Opinione scritta da Nai_ve
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E poi purtroppo è finito...
Su It è stato detto forse tutto. Concordo assolutamente con quelli che dicono che It VA letto, indipendentemente dal genere, indipendentemente della mole, indipendentemente da tutto. It è un classico, e non soltanto un classico di genere, perché se è vero che di base è un capolavoro dell'horror, in realtà contiene al proprio interno un numero incalcolabile di elementi. E del resto, credo che forse la parte più profonda e più bella e di maggior valore stilistico/narrativo di tutto il romanzo sia proprio quella che va oltre l'horror stesso: è la storia dei protagonisti, di sette bambini che il lettore impara a conoscere e ad apprezzare sin dall'infanzia e vede poi crescere, cambiare, dimenticare, tornare indietro e dimenticare di nuovo.
Decisamente è un capolavoro, uno dei libri migliori che abbia mai letto. La storia è affascinante, l’incastro degli eventi costruito in modo equilibrato e calibratissimo: niente sfugge al controllo dell’autore, tutto viene fuori esattamente quando e dove serve. All’inizio può forse dare un’impressione di spaesamento, soprattutto perché lo sciogliersi dell’intreccio non corrisponde affatto a quello della fabula, e i tempi narrativi sono giostrati in modo decisamente particolare. Dopo aver letto quasi mille pagine, il lettore è ancora lì a domandarsi CHE COSA è realmente avvenuto nell’estate del ’58 e questo crescente senso di mistero lo tiene incollato alla storia fino alla fine. È vero, la narrazione è piena di elementi di «corredo», forse non proprio necessari al fine della narrazione, ma sicuramente utilissimi a caratterizzare i personaggi, a renderli fisici, tangibili, a farli concretamente «conoscere» al lettore.
Lo stile è semplicemente perfetto: sempre lucido, precisissimo, mai piatto, mai banale. Una sottile, certe volte amara, vena ironica attraversa la narrazione in modo costante e fa saltare un sorriso sulle labbra anche nella descrizioni di eventi che altrimenti risulterebbero spiacevoli. Oserei quasi dire che King in questo romanzo (e non so in altri perché non ne ho ancora letti) ha uno stile ipnotico: nel gioco delle descrizioni, il fluire della frase sfocia sulla pagina come un fiume in piena e travolge l’attenzione del lettore, trascinandolo via quasi senza dargli tempo di riflettere.
C’è forse (a mio parere) qualche piccola debolezza sul modo in cui alcuni personaggi finiscono per eclissarsi al termine della storia. Ma ciò che più resta dopo le ultime pagine è in fin dei conti un grande senso di vuoto, quasi di perdita: è strano restare lì a fissare la pagina con la consapevolezza che dopo milletrecento pagine la storia è finita. Hai vissuto con i personaggi, sperato con loro, sofferto e gioito con loro: sono quasi diventati parte di te, e la magia del loro particolarissimo rapporto di amicizia, così forte e al tempo stesso così fragile, ti lascia dopo tutto una sensazione di strana malinconia. È quasi come se Bill, Ben, Richie, Bev, Eddie, Stan e Mike ti mancassero. E forse in questo, più che in ogni altra cosa, sta la grandezza e il fascino del romanzo.
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Una buona lettura
Avevo già letto un altro romanzo di Marc Levy – “Sette giorni per l’eternità”, mille anni orsono – e ne ero rimasta felicemente sorpresa. A distanza di molto tempo, mi è capitato tra le mani questo suo nuovo libro, che a giudicare della citazioni di copertina – «il miglior libro che Levy abbia mai scritto» – sembrava promettere piuttosto bene.
Mi rallegra concludere che per una volta quei giudizi non erano messi lì soltanto a caso o per gonfiare le vendite. Non so se sia davvero il «miglior» libro dell’autore, ma certamente si tratta di un buon libro.
