellona misteriosa e da scoprire, sapientemente descritti senza straripare mai nel barocco, alimentano il fascino delle vicende sospese tra sogno, presente e passato, inganni e realtà.
La scrittura vivace e fluente, mai sperduta in lunghe riflessioni, è al totale servizio dell’azione, in un romanzo votato al dinamismo, dove il motore centrale delle vicende è la costante, indefessa ricerca di verità e giustizia. Occhi avidi di barbagli di luce, in tal senso, sono quelli dei nostri beniamini, mentre gli antagonisti sono alacri artefici dell’oscurità nutrita di occultamenti, crimini e soprusi.

Sorprendentemente, pecca lo sviluppo del protagonista Daniel Sempere, immutabile nel passaggio dall’infanzia alla maturità, poco credibile giacché sempre dotato di somma sagacia nelle conversazioni, e custode del dono sempreverde di una inossidabile risolutezza.

Ad ogni modo il romanzo con le sue volute di trama guadagna fin da subito una robusta presa sul lettore, corroborata sul finale da una munifica salve di colpi di scena che turbinano nello svolgersi della matassa.

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Racconti
 
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Mane Opinione inserita da Mane    26 Luglio, 2017
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Racconti in apnea

Distante parecchie miglia marine dagli altri Pub cartacei a gestione Benniana, “Il bar sotto il mare” si sviluppa, come preannunciato dal nome, immerso dentro alle acque scure del molo di una cittadina nebulosa. Il locale dall’insolita ubicazione, è gremito di una altrettanto stravagante compagnia, presentata nel prologo da un’immagine di gruppo munita di didascalia. Ogni personaggio, ligio alla regola che concede l’accesso al bar, deve raccontare una storia.
Così nasce “Il bar sotto il mare”: una piccola raccolta di racconti che fanno del surreale il loro comune denominatore, ciascuno attribuito alla voce narrante di uno degli avventori del bar.

Tra storie d’amore (per quanto rocambolesche), suspense, avventure e dissertazioni, le pagine scorrono lasciando rapidamente sfumare sullo sfondo le forme del bar e i visi dei narratori che appaiono dunque un pretesto letterario per racchiudere l’assortimento dei disparati capitoli del libro.

Lo stile di scrittura è inconfondibile, colmo dell’irriverenza e della follia che sono la cifra delle opere di Benni.

Epiche le gesta del cuoco Ouralphe, agghiacciante “Californian Crawl” nella sua spietata rappresentazione dell’alienazione umana, simpatico e tenero al contempo il siparietto de “La traversata dei vecchietti”, ubriacante “il racconto della sirena”, divertentissimo “Achille ed Ettore” come “Il pornosabato dello Splendor”.

Quel che si coglie in più punti è un arcigno livore verso le convenzioni e gli usi di una società sempre indigesta. Purtroppo questo disappunto, contrariamente ad altri scritti dell’autore bolognese, capaci di cogliere particolari mai scontati della realtà deformandoli in caricature esilaranti, prorompe spesso goffo e sgraziato, fra le righe irrefrenabile: ha il difetto della sgarbatezza di un messaggio banale che ha fretta di traversare il racconto per palesarsi facile squillando alle orecchie dell’uditorio.

- “Passiamo metà della vita a deridere ciò in cui altri credono, e l’altra metà a credere in ciò che altri deridono” –

Complessivamente nulla di speciale,
mi tengo stretto il “Bar Sport” con le sue macchiette e non lo cambio,
maledetto inguaribile abitudinario che non sono altro.

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Classici
 
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Mane Opinione inserita da Mane    15 Luglio, 2017
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Penna magica

- “Entrò subito in un'immensità di melma untuosa e di calcina bagnata, seminata di lampioni, e avviluppata, oppressa, penetrata, strangolata, soffocata dalla tenebra di un’umida notte londinese, che è un misto di fuliggine e di gocce d’acqua.” -

“L’agente segreto” è un perfetto noir (privo di eroici investigatori ma con un protagonista dotato di grande potenziale autodistruttivo), ambientato dentro una uggiosa Londra di fine ‘800, pullulante di intrighi e cospiratori.
E’ un noir carico di introspezione, dove il dramma degli eventi nasce come un fiumiciattolo a carattere torrentizio: piccolo e quieto, insospettabile si ingrossa, divenendo capace nel suo scorrere di travolgere senza possibilità di scampo i personaggi sulla scena. In tal senso risulta emblematico il finale dove “il percorso impetuoso del torrente” si palesa nella trasposizione degli stati d’animo fra i protagonisti delle vicende: la calma ignara cede il posto all’improvvisa disperazione, che a sua volta, rovesciandosi verso altri, si lascia alle spalle una stoica imperturbabilità, stavolta figlia dello sconcerto e dell’impotenza.

La pregiata penna di J. Conrad è in grado di analizzare con inconsueto acume le riflessioni e le macchinazioni intime dell’animo umano, facendole riverberare con strabiliante efficacia e naturalezza sui gesti e le fattezze dei personaggi, descritti con eleganza fra le pagine.

- “Vecchia ormai come numero di anni, aveva quel temperamento eccezionale che sembra sfidare il tempo con sprezzante indifferenza, come se si trattasse di una convenzione piuttosto volgare a cui si piega solo la massa dell’umanità inferiore. Di molte altre convenzioni più facili da trascurare – ahimè – non si curava, sempre per via del suo temperamento, o perché l’annoiavano o perché le erano d’impiccio nei suoi disprezzi e nelle sue simpatie. L’ammirazione era un sentimento che non conosceva (con grande, silenzioso rammarico del suo nobilissimo marito): prima di tutto, perché quasi sempre contaminata dalla mediocrità, e poi perché in un certo senso era come un’ammissione di inferiorità. Ed entrambe le cose erano per lei francamente inconcepibili.” -

Se la narrazione fosse scevra di questi momenti, capaci di cristallizzare l’azione per tempi prolungati, senz’altro il ritmo sarebbe più sostenuto, ma inevitabilmente perderebbe una buona parte del fascino che questo romanzo porta con sé.

- “Si sedette dietro il banco, e i pensieri si affollarono pressanti attorno a lui, come una muta di segugi neri affamati” -

Sensazionale è l’utilizzo delle metafore di Conrad, corollario di una scrittura in grado di evocare atmosfere come se fosse un libro di formule magiche.

- “Tutto era così silenzioso, dentro e fuori, che il ticchettio solitario dell’orologio sul pianerottolo si insinuò furtivo nella stanza, quasi a cercare compagnia.” -

Pingue di digressioni, costellato di riferimenti, allusioni e citazioni più o meno implicite (spesso di ardua deduzione in assenza delle preziose note reperibili a piè di pagina in alcune edizioni), “L’agente segreto” si rivela un testo scritto con minuziosa cura dei dettagli, ragion per cui si presta ad offrire al lettore attento nessi e livelli altrimenti insospettabili.
Inoltre, la forza ed il realismo delle interazioni fra i vari personaggi presenti nella storia danno adito ad una ricchezza di situazioni, difficilmente reperibile in altri romanzi dello stesso genere, eludendo acrobaticamente la linearità che in certi casi rischia di affliggere gli scritti di autori troppo ligi ai presupposti del tema centrale.

Questo è un romanzo splendido, capace di far innamorare il lettore e di suscitare un punta di invidia in tutti coloro che nutrano una qualsiasi velleità di cimentarsi nella scrittura.

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Fantascienza
 
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Mane Opinione inserita da Mane    01 Luglio, 2017
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L'inquisitore, gli psitroni e i viaggi interspazia

Primo libro di una longeva saga che dal 1994 giunge fino a questo 2017, Nicolas Eymerich Inquisitore, come già anticipato dal titolo, ha per protagonista un personaggio liberamente ispirato alla figura storica dell’omonimo inquisitore spagnolo del XIV secolo. Si tratta di uno di quegli insoliti casi letterari in cui il protagonista è un autentico "bastardo", dotato di un corredo d’inappellabili attributi negativi, formidabile catalizzatore di subitanee antipatie da parte del lettore.

Quello dell’antica Aragona, teatro di un’oscura indagine capitanata dal protagonista è in realtà solo uno dei 3 piani dimensionali su cui si sviluppa il romanzo, che contro ogni previsione si mantiene comunque decisamente una lettura agile, mai intricata.
L’atmosfera di una università americana contemporanea abitata da un ambizioso giovane Frullifer colmo di idee rivoluzionarie per la fisica ortodossa, ed il mirabolante viaggio, in un futuro fantascientifico, di una astronave guidata da un misterioso abate e un comandante affetto da dispotismo cronico, completano il quadro.

Eymerich merita la palma di miglior interprete, per la splendida naturalezza con cui si muove nei panni del più tremendo e disumano degli inquisitori; innegabile in tal senso che in qualche modo ci si possa affezionare al maligno così ben costruito dall’autore.
Frullifer è invece una figura assimilabile al puerile anti-eroe di alcuni celebri fumetti americani, nella sua bidimensionalità fatta di difficoltà di socializzazione e doti straordinarie poco collaudate.

Benché dotata di una buona bordata di spannung, la trama non impressiona particolarmente per contenuti, mantenendosi piuttosto semplice, eppure, grazie ad una scrittura molto ben congegnata, dove brillano le descrizioni dei mutamenti espressivi sui volti, dei gesti e delle modulazioni vocali, la lettura risulta celere ed al contempo piacevole.

Mi riservo una proroga per il giudizio definitivo, dopo almeno un altro capitolo della lunga serie marchiata Eymerich.

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Romanzi storici
 
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Mane Opinione inserita da Mane    25 Giugno, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

Il tormento del miniaturista

In un castello di specchi dove la realtà è riflessa da più prospettive, Pamuk ci invita a partecipare, fin da principio, ad un fine gioco investigativo che diversamente dai gialli consueti affida le redini al lettore presentandogli i fatti attraverso l’alternarsi delle figure in scena come narratori in prima persona.
Ogni capitolo, fonte di indizi ben celati, assume quindi la visuale propria del personaggio narrante, tra questi trova posto la viva voce dell’assassino stesso che però (come è suo naturale interesse) dissimula abilmente il suo essere, prestando attenzione a non rivelare la sua identità.

