Opinione scritta da Bipian

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Bipian Opinione inserita da Bipian    01 Novembre, 2018
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Il mondo dei vincitori

Un classico di un genere di nicchia: il romanzo ucronico, o fantastorico. Philip K. Dick immagina come sarebbe il mondo se l'Asse avesse vinto la seconda guerra mondiale, con gli USA divisi in sfere d'influenza tedesca (costa atlantica) e giapponese (costa pacifica) e una zona centrale più autonoma ma politicamente ininfluente denominata "Stati delle Montagne Rocciose", la Russia ridotta ad un'area ancor più marginale e subalterna, devastata dalle deportazioni naziste e sfruttata per la manodopera a basso costo, un'Asia (Cina, India, Indocina) e un'Oceania dominate dal Sol Levante.

Premetto che l'autore non si sofferma troppo sugli elementi di geopolitica di questo Risiko mondiale, bensì privilegia la riflessione interiore e il dialogo dei personaggi, attraverso i quali vengono offerti in maniera molto suggestiva innumerevoli spunti di riflessione sui temi cari all'autore: il potere, la falsità della storia, l'alienazione dell'uomo nella società, i valori contrapposti e inconciliabili delle diverse culture, il mito del progresso scientifico.

Inizialmente può risultare spiazzante la tecnica narrativa che segue in maniera piuttosto meticolosa le vicende (tutte ambientate in una nazione americana crepuscolare) separate di molti personaggi, che senza presentazioni sono descritti nel loro presente contingente. Attraverso le loro azioni e le loro considerazioni viene svelato gradualmente lo scenario in cui sono immersi e che li domina. Infatti che si tratti del timoroso mercante d'arte americana, dell'onesto funzionario giapponese, della sensuale insegnante di judo, o dell'influente agente nazista, tutti devono fare continuamente i conti con gli eventi enormi della Storia. E' il destino dei cittadini dei paesi vinti: quello di adattarsi loro malgrado ad altri valori che non capiscono (la cultura giapponese negli USA) o che vengono imposti con la violenza (il nazismo).

A tal riguardo comunque Philip K. Dick non è del tutto imparziale: sicuramente affascinato dalla raffinatezza delle culture orientali, tanto da affidare continuamente all'oracolo millenario cinese "I Ching" l'interpretazione delle sorti dei personaggi anche americani, coglie però nel regime nipponico, rispetto agli USA umiliati, una superiorità beffarda e in fin dei conti compiaciuta e lo mette nero su bianco in un illuminante passaggio:

"E' così che governavano i giapponesi, non con la crudeltà ma con la sottigliezza, con l'ingegno, con l'astuzia di secoli. Cristo! In confronto a loro siamo dei barbari. [...] Siamo stupidi ed ingenui, di fronte a questo modo di ragionare così lucido e spietato."

Del regime nazista l'autore non condivide ovviamente la violenza, ma nemmeno la filosofia superomistica:

"La loro visione è cosmica. Non un uomo qua, un bambino là, ma un'astrazione: la razza, la terra. [...] Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia. Si identificano con la potenza di Dio e credono di essere simili a dèi. Questa è la loro pazzia di fondo. [...] Quello che non comprendono è l'impotenza dell'uomo. Io sono debole, piccolo, senza la minima importanza per l'universo. [...] Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande."

Lo spirito americano stritolato da queste due ideologie dominanti ed ostili tenta di emergere debolmente nella schiettezza e nell'eroismo di alcuni personaggi nativi statunitensi in cerca di una riscossa personale. Ma è solo uno spiraglio di luce in un contesto alienante.

Così come un altro segnale di utopica speranza è costituito da un altro libro ucronico dentro il libro (oltre al già citato "I Ching"), dal titolo stavolta inventato, "La cavalletta non si alzerà più" (riferimento dotto all'Ecclesiaste) in cui sono invece gli Alleati a sconfiggere l'Asse e a spartirsi il mondo tra USA e Inghilterra. Ma è tutto un inganno, comunque vada la Storia, in quanto quelle due nazioni, spiega l'autore tramite una spia nazista:

"Sono due plutocrazie, nelle mani dei ricchi. Se avessero vinto, avrebbero pensato solo a far soldi e quello sarebbe stato l'unico problema delle classi dominanti."

E ancora lo scontro tra Alleati e Asse viene descritto come:

"Il vecchio contro il nuovo. Il denaro - ecco perché i nazisti tirarono in ballo ingannevolmente la questione ebraica - contro lo spirito comune delle masse, quello che i nazisti chiamano Gemeinschaft... identità collettiva. Come i sovietici. La comunità."

Tematica attualissima oggi pensando alla contrapposizione crescente tra élite dominante e nuovi populismi/sovranismi.

In definitiva un romanzo complesso, ucronico ma assolutamente credibile, ben congegnato anche nell'avvincente trama, con molteplici chiavi di lettura e piani semantici, tra cui su tutti prevale quello psicologico.

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E' un romanzo psicologico, storico, fantastorico, fantascientifico, distopico, nonché lo si può leggere come un thriller.
La trama si sviluppa in modo graduale. E' come se i personaggi in un gioco da tavola partissero da diverse caselle anche distanti e poi via via si incontrassero, per poi separarsi di nuovo, in alcuni casi per sempre... (non voglio spoilerare). Non c'è una vera fine, ma l'intero libro (poco più di 300 pagine) sembra soltanto l'inizio di una lunga saga. Dick non ne scriverà un sequel, ma ci penserà Amazon Studios 53 anni dopo a ricavarne una serie TV ("L'uomo nell'alto castello"), che mi accingerò a guardare (qualcuno l'ha vista?).
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Bipian Opinione inserita da Bipian    30 Settembre, 2018
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Massimalismo alla Mauro Corona

Mi ricordo ancora l'intervista radiofonica a Aldo Nove che terminava in un qualcosa di simile a: “Viva la drog..., ehm non si può dire”. Ecco, ora capisco: temo che gran parte del libro sia stato scritto e concepito sotto l'effetto di qualche sostanza allucinogena, altrimenti non si spiegano i salti logici e semantici, gli errori sintattici, la punteggiatura buttata a caso; o quantomeno appare evidente che la bozza non è mai stata riletta e corretta. In ogni caso ci troviamo di fronte ad un'opera a metà tra il farneticante e il dilettantistico, irritante per il modo in cui è stata scritta.

Oltre che la forma, anche la trama è alquanto traballante. C'è questo professore di Viggiù, guarda caso città natale dell'autore, una sorta di mago Merlino dei tempi moderni, esperto, saggio, tuttologo, che prima di sparire lascia un messaggio al protagonista, forse in sogno, forse no – il libro è pieno di indecisioni e di aspetti contrari e contraddittori che dopo un pò non vale nemmeno la pena di risolvere – oppure lo trascina in un viaggio, in un'avventura, a tratti puramente trash, guazzabuglio di finzione, realtà, attualità surreale, che mi guardo bene dallo svelare...

Peccato, perché la volontà di denunciare alcuni mali della società, che sottende alla confusa trama, è condivisibile ma totalmente inefficace, in quanto messa in bocca a personaggi per nulla credibili e caratterizzati poco e male. Tramite essi, l'autore sale in cattedra e spara a zero con toni apocalittici contro l'umanità tutta, definendola già morta, a causa dello spostamento dall'essere all'avere, della schiavitù ai soldi e al profitto, della “Finanza” e del controllo delle grandi famiglie capitalistiche sul pianeta. Sono temi senz'altro importanti che però vengono banalizzati da un massimalismo che ricorda le invettive di un Mauro Corona.

Senza contare gli scivoloni presuntuosi nello scagliarsi contro le case editrici ed i lettori stessi. Qui vale la pena citare testualmente:"...in un paese di deficienti in cui editori e lettori non si sottraggono certo alla demenza, alla povertà mentale e di valori del resto della popolazione per il fatto che leggono o dicono di leggere libri (sarebbe troppo facile)".

Un libro pieno di astio, poco rispettoso nei confronti dell'intelligenza umana, catastrofista e catastrofico. Un'occasione persa.

Viene voglia di disintossicarsi con un “1984” o un “La fattoria degli animali” di Orwell. Ma lo chiederei a Aldo Nove: perché non esistono più scrittori così?

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Non consigliato dopo aver letto Orwell, Huxley, Dick, Golding.
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Bipian Opinione inserita da Bipian    08 Settembre, 2018
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Micòl Finzi-Contini...

Quanto bene fanno certi romanzi, quanta saggezza racchiudono, quanto vissuto...

Le prime pagine sono un po' spiazzanti, divagatorie e descrittive, ma servono all'autore per introdurre elegantemente il romanzo, con uno stile da subito maestoso, dal registro elevato. Il sapore è quello di un buon vino invecchiato. Se fosse un film (il film di De Sica non l'ho visto, ma rimedierò quanto prima) sarebbe finemente patinato. L'introduzione procede a ritroso. Bassani rimuove con cautela la patina del tempo, partendo dalla visita alle tombe etrusche che il protagonista narrante compie in un tempo recente, procedendo al suo riandare con la memoria alla tomba monumentale dei Finzi-Contini e indietro ancora alla genealogia della famiglia ebraica e aristocratica.

Questa marcia funebre intima e solenne, è insieme preludio e già conclusione del romanzo. La tragica fine dei Finzi-Contini, deportati nei lager nazisti, viene resa nota da subito e verrà accettata da tutti i personaggi come ineludibile. Non ci sarà traccia di eroismo ma solo composta rassegnazione.

Poi si apre uno spiraglio soffuso, nebbioso di luce e parte la narrazione del protagonista, bambino, ebreo, nella Ferrara fascista degli anni '20 e la sua conoscenza della famiglia dei Finzi-Contini nella sinagoga che frequentavano.