La storia è a sfondo prevalentemente amoroso, benché l’amore rappresenti perlopiù il compimento finale di ogni peripezia e, pur configurandosi come il principale filo conduttore della vicenda, non appare in ogni caso troppo ingombrante: è bandito qualsiasi tipo di smanceria, ma anche qualsiasi tentativo di erotismo palese e non ci sono grandi intrecci di coppie e amanti disperati. È il semplice e puro racconto dell’evolversi dei rapporti umani tra i protagonisti che si affollano – si fa per dire, perché non sono poi così numerosi – sulla pagina.
Alto tema portante è quello del viaggio: da Londra ad Istanbul, nel sorgere dell’anno 1951, Alice si allontana dalla sua città alla ricerca dell’uomo «più importante» della sua vita, seguendo quasi per gioco la predizione di una veggente incontrata al luna-park. Il suo non è tuttavia solo un viaggio-avventura, ma anche un viaggio-ritorno, un viaggio-scoperta. Qualcosa di sorprendente la sta aspettando: una storia un po’ dolce-amara che tutti sembrano nel frattempo aver dimenticato…
Lo stile è brillante, rapido e scorrevole. Le descrizioni sono perlopiù bozzettistiche, quasi impressionistiche. Tutto passa attraverso gli odori e i sapori dei luoghi che i personaggi incontrano di volta in volta. La narrazione si svolge in quasi in forma «cinematografica»: Levy non si dilunga mai in parti inutili, e anzi taglia e seleziona, ricreando un susseguirsi di «quadri» che per molti versi ricordano proprio le scene narrativamente brevi dei film.
I dialoghi sono estremamente ben articolati: i personaggi hanno una certa distinzione vocale e i loro discorsi si leggono con gusto e in genere col sorriso sulle labbra. Infine, sono costruiti ottimamente anche i rapporti fra i vari protagonisti, che conservano sempre una buona coerenza di parole ed azioni.
Giudizio nel complesso estremamente positivo. “La chimica segreta degli incontri” è un libro che si legge d’un fiato, al tempo stesso leggero e per certi versi agrodolce. Un libro che rilassa e fa sognare, una bella storia d’amore e d’amicizia, pura ed essenziale, riservata e piacevolissima.
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Merrik, l'inutile
Avendo letto altre cose di Anne Rice mi aspettavo di meglio. È un libro piccolo, d’accordo – e comunque più di 300 pagine… – ma questo non credo basti a giustificare la quasi totale assenza di trama.
Si parla di una strega, Merrick, che ci viene presentata – perlomeno nella quarta di copertina – come l’anello che lega la saga dei «Vampiri» a quella delle Streghe Mayfair. Eppure le Streghe Mayfair non c’entrano assolutamente nulla. Solo quel cognome, retaggio di un vecchio e lontano ramo di parentela, fine del contatto.
La storia è narrata da un personaggio pseudo-secondario – ma non è ben chiaro se sia lui il protagonista o se, al contrario, lo sia lei. In ogni caso, tale David Talbot è un vampiro e racconta al lettore la vicenda della sua vita con Merrick, quella pregressa e quella che sta che svolgersi. Tuttavia solo il pregresso, a mio parere, sembra dare un certo tono d’interesse alla narrazione: una parte composta da circa cento pagine, l’unica che valga effettivamente la pena di essere letta.
Merrick del resto è un personaggio interessante, ben tratteggiato e dotato di una certa presenza. Ma David rimane quasi solo ed esclusivamente un narratore e tende in genere a scomparire nel testo. Louis Pont du Lac, che ritorna dopo altre storie, appare e si comporta come una sorta di fantasma, ben poco importante in tutto quello che succede, nonostante si sappia sin dal principio che tutto punta a far «resuscitare» lo spirito di Claudia. Ma è una resurrezione perlopiù inutile, e tutto quello che si verifica a partire dalla fine del racconto di David – la suddetta vita pregressa con Merrick – e fino alla fine della storia appare in verità piuttosto inutile.
Ho impiegato quasi due settimane a terminare di leggere le ultime trenta ancora più inutilissime pagine dopo l’evocazione di Claudia. E leggendo sulla quarta… «nonostante i suoi grandi poteri, il gioco di Merrick è troppo pericoloso, e la danza di seduzione e di morte a cui ha dato inizio le sfugge ben presto di mano…»
…chissà cosa mi aspettavo! E invece è stata soltanto una grossa delusione.
