Opinione scritta da Vania Russo

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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    09 Aprile, 2017
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Guerra SENZA pace

Per chi ama la letteratura russa, potrebbe essere un romanzo interessante, specie nelle sue prime 300 pagine (e sono ben 700 pagine, non bazzecole); nelle prime 300 e poco più, il ritmo, infatti, somiglia molto a un Guerra e Pace ri-datato Anche Lev Tolstoj racconta la saga di famiglie russe, sebbene in altro periodo: qui siamo nel 1941 (il romanzo inizia il 22 giugno del '41 con l'avanzata dei Tedeschi sul fronte russo), Guerra e Pace, invece si ambienta ai tempi della campagna napoleonica in Russia (1812).
Hitler e Napoleone.
Due assalti alla Russia.
La saga di famiglie.
Sono elementi molto interessanti che si ripetono in qualche modo nei due romanzi. Ma Tolstoj è Tolstoj e la Simons, ahimé, non è esattamente Tolstoj.
L'elemento storico, con l'assedio di Leningrado assolutamente ben rievocato dalla scrittrice che più che alle armi e alle strategie riporta la fame, il freddo, i patimenti di una popolazione allo stremo, eppure orgogliosamente ancora "russa", è un aspetto letterariamente importante di questo libro, lo caratterizza e ne alza il livello, che altrimenti, duole dirlo, non sarebbe lo stesso.
E torniamo al punto nodale: Simons non è Tolstoj e imbarcarsi in un romanzo storico di 700 pagine non è un'impresa semplice, a meno di non utilizzare personaggi eccezionali, stile ineccepibile e talento fuori misura. La Simons non avrebbe potuto reggere la lunghezza del suo lavoro senza "cedere" a qualche "mezzuccio" commerciale, consumistico, molto poco sovietico, si potrebbe osare.
I due protagonisti della storia, Alexander e Tatiana, sono interessanti, deliziosa lei, ingenua e buona fino alla stupidità; audace e coraggioso lui quando si tratta di affrontare soldati tedeschi, un po' meno quando si tratta di affrontare la sua "vera" fidanzata per dedicarsi esclusivamente a Tatiana.
L'incontro tra i due alla fermata dell'autobus è forse il momento "romanticamente" più alto di tutto il libro: ma mano a mano che la storia si evolve (e le pagine aumentano) l'autrice è costretta (ecco il mezzuccio) a inserire delle scene piccanti, talvolta perfino ridicole, per riagganciare il lettore. Nel Libro Secondo, La Porta d'Oro, scadiamo nel romanzetto da ombrellone, pornografia da manga erotico e chi più ne ha più ne metta. La verità è che il romanzo è troppo lungo, su una storia tutto sommato piuttosto banale, che regge nella prima parte solo perché lo sfondo storico è ben dipinto. Nella seconda parte non regge e basta.
Sembra di leggere due libri intrecciati e si finisce per cercare continuamente quello scritto meglio dei due e non sempre è la parte dedicata ai protagonisti. Un libro interessante, poteva essere un esempio di letteratura in un'editoria inquinata dal marketing, invece è un esempio di romanzo commerciale, camuffato da romanzo storico all'ombra di Tolstoj e del Cavaliere di Bronzo.
Il voto 3 vale solo per la prima parte del romanzo, la seconda parte meriterebbe i numeri negativi.

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Guerra e Pace.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    21 Marzo, 2017
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Questione di gusti

La copertina è semplicemente stupenda; motivo per cui ho comprato questo romanzo, pur non sapendo nulla della scrittrice.
Leggendo ho scoperto un'autrice di talento, senza dubbio, capace di usare parole intense e un linguaggio preciso, perfino insolito; qualità oggi rarissima tra gli scrittori. Il ritmo è piacevole nelle descrizioni, ma si siede nei dialoghi, il punto dolente di questo romanzo.
I dialoghi sono irrealistici, saranno pure umoristici, ma non sorprendono perché è un umorismo già sentito (perfino la ripetizione del nome e del cognome alla Bond, James Bond). Alcuni passaggi in dialogo sembrano un riassunto dei fatti, con evidente infodump, un eccesso di informazioni che rallenta inesorabilmente lo scambio di battute. Alcuni vezzi linguistici sono rimpallati tra i personaggi e in qualche passaggio si fa perfino fatica a capire di chi sia una battuta di dialogo, se non segue subito l'indispensabile "disse...".
La protagonista non mi ha conquistata, non mi sono affezionata alla sua storia, la fatica di andare avanti è dipesa da questo. L'autrice ha talento ed è brava, proverò a leggere altro, ma per me questo libro non emoziona e non conquista.