Sono pochi episodi ma che rimangono impressi e quasi commuovono per la profondità dello sguardo di Bassani, come lo spiarsi reciproco del protagonista con Micòl, da bambini, tra gli spiragli della veste con cui i rispettivi padri avvolgevano i due, dai banchi contigui della sinagoga durante la cerimonia della benedizione. Oppure quando, qualche anno dopo, Micòl sorprende lui affacciandosi da oltre il muro delimitante la storica tenuta della famiglia nobiliare e lo invita a scavalcare con tutta la bicicletta, adoperando le tacche che lei conosceva a menadito. O ancora quando, dopo dieci anni, ormai studente universitario, torna ad entrare nel Barchetto del Duca, stavolta invitato dal fratello di Micòl, Alberto, per una partita a tennis, col pretesto che le leggi razziali entrate in vigore nel '38 avevano proibito la frequentazione dei circoli tennistici comunali agli ebrei.

[spoiler]
Inizia così l'assidua frequentazione del protagonista coi Finzi-Contini e la sua graduale consapevolezza di essersi innamorato di Micòl. Lei così sveglia, disinvolta, leggera e moderna, lui così emozionalmente impacciato e inconcludente. Finirà per rinunciare, avendo sciupato le occasioni di intimità che lei sembra concedergli, sottraendosi però prima dell'eventuale conclusione. Una situazione classica descritta con l'accuratezza di uno psicologo, in cui rimane l'interrogativo se siano le differenze sociali o piuttosto l'indole opposta dei due giovani adulti, o entrambe le cose, a rendere incompiuta la loro relazione.

Gran libro! Un libro che fa bene a tutti, ma che tutti gli adolescenti dovrebbero leggere assolutamente. Recentemente ascoltavo un'intervista a Galimberti sul tema del disagio giovanile. Diceva che il miglior antidoto alla violenza e alla depressione è la lettura, in quanto fornisce degli esempi su come i personaggi di un romanzo affrontano certe situazioni difficili. Dando voce tramite le parole alle emozioni, il lettore impara a riconoscerle, categorizzarle (direbbe Kant), a farle “risuonare” interiormente e quindi a risolverle razionalmente. Chi non lo sa fare, non riesce a distinguere tra bene e male ed è più portato a reagire tramite il gesto violento, istintivo, non mediato dalla ragione.

Il protagonista del romanzo di Bassani ad esempio rinuncia a Micòl dopo aver parlato con il padre, ormai vecchio e stanco, ma saggio e buon consigliere, che gli esprime con le parole ciò che confusamente lui già sa, ma non riesce a vedere con chiarezza. Non l'avesse fatto si sarebbe arrovellato ancora a lungo, sarebbe caduto in depressione, magari avrebbe compiuto un gesto irrazionale (uccidere l'amata, l'amante di lei, se stesso?). Invece il suo farsi da parte ha preservato l'integrità e la dignità di tutti, specialmente di se stesso, non ha intaccato il magnifico ricordo dei giorni passati con Micòl e gli ha permesso di ricostrursi a vent'anni una nuova vita.

E' in parte anche la mia storia, questa, e credo la storia di moltissime persone.

PS: impossibile non innamorarsi di una Micòl!

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Il libro è tornato agli onori della cronaca in quanto scelto per un tema di maturità quest'estate, al che mi sono deciso a leggerlo. E ora capisco come mai sia un libro didattico.
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Romanzi autobiografici
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    09 Agosto, 2018
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Il dramma di un alcolizzato

Dopo aver letto il libro che lo aveva reso celebre, “Sulla strada”, mi era rimasta la curiosità di leggere una delle tante altre opere considerate minori - quantomeno dalla critica - di Kerouac e la scelta di “Big Sur” è stata dettata da tre fattori: lo conoscevo già di nome avendo visto il volumetto molti anni fa nella libreria di mia mamma; è un libro autobiografico, in cui l’autore non usa per se stesso uno pseudonimo, e volevo aggiungere altri pezzi della sua vita; sapevo vi fosse descritta l’esperienza del delirium tremens.

Il titolo è il nome della località californiana in cui nel 1960 Kerouac decide di trascorrere un periodo da solo, nella baita del suo amico e poeta (tuttora vivente) Ferlinghetti, per tentare di dare un taglio alla sua vita di eccessi e di continue baldorie. La fama che tre anni prima gli aveva improvvisamente dato il suo romanzo “Sulla strada” aveva avuto un effetto ambivalente sulla sua fragile personalità: egli si trovava attorniato da molti giovani che lo consideravano un mito, il padre della beat generation, l’uomo che aveva fatto dell’autostop una ragione di vita, che aveva rivelato un modo di vivere nuovo e alternativo, rompendo gli schemi di una società americana conformista e benpensante. Lui non si sentiva un modello per i giovani, voleva piuttosto essere lasciato in pace, in quanto stava letteralmente impazzendo "per la valanga di telegrammi, telefonate, richieste, lettere, visite, giornalisti, ficcanaso”, che si presentavano in casa di sua madre col pretesto di conoscerlo e si facevano offrire vitto, alloggio e sbronze nei bar della città. Così accetta il consiglio di Ferlinghetti di trascorrere in incognito qualche settimana nella baita isolata di Big Sur, in una zona selvaggia della costa a sud di San Francisco, circondato dalla natura incontaminata, da paesaggi grandiosi, il canyon a picco sull’oceano, il ruscello, gli amici animali, verso i quali Kerouac mostra talvolta un amore tipico di un vegetariano.

Ma l’idillio, come ammette l’autore nelle prime pagine del libro, dura poco. La spensieratezza e l’entusiasmo iniziali si trasformano in noia, fastidio, disgusto e infine in paura e presagi di morte. Questo mutare in peggio delle sensazioni percepite è il leitmotiv del romanzo. L’autore si illude spesso che operando un cambiamento di stato, netto, radicale, che si traduce a cambiare di luogo e di compagnia, egli possa mettere a posto le cose. Come un bambino, pensa che basti assecondare l’istinto, la volontà del momento, per vivere sempre sulla cresta dell’onda. Certamente agendo in questo modo non gli sono mancate le esperienze, le più svariate e strane compagnie e situazioni, ma non mai è riuscito a crearsi una condizione fisica e mentale stabile in cui stare bene con se stesso, senza ubriacarsi per svegliarsi sull’ennesimo dannato pavimento il giorno dopo con i postumi sempre più insostenibili di un uomo verso la quarantina, pentito e abbruttito.

Eppure, nonostante gli anni di eccessi, l’autore possiede ancora una lucida consapevolezza della sua situazione e senza filtri - e questa è la cosa più apprezzabile del romanzo - descrive questa condizione di facile entusiasmo iniziale e di inevitabile caduta finale, che è la tipica condizione del drogato o dell’alcolizzato: “"Parti gioioso e mesto ritorni" dice Tommaso da Kempis riferendosi a tutti gli sciocchi in cerca di piaceri come i liceali che escono a divertirsi il sabato sera e si affrettano verso l’auto facendo risuonare i tacchi sul marciapiede aggiustandosi la cravatta e sfregandosi le mani con zelo premonitore, per finire poi la domenica mattina a gemere ottenebrati nei letti che Mamma deve comunque rifare”.

Così il registro del romanzo è baldanzoso e leggero non appena l’autore opta per un cambiamento, vivace e frenetico quando “consuma” l’esperienza, inevitabilmente accompagnata dall’alcol, confuso e avvilito quando l’esperienza termina e rimangono solo i postumi.

Gli unici giorni in cui l’autore è sobrio sono i primi giorni trascorsi da solo a Big Sur. Dopo l’iniziale e positiva novità, si insinua la consapevolezza di una vita sprecata. In assenza dello stato di alterazione indotto dall’alcol, Kerouac vede se stesso in tutta la sua miseria e ne rimane sopraffatto: “E adesso che faccio? Taglio la legna? […] L’orrenda certezza di avere per tutta la vita ingannato me stesso pensando sempre che ci fosse qualcos’altro da fare perché lo spettacolo continuasse mentre in realtà sono semplicemente un pagliaccio depresso esattamente come chiunque altro”.

Da qui in avanti nel libro, Kerouac tornerà dunque sulla maledetta strada, della bottiglia e delle baldorie in compagnia dei suoi amici di Frisco, tra cui il suo Neal Cassady, appena uscito di prigione, in un turbine frenetico e insensato che lo riporterà ancora per due volte nella baita di Big Sur, ma non più da solo. E sarà come in un paradiso perduto, corrotto e deformato, in cui la natura gli sembrerà ostile e ne avrà terrore, in cui verrà tormentato da ogni sorta di atroci visioni e presagi, tipici del delirium tremens. In cui rifiuterà ogni aiuto che i suoi amici e persino la sua amante del momento (procuratagli da Cassady) cercheranno di offrirgli. Rifiuterà in ultima istanza la sobrietà e il farsi una famiglia, perché troppo insicuro e concentrato solo su se stesso, per accorgersi della bellezza del mondo e delle persone che lo circondano. Sappiamo come andrà a finire, Jack Kerouac, nove anni dopo.

Un romanzo potente, drammatico in quanto assolutamente vero, un tema scomodo ma sempre attuale, l’alcolismo, che l’autore forse involontariamente mette a nudo, col pretesto di raccontare se stesso.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    01 Aprile, 2018
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Vite spezzate

Le prime pagine della trilogia sono un pugno allo stomaco. Davvero mi è capitato raramente di leggere qualcosa di più crudo, violento e desolante.

E' la storia di un'infanzia violata di due gemelli, a causa della guerra e della perdita dei genitori.
I bambini diventano spettatori e protagonisti di un mondo crudele e spietato, dove la morte è quotidianità, l'essere umano è privato di una qualsiasi umanità, la bontà è merce rara e preziosa e l'amore non esiste.

Lo scenario è descritto nel primo libro in maniera magistrale con un linguaggio a dir poco scarno e asettico: è il diario tenuto segretamente dai gemelli, che sono troppo giovani per esprimere giudizi, si attengono solo ai fatti, che per loro sono normali.
Il loro agire, cinico e rigoroso, preso forzatamente in prestito dalle persone adulte, è perfettamente coerente con la realtà in cui sono immersi. E' la dimostrazione che la violenza genera violenza, che in regime di guerra sopravvive solo il più forte, che quando le condizioni di vita si spingono al limite, l'umanità e l'amore vengono sacrificati in nome della mera sopravvivenza.