Anche lo stile della Rice, che normalmente trovo molto seducente e scorrevole, in questo libro si è dimostrato terribilmente appesantito dal ricorso continuo a specialismi preziosi, «squisitamente» e «meravigliosamente» esagerati nella descrizione di ogni singolo – spesso banale – dettaglio. Il «virtuosismo di stile», insomma, ha sorpassato la storia e in questo modo l’equilibrio non regge affatto.
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Fantasia creativa
Pochi libri sono al tempo stesso istruttivi e piacevoli come questo. Rodari conserva nella saggistica la stessa schietta freschezza narrativa che riserva ai romanzi e ai racconti per l’infanzia, realizzando un saggio sulle possibilità e sulle infinite varietà della scrittura creativa, senza risultare mai banale e mai prolisso, mai noioso e sempre attuale. Realizza insomma un testo adatto a tutti, aperto a tutti, che insegna senza distinzione di sorta ad inventare storie partendo da idee semplici, spesso simpatiche, e perlopiù solo apparentemente ingenue o frivole. La sua dichiarazione poetica, «tutti gli usi della parola a tutti», vuole del resto sottolineare proprio questo: tutti possono inventare favole (e perché no, dalle favole ai romanzi e così alle storie per adulti) e per farlo basta lasciar spazio alla fantasia e alla creatività, senza porsi limiti di qualsiasi genere, siano essi mentali, spaziali, di verosimiglianza, seguendo un procedimento che prima ancora che dell’uomo adulto è proprio non a caso del bambino.
I metodi «consigliati» da Rodari sono, citando le sue parole, «solo alcuni» fra quelli possibili. Propone ad esempio di servirsi di un «binomio creativo»: due parole, gettate l’una contro l’altra, che proprio in virtù della loro – possibilmente grande – distanza semantica permettono di creare divertenti incontri narrativi. Un’altra possibilità sta nell’utilizzo dell’«errore creativo», che consente di rendere ogni strafalcione grammaticale un potente indizio creativo per l’invenzione di una storia. Perché, poi, non partire da fiabe antiche per produrne di nuove? Si può sconvolgere il senso di una locuzione, di un modo di dire cristallizzato, di una frase idiomatica che nessun adulto, diversamente, si sognerebbe di ripensare come fanno i bambini: ad esempio, l’orologio che «spacca il minuto». Come lo spacca? A martellate? E «vedere le stelle» per il dolore, quali costellazioni ci permette di ammirare anche senza cannocchiale? Questi sono alcuni tra gli esempi descritti dall’autore.
Il punto di partenza è la fantasia, considerata da Rodari il senso più profondo della libertà umana. Nulla più della fantasia permette all’uomo di sentirsi davvero libero e, parafrasando il suo pensiero, la fantasia è la sola forma di libertà umana che nessun regime, nessuna dittatura, saranno mai in grado di imbrigliare. Ho studiato letteratura, ma mai nessun autore o saggista era riuscito a trasmettermi un messaggio di così potente fiducia nelle facoltà umane, nonché nel senso di grandezza e profondità che soltanto l’arte è in grado di trasmettere già soltanto attraverso il suo atto di realizzazione.
Vorrei inoltre sottolineare come la “Grammatica della fantasia”, oltre ad essere un saggio di scrittura, è implicitamente anche un manuale per imparare ad essere buoni genitori. Ho trovato tra le sue pagine insegnamenti davvero notevoli, e del resto il grande spazio dato alla creatività mi sembra già in partenza un’ottima premessa per una buona l’eduzione dei più piccoli. Oggi la scuola dà ancora pochissima rilevanza alle capacità fantastiche di ogni alunno (e se ne lamentava già Rodari nel ’70!), e così il mondo che, una volta emersi dall’alveo dell’infanzia, scalza verso la propria irrimediabile fine quella fantasia che resta – e nei bambini di oggi, molto spesso di fantasia ne resta purtroppo davvero poca. L’omologazione, in fondo, richiede un minimo uso della creatività: meno ce n’è, meglio è. Rodari, al contrario, insegna che la creatività fantastica è importante e invita per questo ad educarla: come l’amore, anch’essa, pur essendo naturalmente presente nella mente del bambino, necessita attenzioni e cure per svilupparsi al meglio. E credo che anche la scuola ormai dovrebbe capirlo: la creatività è sinonimo di intelligenza, così come lo è la capacità di saper svolgere un’espressione matematica o riconoscere un predicato verbale da un sostantivo.