- “Perciò credo di non poter dire tutto. In realtà mi rendo conto che, anche quando sto per conto mio, mi seguite. Non posso tranquillamente rimuginare sui dettagli della mia vita o sulle cose che mi fanno rabbia e mi farebbero scoprire. Quando facevo quei tre esempi, Alif, Ba e Gim, con una parte del mio cervello controllavo il vostro sguardo.” -

Questa pregevole, elaborata architettura, nota decisamente lieta dell’opera, imprime una chiara impronta al romanzo, caratterizzandolo fortemente.

Istanbul, com’era attorno al 1500, fa da scenario alle vicende senza troppi dettagli: per intenderci non siamo davanti al genere dove le immagini, i profumi e le atmosfere della città rivivono nella mente del lettore (superlativo esempio fra questi “Notre Dame de Paris”).

Bensì, prepotente protagonista sul palcoscenico sino all’epilogo, risulta l’elitario mondo dei miniaturisti e delle loro opere, esplorato nelle sue origini, nei suoi significati, nella sua pratica, con una minuziosità maniacale, degna della professione in oggetto.
Purtroppo per quanto encomiabile nella meticolosità dei riferimenti alle fonti autentiche, la ridondanza del tema si fa sentire lungo le 400 pagine, sfiorando a tratti l’estenuante. Non è superfluo sottolineare che dentro a questa profusa trattazione risiedano comunque parecchie chiavi necessarie allo scioglimento finale della matassa, ragion per cui chi volesse affrontare l’indagine come un buon Sherlock Holmes si armi della pazienza propizia.

Per il resto non si tratta di una scrittura difficile, i personaggi come ben si può intuire dallo stile della narrazione sono caratterizzati in maniera indiretta e di rado sul piano fisico, l’intreccio è pressoché sovrapponibile alla fabula.

Al di là della struttura compositiva, ciò che rende “Il mio nome è Rosso” un romanzo notevole, senz’altro meritevole d’esser letto, è la metafora racchiusa nel dissidio stilistico-religioso che consuma gli animi tormentati dei miniaturisti e che ne alimenta le dispute intestine, parabola dell’acceso confronto culturale tra Oriente ed Occidente, di cui geograficamente emblematica, non poteva che esser culla Istanbul.

“Disegnare in un altro modo vuol dire vedere in un altro modo?”

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Wu Ming, in particolar modo a chi ha apprezzato Q
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.0
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Mane Opinione inserita da Mane    11 Giugno, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

“Marsiglia appartiene a chi ci vive”

Marcio insanabile ovunque (in cui dimenarsi);
Nostalgici ricordi (carcerieri del presente);
Fiumi di alcol (con cui annebbiare i sensi, annegare il rancore);
Dedali di strade (in cui perdersi);
Casino totale (in cui infrangersi);
Profumi, silhouette, occhi femminili (in cui ritrovarsi e provare a ricomporre i pezzi).

Jean-Claude Izzo dipinge Marsiglia in noir, cogliendo egregiamente i contrasti dell’integrazione multietnica dentro i sobborghi metropolitani delle “cités”, inferno degli strati sociali più disagiati, empireo della malavita, romantico luogo di visioni e sogni per i poeti bohémien.
I personaggi sono intensamente organici a questo contesto, raccontati soprattutto attraverso le parole di Fabio Montale, il vero protagonista, con la sua tormentata prospettiva sulla realtà, poliziotto con un passato intrecciato con quello delle vite difficili delle cités.

- “Eravamo diventati uomini. Disillusi e cinici. Un po’ amari anche. Non avevamo niente. Neanche il diploma. Nessun futuro. Solo la vita. Ma la vita senza futuro era meno di niente.” -

Punti come proiettili, disseminati a dettare un ritmo sincopato alla narrazione, vibrante di dinamismo, poco incline alla digressione, seppur carica di riverberi di memorie che si insinuano nell’azione come brevi strappi di flusso di coscienza. D’altro canto i capitoli sono ben cesellati (ciascuno fornito di un titolo) e, accompagnati da un cosciente utilizzo di pause grafiche a delineare aperture e chiusure di scene differenti, garantiscono una lettura scorrevole ed ordinata, ben predisposta ad eventuali interruzioni e riprese.

Mai volgare, mai cruento, mai noioso né banale, “Casino totale” è un libro che si fa apprezzare per la vividezza delle atmosfere ancor prima che per la suspense suscitata dallo svolgersi della trama.
Non è difficile carpire fra le righe una dichiarazione d’amore incondizionato dell’autore per la sua città, abbracciata con viva emozione in tutta la sua essenza, scevra da fittizie sublimazioni.

“Marsiglia appartiene a chi ci vive”...
…eppure volendo, anche chi legge e ne vagheggia fra queste pagine, se ne può portar via un pezzetto e, come un Salgari con le sue Indie, farla un po’ propria senza mai averne calcato le sponde.

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Romanzi
 
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Mane Opinione inserita da Mane    02 Giugno, 2017
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Benvenuti nella libreria Sempere...

Inizio la popolare saga con “Il prigioniero del cielo”, attenendomi, curioso e affascinato, alla prescrizione fatta sulle prime pagine introduttive di questa bella edizione (Oscar Bestseller Mondadori, copertina nebulosa e retro blu elettrico), secondo la quale, al labirinto letterario costituito dai 4 testi della serie (L’ombra del vento, Il gioco dell’angelo, Il prigioniero del cielo, Il labirinto degli spiriti), si può accedere come meglio si crede o lasciandosi condurre dal caso, liberi da un ordine preciso univocamente praticabile.

In una Barcellona spettrale, sovrastata dall’ombra della dittatura franchista, priva dei radiosi attributi della città catalana visitabile nell’immaginario comune attuale, è attorno alla Libreria dei Sempere che si snodano le misteriose vicende che magicamente annodano un passato apparentemente sepolto con un presente colmo di quesiti insoluti.

Personaggi alla costante ricerca di sé stessi ma votati all’autodeterminazione popolano le scene; se ne fa la conoscenza attraverso le pagine, accolti e guidati dalla confortevole scrittura di Zafon che ammanta tutto di quell’aura suggestiva di nostalgia ed incanto propria delle storie ben narrate.

- “Quel mese di gennaio arrivò vestito di cieli cristallini e di una luce gelida che spolverava neve sui tetti della città. Il sole brillava ogni giorno e strappava schegge di luce e ombra alle facciate di una Barcellona trasparente in cui gli autobus a due piani circolavano con il tetto vuoto e i tram, passando, lasciavano un alone di vapore sui binari.” -

Il mio prossimo passo dentro al “labirinto” sarà rappresentato con ogni probabilità da “L’ombra del vento”, anche se mi riservo di compierlo senza troppa fretta.

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Mane Opinione inserita da Mane    28 Mag, 2017
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Animula vagula, blandula...

“Memorie di Adriano” è una lunga lettera indirizzata al giovane Marco Aurelio, dove in realtà la forma epistolare rappresenta soltanto un espediente per consentire all’ormai anziano imperatore Adriano, impugnando la prima persona, di dar vita ad una narrazione del proprio trascorso, costellata di una serie di riflessioni che per numero e profondità difficilmente troverebbero spazio in una missiva concepita nel senso più pragmatico del termine.

Quella della Yourcenar è un opera a carattere storico, affrontata con una prospettiva interna, che seppur ligia al criterio della veridicità aggiunge alla rievocazione dei fatti un intenso coinvolgimento emotivo ascrivibile alla viva partecipazione d’animo dell’augusto narratore.

Per esser franchi, il testo non si legge con la voracità con cui si approccerebbe un thriller o un romanzo d’avventura, piuttosto richiede un esercizio quasi “muscolare” della concentrazione, attraverso il quale diventa possibile cogliere quelle sfuggenti rivelazioni che brillano di intensità una volta sottratte al flusso indefinito di una lettura distratta.

Ad ogni modo, una volta colta la cifra del testo, una volta raggiunta una certa sintonia con il nostro illustre interlocutore, la fatica quasi svanisce, la lettura si fa più scorrevole, lasciando intatto il piacere di fruire della saggezza delle parole di Adriano.

Attraverso le pagine il vecchio imperatore si apre senza ritrosie, passando in rassegna svariati frammenti della propria vita pubblica e privata, traendone man mano considerazioni e bilanci.
Scrutando la propria esistenza con occhio analitico, Adriano delinea di sé stesso, una identità ricca di sfaccettature, in funzione soprattutto dei rapporti con gli altri, richiamando a più riprese un concetto non troppo distante dalla molteplicità pirandelliana emblematizzata ne “Uno, nessuno, centomila”.

- “Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi, nessuno dei quali molto a lungo; ma presto quello esautorato riconquistava il potere: l’ufficiale meticoloso, fanatico della disciplina […] il malinconico sognatore di dei, l’amante pronto a tutto per un istante d’ebrezza; il giovane luogotenente altero che si ritira sotto la tenda […] e non fa mistero ai suoi amici del suo disprezzo per come va il mondo […] Ma non dimentichiamo neppure il cortigiano ignobile […] il parlatore frivolo […] E ricordiamo pure quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, che è me stesso tanto quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null’altro che un corpo, disteso su un letto da campo, distratto da un profumo […] vagamente attento al ronzio incessante di un’ape.
[…] Conoscevo i nomi dei miei attori; regolavo loro entrate e uscite plausibili; tagliavo le risposte inutili; evitavo con cura gli effetti volgari.” -

- “ La versatilità m’era necessaria: ero multiforme per calcolo, incostante per gioco.” -

Ciò che sorprende ed affascina è come quest’animo, per quanto complesso ed elevato, non sia mai dimentico della materialità del proprio corpo, “compagno fedele, amico sicuro”, oggetto invero di floride riflessioni ancor più cariche di significato a ridosso del momento dell’addio alla dimensione terrena.
- "Tutta la vita, ero vissuto d’amore e d’accordo col mio corpo; avevo implicitamente contato sulla sua docilità, sulla sua forza. Quest’intima alleanza cominciava ad allentarsi; […] il compagno intelligente d’un tempo, ormai non era più che uno schiavo riluttante alla fatica.” -

Ma quello del canuto e giudizioso imperatore non è puramente un accomiatarsi malinconico e sconsolato; c’è una luce che rasserena l’avvenire prospettato ed è una profonda e commovente fiducia negli uomini a venire, che si spinge fino a lambire perfino quei barbari temuti e distanti, per cui Adriano aveva sempre comunque nutrito un senso di rispetto e umana fratellanza.