La forza e il progredire di questo esordio verso vertici di immane brutalità valgono da soli la lettura di quest'opera. Poi i toni si stemperano nelle successive due parti, in cui vengono narrate le vite separate dei due protagonisti, ormai adulti. I capitoli si allungano, quasi a voler rappresentare il tempo dell'età adulta rispetto agli anni dell'infanzia.
I due uomini affronteranno per tutta la vita i fantasmi del passato, saranno incapaci d'amare e di essere felici, vivranno una condizione di miseria spirituale e di solitudine estrema, imparando a metabolizzare ulteriori lutti e infine perdendo gradualmente il contatto con la realtà che li circonda.

Il tema dell'esilio, caro all'autrice ungherese, fuggita e vissuta fino alla sua morte in Svizzera dopo l'invasione sovietica del'56, è il filo conduttore degli ultimi due libri, dove peraltro la narrazione a mio parere perde in coerenza e in efficacia.
Qui Agota Kristof confonde volutamente le carte, opera nel terzo libro una narrazione a ritroso, che con più salti ritorna all'infanzia dei gemelli, modificando però completamente la storia narrata nel primo libro.
L'effetto è molto destabilizzante per il lettore, che deve decidere qual è la realtà e quale la finzione (non a caso l'ultima parte s'intitola "La terza menzogna").

Il tutto rimanda a Kafka, al teatro dell'assurdo, all'espressionismo, alla musica dodecafonica, che servono egregiamente allo scopo ma possono essere molto irritanti.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    18 Marzo, 2018
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Nouvelle vague

Immaginate un'estate calda, languida, delle calette seminascoste dove corteggiarsi, una ragazzina oziosa, raffinata, svogliata, che in quell'estate scopre l'amore e che per noia e per spirito di ribellione alle convenzioni della vita borghese conduce un gioco tra amanti dall'esito tragico e imprevedibile.

Uno squarcio della Costa Azzurra del secondo dopoguerra, prima del turismo di massa, luminosa e intima, fa da scenario ad un romanzo torbido e all'epoca certamente moderno che venne messo all'indice dal Vaticano per il suo contenuto erotico e cinico. In effetti in un certo senso "Bonjour tristesse" potrebbe essere considerato il manifesto di un nuovo decadentismo, contemporaneo ma meno intellettuale di quello di Sartre e meno aristocratico di quello di Wilde, direi piuttosto disimpegnato e al femminile.

E' la cruda descrizione di dove può portare un astuto calcolo psicologico condotto con malizia e immaturità dalla protagonista, che peraltro fino alla fine alterna momenti di lucida intuizione ad altri di doloroso smarrimento, stati d'animo di deliziato compiacimento per la sua nuova capacità di manipolare le persone a sentimenti di tormentato pentimento, in cui ricorda proprio la triste parabola dell'autore del "De Profundis". Alla fine della vicenda rimangono soltanto la volontà di rimozione e una malinconica auto-indulgenza che assolvono sostanzialmente la protagonista.

Un romanzo affascinante dal vago sapore esistenzialistico e neo-realistico, che descrive un passaggio all'età adulta e a volerlo trasporre alla società, anticipa il naufragio del '68 e di altre rivoluzioni personali.

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Filone nouvelle vague, neorealismo, esistenzialismo.
Musicalmente rimanda al De André di "Rimini" che si rifece ai "Vitellini di Felloni", pardon ai "Vitelloni" di Fellini.
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Racconti di viaggio
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    01 Dicembre, 2017
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1991, la fine di un'utopia

A cent'anni di distanza dalla Rivoluzione d'Ottobre, da cui nacquero l'Unione Sovietica e il comunismo reale, ho letto uno splendido libro sulla loro fine.

Terzani scrive benissimo, con uno stile originale e fluido, direi documentaristico, alternando e fondendo egregiamente la voce del narratore fuori campo, col se stesso protagonista del viaggio, e con i dialoghi diretti delle numerose persone incontrate e delle interviste con politici, funzionari e dissidenti.

Ne viene fuori un formidabile viaggiatore, un avventuriero moderno, che riesce sempre a districarsi in situazioni spesso rocambolesche, percorrendo in un mese e mezzo l'intero continente sovietico e toccandone tutte le otto capitali asiatiche, proprio nei giorni della loro freschissima indipendenza da Mosca.

E' un momento cruciale per la storia non solo dell'URSS ma del mondo intero e questo appuntamento Terzani non lo vuole perdere assolutamente. E' proprio questa consapevolezza, nonché la sua passione per il viaggio e per la libertà che lo spingono a sostare in quartieri malfamati, a far scalo in aeroporti sperduti, ad esplorare città dimenticate, che non trovano posto nei consueti canali del giornalismo e dell'informazione.

Il suo percorso si snoda dal fiume Amur che delimita il confine tra la Manciuria cinese e la Siberia russa orientale, in cui casualmente si trova al momento del golpe ai danni di Gorbaciov (19 agosto 1991), alle neonate repubbliche ex-sovietiche dell'Asia Centrale, a quelle caucasiche, per terminare simbolicamente a Mosca, nel mausoleo del padre della Rivoluzione bolscevica, quel Lenin di cui stavano cadendo una dopo l'altra le gigantesche statue volute dal regime in rapido disfacimento.

Stupisce ancora oggi come l'URSS, che ha rappresentato e guidato per decenni uno dei due blocchi egemoni mondiali di potere, che si è costituita con una violenta e prolungata guerra civile e che soprattutto con la lunga reggenza di Stalin è stata caratterizzata dall'eliminazione sistematica dei reali o presunti nemici del regime, si sia liquefatta pacificamente durante i pochi giorni del viaggio di Terzani, senza ch'egli abbia mai assistito ad uno scontro armato tra difensori e oppositori del sistema agonizzante.

Il mondo occidentale ha temuto una potenza che era alla canna del gas da decenni, più che militarmente, economicamente. La gente era stremata da anni di miseria economica e culturale e, come accadde in Cina con l'apertura all'economia di mercato voluta da Deng Xiaoping, non appena Gorbaciov aprì i portoni ormai arrugginiti dell'apparato sovietico, il vento dell'occidente invase rapidamente le stanze ammuffite del comunismo, spazzandone via il puzzo di decomposizione che vi stagnava da troppo tempo.

In tutte le città attraversate dall'intraprendente giornalista, ovunque lo stesso degrado, gli stessi casermoni in cemento scalcinati e osceni, la stessa umanità derelitta e pazientemente rassegnata, un continente in cui l'utopia egualitaria aveva congelato per settant'anni il progresso, le tradizioni etnico-culturali, in definitiva la Storia stessa di popoli, pur così diversi tra di loro, in nome di un'ideologia tradita dal potere che intendeva promulgarla e che invece l'ha svuotata e caricaturizzata.

In mezzo a tanta desolazione, Terzani riesce peraltro a scorgere i segni, non meno preoccupanti, di una rinascita della coscienza civile basata sull'identità razziale e religiosa. Non appena il controllo centrale del regime, tramite la polizia e il KGB viene meno, si scatenano tensioni tra le etnie delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche, che si trovano mescolate all'interno di stati i cui confini erano stati tracciati artificialmente da Mosca nel 1924 col principio del "dividi et impera" e che sono frutto delle deportazioni e delle migrazioni forzate di milioni di cittadini durante gli anni dello stalinismo e della seconda guerra mondiale.

Così, e questa è la parte più interessante del libro, si viene a sapere che i kirghisi, popolo di origine mongola tradizionalmente nomade e dedito alla pastorizia, sono i meno interessati alla religione, al contrario dei tagiki, ex "persiani dell'Est" (poi divisi dagli invasori turchi nel IX secolo), orgogliosi di una tradizione islamica che contava due roccaforti fondamentali come Samarcanda e Bukhara, da Stalin assegnate volutamente all'Uzbekistan, per esacerbare il risentimento tra le etnie tagike e uzbeke e procedere indisturbato alla loro russificazione. Gli uzbeki invece sono l'etnia più numerosa, somaticamente indistinguibili dai kirghisi, ma al contrario di questi tradizionalmente sedentari e dediti alla coltivazione del cotone, mono-produzione potenziata a dismisura nei piani quinquennali sovietici,
che hanno portato alla canalizzazione forzata dei fiumi affluenti nel Lago d'Aral e al prosciugamento dello stesso, con un dissesto idrologico devastante.

Nonostante la questione del lago d'Aral e l'inquinamento prodotto dai fertilizzanti utilizzati per la coltivazione di massa del cotone siano fatti notori tra la popolazione uzbeka e creino le basi anche qui per un dissenso a ciò che ha rappresentato il regime comunista, più forti sono le rivendicazioni territoriali contro kirghisi e tagiki per il controllo delle rispettive enclave, analogamente a quanto avviene nel Caucaso, nella travagliata regione del Nagorno-Karabah, contesa tra azeri e armeni. I kazaki dal canto loro sono più laici, non hanno rivendicazioni territoriali rilevanti ed ivi emerge rapidamente più che altrove una classe dedita agli affari.

Ed ecco che Alma-Ata (al tempo capitale kazaka) cambia volto, si riempie di grattacieli e di uomini d'affari. A Tbilisi, in Georgia, Terzani alloggia in un hotel che sembra un'astronave, lussuoso ma asettico, simbolo del nuovo capitalismo sfrenato, che non trovando un sostrato culturale adeguato dilaga ora senza freni nelle neonate repubbliche, assumendo connotati volgari e consumistici.

Le due tendenze spontanee emergenti dovunque sono il radicalismo islamico o il liberismo capitalistico, laddove le leve del potere sono ancora in mano ai vecchi partiti comunisti che hanno fatto maquillage e cambiato nome (socialisti, socialdemocratici, democratici...), assecondando le istanze religiose o apertamente nazionalistiche e anti-russe che vengono dal basso.