Mi sento per questo di consigliare la “Grammatica della fantasia” a tutti coloro che nella propria adolescenza (e oltre) si sono sentiti accusare di «vivere nel mondo delle favole», e a tutte quelle persone che hanno rinunciato ad inventare, a creare, a disegnare, scrivere, dipingere, comporre e quant’altro, per trovarsi una «fatija (lavoro) seria», come si dice dalle mie parti. E anche a tutti coloro che pensano che inventare storie sia troppo oltre la loro portata. Rodari permette di capire non bisogna essere grandi scrittori per inventare favole: basta soltanto dimostrarsi fanciullescamente aperti alla creatività fantastica. E per dirlo in altre parole: «Non serve essere grandi artisti per fare dell’arte».
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Pur sempre Martin.
Devo premettere che l'edizione di "Tempesta di spade" che ho potuto leggere non è perfettamente identica a quelle pubblicate e recentemente vendute in libreria. Il testo originale, "Storm of swords", di oltre mille pagine, in italiano è stato spezzato in tre volumi (Tempesta di spade, I fiumi della guerra, Il portale delle tenebre), ma esiste anche un'edizione edita nella collana Urania che ha diviso lo stesso libro in due soli volumi dal titolo "Tempesta di spade" parte 1 e 2. Beh, questa è l'edizione che ho letto e dal momento che non è a questo punto facile capire dove iniziano e finiscono le edizioni in tre parti, mi limiterò a dare un giudizio complessivo dell'opera, intendendo col titolo in questione TUTTO il terzo romanzo pubblicato in lingua originale come "Storm of swords". Nessuno spoiler in proposito.
Ho naturalmente letto anche i precedenti libri della saga e penso di poter affermare che tra i tre forse questo è il migliore. Vengono descritti molti avvenimenti importanti, direi cruciali per la saga. Inoltre la capacità così evidentemente Martin-iana di far fuori i personaggi quando meno te lo aspetti è in questo libro quasi portata alle estreme conseguenze. Certamente il romanzo è lungo e questo significa che l'autore si prende molto tempo e molto spazio per inserire dettagli che, se non hanno chissà quale importanza al fine della storia, risultano comunque interessanti e utili a comprendere meglio il mondo di Westeros. Ho letto il libro dopo aver visto il film, ma soltanto leggendo ho capito tanti degli striminziti accenni riproposti nella serie: specialmente in relazione al personaggio di Arya, nel libro c'è davvero molto di più. La serie televisiva ha soppresso la stragrande maggioranza della storia della Fratellanza senza vessilli e di Beric Dondarrion, che vengono perlopiù liquidati a poche rapide scene, e che invece nel romanzo sembrano avere una certa importanza, nonché preannunciare eventi futuri che solamente in questo modo permettono di capire a pieno il senso delle vicende riportate nell'ultima stagione del Trono (la sesta).
I personaggi sono ben descritti, ben strutturati e dotati di una certa coerenza che li fa agire perlopiù in modo prevedibile ma anche piuttosto verosimile. Ho apprezzato molto l'introduzione del punto di vista di Jamie, che è risultato un personaggio davvero ben pensato e caratterizzato. La sua presenza permette all'autore di inserire vari flashback sulla storia di Aerys il Folle, ovviamente tralasciati nella serie tv. Sarsa resta uno dei miei personaggi preferiti, mentre di certo avvincenti sono come al solito i capitoli di Tyrion, di Jon e di Arya. La parte più noiosa è senza dubbio quella di Daenerys, alla quale sono dedicati quattro o cinque capitoli totali, piuttosto ellittici e schizzati (la serie ci ha invece inzuppato il pane, annacquando queste parti in modo notevole).