Marguerite Yourcenar offre dunque, più che una semplice lettura, un’esperienza immersiva, da cui ci si desta, alzando gli occhi dalle pagine, come da un attimo di “sovrappensiero”.

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Mane Opinione inserita da Mane    21 Mag, 2017
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Storia di Deadwood Dick

Con “Paradise Sky” faccio la lieta conoscenza del prolifico scrittore statunitense Joe Lansdale, che scopro inoltre essere cultore di arti marziali nonché ideatore di un proprio stile autentico tra queste discipline.

Nat Love è il protagonista di questa coinvolgente storia, che egli stesso si offre di narrarci a modo suo, con il suo vocabolario, la sua prospettiva, le sue riflessioni, essendo in fin dei conti la sua, personalissima, storia.

Paradise Sky è il cielo cangiante e sovraumano che sovrasta il capo del nostro eroe errante, perseguitato senza tregua, ancora lontano dalla speranza di smarcarsi dal retaggio dello “schiavo negro”, vivido negli occhi dei sudisti (e non solo) a breve termine dall’epilogo della Guerra di Secessione americana.

- “La notte scese su di noi. In cima alla collina tutto diventò blu, poi il blu si allargò e divenne nero. Caddero le ombre, e si insinuarono tra gli alberi come teli strappati. Un pezzo di luna salì in cielo. La sua luce si riversò sulla cima della collina, facendo brillare l’erba come punte di spade e splendere il rivolo d’acqua del torrente.” -

E’ uno Western in piena regola dunque quello di Lansdale, che sceglie un registro perfetto e di grande presa sul lettore, affidando la narrazione al colorito linguaggio di Nat Love, estremamente adatto a rendere palpabile l’atmosfera, di tanto in tanto surriscaldata dal fuoco delle pistole.

Non sarà affatto semplice per Nat, sfuggire alle sventure che gli gravitano addosso…
...Eppure, con al fianco qualche alleato di fortuna,
in sella ad una furia di nome Satana e
con dentro alla fondina una LeMat truccata con un colpo da fucile…

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Romanzi
 
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Mane Opinione inserita da Mane    11 Mag, 2017
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La piccola impertinente

Poca Parigi, tanti scambi di battute in questo piccolo chiassosissimo romanzo, dove, in un turbinio che non concede ambientamento, si alternano brevi istanti descrittivi di una scrittura briosa ed elaborata carica di ironia (implacabile col perbenismo) e prolungate sequenze dialogiche dove spadroneggia una lingua licenziosa e colorita spesso veicolata dalla voce della (piccola?) Zazie.

Quello di Zazie è un personaggio particolare: in teoria una bambina, nei fatti una signorina smaliziata, capricciosa ed impertinente, protagonista con la sua curiosa ma disincantata vista “dal basso”, costante irriverente del libro. Sufficientemente antipatica anche.

Ad esser franco queste pagine non mi hanno rapito, nonostante i non infrequenti stralci che danno saggio delle ottime doti di scrittore sicuramente tributabili all’autore.

“Una folla spessa e violacea colava un po’ dappertutto. Una venditrice ambulante di palloncini, una musichetta da luna park aggiungevano il loro carattere discreto alla virulenza dell’esposizione. Stupita, Zazie, ci mise un po’ di tempo prima di accorgersi che, non lontano da lei, un barocco lavoro di ferro battuto piantato sul marciapiede era coronato dalla scritta METRO’. Subito dimentica dello spettacolo della via Zazie si avvicinò al fiato dell’apertura, sentendosi mancare il proprio per l’emozione.”

Forse cercavo più Parigi e meno impertinenza, più riflessività e meno chiasso, più linearità e meno caos, più trama e meno ciarle...
Rimane comunque il mio modestissimo parere personale, da non conoscitore di Queneau.

“- Allora ti sei divertita?
- Così.
- L’hai visto il metrò?
- No.
- E allora che cosa hai fatto?
- Sono invecchiata.”

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Mane Opinione inserita da Mane    30 Aprile, 2017
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Corale Americana

Il collettivo bolognese Wu Ming, con il suo bagaglio d’animo indomito e di passione per la Storia, sbarca sulle terre del Nuovo Mondo, per la precisione in Nord America, attorno alla seconda metà del Settecento, ma non indugia sulle coste, si spinge oltre il confine delle Thirteen Colonies, verso l’interno, per respirarne le essenze, udirne gli echi; prossima promessa dell’Ovest per i coloni europei ancora sudditi della Corona d’Inghilterra, terre dei padri, di radici e di leggende per i nativi Indiani.

In questo limbo di terra, culla dell’incontro fra molteplici culture, i personaggi sono piccoli interpreti, sovrastati dalla maestosità degli scenari e dalla grandezza degli avvenimenti gagliardamente evocati dagli autori. Così, più che un’avvincente dipanarsi di trama, Manituana rappresenta un’immersione d’incredibile impatto nel Passato, dove le penne dei Wu Ming dimostrano ancora una volta la superba capacità di forgiare visioni dall’armonica comunione di mille prospettive.

La coralità di questo romanzo storico, infatti non si risolve nel semplice sfoggio di variazioni di registro linguistico (che ad ogni modo arricchiscono in maniera decisiva l’opera) ma piuttosto, si magnifica nell’ampio spettro di filtri attraverso cui viene osservato lo svolgersi dei fatti. Ognuno di questi filtri è cesellato volta per volta su misura perfettamente calzante al carattere che coglie le redini della narrazione in quel determinato istante.

A ben vedere, pertanto, non si può parlare di figure abbozzate quando si fa riferimento agli attori disegnati da Wu Ming, ma altrettanto si riconoscerà che essi ben di rado esibiscono tratti fisici o caratteriali a tinte forti che ne concedano una facile rappresentazione nella mente; questo è un lavoro che il collettivo bolognese lascia all’immaginario del lettore.

Molti i nomi, le genti e i riferimenti, a tratti possono rendere faticoso lo scorrere di un filo logico, se si è completamente digiuni dai fatti principali riguardanti le origini degli Stati Uniti, soprattutto perché la Guerra d’Indipendenza tra ribelli e lealisti è ben più che una mera cornice in questo romanzo.

Come per incanto, nel bel mezzo di foreste e grandi laghi, sorge improvvisamente l’appariscente Londra in piena epoca Georgiana (pre-Vittoriana), “cuore pulsante” dell’Impero Britannico secondo certi punti di vista, “orifizio deiettante” del medesimo secondo altri.
Dentro questo cammeo metropolitano ricavato nella roccia delle montuose pagine dell’avventura nell’America Coloniale, si scopre un altro elemento abbastanza familiare per i lettori del collettivo: una vibrante discesa negli inferi, fra i reietti della società londinese dell’epoca, culminante fra le mura di un manicomio (località ricorrente metà di visita dentro le opere di Wu Ming), nella fattispecie l’ospedale psichiatrico Bethlem Royal Hospital, soprannominato “bedlam” per il gioco di parole con rimando al termine inglese traducibile in putiferio, tumulto, confusione.

Ma non è soltanto dentro ai sobborghi della capitale che gli autori esprimono la loro predisposizione all’antropologia e alla sociologia, Manituana è infatti storia di popoli, di concezioni distinte sull’esistenza, che si mescolano e dove non trovano connubio vengono a cozzare.
Manituana è un libro che parla di guerra, della sua preparazione, dei suoi primi focolai, del suo divampare e del suo consumarsi in polvere.

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L'armata dei sonnambuli
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Mane Opinione inserita da Mane    13 Aprile, 2017
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Plumbee atmosfere

Non è questo un giallo, nonostante l’autore sia celebre nel genere per i suoi scritti e per aver dato vita ad uno degli investigatori più iconici dell’immaginario, ovvero il Commissario Maigret.
Le finestre di fronte è invece “un grigio”. Un grigio plumbeo, monotono, angosciante, sudicio, appiccicoso, come la cappa soffocante che avvolge l’atmosfera della cittadina russa dove Adil Bey muove a disagio i suoi passi, console straniero in terra ostile.

I personaggi che popolano la scena non sono più rassicuranti degli spazi angusti e logori teatro della scena, contribuendo ad offrire un quadro desolante della miseria, della rassegnazione, del terrore e del sospetto imperanti nella periferia del più torvo regime sovietico.

La scrittura assesta il terzo colpo, definitivo, a gettare nel grigiore più profondo il lettore: le figure sono bidimensionali, asettiche e sfuggenti, la narrazione non dà adito a spannung o colpi di scena e al pari della condotta degli abitanti è rassegnata, stagnante.

Piccolo bagliore nell’oscurità: una storia d’amore, destinata però anch’essa a spegnersi mestamente, cenere sulle ceneri.

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Mane Opinione inserita da Mane    02 Aprile, 2017
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Il gioco delle porte

“Il miniaturista” è un romanzo brillante, con una splendida copertina, assai appropriata per le atmosfere gelide e misteriose di una Amsterdam di fine Seicento.

Quella di Jessie Burton è un opera che si presta a molteplici esegesi: è un romanzo di formazione con una prospettiva spiccatamente femminile, è un romanzo storico ambientato in uno scorcio di passato poco praticato, è un thriller inconsueto e affascinante.
È una storia semplice eppure mirabilmente sviluppata.

Particolarmente apprezzabili e soppesate risultano le scelte stilistiche riguardo la scrittura, ciascuna delle quali aggiunge un tocco vincente al lavoro finale, tra queste spiccano: l’ordinata organizzazione in parti e capitoli molto ben congegnata; un incipit lento ma sapientemente finalizzato a preparare il terreno per una trama ben tessuta ed avvincente; e non ultima la quasi costante coniugazione del tempo al presente che, ben calzando la narrazione in prima persona, produce una perfetta carica di suspense.