Terzani non vede una terza via, realmente democratica, rispettosa delle tradizioni etnico-religiose, ma non integralista, aperta all'economia di mercato ma non spudoratamente corrotta e senza quella forbice tra le classi sociali che già nel 1991 si sta già drammaticamente al1argando. Da un estremo all'altro, dunque.

Al tempo del viaggio di Terzani tutto è in divenire, sta accadendo sotto i suoi occhi, da qui la straordinaria attualità del libro. Inoltre la sua disamina lucida e documentata sui fatti costituisce una preziosissima chiave di lettura per comprendere quello che è accaduto dopo nell'ex-URSS fino ai giorni nostri: Eltsin, la
recessione economica, la guerra in Cecenia, la guerra civile tagika, le migrazioni di massa e la separazione delle etnie, il regime di Putin, sfilano uno dopo l'altro come la perfetta e logica continuazione degli eventi narrati in "Buonanotte, signor Lenin".

E la Storia nel frattempo continua...

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Bipian Opinione inserita da Bipian    22 Novembre, 2017
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Una candela per ricordare il Ruanda

Ho deciso di comprare questo romanzo perché non avevo mai letto nulla a riguardo del genocidio ruandese del 1992, una delle pagine più sconvolgenti della storia dell'umanità recente.

La trama si concentra sulla tarda infanzia di Gabriel nel periodo immediatamente precedente alla guerra civile del Ruanda. Come l'autore, anche il protagonista ha madre ruandese di etnia tutsi e padre francese, vive nel vicino Burundi nella capitale Bujumbura in una casa signorile situata in un vicolo a fondo cieco. E' questo il suo regno, il territorio delle scorribande con i suoi amici, che giocano a diventare grandi tra gli alberi di mango e le siepi curate di bouganville. Finché arriva la guerra civile a scompigliare e a sfregiare per sempre la sua vita, costringendolo alla fuga in Francia.

L'uso quasi esclusivo dell'imperfetto per rendere la sensazione del passato perduto, lo stile essenziale, asciutto, e i fatti raccontati solamente se rientranti nel cono visuale o nell'orecchio di Gabriel, sono alcune caratteristiche del romanzo, nel complesso discretamente apprezzabile e di rapida lettura.

La strage tra hutu e tutsi viene descritta dal punto di vista di chi si trova alla periferia del vortice, ma che deve spostarsi per non esserne risucchiato. L'autore non indugia mai sugli aspetti truculenti della tragedia e non cade nella facile retorica del sensazionalismo. Piuttosto accende un'umile candela sulla desolante vicenda utilizzando una storia tra le tantissime per raccontare al mondo, ma soprattutto a se stesso, cos'è successo in quell'angolo di mondo ignorato dall'occidente.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    06 Settembre, 2017
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Scoprire il cancro da un esame del sangue

La scienziata, oncologa e docente universitaria Patrizia Paterlini-Bréchot descrive in questo saggio autobiografico il percorso di vita e professionale che l'ha condotta a scoprire un metodo innovativo per diagnosticare i tumori mediante un'analisi del sangue.

Il nocciolo della questione è che non appena un tumore solido si sviluppa in un organo, alcune cellule cancerose si distaccano dal tumore originario ed entrano nel sangue. In questo stadio della malattia, prima che le cellule cancerose dal sangue riescano ad attaccare altri organi e a metastatizzare il tumore, fase che fortunatamente nella gran parte dei pazienti dura a lungo, con il metodo ISET, brevettato dall'équipe della Paterlini, si è in grado di rilevare tali cellule, quindi a diagnosticare il cancro e a procedere alla sua individuazione e alla terapia idonea, che se applicata in questo stadio iniziale della malattia ha molte probabilità di successo.

E' una bella notizia che dà speranza, uno dei molti progressi scientifici che l'umanità sta compiendo nella titanica lotta contro la malattia più temuta dalla nostra società. Fa piacere che per una volta sia una nostra connazionale, di umili origini, armata di molta pazienza, abnegazione, dedizione per il lavoro, compassione umana verso il paziente, da sola contro le grandi lobby del farmaco, a scoprire un metodo che potrebbe rivoluzionare a breve l'approccio diagnostico ai tumori.

Mi sarei aspettato un maggior grado di approfondimento sui meccanismi di propagazione e progressione dei tumori, ma l'autrice ha preferito dare un taglio più divulgativo al testo. Di sicuro interesse comunque, vista l'attualità del tema.

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Romanzi storici
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    04 Settembre, 2017
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Sudditi della città eterna

Raro esempio di romanzo storico perfetto amalgama di alta letteratura, saggezza, visione profetica e cultura filosofica, caratteristiche quest'ultime proprie sia dell'autrice che del protagonista, l'imperatore Adriano, che sembra dettare in prima persona a distanza di quasi due millenni il suo pensiero alla Yourcenar.
Spesso il confine tra la voce dell'uno o dell'altra è labile e ci si chiede chi è a parlarci veramente: il grande imperatore o la dotta scrittrice. La risposta la si può trovare nei "Taccuini di appunti" che nell'edizione Einaudi seguono il romanzo, in cui l'autrice spiega magistralmente:
"Ritratto di una voce. Se ho voluto scrivere queste memorie di Adriano in prima persona è per fare a meno il più possibile di qualsiasi intemediario, compresa me stessa. Adriano era in grado di parlare della sua vita in modo più fermo, più sottile di come avrei saputo farlo io."
"Chi colloca il romanzo storico in una categoria a parte dimentica che il romanziere si limita ad interpretare, valendosi di procedimenti del suo tempo, un certo numero di fatti passati, di ricordi, coscienti o no, personali o no che sono tessuti della stessa materia della storia. "Guerra e pace", tutta l'opera di Proust, che cosa sono se non la ricostruzione d'un passato perduto?"
E ancora:
"Qualunque cosa si faccia, si ricostruisce sempre il monumento a proprio modo; ma è già molto adoperare pietre autentiche."
"Quando ho fatto formulare da Adriano le sue previsioni sul futuro, mi sono tenuta nel campo del plausibile; a patto, tuttavia, che quei pronostici restassero vaghi."

Quindi da una parte l'ispirazione, l'influsso di Adriano che parla all'autrice e lei che lo lascia parlare liberamente, dall'altra la consapevolezza matura del ruolo dell'autrice. Del resto questo fondere gli opposti, conciliare i conflitti, coniugare le diversità è una costante di entrambi. A tal proposito lei scrive:
"Quando due testi, due affermazioni, due idee si contrappongono, divertirsi a conciliarle anziché annullarle una attraverso l'altra; ravvisare in esse due aspetti, due stadi successivi dello stesso fatto, una realtà convincente appunto perché complessa, umana perché multipla."
E Adriano riflette: "Ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell'anarchia e quelli dell'ordine, tra il Titano e l'Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi, l'armonia."

L'armonia e la visione multietnica del grande imperatore, divenuto padrone del mondo, erede della migliore tradizione filosofica greca ed instancabile viaggiatore e viandante viene rimandata a noi attraverso molti passi:
"Già altri uomini prima di me avevano percorso la terra: Pitagora, Platone, una dozzina di saggi, e un buon numero di avventurieri. Per la prima volta, però, quel viaggiatore era al tempo stesso il padrone, libero al tempo stesso di vedere e di riformare, libero di creare. [...] Non ho mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, neppure alla mia dilettissima Atene, neppure a Roma. Straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato da nessun luogo. [...] Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. [...] Volevo che l'immensa maestà della pace romana si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto; che il viaggiatore più umile potesse errare da un paese, da un continente all'altro, senza formalità vessatorie, senza pericoli, sicuro di trovare ovunque un minimo di legalità e di cultura."

Centrale la figura di Antinoo, giovinetto amato da Adriano e tratteggiato mirabilmente nel periodo della sua maturazione:
"A poco a poco, la luce cambiò. Dopo due anni e più, si notavano le orme del tempo, dei progressi d'una giovinezza che si forma, s'indora, sale quasi allo zenit; la voce fonda del fanciullo s'abituava a dare ordini a nocchieri e capicaccia; la falcata più lunga del corridore; le gambe del cavaliere che stringono la cavalcatura con maggior esperienza; l'alunno, che a Claudiopoli aveva imparato a memoria lunghi frammenti di Omero, e si appassionava di poesia lasciva e raffinata, ora si estasiava di alcuni brani di Platone. Il mio pastorello diventava un giovane principe. Non era più il fanciullo zelante che, alle soste, si gettava da cavallo per offrirmi l'acqua delle sorgenti attinta nel cavo delle sue palme; ora, il donatore conosceva il valore immenso dei suoi doni. Durante le cacce organizzate nelle terre di Lucio, in Etruria, m'ero divertito a mescolare quel volto perfetto alle fisionomie grevi e aggrottate dei grandi dignitari, ai profili acuti degli Orientali, alle rozze grinte dei cacciatori barbari, a costringere il mio diletto alla parte difficile di amico. [...] Ma la sua bella bocca aveva assunto una piega amara che non sfuggì agli scultori."

Il romanzo come in questo caso indulge molto su alcuni dettagli che ci fanno intuire le inclinazioni e le abitudini spesso raffinate e privilegiate di Adriano, che accanto all'indubbio e rigoroso impegno e alla profonda visione politica, non disdegnava banchetti, battute di caccia, rituali mistici e piaceri della carne.
E' una prosa che richiede una certa concentrazione, ma aulica e maestosa, ripaga il lettore dello sforzo, ornando le vicissitudini dell'augusto imperatore con patina latina, antica, dorata, adatta a descrivere il secolo aureo di Adriano e l'apogeo dell'impero romano.
Adriano diventa il simbolo e il perno di questo ultimo splendore romano; durante il suo impero si verificano condizioni particolari e irripetibili di cui l'autrice e forse anche il protagonista sono consapevoli: la massima estensione dei confini e nel contempo la loro relativa stabilità, con il contenimento e l'integrazione dei barbari (vallo di Adriano e pax romana); il superamento delle divinità greco-romane e nel contempo la marginalità del Cristianesimo, che nel II secolo d.C non ha ancora attecchito.