Lo stile di Martin non mi piace particolarmente, ma devo riconoscere che in alcuni punti ha delle uscite interessanti, anche se queste sono perlopiù limitate ai capitoli di Tyrion, che resta pur sempre evidentemente il personaggio preferito dall'autore. Trovo interessante il fatto che la lingua narrativa (e quella dei dialoghi) tenda a cambiare insieme ai personaggi, e per questo ad esempio i toni e le espressioni usate da Sansa siano ben diversi da quelli che potrebbe usare Tyrion o Arya.
C'è però in generale una caratteristica che credo funzioni poco in questo libro, così come negli altri della saga, ed è la scarsa capacità di far "sentire" le emozioni attraverso la percezione dei personaggi che le vivono, soprattutto in un testo che si sviluppa proprio a partire dai punti di vista dei personaggi stessi. In particolare, proprio nelle scene il cui il pathos è più elevato, Martin tende in più di un caso a liquidare la scena in poche battute incisive. Succede ad esempio nelle uccisioni, che non sono particolarmente bene descritte dal punto di vista emotivo (la profusione dei dettagli invece c'è ovviamente tutta). Mentre leggevo mi è per questo sembrato che mancasse qualcosa. Certo, l'aver già visto la serie rende i colpi di scena molto meno sorprendenti, ma non credo si tratti solo di questo. Del resto, sembra davvero che in alcuni casi l’autore non veda l’ora di troncare il più rapidamente (e a volte frettolosamente) possibile le situazioni che descrive: succede quasi ad ogni capitolo, quando una battuta buttata lì taglia (realmente) il finale, lasciando il lettore a prospettare chissà quale seguito. Va bene la suspense, ma a volte le conclusioni risultano decisamente forzate.
Ad ogni modo, al di là di queste piccole “pecche”, il libro mi è piaciuto e l’ho trovato interessante. In questo caso come in altri, aver guardato il film non è stato un ostacolo alla lettura: è sempre consigliabile leggere i libri “dopo”, perché solo in questo modo si finisce per scoprire molto più di quanto si immagina.
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Unire l'utile al dilettevole
Premesso che adoro la storia romana, non ho mai trovato così piacevole leggere un libro sull'argomento prima di imbattermi in "Una giornata nell'Antica Roma". Credo che sia il mezzo migliore per immergersi nel mondo dell'Impero, un saggio-romanzo che non annoia mai e permette di guardare oltre la classica Grande Storia fatta di guerre e politica, che solitamente lascia poco spazio alla realtà concreta della gente comune - quella che in fondo (inutile negarlo) forse ci interessa più di tutto il resto.
E allora: come vivevano i romani? Cose mangiavano? Come vestivano? Cosa facevano nel tempo libero? E in che modo il loro sistema di vita potrebbe essere percepito in rapporto al nostro? Questo libro permette di rispondere a interrogativi come questi, con aneddoti divertenti, curiosità mai scontate e sempre rimanendo nella veridicità di fatti e ritrovamenti storici. Insomma, interessando e insegnando al tempo stesso; e il che non è poco.
Mi permetterei di suggerire questo libro a tutti coloro che "ah, la storia che noia". Se la proponessero così - anche a scuola - a mio modesto parere gli studenti smetterebbero di considerarla una palla mortale e l'apprezzerebbero di più. Inoltre, Albero Angela ha la meravigliosa capacità di saper non solo descrivere ma anche narrare, evocare, ponendosi ad un livello di medietà perfettamente articolato e ben scritto, che rende accessibile il suo testo a tutti. Una narrazione piacevole la sua, espressa in modo chiaro, senza fretta, con descrizioni precise e dettagliate. Uno stile bello da leggere e facile da comprendere (e ce ne fossero di scrittori così!). Se amate i suoi programmi televisivi, non potrete non amare questo libro.