Petronella Oortman, narratrice e protagonista delle vicende, rappresenta il fulcro del romanzo. Personaggio animato da un dinamismo vivace, si esalta, nel contesto di caratteri sorprendentemente umani, disegnati con naturalezza scevra da caricature, evolvendo attraverso le pagine da fanciulla timida e sperduta in una dimensione sconosciuta ed ostile, fino a donna determinata e armata della curiosità degna di Ulisse pronta ad affrontare misteri, inganni e paure.

Le enigmatiche peripezie prendono il là da una ambientazione ricca di minuziosi dettagli, pazientemente descritti, in una duplice realtà abitata da avidi mercanti e ferventi predicatori, permeata da un puritanesimo dichiarato ed epicureismo recondito.

La contrapposizione tra facciate ed interni rappresenta un elemento caratterizzante del romanzo.

Ancor più interessante sotto questa luce, trova spazio l’ingegnoso espediente legato allo schiudersi delle porte. Grandi e vere protagoniste, nel loro ruotare di cardini, celando gli spazi più intimi, nel loro concedere spiragli agli sguardi rapaci di verità occultate, nel loro preludere alle rivelazioni, le porte, gli usci, gli atri, gli ingressi, hanno un ruolo fondamentale nell’ospitare le scene decisive per il volgere degli eventi, quasi a sottendere un’allegoria del labile confine attraverso cui si transita dalle apparenze ai fatti concreti.

Risulta quasi superfluo sottolineare come l’eroina di questi viaggi attraverso simbolici varchi sia spesso Petronella, accompagnata da un corteo di figure che contribuiscono a fare di questo romanzo un libro bellissimo da leggere.

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Mane Opinione inserita da Mane    20 Marzo, 2017
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Morfina, ricordi, dolori e sogni

Memori di Virginia Woolf e James Joyce, ci immergiamo in questo romanzo, che è puro stream of consciousness, ma più praticabile e meno accidentato dei percorsi dei pionieri della suddetta tecnica narrativa.

Siamo dentro al testamento di una vita dettato in presa diretta ad uno scrittore di successo, venuto da lontano, chiamato appositamente per adempiere al compito di mettere nero su bianco le memorie di un uomo prossimo alla morte, Tristano appunto.

Scorre il flusso dei pensieri di Tristano sotto l’orecchio attento dello scrittore e del lettore stesso, come una lunga ballata che mescola sogni, realtà e reminiscenze, che a tratti si incupisce con i ricordi della guerra, mentre a tratti si illumina del bagliore del volto di una donna… Una danza incastonata in un tempo inafferrabile, scandito dai riti della domestica Frau e dalle somministrazioni di morfina che lenisce le sofferenze al prezzo del sopore.

Eppure quest’uomo nel suo rito d’addio non è melancolico, non è affranto, disperato, come forse ci si potrebbe prefigurare, è invece brioso, incalzante, orgoglioso, canzonatorio verso tutto e perfino autoironico, carico di squarci di riflessioni filosofico-esistenziali, pregno di domande seppur parco di risposte.

- “perché, perché, perché. Sei venuto fin qui per sapere i perché della vita di Tristano. Ma nella vita non ci sono i perché, non te l’hanno mai detto? ... perché scrivi? O tu sei di quelli che cercano i perché, che vogliono mettere tutte le cose al loro posto? ...” –

Solo il finale si tinge delle tonalità amare e struggenti tipiche dei commiati e dei rimpianti…

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Mane Opinione inserita da Mane    18 Marzo, 2017
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Sotto scacco

Sul quadrante da sessantaquattro caselle bianche e nere si gioca una partita che va ben oltre le apparenze.
- “Definendo gli scacchi un gioco, non ci si rende già colpevoli di un’offensiva limitazione?” -

- “Un’architettura senza sostanza” - Non è forse vero che la danza dei pezzi di legno sulle celle, disegnata dalle loro traiettorie costruisce formidabili castelli, per quanto inafferrabili nella loro evanescenza, concreta solo nelle menti dei grandi scacchisti?

L’occhio dell’autore vede al di là di ciò che è scritto.
- “Dove ha inizio e dove finisce?” -

Il mio primo Zweig mi coglie di sorpresa con una novella semplice ma vibrante di significati arcani, con una scrittura lineare ma capace di evocare magistralmente le sfumature dell’animo.

Nella contesa animata dalle figure e dalle atmosfere del testo si colgono due elementi, che nella loro concatenazione sono emblematici della crisi, richiamando alla mente l’immagine dell’uomo che annaspa in balia dei flutti per poi annegare: prima la frenetica, esasperata lotta figlia dell’istinto di sopravvivenza, rappresentata dalle smanie del Dottor B, poi il soccombere, l’abbandono, la resa senza condizioni, la rinuncia ad offrire qualsiasi resistenza all’oblio.
Non è difficile immaginare che questo rappresenti l’ultimo scritto dell’autore austriaco prima del suo addio, e volendo spingere oltre l’analisi, ci si può leggere una sorta di allegoria del suo dramma esistenziale. Non c’è rabbia, non c’è condanna, né volontà di rivalsa, ma soltanto una profonda impotente amarezza.

D’altra parte, questa brillante novella, offre infinite chiavi di lettura alternative o piuttosto complementari.

Zweig, ad esempio, calca la mano sull’impossibilità di vestire il rozzo con abiti signorili. Czentovic è baciato dalla fortuna che gli fa dono di una dote degna della carrozza fatata di Cenerentola, capace di spalancargli le porte dell’alta società, eppure nulla può nel compiere il miracolo di trasformare il garzone ottuso e così la metamorfosi dell’anatroccolo sgraziato nel nobile cigno non ha luogo fra queste pagine. Czentovic è oggetto di scherno, non accettato dagli altri cigni come fratello, e lui stesso, figlio della polvere, sa di non esser parte di quello stormo, motivo per cui vola leale e sincero solo al fianco dei suoi simili, freddo, criptico ed altero invece, con i suoi nuovi pari.

Sullo scacchiere sono tanti i pezzi minori, ridicoli nella loro ridotta capacità d’azione, eppure sul finale è proprio il misero pedone a sbarrare la strada all’alfiere, a diventare determinante per il volgere degli eventi. Anche qui forse si cela una piccola missiva dell’autore, difficile dire se un tenue barbaglio di luce o, più in sintonia con le tonalità plumbee del testo, il sinistro rumore del chiavistello che blinda definitivamente il buio della cella.

In conclusione, merita una menzione lo splendido cammeo dedicato al piacere della lettura. Non potrà che mettere in vibrazione le corde più intime dei lettori entusiasti e appassionati…
- “Mi avvicinai e dalla forma rettangolare della sporgenza mi parve di capire cosa contenesse quella tasca: UN LIBRO! Cominciarono a tremarmi le ginocchia: UN LIBRO! Erano quattro mesi che non ne tenevo in mano uno, e la sola idea di un libro in cui vedere parole allineate, righe, pagine e fogli, di un libro nel quale leggere, seguire pensieri diversi, nuovi, estranei, pensieri da accogliere nel cervello, capaci di distrarre, aveva un che di esaltante e paralizzante allo stesso tempo.” -
Oltre a celebrare in modo sublime ed efficace la preziosità del LIBRO, questo piccolo brano offre la possibilità di apprezzare un assaggio della scrittura di Zweig, facendosi un’idea di questo indubbio capolavoro letterario.

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Agli amanti degli scacchi, dell'introspezione, ma soprattutto della letteratura
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Classici
 
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Mane Opinione inserita da Mane    16 Marzo, 2017
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Simbad il marinaio

"Montecristo" è una grandiosa, entusiasmante avventura prodiga di stupefacenti colpi di scena, carica della vitalità dei racconti che trasportano fuori dal tempo e dallo spazio che ci danno consueta dimora.
Questa storia affascinante, senza esigere necessariamente complesse riflessioni e analisi, offre una straordinaria oasi letteraria in cui rinfrancarsi dal quotidiano, concedendosi una salubre evasione dalla realtà.

Lo svolgersi degli accadimenti si ramifica in lungo e in largo come un vasto, intricato disegno, di cui la risolutezza degli uomini e i capricci della Provvidenza si dividono la paternità e che per la sua complessità può esser colto solamente quando l’occhio ha la possibilità di abbracciarne una parte consistente. È qui che la meravigliosa macchina ideata da Dumas trae le sua forza vitale, instillando nel lettore l’attrazione per cui lo scorrere delle pagine vince sulla mole insormontabile a prima vista.

Il ritmo è sostenuto dalla predominanza delle sequenze dialogiche e grazie all’espediente del costante riepilogo dei fili dell’intreccio operato dal narratore in terza persona onnisciente (tipico ottocentesco), le vicende si lasciano seguire agilmente, traendo virtù da quelle che nacquero verosimilmente come esigenze della pubblicazione in forma di feuilleton.

A patto di portare pazienza per i passaggi in cui la ridondanza del manierismo nei gesti e nelle conversazioni si fa un po’ stucchevole, il racconto strega il lettore, avvolgendolo in un’atmosfera drammatica (lontana dall'ironia familiare ne “I Tre Moschettieri”), in cui la vendetta è sovrana della scena, ultimo arbitro degli equilibri sconvolti dalle diverse peripezie e dai molteplici intrighi.

Risparmio qualsiasi cenno alla trama vera e propria, grato come sono stato io stesso, alla fortunata combinazione che mi ha tenuto completamente digiuno dalle celebri riproduzioni televisive e cinematografiche, conservandomi intatto il piacere della scoperta di questo bellissimo romanzo.

“Per i cuori che a lungo hanno sofferto,
la gioia è simile alla rugiada sulle terre essiccate dal sole.”

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Mane Opinione inserita da Mane    25 Febbraio, 2017
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Santiago e il Marlin

“Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti”

Fu tanti anni fa quando lessi questo libro per la prima volta, l’ho voluto riprendere tra le mani, per coglierne ancora una volta l’ammaliante sapore di salsedine e di sogno.
E’ tornato, di diritto, a riconquistarmi come allora.