Originale ed emblematica la riflessione di Adriano in merito a questa religione in fase embrionale:
"Mi ero prefisso di seguire, per questa setta, la stessa linea di condotta rigidamente equa che Traiano s'era imposta nei suoi giorni migliori; avevo recentemente rammentato ai governatori delle province che la protezione delle leggi si estende a tutti i cittadini, e che i diffamatori di cristiani sarebbero stati puniti qualora li accusassero senza prove. Ma ogni tolleranza accordata ai fanatici li induce immediatamente a credere a una simpatia per la loro causa. [...] Non mancai tuttavia di gustare il fascino commovente di quelle virtù da gente semplice, la loro dolcezza, la loro ingenuità, il loro affetto reciproco; sembravano le confraternite di schiavi o di poveri che si fondano qua e là in onore dei nostri dèi. [...] Ma non ero insensibile ad alcuni pericoli: quella esaltazione di virtù da fanciulli o da schiavi avveniva a discapito di virtù più virili e più ferme; dietro quell'innocenza insipida e ristretta, indovinavo l'intransigenza feroce del settario verso forme di vita e di pensiero che non sono le sue, l'orgoglio insolente che gli fa preferire se stesso al resto degli uomini, la sua visuale deliberatamente limitata da paraocchi. [...] Trascorsi una sera intera a discutere con Arriano l'ingiunzione di amare il prossimo come se stessi; essa è troppo contraria alla natura umana per essere sinceramente seguita dalle persone volgari, le quali non ameranno mai altri che loro stesse, e non si addice al saggio, il quale non ama particolarmente neppure se stesso."

Come s'intuisce da questi abbondanti assaggi di romanzo - mi scuso per la prolissità, ma li trovo deliziosi e illuminanti - la materia trattata è amplissima, la saggezza e la profondità del pensiero permeante e costituente un fil rouge che abbraccia tutta la filosofia e fonde l'umanesimo del mondo classico all'esistenzialismo della Yourcenar. Si rimane abbagliati da tanta ricchezza e armonia. L'impero romano tramite uno dei suoi massimi interpreti brilla di luce perpetua e ci permea di civiltà e di grandezza. Facciamo parte del tutto, siamo tutti sudditi della città eterna.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    29 Aprile, 2017
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Sulla maledetta strada

Prima di aggiungere il mio contributo a quanto già ampiamente scritto su questo celebre libro precursore della beat generation, mi sono soffermato sulle numerose recensioni precedenti (cosa pericolosissima perché sembra sempre che sia già stato detto tutto). La considerazione che ne consegue: è un libro che ha diviso i lettori. Molti l’hanno detestato, altri ne hanno riconosciuto i meriti e l’importanza. Io mi schiero subito dicendo che appartengo ai secondi, anche se è indubbio che il contenuto e soprattutto il modo di scrivere di Kerouac possano spiazzare e talvolta irritare.

Il tema del viaggio come fuga dalla quotidianità e dall’ingranaggio in cui ci costringe la società è trattato in maniera febbrile, frenetica, a tratti minuziosa e con dei particolari di per sè irrilevanti che il narratore sceglie di includere. Per comprendere questa scelta credo occorra essere stati almeno qualche volta sotto l’effetto di alcool e marijuana, assieme a degli amici. La percezione si amplia e si distorce a dismisura, certi dettagli (un paesaggio, un’ombra, un sorriso, un tono di voce, un colore, perfino un oggetto artificiale) vengono associati a degli stati d’animo, escono dal loro normale e spesso anonimo contesto in cui la nostra coscienza li categorizza ed assumono un significato nuovo, esaltante o deprimente a seconda dell’umore. Ci si stupisce di questo cambiamento rivoluzionario di prospettiva e si è sopraffatti dall’urgenza di cogliere l’attimo fuggente e di comunicarlo il più fedelmente possibile agli amici.

Ed ecco che il vero protagonista del libro Dean Moriarty, amico del narratore Sal Paradiso, che lo segue durante una serie di quattro viaggi attraverso gli Stati Uniti ed il Messico, è un vulcano di sensazioni e aneddoti da esprimere, sviscerare, interpretare, in maniera compulsiva e continuativa, con l’ingenuità e lo stupore di un bambino. Le parti in cui i due inseparabili amici - che sono la trasposizione di Jack Kerouac (Sal) e Neal Cassady (Dean) - si sbronzano o assumono qualche sostanza si dilatano, le pagine si infittiscono e si moltiplicano di dettagli e il lettore è catapultato nelle loro interminabili baldorie nei bar di Denver o nei bordelli messicani.

Concordo con molti recensori che le descrizioni delle pazze notti americane di due ubriaconi possano non suscitare molto interesse, ma trovo che questo stile narrativo, comunque originale e innovativo, metta a nudo in maniera autentica anche l’autore e le sue esperienze.

Ne esce un uomo diviso, solo, alle prese con un passato che non riesce a risolvere. Inizialmente, nel primo viaggio da New York a San Francisco, Sal appare più spensierato ed euforico, incontra e lascia un sacco di amici, con la leggerezza di chi è sicuro di ritrovarli. Ma gradualmente e specialmente nei viaggi successivi, la percezione di se stesso, delle persone che lo circondano e delle loro vite si offusca. La precarietà di un viaggio che assume spesso i connotati di un vagabondaggio, punteggiato da grosse sbornie, che il giorno dopo lasciano soltanto l’amaro in bocca e un senso di inutilità, simboleggia e infine diventa la precarietà della vita stessa. Il viaggio, che doveva essere un modo per evadere dalle miserie della vita lavorativa, diventa la vita autentica dell’uomo, ma l’uomo per mancanza di forza e per la volontà di non omologarsi al sogno americano diventa vagabondo, schiavo della strada ed escluso dalla deprecata società.

E pensare che Kerouac è considerato il padre della beat generation perché ricercava la beat-itudine nell’evasione, nell’alcol e nelle droghe. Invece è morto alcolizzato e a nulla sono valsi i ripetuti tentativi dei suoi compagni di viaggio di salvarlo. Il colpo di grazia probabilmente è stata la morte dell’inseparabile Neal Cassady, morto assiderato sui binari di un treno, quel Dean Moriarty, farabutto e folle, pirata ed asso della strada, papà di molti figli disseminati coast to coast, eterno bambino e sognatore, instancabile parlatore, vagabondo e formidabile bevitore che assieme al più riflessivo e malinconico Sal, ci stanno a testimoniare a quali rischi si va incontro quando ci si incammina su quella maledetta strada.

“Sulla strada” è un’opera estremamente simbolica: è considerata da molti l’inizio di un’epoca, la beat generation, con tutti i movimenti che ne sono derivati, gli hippy, il pacifismo, il ’68, ma vi si può leggere col senno di poi anche il presagio della fine e dell’autodistruzione. Cosa rimane oggi dei Kerouac e dei poeti maledetti? Dove sono i figli dei fiori e quelli che credevano in un mondo migliore? Dove gli studenti filosofi e un pò intellettuali? Dove il popolo di Seattle e i no global? Si sono o li hanno suicidati. Alcuni sono morti di cirrosi o di overdose. Alcuni hanno indossato abiti più eleganti, altri sono entrati in banca, ripudiando l’inutile filosofia. Quasi tutti hanno comprato casa. Molti si sono rincitrulliti con le miniserie e la Playstation, viaggiando non più sulla strada ma comodamente sdraiati sul divano. Alcuni da Seattle sono arrivati a Genova ed hanno visto i black-block e poi non si è visto mai più nessuno. Alcuni sono usciti dal gruppo, ed ancora sperano e pensano, ma da soli, e da soli non contiamo nulla. Forse è il tempo di tornare sulla strada...

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Bipian Opinione inserita da Bipian    17 Aprile, 2017
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L'amore secondo Tolstoj

Si tratta di un racconto, feroce e lapidario, scritto nel 1889 successivamente ad una delle fasi rivoluzionarie in cui Tolstoj metteva in discussione alcuni caposaldi morali della sua vita. In questo caso il bersaglio è il matrimonio nell'accezione nobiliare.

C'è molta autobiografia in queste poche ma intense pagine, in cui si coglie l'urgenza dell'autore di espellere la tensione, accumulata nei molti anni trascorsi con la moglie Sonja, per una situazione matrimoniale ritenuta intollerabile, che porterà Tolstoj alla sua finale e tragica fuga.

L'autore aveva maturato circa dieci anni prima delle profonde convinzioni etiche, legate ad una visione cristiana della vita, privata degli aspetti trascendentali e focalizzata sulla carità e sulla semplicità, a cui si mescolavano valori rurali della comunità contadina russa ed elementi delle religioni orientali. In questo contesto interiore travagliato egli si trovò a rinnegare i costumi dell'aristocrazia russa (di cui faceva parte), trovandoli fuorvianti e meschini, adottando uno stile di vita sobrio, con alcuni picchi bizzarri di ascetismo, affatto condivisi dalla moglie. Da qui la conflittualità di coppia che ne derivava e il rifiuto maturato dall'autore all'ipocrita istituzione del matrimonio, organizzato dall'alta società per soddisfare l'esigenza sessuale dell'uomo e assecondare la civetteria della donna.

Ci sono delle pagine estremamente attuali sulla condizione sessuale dell'uomo: "[...] la nostra supernutrizione eccitante, unita a un pieno ozio fisico, non è nient'altro che un'infiammazione sistematica della concupiscenza"; e sulla vanità della donna: "Girate per i negozi in qualunque grande città. [...] Tutto il lusso dell'esistenza è richiesto e tenuto su dalle donne". Come non trasporre queste immagini alla società attuale, pensando ai siti pornografici con i loro miliardi di visitatori-nerd e alle vetrine dei negozi di lusso di Via Monte Napoleone e Place Vendôme che non conoscono crisi anche nell'attuale periodo di stagnazione economica e di progressivo depauperamento della classe media. Il Tolstoj moralista ed austero ne sarebbe profondamente disgustato.