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BELLO E BEN FATTO
A dispetto del titolo molto simil-Twilight e altri vampiri, questo romanzo merita. Avevo già letto della stessa autrice L’ora delle Streghe, che mi aveva tenuto incollata alle pagine e appassionato moltissimo. Dunque ho scelto questo libro quasi esclusivamente in base a chi l’aveva scritto e ho continuato a riguardarlo e a riguardarlo a lungo, chiedendomi se effettivamente avessi fatto la scelta giusta (il rischio polpettone sui vampiri c’era tutto considerando il titolo). Ma non si giudica mai un libro dalla copertina, soprattutto se la copertina porta una traduzione italiana molto poco fedele all’originale. Perciò, iniziando la lettura, ho anche cominciato a chiamare questo libro col suo vero nome: Blackwood Farm, un titolo che si addice decisamente meglio a quello che c’è scritto dentro (maledette traduzioni reader-oriented).
Posso dire che in generale le prime pagine mi hanno comunque spinta ad andarci coi piedi di piombo, perché effettivamente si parlava di vampiri (si sarà capito forse che non li amo) ma strada facendo il mondo di quel vampiro mi avvolta. La vera storia ha inizio quando lui prende a raccontare di sé e da quel momento in avanti sembra si stia scoperchiando il vaso di Pandora.
Tutto è narrato in modo scorrevole e preciso al tempo stesso, tutte le situazioni si svolgono con calma e senza fretta: il lettore ha tutto il tempo di prendere famigliarità con i personaggi, dapprima solo sbozzati, e poi pian piano sempre più chiari, più reali. È quasi come se il protagonista ti prendesse per mano e ti guidasse a scoprire un passo alla volta quello che è accaduto nel corso della sua esistenza. E gradino dopo gradino ti accorgi che sei entrato nella sua realtà molto più di quanto credevi possibile. Cresci con lui, cambi con lui, avanzi con lui verso un mondo che s’intorbidisce e diventa oscuro, finché l’oscurità ti avvolge del tutto e a quel punto ti accorgi che il male non è assoluto e che tutto cambia al mutare dei punti di vista: da vittima a carnefice e da carnefice a vittima di nuovo. In più, quel tema che sembra così portante all’inizio (i vampiri, esattamente) dopo le prime pagine diventa un qualcosa di quasi marginale, solo una piccola parte del tutto. E anche se il protagonista è un vampiro, lo è in realtà solo per metà della sua storia: c’è altro in lui, altro nella sua esistenza. La Rice unisce qui il vampiresco alle streghe e ad altre entità soprannaturali, che rendono il corredo molto meglio bilanciato e gradevole anche per quelli come me che con i vampiri fanno un po’ a cazzotti.
I personaggi sono resi benissimo, tutti con una propria unicità, mai scontati, mai fuori luogo. Tutti sicuramente affascinanti. Sono talmente ben tratteggiati da farti affezionare e piangere con loro. Tutti hanno senso, tutti funzionano. Davvero ben riusciti.
Le ambientazioni sono intriganti, magiche. Personalmente apprezzo moltissimo il mondo della Louisiana descritto dalla Rice e qui ancora più che ne L’ora delle streghe quel mondo sortisce il suo effetto magnetico ed intrigante. La storia è ambientata principalmente in una palude e le atmosfere decisamente funzionano.
Per concludere, lo stile: la parte migliore a mio parere. Semplicemente adoro il modo di scrivere di Anne Rice, le sue descrizioni mai banali, sempre perfette, ogni parola al posto giusto. Indugia moltissimo nei dettagli come al suo solito, ma nel complesso quei dettagli si adattano alla perfezione. Assolutamente nulla da ridire, anzi: se volessi saper scrivere come qualcuno, sceglierei lei (e chi la traduce perlomeno, perché anche questo fa la differenza).
Insomma, un bel libro, uno di quelli che ti lascia con malinconia a fissare l’ultima pagina quando lo concludi. La storia di una famiglia e di un luogo, molto più di una semplice vampire-story.