“Il vecchio e il mare” più che un romanzo è un racconto lungo, che alla sua semplice struttura, fatta di una trama lineare, pochi personaggi e una sintassi molto essenziale, coniuga la complessità delle meditazioni. È una collezione di piccole conchiglie modellate dall’acqua del mare, che se accostate all’orecchio con attenzione dischiudono preziose missive custodite nel loro canto.

C’è la sfida dell’Uomo che si misura con la forza degli Elementi, celebrata attraverso l’interpretazione più nobile della pesca (e della caccia più in generale), come solenne rito di simbiosi con la Natura. C’è la solidarietà, la commovente complicità e la stima reciproca tra il vecchio ed il giovane, il saggio e l’apprendista. C’è il tema della solitudine e dell’isolamento dell’anziano, visitato con vibrante coinvolgimento durante il racconto, “Si accorse di come era piacevole avere qualcuno con cui parlare invece di parlare soltanto a sé stesso e al mare.”

Lo stile di scrittura è straordinario nell’evocare attraverso l’espediente del soliloquio, quei momenti di intensissima concentrazione e tensione che mettono alla prova la forza di volontà. In questa dimensione il tempo si dilata e si chiamano a raccolta le riflessioni più profonde e le più assurde, si fa appello al culto dei miti (Joe DiMaggio) e non ultime si risvegliano la Fede e la superstizione. Quest'ultima (così ben personificata dalla mano sinistra traditrice) si fa strada come un balsamo per il cuore provato dagli stenti, quando la fatica tiene in scacco la ragione, donando tregua e nuova linfa per scongiurare l’onta di abbandonare il campo prima del termine della titanica contesa.

"Il vecchio e il mare" di Hemingway non si può dunque sottrarre, complice la parziale condivisione di temi e scenari, al confronto con "Moby Dick" di Melville, ma nel mio immaginario, per l’affetto che gli serbo, è la piccola storia del vecchio Santiago ad aver la meglio sul possente leviatano di carta del leggendario Capitano Achab.

“Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita.”

In questo libro Hemingway compie un prodigio, regalando alla meccanica semplice dei gesti di un pescatore la profondità e il mistero degli abissi dell’Oceano.

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Mane Opinione inserita da Mane    08 Febbraio, 2017
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Caos

Che si tratti di una scelta stilistica ben precisa di Nguyen o che sia solo il frutto di storture secondarie al lavoro di traduzione, adattamento ed impaginazione, purtroppo la fruizione di questa lettura è resa ostica dalla forma.

Dopo una breve quanto drammatica presentazione del protagonista (coincidente con l’io narrante), si è improvvisamente travolti da una vertiginosa “sbobinatura” di pensieri, dialoghi, azioni, descrizioni di dettagli che si susseguono in rapida successione.

Ad aggravare la sensazione di apnea, secondaria alla scelta di stipare ogni pagina di lettere stampate con pochissimi spazi bianchi (le pause sono importanti quanto le note in una sinfonia), si scopre da subito un uso massiccio del discorso diretto libero. Un espediente quest’ultimo che priva ogni dialogo presente nel testo di qualsivoglia indicatore grafico, seppellendolo nel caos indistinto di una selva di parole.

Per quanto riguarda il contenuto l’impressione per il lettore è quella di essere vittima di una involontaria, maldestra intrusione in una vita altrui, dove di tutto ciò a cui si assiste, poco si comprende a fondo mentre tanto si cerca di intuire con fatica.

Il racconto non manca di evocare la brutalità del conflitto, eppure la prospettiva troppo incentrata sul protagonista ci priva di una visione più ampia e speculativa sul contesto della Guerra del Vietnam.
L’io narrante è quasi egoista nel negarci uno sguardo sugli scenari e sulle genti che hanno vissuto in primo piano le vicende belliche, troppo concentrato ad eviscerare la propria introspezione e a recitare mestamente le sue gesta che inoltre si rivelano ben poco coinvolgenti.

Forse l’unica vera nota positiva, di un romanzo a mio parere deludente, sta invece nel lessico, piacevolmente ricco e costellato di molteplici similitudini e metafore.

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Mane Opinione inserita da Mane    28 Gennaio, 2017
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Il trionfo di Thanatos

“L’invisibile ovunque” trae il titolo da una citazione di Yvan Goll, inserita alla stregua di un tributo all’apertura delle prime pagine del libro:

“La guerra era l’invisibile ovunque, il suo battito gonfiava
le vene degli uomini, suonava con le campane dei villaggi,
tuonava la notte durante la tempesta. La guerra erano i
giorni del calendario. Era la cifra del secolo. Era il lamento
dei poveri, la rabbia dei deboli. Era la fame. Era la morte.”

Quella di Goll, oltre ad essere, per quanto concisa, una ottima prefazione alla lettura, non è l’unico richiamo ad altri scritti ed autori, in un libro che in questo senso pullula di riferimenti, elemento d'altra parte non nuovo al collettivo Wu Ming, data la propensione alla coscienziosa ricerca di fonti bibliografiche per la realizzazione dei propri lavori.

Ciò che è nuovo rispetto ai più celebri romanzi storici del suddetto collettivo è l’architettura del testo, fatta non di una trama unica quanto piuttosto di frammenti (quattro per la precisione) di una realtà assai complessa quale fu la Grande Guerra.
Quattro frammenti per restituire un’immagine del caleidoscopico tutto.
Quattro schegge di shrapnel lanciate a sondare e illuminare quel silenzioso invisibile ovunque, sotteso alla classica narrazione dei grandi eventi della Prima Guerra Mondiale, di cui son carichi diari di guerra e libri scolastici.

Il nesso invisibile che tiene uniti i frammenti è il tema della morte, il trionfo di Thanatos, l’impulso distruttivo che tutto muove e che distrugge, annienta, demolisce.

Fin dall’inizio, ma specialmente dentro al terzo atto, si capisce che, più dei fatti raccontati, sono le immagini evocate dalle audaci analogie prodotte da Wu Ming ad essere latrici della violenza, della follia, della disperazione, dell’alienazione, della fragilità umana, della brama di riscatto da vite grame, cullate nell’alveo del conflitto.

Allo stesso modo, come proiettati nel caos di un quadro futurista, si è preda della complessità dall’intreccio, fatta di anticipazioni, flash-back, parallelismi ed ellissi narrative (con l’andamento di un climax culminante ancora una volta tra le pagine del terzo atto), investita del compito di trasmettere lo smarrimento e l’incertezza dell’epoca in analisi.

Emilio Lussu, con le pagine di “Un Anno sull’Altipiano”, supremo esempio della letteratura anti-militaristica a livello mondiale, diede voce al suo disprezzo per la guerra facendolo trapelare con maestria dai fatti vissuti in prima linea ed esposti in una narrazione nitida e concreta.
Wu Ming invece, benché non risparmi lo spregio per le armi, lo celebra tra le righe con una scrittura evocativa, risuonante e ricercata: così il verde delle divise è detto “marcio”, “le falene notturne” richiamano la potente immagine de “La primavera hitleriana” di Eugenio Montale (a me carissimo tra i poeti), lo sfacelo dei corpi in decomposizione punge la vista e l’olfatto, i manicomi abbracciano la follia dei transfughi dai campi di battaglia e le urla degli incompresi.

Giunti al quarto tempo di questo libro particolare, siamo sorpresi dal cambio stilistico che detta un carattere più analitico al racconto e ci rivela un’interessante retroscena, senz’altro poco noto: cosa mai possono aver avuto a che fare i pittori con l’esercito? Dove mai possono aver avuto modo di incrociarsi pennelli e artiglieria?

Altro non aggiungo per non guastare la sorpresa a nessuno.


Wu Ming tiene alto il suo vessillo.

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Mane Opinione inserita da Mane    24 Gennaio, 2017
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Feroce e delicato

“Conservava la coscienza del proprio sangue e dell’eredità lasciatagli dai suoi antenati, con le loro vite oscure, faticose, stoiche, e un’etica che gli imponeva di offrire al mondo tiranno visi sempre inespressivi, rigidi e spenti.”

Stoner è un bellissimo dramma psicologico, il cui protagonista è un uomo, armato, contro le asperità di una mesta esistenza, soltanto del suo mansueto stoicismo ostinato e di un fatalismo che lo rende quasi verghiano.

È una storia comune raccontata in modo straordinario, attraverso uno sguardo attento ai momenti apparentemente più marginali del mosaico eppure estremamente significativi.

L’incipit è piuttosto lento, e ci introduce allo stile di scrittura scelto da Williams: fatto di una grande meticolosità nelle descrizioni fisiche dei caratteri e una particolare inclinazione nello scandagliare l’animo di Stoner, dalle più fugaci percezioni subconsce fino ai pensieri più complessi ed elaborati.
Una volta acquisita una certa confidenza con il protagonista però, la lettura guadagna ritmo e si è trascinati direttamente dentro gli accadimenti con un grande senso di coinvolgimento che culmina sul finale, carico di un intimità cresciuta progressivamente attraverso le pagine.

Se desiderate una lettura che non vi turbi,
è meglio che questo romanzo non vi capiti tra le mani, perché la sua delicatezza e malinconia mordono con ferocia senza che ve ne possiate svincolare facilmente.

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Mane Opinione inserita da Mane    21 Gennaio, 2017
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Alienazione

Poche pagine di un racconto surreale, capace di infondere un profondo senso di straniamento inspirabile ad ampie boccate fin dal principio della lettura: sfuggono gli appigli e i riferimenti spazio-temporali sono labili e diafani.

Una cannonata turca sul campo di battaglia dimezza il Visconte Medardo di Terralba, minandone la comunione interna tra bene e male, compromettendone l’imperturbabile equilibrio, simbolicamente mettendo a nudo l’estrema fragilità umana nella sua perenne e insolubile incompletezza.
Attorno al duplice Medardo, di ritorno al suo castello, sorgono, quasi come riverberi della dicotomia materializzata nella figura del suddetto visconte, tante altre maschere e allegorie ispirate a stridenti contrasti tra realtà antitetiche.