Egli sbandiera gli eccessi sessuali e la lussuria come prove inoppugnabili della depravazione maschile e conseguenza della non parità di genere riservata alla donna, che per contro si vendica sull'uomo seducendolo con una serie di corpetti attillati e virtuosismi al pianoforte per poi umiliarlo con il rifiuto sessuale dopo il matrimonio ed infiammarlo di gelosia con il tradimento.

E' una descrizione sociale per quel tempo coraggiosa, che in certi toni perentori e assolutistici assume il carattere di uno sfogo, più che di un'analisi ponderata, ma quantomai profetica, fornendo il quadro decadente e corrotto, che anticipa i temi dell'irrazionalismo e del Novecento, di una società aristocratica russa destinata da lì a pochi decenni a precipitare tragicamente ed estinguersi con la rivoluzione comunista e l'assassinio dello zar.

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Un'opera consigliata a chi vuole aggiungere un importante tassello sulla vita e il pensiero di Lev Tolstoj.

Lo si può leggere anche come un breve saggio sull'eterno conflitto amoroso tra uomo e donna, in chiave
- va specificato - pessimistica e tragica. Gli spunti sono comunque attuali e applicabili in toto alla nostra società. In questa universalità a tratti visionaria consiste l'immenso valore del libro e dell'autore.
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Bipian Opinione inserita da Bipian    14 Marzo, 2017
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Lottare con Tom Joad

Cercando ispirazione dalla ballata di Bruce Springsteen "The ghost of Tom Joad" ripenso ad un romanzo che ha fatto la storia della letteratura americana.

L'opera è grandiosa per significato e universalità e mi confonde. Ripenso al viaggio disperato che la famiglia Joad, fatta da brava gente, semplici mezzadri, sfrattati dalla falciatrice meccanica, è costretta a compiere dalla polvere sterile dell'Oklahoma a quella che dei volantini distribuiti a pioggia favoleggiano come la terra promessa: la California, terra ricca, fertile, di interminabili filari di alberi da frutta, dove ci si può rimpinzare di tutto ciò che si vuole, fare facili quattrini, deporre la falce e vivere una vita decorosa in una bella casa, mandando i figli a scuola e tutto il resto.

E' questa speranza che muove gli animi dei Joad e li getta sulla strada una manciata di decenni prima che Kerouac e la beat generation ne facessero una moda. Qui le motivazioni del viaggio sono molto più prosaiche: si è in tanti (una decina tra nonni, zii e figli) e si deve campare.

La brutalità con cui la meccanizzazione agricola ha espulso i contadini dalle loro terre, le stesse che magari gli avi avevano strappato agli indiani, si manifesta nell'avanzare inesorabile della falciatrice che traccia dei solchi tremendi sulla terra, la terra che ora non è più di chi la lavorava da generazioni e la viveva, si inebriava dei suoi profumi, la conosceva, la temeva e la rispettava; muore la tradizione e l'esperienza millenaria della coltivazione della terra per far posto a macchinari mostruosi, enormi, governati da uomini che per tre dollari al giorno sono disposti anche a demolire le abitazioni dei mezzadri, che impotenti restano a guardare.

Le banche, le corporazioni, le grandi aziende che già negli anni immediatamente successivi al '29 reggono le sorti degli Stati Uniti, vengono descritte al lettore come le vere responsabili di questa catastrofe, da cui non si vede via d'uscita se non l'esodo, la fuga ancora una volta verso il West.

Così la mitica Route 66 si riempie di automobili e mezzi di fortuna malconci e rattoppati, riempiti all'inverosimile di masserizie e materiale umano. Il flusso è lento e univoco, nessuno torna indietro. Ricoveri e tende di fortuna per passare la notte, poche provviste e i risparmi di una vita che se il viaggio dura troppi giorni finiscono. E come putroppo avviene sempre con gli esuli, nessuno li può aiutare, sono in troppi, c'è diffidenza, molti non pagano, alcuni potrebbero rubare.

E mentre scorrono i maestosi paesaggi americani, le grandi pianure dell'Oklahoma e del Texas, i deserti e i bastioni rocciosi del Nuovo Messico e dell'Arizona, i Joad non hanno occhi per vederli, ma devono prestare orecchio al rombo del motore, tenere gli occhi fissi sulla strada per evitare eventuali buche: un asse rotto o il foramento di un pneumatico potrebbe significare la rovina.

In effetti di guasti e di ben più gravi lutti ne accadranno molti, ma l'ostinazione e il carattere di alcuni personaggi memorabili quali tra tutti Tom Joad, fiero e mosso da un senso primitivo di rabbia e giustizia, e la mamma, vero capo del clan, disperatamente lucida e determinata, guiderà a destinazione la famiglia, o ciò che ne resterà, e li farà compiere delle scelte, spesso estreme, come le loro condizioni.

E' facile immaginare come la California invasa da orde di profughi non si rivelerà la terra promessa, ma anzi rappresenterà la tappa conclusiva e peggiore del viaggio. Polizia che incendia i campi degli odiati "Okies", padroni di frutteti che s'avvantaggiano della disponibilità esorbitante di manodopera per dimezzare i salari, arresti degli agitatori "bolscevichi e nemici della patria", non appena qualcuno tenti di organizzare una protesta.
E' uno scenario apocalittico, eppure descritto attraverso la semplicità e la dignità di una famiglia onesta. Non c'è tempo per piangersi addosso, o per piangere le morti che pure avvengono attorno ai Joad, occorre essere lucidi per sopravvivere, lavorare per mangiare e per garantirsi un futuro migliore. In fondo questa speranza non muore mai, è il filo conduttore del libro; come non leggervi l'ottimismo dell'uomo americano che è disposto a sacrificare la sua stabilità e a mettersi in gioco per tentare, per farcela, per essere migliore.

Alla fine così come spariscono gradualmente molti personaggi del romanzo, anche di Tom Joad si perdono le tracce. E così egli assurge a simbolo. Lo si può immaginare a capo di un manipolo di braccianti, a rivendicare e a ottenere un salario decente, o molti anni dopo il suo spirito a manifestare contro il Vietnam o contro l'assassinio dei fratelli Kennedy, o davanti ai carri armati di Piazza Tienanmen. Se la mamma fino alla fine bada a tenere unita la famiglia, impresa disperata, visto lo scatenarsi di forze centrifughe che tendono continuamente a disperderla, l'adorato suo figlio Tom dovrà tenere uniti gli uomini sotto le insegne della protesta, che di lì a poco non tarderà ad esplodere.

Un capolavoro di perenne attualità, che ci ricorda che i profughi e gli aguzzini siamo noi, che la storia si ripete, e che dovremmo essere grati e consapevoli di ciò che abbiamo, finché ce l'abbiamo. E' un racconto che ci indigna per le ingiustizie che il sistema capitalistico già quasi un secolo fa produceva, ci ammanta di furore e fa venire la voglia di unirci e lottare ancora una volta con Tom Joad per un mondo sostenibile, un'agricoltura rispettosa della terra e dei suoi tempi, delle condizioni di lavoro eque e soprattutto il rispetto e la dignità delle persone.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    19 Gennaio, 2017
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Roma caput mundi

Primo libro della saga del vicequestore Rocco Schiavone, poliziotto romanesco, irriverente, spocchioso, ma talentuoso, che utilizzando metodi al limite del lecito, riesce a risolvere rapidamente il caso di un delitto che avviene sulle piste di neve di un paesino valdostano.

Non siamo vicini al capolavoro, specialmente per certe cadute di stile dell'autore, che però a ben guardare fanno parte del protagonista, schiettamente volgare e brutale nell'approccio con le altre persone da cui deve spremere senza tanti complimenti la verità. Insomma deve piacere il genere maschio romano presuntuoso, che si trova suo malgrado a condurre le indagini di un caso che per sua stessa ammissione è una "rottura di coglioni di decimo grado, cum laude", tanto per capirci.

Detto questo, il romanzo scorre via veloce, è avvincente e credibile, basato per la gran parte sul dialogo, il narratore esterno segue quasi unicamente il protagonista, nel suo rapido spostarsi da una situazione all'altra. Ciascuna di esse si svolge nell'arco di poche pagine, dunque la progressione è svelta e tutto sommato ben architettata. Si giunge al termine del volumetto con la dovuta curiosità di scoprire il colpevole e per i lettori più esperti non dovrebbe nemmeno essere tanto difficile azzeccarlo.

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Libri gialli d'evasione, da ombrellone
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Bipian Opinione inserita da Bipian    11 Gennaio, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

L'inferno di Rosario

Romanzo duro, come l’immagine di copertina, raffigurante un primissimo piano di un bambino che tira da una sigaretta.

Il protagonista è Rosario, ragazzino undicenne che si ritrova a compiere il suo primo omicidio di camorra, per vendicare un suo amico pestato a sangue durante uno scontro con una banda rivale. Il mondo di Rosario è l’hinterland napoletano, prima ancora che balzasse agli onori della cronaca con “Gomorra”, cosmo maledetto e privo di speranza, dove accadono normalmente cose fuori dall’ordinario, dove la vita e la morte sono concetti relativi, che si compiono con istintiva indifferenza.

Il ragazzino diventa uomo molto presto, cancellando una vita umana con la freddezza e la lucidità intuite seguendo l’esempio dei ragazzi più grandi o degli adulti che frequenta nel suo bighellonare tra un bar e una strada, tra un pestaggio e una bravata. Eppure accanto a questa dimensione violenta e degradata, convive la cura premurosa con cui accudisce la nonna anziana e l’attività di volontariato presso un rifugio per i bisognosi, dove sperimenta per la prima volta un innamoramento platonico per Caterina. L’assenza dei genitori, di una qualche forma di istruzione, di punti fermi, lo fanno oscillare tra il bene e il male, con apparente noncuranza.

Si respira tanta umanità, tornano in mente certi affreschi pasoliniani di ragazzi di vita, di borgata, disperati, accattoni, ma pieni di verità e volontà. Anche qui tutto è atto, gesto, violento, brutale, degradato e animalesco; ma in quanto atto, pregno di significato. Il senso del gesto consiste proprio nell’azione fine a se stessa, l’unica manifestazione della volontà di vivere che rimane a dei ragazzi gettati sull’asfalto rovente di una squallida periferia meridionale. E il gesto stabilisce anche una gerarchia, l’arbitrio, una regola: il ragazzino dimostra di avere il pelo sullo stomaco, ottiene rispetto da parte degli altri membri della banda e detta nuove condizioni.