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SUCCESSO DELUDENTE
Ho iniziato questo libro fidandomi delle moltissime critiche positive che girano sul web. È solo il primo di una lunga serie, ma (mi sono detta) se la saga è piacevole anche una dozzina di volumi si leggono senza problemi. Beh, purtroppo devo dire che mi fermerò al primo e non procederò oltre.
Sulla quarta di copertina c'era scritto "La saga più letta del mondo" e mi chiedo ancora se questa frase vada intesa in senso iperbolico o se sia davvero così. Fatto sta che Jordan (scrittore adulto, maturo, morto prima di terminare il libro - non un qualunque esordiente dunque, e questo faceva ben sperare) con questo primo libro mi ha deluso abbastanza. Quasi settecento pagine che alla fin fine si riducono quasi a... beh a poco. Per carità, non che osteggi i dettagli, le descrizioni e la prolissità, anzi (anche perchè quelli non mancano)! Però mi piace quando in tutto questo si può trovare del contenuto... invece ho proprio avuto l'impressione che di contenuto ce ne fosse ben poco. O se c'era era molto "annacquato", diciamo.
Eppure la storia si presentava bene. Ho apprezzato i primi capitoli, la descrizione dei luoghi e l'atmosfera creata dall'autore. Ma è stato un vero peccato vederla venire meno subito dopo al sopraggiungere del solito impedimento da "scappiamo altrimenti non sappiamo come iniziare un fantasy". A seguire, purtroppo (e dico purtroppo, perché mi dispiace dover essere dura con un autore di fama internazionale, io minuscolo utente sconosciuto nel mare infinito di internet) la storia ha subito (a mio parere naturalmente) un fortissimo declino. Ho impiegato molto tempo a riprendermi dallo stallo e benché qua e là via sia stata qualche punta di interesse, ogni nuova volta la storia ha finito per deludermi. Ho terminato di leggere quasi solo con la speranza che potesse riscattarsi sul finale e mettermi la curiosità di continuare a leggere il secondo libro... ma non è stato così.
In definitiva?
Questo primo romanzo mi sembra un inizio deludente, lento e inconcludente. Due sono le cose: o c'è troppa carne sul fuoco e resta lì e non si cuoce, o non ce n'è di abbastanza saporita. Le vicende e gli spunti appaiono piuttosto banali (sì, lo so: l'ispirazione a Tolkien e bla bla bla... bene, basta così con questa storia dell'ispirazione), il tema del viaggio è bene o male lo stesso di decine di altri libri; il mondo di Jordan non è ben descritto come avevo sperato leggendo ottime recensioni anche su questo; i personaggi stessi, non so... sono troppo statici, fissi, a volte persino fuori luogo nella loro marmorea immobilità. Alcuni di loro (a mio parere) risultano addirittura inutili.
Ma credo che la cosa peggio riuscita di tutto il libro sia un'altra: i dialoghi. Ok, sarò una che bada a certe piccolezze, ma il dialogo secondo il mio modesto parere è FONDAMENTALE: serve a far emergere le storie, le emozioni, le diversità (diversità, questa sconosciuta), i personaggi stessi insomma. E invece qui quello che mi è sembrato di cogliere è stato un susseguirsi di gente che parla tutta allo stesso modo, tutta con gli stessi intercalari e le stesse frasi idiomatiche, senza un minimo di differenza che possa creare una certa unicità del ruolo. Cercavo di concentrarmi su altro mentre leggevo i dialoghi perchè alcuni veramente non si potevano sentire... voglio dire, chi davvero direbbe "quali sporchi piani state tramando?"... è una frase da cattivone dei film americani, insomma, non è credibile che qualcuno parli così nella realtà...
In conclusione, l'unica cosa che ho apprezzato è stato lo stile. Ho trovato delle belle descrizioni e una certa dovizia di particolari che fa sempre bene a questo genere di storie. Ma un grande romanzo non può basarsi unicamente su delle belle descrizioni. Non un romanzo che si prefigge grandi obbiettivi come questo.
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