Con il “Visconte dimezzato” porto finalmente a conclusione la “trilogia araldica” di Calvino, personalmente iniziata ormai tanti anni fa con la lettura del “Barone rampante”. La chiudo però con disincanto, perché, ahimè, la cannonata di Medardo non ha fatto breccia nel mio immaginario e non sarei sincero se negassi il fatto che soltanto “Il cavaliere inesistente” a suo tempo mi diede grande soddisfazione.

Tuttavia nutrivo grandi aspettative per questo libro, cronologicamente il primo ad esser stato concepito, in un momento in cui probabilmente l’autore stesso non aveva in progetto di sviluppare una trilogia.

Ho sofferto la semplicità e l’asciuttezza della narrazione, come se la bidimensionalità del visconte avesse contagiato tutto il racconto, restituendomi prospettive troppo sfuggenti.

Forse, come spesso non a torto si dice, l’età, così come le fasi della vita, sono determinanti influenti nel giudizio riguardo un libro, eppure oggi chiudendo questo racconto, sono amareggiato dal non aver tratto le preziose percezioni rivelatrici a cui la penna di Calvino mi aveva abituato in passato.

E se, come per stessa ammissione dell’autore, il libro fu scritto per divertire e riflettere (splendida la presentazione iniziale a questo proposito), non posso dire personalmente che il risultato abbia funzionato con me, specialmente alla luce del fatto che resteranno sempre vive nella mia memoria, come metro di giudizio, le inestimabili pagine di Marcovaldo, per cui sempre sarò riconoscente.

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Calvino e/o la "trilogia araldica" dello stesso
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Mane Opinione inserita da Mane    16 Gennaio, 2017
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C'erano una volta...

Vi piacciono le storie?

Ebbene, se le storie vi piacciono e vi affascinano ancora, come da bambini, quando al calar della sera attendevate con bramosia il racconto delle gesta dei vostri eroi e degli intrighi dei malvagi nemici… Signori, lasciate che sia Alexandre Dumas il vostro narratore, perché pochi altri potranno tessere con altrettanta maestria gli arazzi che riempiono le segrete stanze dell’immaginario.

“Vent’anni dopo” è il seguito di una storia stupenda, quella de “I tre moschettieri”.

“Vent’anni dopo” è un racconto di una prodigiosa longevità, che contro ogni diffidente aspettativa, dà fiato alle ceneri di un romanzo affascinante destandone vivaci fiamme che riscaldano i cuori sempre avidi d’avventura.

Carichi d’emozione nel ritrovare i prodi D’Artagnan, Athos, Porthos ed Aramis, il cui commiato ci aveva lasciato una leggera amarezza, torniamo ad immergerci senza possibilità d’appello nelle avvincenti vicende che seguono di vent’anni l’epilogo del fortunatissimo incipit della storia.
Il temibile ed altero Richelieu lascia il rosso talare al gretto Mazarino, la Regina accudisce il piccolo Re Luigi XIV già avvezzo alla maestà che gli è di ruolo, grandi eventi scompigliano le carte sulla tavola che ci si era tanto minuziosamente ordinata: solide amicizie sono messe alla prova da schieramenti per fazioni opposte, vecchi dissidi fanno spazio a sincere amicizie, fantasmi del passato tornano ad aleggiare, radiose albe rischiarano profonde oscurità.

Benché sia la narrazione ad essere sovrana di questo romanzo, costellato di dialoghi e dotato di un ritmo sostenuto, Dumas non è mai superficiale, perciò non mancano alcune brevi riflessioni a inframezzare l’azione di tanto in tanto. “Il mondo esteriore è come collegato da un misterioso filo conduttore alle fibre della memoria, e talvolta le risveglia nostro malgrado; una volta messo in azione, quel filo come il filo d’Arianna, conduce in un labirinto di pensieri dove ci si smarrisce a seguire quell’ombra del passato che si chiama ricordo.”

I personaggi, sia quelli ben noti dall’antecedente capitolo che quelli di nuova conoscenza, sono abbastanza tipizzati e non è nell’interesse principale dell’autore quello di fornire un percorso formativo in cui le figure mutino drasticamente sotto gli effetti dell’evolvere degli eventi. Frequenti e ben curate sono le presentazioni dirette dei caratteri, mentre i Moschettieri, nelle loro condotte così come nei pensieri, tengono fede ai loro ritratti ben delineati fin dal primo romanzo.

Inoltre, pregevole è l’intreccio, fatto di alternanze e incastri che rendono ancor più magnetico il dipanarsi della trama. Lo stile, agile, elegante ed al contempo brioso e vibrante, in pochi sapienti tratti restituisce luci e colori vividi alle forme, alle atmosfere ed agli stati d’animo, come nelle opere dei migliori impressionisti, senza mai sottrarre il tempo né la scena all’azione.
(Ottima la traduzione di Giuseppe Aventi)

Non senza storcere appena il naso, lungo il testo, si incontra una relativa uniformità di registro linguistico (non nuova) che pare poco naturale al passare dalla bocca di una regina a quella di un carceriere, da quella di un moschettiere a quella di un cardinale, da quella di un nobile a quella di un garzone. A titolo d’esempio, nulla a che vedere con i vertiginosi salti carpiati del collettivo Wu Ming ne “L’armata degli Incredibili”, magistrale nel dar voci diverse ai personaggi in accordo con l’estrazione sociale e non solo. Sorvolando però su questa piccola inezia, che mi azzardo a sottolineare per trovare una pecca ad un lavoro altrimenti fin troppo grandioso, oltre 800 pagine di racconto scorrono sorprendentemente senza alcuna fatica: di questi moschettieri nonostante gli anni trascorsi non se ne ha mai abbastanza!



Se, come da bambini,
al calar della sera, le storie vi affascinano ancora,
lasciate che Dumas sia il vostro narratore.

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I Tre Moschettieri
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Mane Opinione inserita da Mane    29 Dicembre, 2016
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Il lato più sinistro della sua fatal passione

Notre Dame de Paris è un opera che nasce dal genio di Victor Hugo, ispirato dalle letture giovanili di Walter Scott, con il grandioso intento di portare la poesia dentro al romanzo storico.
Più che una trama elaborata e avvincente, Notre Dame de Paris offre un meticoloso dipinto quattrocentesco della città di Parigi in cui la maestosa cattedrale gotica è protagonista della scena. Il tempo è spesso cristallizzato, con una narrazione per ampi tratti pressoché immobile spettatrice davanti al rigoglioso germogliare di straordinari affreschi glorificanti le stupefacenti doti descrittive di Victor Hugo. Inoltre, non mancano gli intermezzi con riflessioni di ampio respiro e analisi filosofiche, fondamentalmente incentrate sul ruolo dell’architettura nella storia dell’umanità.
Dai volti ai costumi e alle credenze popolari, alla cattedrale in ogni suo anfratto, fino al sensazionale volo d’uccello sulla città, l’autore è un occhio instancabile scrutatore dei dettagli.
“La sala grande non era che una vasta fornace di impudenza e di giovialità, in cui ogni bocca era un grido, ogni occhio un lampo, ogni faccia una smorfia, ogni persona un atteggiamento. Gli strambi visi che si affacciavano uno dopo l’altro a digrignare i denti dal foro del rosone erano come altrettanti tizzoni gettati nel braciere. E da tutta quella folla effervescente sfuggiva, come il vapore dalla fornace, un rumore stridulo, acuto, tagliente, fischiante come quello delle ali di un moscone.”
In questa sontuosa cornice i personaggi e le vicende sono piccoli componenti di un vasto colorato mosaico. Solo sul finale il dramma degli eventi prende il sopravvento trascinandoci repentinamente verso l’epilogo della storia.
Notre Dame de Paris è un romanzo pregno di storie d’amore: impossibili, travagliate, idilliache, corrosive e malsane. Il sentimento che lega l’autore stesso alla monumentale cattedrale di cui celebra ogni cesellatura pagina dopo pagina, non è che una sconfinata passione. Ma fra tante è la storia d’amore del campanaro Quasimodo con le sue bronzee creature a struggere maggiormente il cuore e suscitare una profonda tenerezza.

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Mane Opinione inserita da Mane    08 Dicembre, 2016
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Nelle mani degli Dei

“Il mio nome è Nessuno” è un opera che si compone di due romanzi, “Il giuramento” e “Il ritorno”, dove il primo rivisita le gesta dell’Iliade mentre il secondo quelle dell’Odissea, tenendo in entrambi i casi al centro della scena la figura dell’eroe dal multiforme ingegno Ulisse (Odysseo) corrispondente inoltre con il narratore in prima persona.
“Il ritorno” narra delle peripezie e dei travagli di Ulisse al suo viaggio di rientro ad Itaca al termine della Guerra di Troia, e lo fa trascinandoci dentro un affascinante universo di divinità bizzose più che soffermandosi sugli aspetti quasi stereotipati degli episodi meglio conosciuti.
Scritto dall’autore con la stessa efficace semplicità del primo capitolo perde forse un po’ in termini di presa sul lettore rispetto al suo predecessore, benché il fatto potrebbe benissimo essere ascrivibile alla personale inclinazione di ciascuno: più propensi ad apprezzare il percorso formativo del giovane Ulisse o piuttosto il dedalo di avventure irte di insidie dell’uomo ormai maturo e provato dalla guerra?
Senz’altro sul finale la nebbia che si infittisce d’improvviso rischia di disorientare eccessivamente e di inghiottire l’entusiasmo generato dalle pagine precedenti cariche della forza centripeta del desiderio di tornare ad Itaca insieme al suo Wanax Odysseo.
Non necessariamente richiede la previa lettura de “Il giuramento”, pur tenendo presente che senza il primo capitolo si perde una gran parte del passato del giovane eroe e concordemente possono sfuggire alcune dinamiche e riferimenti.