Non è dato sapere quale strada Rosario seguirà, in quanto il romanzo lascia tutto in sospeso, è solo un breve squarcio, tremendo e potente, su una piccola vita gettata all’inferno.

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Gomorra, Ragazzi di vita, Dei bambini non si sa niente
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Romanzi
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    25 Dicembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Spiragli di luce

Ritratto malinconico e moderno di un signore di mezza età, Giulio d'Aprile, psicoterapeuta, padre di due figli, divorziato, che si ritrova come paziente un suo professore universitario.

Il narratore esterno ci conduce sommessamente nella vita del protagonista, di cui si seguono le vicende per pochi mesi autunnali. E' un piccolo ritratto, una fugace istantanea, in cui il lettore scopre la quotidianità di un uomo come tanti, appartenente alla borghesia italiana urbana dei giorni nostri, in un momento in cui la sua vita è un mezzo fallimento, sembra spenta e rassegnata, ma attraverso i suoi incontri e le sue esperienze riesce ad aprirsi alla speranza di una rinascita.

Non è un libro di azione, ma gli eventi sono descritti in modo molto stringato e si fa largo uso del dialogo; le tinte sono crepuscolari, soffuse, eppure le rappresentazioni mentali che ne derivano sono vivide. Sembra di muoversi in un buon film di qualche regista italiano attuale, con attori quali Lo Cascio e Margherita Buy, per capirci.

Si raggiungono dei momenti di grande poesia e di grande semplicità nel contempo, ad esempio quando Giulio si rende conto di non aver mai mostrato l'alba ai propri figli. Quanto tempo perso dietro a se stesso, alla ricerca della propria realizzazione, della propria carriera, a costruire una famiglia all'apparenza perfetta, ma che si sgretola come un castello di carte, perché non si è data la giusta importanza a quelle piccole cose, che in realtà piccole non sono affatto. Un uomo che per lavoro ascolta le storie degli altri per poterli aiutare a risolvere i loro problemi, ma che non ha mai saputo ascoltare e capire le persone della sua famiglia, che in questa fase della sua vita si trovano ad una distanza apparentemente incolmabile da lui. Il padre ormai anziano che prima di morire lascia la moglie e scappa con una donna molto più giovane in un paese esotico; la moglie da lui divorziata il cui ricordo è tedioso; la figlia adolescente, scontrosa e cafona, che non vuole parlare con lui e lo rifugge; il figlio minore preso dalle sue passioni; la madre naufragata nell'atmosfera ovattata del suo elegante appartamento, tradita dal marito e vedova.

Eppure da questa situazione di isolamento e di buio, si apriranno due spiragli di luce, due incontri, che faranno presagire al protagonista "una specie di felicità": una donna misteriosa e il suo vecchio professore, con il quale seguirà un percorso interiore che porterà entrambi ad una maggior consapevolezza, ma che non svelo per non togliere il gusto ai lettori di scoprirlo da loro.

In definitiva consigliatissimo, dà molti spunti di riflessione, sulla propria vita, sui propri errori, sul rischio di perdere tutto e sull'opportunità di risorgere dalle proprie ceneri. E' un piccolo scrigno di tesori, commovente e pieno di speranza.

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Diari intimi, romanzi psicologici, o certi film tipicamente italiani in cui nella perfetta descrizione di pochi semplici eventi, si riscontrano intensità di azione, profondità di pensiero e poesia.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    17 Dicembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Il mio primo horror

Era da un pò di anni che pensavo di dover leggere almeno un libro horror nella mia vita, posto che qualche film di questo genere l'avevo pure guardato, manifestando talvolta perfino un pò di morboso interesse...

Mia madre ha sempre considerato spazzatura i generi horror e fantasy, il calcio, gran parte dei cartoni animati giapponesi o quelli violenti in genere, la musica metal, i film con scazzottate alla Bud Spencer o quelli infarciti di volgarità e tette e culi alla Lino Banfi. Non ha mai riso quando il pubblico registrato ride in programmi quali "Striscia la Notizia". Io quando inizia la pubblicità faccio zapping.
Ho avuto da piccolo un certo livello di censura del quale mia madre si è tardivamente un pò ricreduta. Fondamentalmente comunque siamo entrambi d'accordo che non ci siamo persi niente...

Sono rimasto sconvolto a 10 anni dal primo film horror che mio malgrado vidi a tratti sul monitor del sedile davanti alla mia faccia in una corriera che da New York ci portava ad Atlantic City: "La bambola assassina"!
Non ricordo di aver mai avuto paura del buio prima dei 10 anni, ma dopo quel film per molto tempo ho temuto di aprire una porta al buio da solo, mi immaginavo la bambola avanzare lentamente verso di me e stupidaggini del genere. A tutt'oggi qualche lieve residuo di turbamento permane in certe situazioni (da solo, in casa, di notte), ma razionalmente ho superato quasi del tutto quelle paure. Se non altro oggi riesco a guardare tranquillamente film dell'orrore senza passare notti in bianco, ho rivisto alcune scene e il macabro finale di quel maledetto film senza che il cuore accelerasse il battito e ho letto più volte diversi capitoli di "It" prima di addormentarmi beatamente dopo pochi minuti.

Premesso ciò, ho scelto "It" in quanto volevo leggere quello che si ritiene essere un capolavoro del genere horror, in modo da decidere di leggerne altri se la lettura mi fosse piaciuta, o accantonare l'horror per dedicarmi ad altri generi a me più affini.

Ebbene: non so se ne leggerò altri e se lo farò sarà fra molto tempo.

Il libro è anzitutto monumentale: nelle oltre 1300 pagine vengono narrate le vicende dei sette amici e protagonisti fin nei minimi dettagli. Trovo che ci siano dei momenti di buona letteratura, in certe vivide descrizioni, nella psicologia dei personaggi, o quando l'autore tratta (con taglio naturalmente pulp) il fenomeno del bullismo, mentre altre parti potrebbero essere sfoltite, in quanto paradossalmente pur essendo un libro di molta azione, l'ho trovato talvolta troppo pesante.

Il mio realismo e materialismo inoltre mi tolgono il giusto coinvolgimento che immagino si dovrebbe avere quando si affrontano materie quali la trascendenza di It, la compenetrazione a mani nude nella sua carne, il dualismo ontologico tra It e la Tartaruga, la trasformazione di It a immagine delle paure di chi lo vede, ecc...

Gli amanti del libro (a leggere le altre altre recensioni ce ne sono parecchi) mi troveranno snob, e probabilmente è così, ma devo ammettere che leggendo di quelle materie sopra descritte, più che provare quel brivido desiderato, mi viene da sorridere.

Altra parte che mi sembra una caduta di stile è quando Beverly (scusate, ma è proprio così) la dà a tutti e sei i suoi amici undicenni, nelle fogne dopo aver affrontato It. E' un episodio che stona in un quadro generale di credibile e casta alleanza tra ragazzi impegnati a liberare il mondo da un mostro brutto e cattivo.

Per il resto la trama è avvincente, si vuole vedere come va a finire e quanto sangue deve ancora scorrere, come ci si aspetta da un libro di questo tipo.

L'atmosfera della mitica cittadina inventata di Derry nel Maine è uno degli aspetti meglio riusciti del romanzo. Vi si respira l'aria di quella che immagino essere stata la provincia nord-orientale degli States negli anni ottanta. Qualche venatura di degrado e di squallore, in un contesto di dimesso benessere, lavoro e città a misura d'uomo. Si potrebbe tracciare un parallelo tra Stephen King e Quentin Tarantino. Lo scrittore che anticipa il regista sul sapore di una rustica provincia americana e probabilmente lo ispira nelle scene più splatter.

A proposito di genere splatter, USA e anni '80, mi viene in mente "American Psycho"che ho trovato molto più credibile, sconvolgente e profondo di It.

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Per gli amanti del genere, suppongo...
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Classici
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    05 Ottobre, 2016
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Diario non superfluo di un uomo superfluo

Breve racconto in forma di diario, scritto in punto di morte, riguardante un amore platonico e non ricambiato dell’io narrante, un cinquantenne di nome Culkaturin, verso una fanciulla di nome Liza.
L’inconcludenza e la timidezza del protagonista porteranno al rapido deterioramento del loro rapporto e alla caduta fisica e morale dell’innamorato.

Lo scenario e la tipologia degli eventi rappresentano uno spaccato classico della società russa medio-alta dell’Ottocento: il protagonista che si trova “per ragioni di servizio” in una piccola e noiosa cittadina di provincia, l’incontro con Liza, figlia del funzionario del distretto, il colpo di fulmine, la timidezza di lei, l’arrivo di un principe, le attenzioni di lei per il nuovo arrivato e l’indifferenza per Culkaturin, la gelosia di lui, la sfida a duello, l’ipocrisia di provincia e la caduta nel ridicolo, la dipartita del principe, la disperazione di lei, il decadente epilogo.

E’ un piccolo capolavoro, perché in poche pagine è concentrato un compendio completo di sentimenti e comportamenti umani, da tutti comprensibili e universalmente riscontrabili, eppure descritti con un linguaggio alto, colto, con echi romantici, anche se mai pedante o autocelebrativo. L’autore c’è in tutta la sua potenza e nonostante il protagonista sia dimesso e mediocre, le sue vicende interiori ed esteriori sono molto reali e convincenti.

Grande parte la fa tutta la gamma di reazioni interiori dello sventurato alle sue tristi vicissitudini: stupore, folgorazione, estasi, paura, dubbio, gelosia, meschinità, arrovellamento, rassegnazione, contemplazione. La rapidità con cui a seconda degli accadimenti il protagonista passa da uno stato d’animo all’altro è quella tipica di un bambino. In fondo la debolezza di Culkaturin, origine di tutti i suoi insuccessi e delle sue continue frustrazioni, è assimilabile alla mancanza di autostima di certi bambini, o di uomini mai del tutto maturi.