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Mane Opinione inserita da Mane    08 Dicembre, 2016
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Il nome maledetto

“Il mio nome è Nessuno” è un opera che si compone di due romanzi, “Il giuramento” e “Il ritorno”, dove il primo rivisita le gesta dell’Iliade mentre il secondo quelle dell’Odissea, tenendo in entrambi i casi al centro della scena la figura dell’eroe dal multiforme ingegno Ulisse (Odysseo) corrispondente inoltre con il narratore in prima persona.
“Il Giuramento” in realtà è molto più che una semplice rilettura dell’Iliade attraverso gli occhi di Ulisse in quanto principia molto prima che si delineino i presupposti del celeberrimo conflitto tra Achei e Troiani, lontano da Elena e Menelao, lontano dalle mura d’Ilio e dalla fulgida armatura di Achille. Prima di immergersi nell’assedio di Troia infatti la storia si focalizza sulla rocciosa isola di Itaca, dove emergono dalla memoria l’infanzia e la maturazione di Odysseo evocati dalle sue stesse nostalgiche parole.
E’ al volere di suo nonno Autolykos, personaggio austero e temutissimo, che Odysseo deve il suo nome, ed è in questo tremendo appellativo che è già in qualche modo racchiuso il destino dell’epopea dell’eroe dallo sguardo cangiante.
La sintassi è essenziale e priva di strutture ricercate ed il registro si adatta molto bene al contesto (addirittura sono presenti alcune traslitterazioni del greco) permettendo di rivivere con grande partecipazione le vicende dell’epica classica. Inoltre l’autore coglie in modo interessante l’aspetto più umano di Ulisse, la crescita, i mutamenti, sottolineandone attentamente di volta in volta i pensieri, le congetture e i turbamenti, il che fa del libro a tratti quasi un vero e proprio romanzo di formazione.
Il racconto è piacevole e scorre agilmente, sorprendendo chiunque dovesse esser convinto che la materia sia stata già abbondantemente affrontata e non abbia più nulla di attraente.
Manfredi reinterpreta meravigliosamente il prezioso lascito tramandato dagli aedi dell’epica Omerica, e portando a buon fine questa difficile sfida dimostra di meritare ampiamente il plauso di cui gode come scrittore.

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Mane Opinione inserita da Mane    23 Novembre, 2016
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Danzare con l’Oceano…

Questa è la storia leggendaria del pianista migliore al mondo, Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento, figlio illegittimo dell’Oceano, cresciuto, vissuto e scomparso nel ventre del suo transatlantico natio, il maestoso Virginian, senza mai aver calcato per una sola volta la terra ferma.

Novecento è un personaggio unico ed indelebile della narrativa: avvolto dall’aura intangibile del prodigio, racchiude in sé una profonda, struggente malinconia, legata ad una sua certa solitudine, in qualche modo propria del suo stesso straordinario modo di concepire il mondo, difficilmente condivisibile con il resto dei comuni esseri mortali. Lo stesso narratore, virtuoso trombettista della favolosa orchestra delle serate di gala sul transatlantico, per quanto affascinato dalla luminosa figura del pianista, e per quanto vicino possibile ad un rapporto di intima amicizia con questo strabiliante personaggio, non è mai completamente capace di decriptarne gli arcani pensieri.
Perché Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento è sovraumano, fatto non di carne ed ossa ma della materia dei sogni e degli ideali e per questo solitario nella sua dimensione celestiale, incantevole ed inaccessibile.

Novecento è un genio, ma questa è la sua condanna da scontare, lui non può mischiarsi agli altri e non può avere l’empatia di nessuno, lui suona la sua musica divina danzando con l’Oceano, viaggia in lungo e in largo col pensiero, ma non può scendere dal Virginian, perché tutto ciò che sta fuori è altro da lui. Eppure ispira una grande compartecipazione emotiva, perché in fondo ciascuno di noi rivive questa malinconica solitudine ogni qual volta si trova nella condizione di non riuscire ad esprimere le proprie sensazioni, i propri crucci, le proprie speranze.

Il racconto ha uno scorrere che rievoca in chi legge la danza sulle onde del Virginian, magico traghettatore di speranze umane per l’Oceano Atlantico verso la terra promessa dei desideri e dei miraggi. Il registro linguistico va dal volgare e colorito all’aulico e sublime, viaggiando tra i possenti motori del ventre della nave, tra gli afrori e la vitalità della terza classe fino al lusso della prima classe e i sollazzi della fastosa sala da ballo.

Alessandro Baricco è un narratore con pochi eguali, che certamente non si smentisce in questo piccolo capolavoro: ha la dote eccelsa di agganciare l’attenzione del lettore trascinandolo completamente all’interno dei suoi racconti, gioca con la sintassi e il vocabolario senza temere affatto di prendersi ogni tanto alcune licenze, regalando frizzantezza e dinamismo alla scrittura con tecniche ed espedienti che ne caratterizzano decisamente lo stile.

Novecento è uno splendido testo teatrale,

Novecento è un magnifico monologo,

Novecento è un intenso distillato di poesia,

Novecento è una storia eccezionale ed indimenticabile.

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Mane Opinione inserita da Mane    20 Novembre, 2016
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Dimensione speculare

“La bottiglia magica” può esser ben definita come una moderna fiaba, in cui senza troppa difficoltà si possono cogliere molti degli ingredienti classici di questo genere: narrazione e scrittura piuttosto semplici, ricchezza di discorsi diretti, un colorato dedalo di personaggi e luoghi fantastici, una buona dose di magia, una salda dicotomia morale tra buoni e cattivi, nonché, immancabile, un lieto fine conclusivo.
Molte delle vicende e dei personaggi sono delle allegorie che richiamano fatti e persone che popolano la nostra realtà, in questo senso si ha l’impressione di star davanti ad uno specchio distorcente che rimanda immagini grottesche ed inquietanti.
Purtroppo l’estrema semplicità e linearità del racconto sviliscono un po’ il libro che di per sé si porrebbe il laudabile proposito di celebrare la fantasia e l’immaginazione, magnifiche ali della libertà individuale contro le grevi catene del conformismo basato su modelli preconfezionati. Si conserva qualche attimo di sorprendente lirismo che sfortunatamente si spegne entro i primi capitoli, da cui traggo questa luminosa gemma:
“Tutti coloro che ami sono altro da te. Conoscerai solo una piccola parte dei loro pensieri, e loro non conosceranno i tuoi. […] La loro storia è piena di ore che ti resteranno nascoste. E’ meraviglioso averli vicino, ma la loro vita non ti appartiene. […] Per ciò che manca al vostro amore, amali di più.”
Forse viziato dallo splendido ricordo delle divertentissime pagine incontrate in altre opere di Benni (da “Bar Sport” a “Margherita Dolcevita”, da “La Compagnia dei Celestini” a “Pane e Tempesta”), non posso esimermi dall’esprimere un po’ di delusione per questo libro, orfano della folgorante sagacia e della incontenibile comicità dei suoi predecessori.
Piacevole, curatissima ed estremamente accattivante è invece la copertina. Così come ottime sono le scelte relative all’impaginazione (un ricco connubio tra illustrazioni, variazioni calligrafiche e scrittura), che sono tutt’altro che espedienti adatti solo alla stampa di libri per bambini, mentre possono benissimo vivacizzare le pagine destinate a qualsiasi lettore, offrendo uno strumento utile per esprimere l’atmosfera di un determinato contesto. Per quanto riguarda i disegni di Ralli e Tambe però, in qualche caso appaiono forse ridondanti, nel senso che hanno voluto raffigurare troppo delle scene raccontate dalle parole dello scrittore, finendo per abbozzarne eccessivamente la rappresentazione, quando avrebbero potuto invece impreziosirle cogliendo pochi piccoli dettagli evocativi.

Sconsiglio di iniziare a leggere Benni con questo libro, non rende giustizia alle sue doti.

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Mane Opinione inserita da Mane    17 Novembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

L’impero del surreale

Una serie di creazioni surreali figlie dei racconti di Marco Polo, che ogni sera appagano la curiosità, la cupidigia e le manie di grandezza dell’Imperatore dei Tartari Kublai Khan. L’uno voce narrante, l’altro orecchio attento ed ammaliato, ospiti di una sontuosa reggia orientale, scompaiono e ritornano ciclicamente, lasciando che siano le città invisibili a vestire il ruolo di protagoniste della scena.
All’interno di questa particolarissima cornice si susseguono le evocazioni di luoghi impossibili, leggendari, trasfigurazioni della follia e delle contraddizioni umane, popolati non di rado da apparizioni femminili che riecheggiano come metafora di promesse idilliache ma costantemente palesantesi effimere ed illusorie al concludersi di ciascun racconto. C’è davvero qualcosa di prodigioso nella capacità di questi miracolosi capoluoghi del sogno di sorgere in tutta la loro complessità davanti agli occhi del lettore.
Le vie dell’immaginazione si intrecciano con quelle della realtà e si resta stregati da una narrazione che si appella ad un linguaggio aulico, carica di poesia, misteri e rivelazioni.

Le poche pagine di questo romanzo, più unico che raro nel suo genere, si potrebbero leggere tutte d’un fiato, ma sono solo la lentezza e la concentrazione a permetterci di assaporare l’atmosfera dei luoghi onirici richiamati, di cogliere l’ambiziosa architettura dell’opera e di carpire le profezie più recondite.

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Racconti
 
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Mane Opinione inserita da Mane    13 Novembre, 2016
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Leggere non sopporta l’imperativo…

Daniel Pennac nelle sue opere ha dato vita a numerosi conturbanti personaggi e assurde creature, in questo libro invece, si misura nell’impresa titanica di fronteggiare lui stesso un mostro terrificante: La Lettura.
Spoglio di pregiudizi e di toni accademici, l’Autore, armato solo della sua penna e della sua rivoluzionaria “contro-pedagogia” ("che pedagoghi eravamo quando non ci curavamo della pedagogia!"), si schiera al fianco dei deboli in questo scontro epocale tra il mostro e le sue vittime… Si schiera al fianco di adolescenti e non, terrorizzati dall’indomata bestia, dimostrando che a ben vedere poi se avvicinata con pazienza e addomesticata questa può diventare la formidabile ed insostituibile compagna che chi, da tempo ormai, affonda il naso fra le pagine profumate di carta, inchiostro e fantasia, ha già imparato a conoscere ed amare.