Un piccolo grande classico, buono per tutte le stagioni e per tutti i lettori: per quelli che si sentono soli e falliti, in quanto hanno la possibilità di palpare le miserie degli altri e confrontarle con le proprie (val sempre il detto: mal comune mezzo gaudio), e per quelli che hanno (o hanno avuto) successo in campo amoroso: costoro accresceranno la loro autostima. In ogni caso il diario non sarà superfluo…

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Tolstoj, Dostoevskij
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Racconti
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    05 Ottobre, 2016
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Morte a Trieste

Racconti brevi, alcuni brevissimi.

Innanzitutto Trieste: la mia splendida città. E' presente in maniera esplicita nei nomi delle vie, nei dialoghi in dialetto (che molti parlano realmente ancora), in qualche rapidissimo scorcio e più indirettamente nelle professioni e nei comportamenti dei personaggi che si affacciano in questo piccolo caleidoscopio urbano.

Filosofia, musica, arte, religioni, ossia i contenuti più alti, retaggio della Trieste mitteleuropea e multiculturale, si mescolano a morte, eredità, sesso senile, solitudine, che trascinano i personaggi verso il basso, verso il degrado della vita quotidiana, al quale la città assiste impassibilmente.

Chiusura ricorrente in quasi tutti i sette racconti è la morte, declinata in molte forme, spesso violente: suicidio, omicidio, malattia fulminante, morte improvvisa; oppure al contrario lenta, tappa ultima ed inevitabile della senilità.

Fanno da contrappunto alla morte spesso delle vite ripetitive, in cui i personaggi ricadono negli stessi errori, consapevoli che nelle infinite possibilità di scelta, la strada tracciata dal destino è una sola e bisogna fatalisticamente seguirla. Pressburger si interroga spesso sul destino, sul libero arbitrio, sulla materialità. Non fornisce risposte ma pone domande; talvolta esce in maniera spiazzante dalla narrazione per porre direttamente al lettore delle domande sull'andamento dello stesso racconto.

Questa metanarrazione contribuisce a rendere surreale il sapore di questi racconti, che ondeggiano continuamente tra realismo e assurdo. Sono realistici gli eventi, ma prive di senso le loro concatenazioni. Tutto fluisce indisturbatamente verso l'ineluttabile, verso la morte, intesa in certi casi come una liberazione da una vita inutile e dolorosa. Uno scenario nichilista e tetro, ma mai tragico, anzi leggero e mesto come un'alzata di spalle.

Anche temi ritenuti dal senso comune come scabrosi o scomodi, quali il sesso senile e l'incesto, vengono trattati come fatti del tutto normali e liquidati con poche righe:
"Dopo quella notte la domestica cominciò a fare il bagno nella vasca in cui anche l'ingegner Taussig lo faceva. Qualche volta la porta si apriva piano e il vecchio entrava. Qualche volta anche nel letto dell'ingegnere entrava la domestica".
"Lena affondò il viso tra le gambette paffute del bambino in modo da fargli il solletico. Poi prese in bocca il minuscolo membro di lui e lo succhiò...".
"Spinta da un imperioso desiderio, una notte, lavata e profumata, si era introdotta nella stanza del signor Telemaco e gli aveva dato la prima lezione con un violento ed esauriente esempio del trasporto passionale. Telemaco gradì oltremodo quell'approccio, pur non dimenticando la differenza sociale e di età esistente tra loro".

In conclusione mi sembra un approccio volutamente parziale e crepuscolare ad una città e ai suoi personaggi. Capovolgendo la prospettiva, Trieste potrebbe essere descritta come sole, mare, savoire vivre e spensieratezza. Di tutto questo non c'è traccia nei racconti, ma mi raccomando: una visita la città la vale senz'altro.

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Saba, Svevo, Giotti
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Romanzi
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    06 Settembre, 2016
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Isola-mento e libertà

Era da tempo che adocchiavo e pregustavo questo volumetto, memore del capolavoro di Elsa Morante "La storia" che lessi molti anni fa (e che consiglio caldamente). Così finalmente lo comprai e mi accinsi subito a leggerlo. Ma fin dai primi capitoli mi resi conto che qualcosa strideva...

Va detto che è un romanzo doppio, ambiguo, vago ed è proprio questa la sua originalità, anche se personalmente lo avrei preferito meno paradossale e più schiettamente dinamico. Ci avrei messo un pò di sana azione, per intenderci.

Se da un lato dunque l'inconsistenza della trama e la staticità dei personaggi penalizzano la piacevolezza della lettura, restano impresse certe descrizioni (sebbene inventate) dell'isola di Procida, i suoi colori, la "Casa dei guaglioni", il piroscafo, che rappresentano uno scenario nitido, anzi sono l'unica realtà, l'unica certezza in cui si muove il protagonista-narratore e fanno da contraltare al mondo esterno sognato da Arturo, mitizzato, appreso dai libri, ma mai esperito.

Questo mondo esterno e irraggiungibile che tuttavia è richiamato continuamente e si mescola nella coscienza di Arturo ai fatti reali, viene descritto come pieno di luoghi e personaggi epici e fantastici, governato dal valore e dal coraggio di grandi condottieri, in cui il protagonista-sognatore si immedesima. Peccato però che egli sia il perfetto anti-eroe: orfano di madre, cresce quasi da solo, sempre schivo, indeciso, ingenuo, ma nel contempo superbo ed egocentrico. Ed in quanto tale attorno a lui di concreto fa accadere ben poco. Anche quando si innamora impetuosamente dell'unica donna che frequenta la sua casa (la modesta e servile matrigna), la sua gelosia e il suo stupido orgoglio gli impediscono di arrivare al sodo.

E' un romanzo di fallimenti personali, però talmente grossolani che non si può parlare di tragedia, ma piuttosto di una sorta di realismo ingenuo, in cui il buon Arturo ne esce proprio male, anche se temo non fosse questo l'intento dell'autrice.

Capisco i notevoli e molteplici piani di lettura, il tema del viaggio al contrario, i richiami ai poemi omerici, la scoperta della maturità, l'incesto e l'omosessualità, ma tutto viene inquinato dal protagonista, troppo sgraziato nell'interpretare l'umano e mai all'altezza della situazione.

Il contesto sociale è quello di un certo Meridione che la Morante spesso ben descrive: gli ultimi, gli emarginati, i reclusi, i pezzenti, i vagabondi, gli orfani, i disperati. Arturo e la sua ristretta famiglia sono tutto questo, ma non sono consapevoli di esserlo, sono bensì spontaneamente alteri (il padre e Arturo per emulazione), o convintamente umili (la matrigna). Tutto si gioca appunto sulla doppiezza, sul paradosso.

Interessante anche l'antinomia isolamento e libertà: Arturo è segregato a Procida, non perché lo costringe qualcuno, ma perché non è adulto abbastanza da partire. Nel contempo però è libero di girovagare indisturbato per l'isola e di viaggiare con la fantasia e con i libri. Ed è ciò che gli riesce meglio. Quando alla fine del romanzo sarà maturo abbastanza da partire, lascerà finalmente l'isola e tutte le sue ristrettezze e affronterà il mondo esterno. Sarà infine più libero?

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Romanzi
 
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Bipian Opinione inserita da Bipian    25 Agosto, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

Autobiografia senza biografa

Ritratto personalissimo e pudico della famiglia dell'autrice, in cui attraverso le semplici frasi del loro parlare quotidiano, si snodano le vicende di personaggi tutt'altro che ordinari.

Attorno ai Levi ruota con naturalezza la Torino borghese, ebraica e antifascista del trentennio '30-'50 e la loro vita si intreccia con quella di alcuni uomini come Adriano Olivetti e Cesare Pavese.

Di loro, come per tutte le principali figure descritte nel romanzo autobiografico, la Ginzburg sceglie solo pochi tratti, ma acutissimi e distintivi, con la sensibilità di una bambina che tutt'a un tratto si ritrova matura.

Di Olivetti: "...ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi [...]. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno."

Di Pavese: "L'amore lo coglieva come un travaglio di febbre. Durava un anno, due anni; e poi ne era guarito, ma stralunato e stremato, come chi si rialza dopo una malattia grave."

Uno stile dunque lucido, essenziale, colloquiale, ma che centra sempre il bersaglio.

Gli eventi sono narrati per sottrazione, ossia togliendo molti particolari e lasciandone alcuni di per sè insignificanti, ma importanti nella memoria dell'autrice e nei quali riconosciamo universalmente l'unicità della sua famiglia.

Il padre burbero e pionieristico (andava a "skiare" ben prima dell'avvento del turismo di massa) e la madre eterea e ottimista (anche in mezzo alla bufera fascista, che comunque risparmiò tutti i Levi), appaiono quasi ingessati nei loro cliché e nel loro "lessico famigliare" ripetuto, che sembra di conoscerli da sempre.

E immediatamente viene da pensare a come tutte le famiglie in fondo si rassomiglino, nonostante le enormi differenze dettate dagli eventi, proprio per l'esistenza di alcune parole e delle espressioni uniche che le caratterizzano.

Tornando allo stile, la sottrazione più evidente riguarda proprio l'autrice, che preferisce raccontare poco di sè ed essere spettatrice ironica e defilata nell'ombra delle innumerevoli case abitate dai Levi:

"La casa di Via Pastrengo era molto grande. C'erano dieci o dodici stanze, un cortile, un giardino e una veranda [...]; era però molto buia, e certo umida, perché un inverno, nel cesso, crebbero due o tre funghi."

Unico appunto che mi sento di fare a questo capolavoro è che, a furia di sottrarre ed omettere, le neanche 200 pagine del libro sono troppo poche; si vorrebbe conoscere qualcosa in più, ad esempio sulla prematura scomparsa del marito Leone Ginzburg, o su Turati e Salvatorelli.

Ma del resto dolore, politica e giudizi personali trovano rarissimo spazio nel "Lessico": sarà stato per snobismo, indolenza, o semplicemente per scelta?

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