Verso il finale questo piccolo libro regala qualcosa di unico e inestimabile, “I diritti imprescindibili del lettore”, che in barba al dover leggere, ai dogmi sul come e cosa leggere, riportano la lettura ad una dimensione più emancipata, fruibile, spontanea e passionale.

1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere

“Come un romanzo” è in grado di cambiare radicalmente la prospettiva sulla concezione della lettura, ampliandone indefinitamente i confini e fornendo spunti di riflessione, riconsegnandoci un piccolo squarcio di libertà di cui è bellissimo ed impagabile riappropriarsi.

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A chiunque (pavido o meno) voglia mettersi alla prova col "terrificante mostro" di cui sopra
e/o a chi sia disposto a mettere in discussione il proprio punto di vista
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Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Mane Opinione inserita da Mane    08 Novembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Il guascone

Pubblicato nel 1844, I 3 moschettieri, ampiamente riconosciuto come un grande classico della letteratura, conserva una freschezza strabiliante per i giorni nostri e racchiude la dirompenza dell’epica cavalleresca.
Alexandre Dumas canta le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie e le audaci imprese…
…senza appellarsi però ad una prosa barocca, come si converrebbe ad un autentico poema, ma piuttosto mettendo a proprio agio fin da principio il lettore con una narrazione in terza persona onnisciente che conquista con la sua generosa dose di ironia ed irriverenza.
Sullo sfondo di una Parigi dominata dalle figure del Re di Francia Luigi XIII e dell’infido Cardinale Richelieu, i tre moschettieri (Athos, Porthos, Aramis) e D’Artagnan, sono indimenticabili protagonisti delle molteplici avventure al centro del romanzo, dipinti con maestria nei loro pregi, vizi e difetti.
La trama è magnetica e tiene viva la curiosità del lettore senza mai spegnersi sotto il peso di descrizioni verbose e statiche, anzi il ritmo si fa spesso incalzante come i cavalli al galoppo. Fra duelli, dichiarazioni d’amore, tradimenti, inganni, guasconate e battaglie, l’ardimento dei 4 insieme alla loro insolubile amicizia sono gli unici capisaldi a non subir ribaltamenti.
Orbene, sellate i vostri destrieri e riponete la migliore delle vostre spade nel fodero prima d’affrontar questa lettura…

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Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Mane Opinione inserita da Mane    05 Novembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Inc'edibileee

Wu Ming, il collettivo di scrittori italiani, autori di diversi romanzi a sfondo storico, che non avevo mai incontrato prima nelle mie letture, con quest’opera mi si presenta nel migliore dei modi possibili.
La prima stoccata vincente questo libro la mette a segno appena lo posso avere tra le mani: una splendida copertina all’esterno (complimenti al realizzatore) e una piacevole impaginazione all’interno (complimenti agli editori suppongo). “Gioco sleale” in fin dei conti perché ho un debole per l’aspetto e le fattezze dei libri quando catturano il mio ideale.
L’incipit è magistrale, sorprende il lettore con una prospettiva quanto mai singolare: sono i nasi delle persone a parlar di loro stesse, una parte per descrivere il tutto come in una sorta di sineddoche. L’artificio letterario risulta particolarmente efficace e se si presta particolare attenzione si può cogliere come si spinga ben oltre le prime pagine accompagnando il lettore con un sottilissimo filo conduttore fino all'epilogo del romanzo.
Ammantato del fascino dell’atmosfera della rivoluzione francese, sapientemente rievocato, e arricchito dalle apparizioni di personaggi ed eventi documentati (la cui cura è quasi marchio di fabbrica del collettivo) il romanzo si dipana attraverso l’intreccio di più storie: quella di un medico incantato dal mesmerismo ma tormentato dagli interrogativi, quella di un egocentrico giovane attore bolognese che sogna la sua ascesa sui palchi più impegnativi, quella di una donna del popolo animata e combattuta nel suo spirito rivoluzionario, quella di una acuta mente bramosa di potere e anelante alla restaurazione dell’ordine monarchico, quella di un umile soldato apparentemente semplice ligio esecutore di ordini ma in realtà saldamente albergato da valori nobili.
Ogni figura del racconto, dalla più ingombrante alla più minuta comparsa, dalla più fedele ai fatti alla più fantasiosa, gode di una ottima caratterizzazione che garantisce la possibilità di orientarsi in una scena vivace, popolata da molteplici maschere.
Inoltre le ampie variazioni di registro linguistico, dal volgare fino all’aulico, sono mirabilmente sfruttate in un continuo avvicendamento per immergere pienamente il lettore nel contesto narrativo.
Infine l’ottima tessitura della trama tiene viva la curiosità fino alla conclusione, mentre pagina dopo pagina si assapora il clima della ribellione al sistema, abbracciandone ogni aspetto: speranze, gloriose conquiste, illusioni e amare contraddizioni.

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Wu Ming
e a chi adora le storie di rivalsa e di vendicatori solitari
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Q
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Mane Opinione inserita da Mane    04 Novembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

All’illustrissimo, reverendissimo, osservandissimo

"Q" è un romanzo storico con tutti i crismi, in cui il collettivo di scrittori che si cela dietro il nome di Luther Blissett, ha compiuto senz’altro un’ammirevole lavoro di approfondimento e ricerca per poter improntare l’opera con un’atmosfera e uno sfondo quanto più verosimili e aderenti alla realtà del tempo delle guerre di religione del 1500. Nondimeno, forse, per chi non è particolarmente appassionato di questo tipo di romanzi storici, le attenzioni riservate alla cura delle verosimiglianza storica rischiano di imbrigliare le ali della narrazione, rendendo più faticosa la lettura.
Sicuramente, le prime 100 pagine mettono alla prova il lettore, che rischia di ritrovarsi frastornato, e confuso.
Inoltre a voler essere più severi la storia comincia a far effettivamente presa sulla curiosità solo dopo oltre metà del romanzo, il che può senz’altro scoraggiare.
Alla conclusione della lettura ci si sente quindi un po’ provati, con un infinito cimitero di nomi insignificanti alle spalle: troppi personaggi e comunque poco caratterizzati per poterli ricordare tutti. Personaggi che vestono i panni dei protagonisti per dominare brevemente la scena e poi dismetterli per far posto ad altri presto colpiti dallo stesso destino. Il vero protagonista principale, invece, non ci abbandona mai, ma cambia costantemente il suo nome in un rovinoso peregrinare in lungo e in largo sulla carta geografica del vecchio continente fra tanti luoghi pressoché anonimi (fatta salva Venezia abilmente dipinta attraverso il racconto).
Lo stesso protagonista non riesce a prendere effettivamente forma nell’immaginario del lettore e piuttosto risulta a tratti assurdo nella sua invincibilità, nella sua perseveranza, nella fiducia incondizionata che ripongono in lui i più disparati personaggi investendolo di volta in volta di compiti apparentemente troppo importanti per una persona incontrata più o meno casualmente. In compenso ci accompagna rendendoci spettatori di una selva di dialoghi e di sermoni, cui sfortunatamente corrispondono nell’arco di tante pagine pochi “stiracchiatissimi” giri di vite alla trama.
Particolarmente interessante è, invece, la costruzione dell’antagonista Q, in gran parte realizzata attraverso l’espediente della corrispondenza epistolare. Del suddetto carteggio si legge soltanto la parte delle missive scritte di proprio pugno da Q e rivolte al suo malefico e scaltro signore, impreziosite dall’estrema ossequiosità indirizzata al padrone (osservandissimo, illustrissimo, reverendissimo…), capace di rievocare dai ricordi d’infanzia le più efficaci immagini dei “cattivi” custodite nella memoria.
Personalmente ho apprezzato talmente tanto la tessitura dell’immagine di Q che durante il racconto quasi ho finito per parteggiare per lui, con i suoi terribili inganni al servizio delle mire dispotiche della sua guida.
Complessivamente quella del collettivo Wu Ming (altro pseudonimo degli autori di "Q"), rappresenta un’iniziativa estremamente interessante e quantomeno peculiare nel suo genere. Ammetto di essere arrivato a leggere “Q” dopo esser stato conquistato da “L’armata dei sonnambuli” degli stessi autori, forse dotato di una trama più coinvolgente e di personaggi meglio scolpiti.

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Wu Ming
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80
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Libri per ragazzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Mane Opinione inserita da Mane    03 Novembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Com'è bella la città, com'è grande, viva, allegra.

20 ciak sull'esistenza di un protagonista straordinario nella sua ordinarietà: Marcovaldo.
20 preziosissimi frammenti, scanditi dallo scorrere delle quattro stagioni, che si stampano nella memoria del lettore come ricordi di momenti vissuti in prima persona.
Quasi impossibile non affezionarsi a Marcovaldo, eroe atipico, umile, maldestro e sognatore, insieme alla sua numerosa famiglia, prigioniero indomabile di una grigia ed alienante dimensione cittadina che incarna in modo esemplare tutte le contraddizioni degli anni del boom economico italiano.
La narrazione è coinvolgente e non smette mai di evocare i cinque sensi del lettore, senza cadere nelle prolisse descrizioni che di tanto in tanto appesantiscono alcuni romanzi. Inoltre, la scelta di registro linguistico e lo stile di scrittura, semplici e piacevoli quanto raffinati, rendono il testo adatto alla lettura per qualsiasi età.
Come in pochi altri casi letterari, leggendo queste pagine, si è trascinati in un turbinio di vibranti emozioni: ci si strugge per la penetrante malinconia trasmessa in certi passi, si ride di gusto per la comicità sprizzante in altri. Ma soprattutto, si riflette sulla condizione umana in questo scorcio di secolo scorso, interrogandosi ciascuno sulla propria vita, immersa nel presente e nel futuro verso cui si proietta.
In questo piccolo libro Calvino realizza un capolavoro, facendo poesia del quotidiano e filosofia con il semplice.
Regna incorruttibile allo scorrere del tempo ed alle nuove letture, nell'Olimpo dei primi tra i miei libri preferiti.

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