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Avventura
 
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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    19 Novembre, 2016
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Il segno dello scrittore

Il romanzo di Cooper non delude le aspettative, è avvolgente, prima ancora che coinvolgente e questa è la sua caratteristica più incentivante.
In un mondo in cui tutti scrivono, ci sono ancora scrittori, Cooper è uno di questi. I personaggi, tutti quanti: Cal Donovan, Lambret, Giovanni, perfino Himmler (che Cooper osa rievocare narrativamente) sono convincenti, ben tratteggiati e accattivanti, nel bene e nel male.
La trama, che ogni tanto suggestiona con le atmosfere anni trenta e poi viaggia in diverse epoche in flashback ottimamente costruiti, per tornare sempre all'oggi protagonista spazio temporale della storia, è costruita con lo scalpello di uno scultore.
Niente è lasciato al caso, tutti i nodi tornano al pettine e la soddisfazione leggendo è proprio quella di ritrovare riannodati tutti i fili.
Il ritmo un po' lento nella fondazione, si slancia nello sviluppo e schizza nello scioglimento, diventando adrenalinico.
È un romanzo scritto da manuale. Perfino i cliché, come l'investigatore americano affascinante e donnaiolo o il neonazista torturatore e cattivone, risultano accattivanti e avvincenti, perché lo scrittore, consapevolmente, li utilizza certo di suscitare sentimenti ed emozioni già note.
Non ci sono le solite scene di erotismo esplicito, anche in questo Cooper rischia, rispetto alla narrativa oggi in piazza, e lo fa con stile eccellente, lasciando sentimenti, desideri, passioni in sospeso, alimentando così la tensione emotiva della lettura e dimostrando che si può "vendere" anche senza svendere il mestiere di scrittore.
Nonostante questo, ci sono delle fragilità:
- i dialoghi, sebbene realistici, sono macchiati dal ripetersi di espressioni reiterate e fastidiose come i continui "be'" gli "un po'" e le forme tipiche del colloquiale americano, perfette per il protagonista Cal Donovan, un po' meno se a pronunciarle sono Himmler o i cardinali italiani;
- le relative spuntano come funghi, (forse un problema legato alla traduzione) ma ci sono passaggi in cui si contano anche cinque "che" di fila e questo rende la prosa saltellante e poco fluida;
- il co-protagonista Cal Donovan, esperto di miti e religioni, ne sa perfino più degli italiani su certe faccende di storia e religione, come per esempio quando fa una lezione di storia a una giovane docente italiana sull'eresia catara. Perdonabile, ma poco credibile;
Al di là di queste piccolezze di stile, la pecca più grande, secondo me, è il finale segnato da troppi colpi di scena. Cooper da' ritmo e sa farlo molto bene, ma infila 4/5 colpi di scena in poche pagine. Alla fine chi legge rischia di non capire nemmeno cosa stia succedendo, soffocato dagli accadimenti e questo è un peccato.
Un ultimo pensiero va al "papa nascosto" mi riferisco a papa Francesco, celato dietro il nome di Celestino. Cooper lo fa per rispetto o per timore? Dettaglio curioso in un libro tutto da leggere.

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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    16 Settembre, 2016
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Questione di (non) stile

Jonathan Safran Foer ha telento e questo è un fatto innegabile. A ciò si aggiunge il fatto di aver scelto un argomento difficile, dibattuto, complesso, articolato ed efficace a livello narrativo per far riflettere e anche, perché no, per vendere libri.
"Eccomi" (Hinneni in ebraico) è una delle parole ebraiche per eccellenza, è una parola sacra, indica il rapporto con Dio perché è la risposta dei Patriarchi, di Abramo in primis, ma poi anche di Mosé. È una parola carica di storia e densa di significati e Safran Foer la sceglie non a caso come titolo del suo romanzo.
Però Eccomi implica anche accettazione, sacrificio, rinuncia dei propri desideri in favore della volontà di un altro, per gli ebrei, di Dio, di Colui che li ha chiamati a essere il suo Popolo, il Popolo eletto.
Un carico pesante, un fardello che può anche schiacciare e il senso di soffocamento è una delle caratteristiche di questo romanzo. È un testo che pesa, anche per la mole. Nella versione italiana sono 666 pagine, un numero che è un caso? Biblicamente è il numero di chi rifiuta Dio, della Bestia contrapposto al 777 il numero della Perfezione.
Altro dato, la smania, la smania di essere altro, di vedere oltre, di risolvere il senso de perduto. È come se i protagonisti del romanzo avessero paura di scegliere la realtà perché rischiano di perdere altro, una realtà che non esiste, se non nel desiderio che li muove.
Tuttavia, nonostante queste premesse che ne farebbero un grande libro, intenso e coinvolgente, pulsante e dinamico, Safran Foer pecca di stile. Da consumato docente di scrittura creativa, sembra voler concretizzare i classici motti della creatività americana: show don't tell è il jingle preferito dai docenti di scrittura negli USA. Non mostrare chi è il personaggio, non descriverlo, ma renderlo presente in ciò che fa. Safran, a mio avviso, esagera sotto questo aspetto, limitando le descrizioni a barlumi, facendole desiderare come fossero acqua nel deserto. Per far comprendere la psicologia dei personaggi usa pagine e pagine di dialoghi che diventano delle maratone estenuanti, senza respiro.
Perfino tra una battuta e l'altra di dialogo evita gli attributivi (disse, urlò, ripeté con rabbia), e perfino un fece silenzio diventa uno sterile e asettico tre punti tra virgolette.
E poi le astute descrizioni di autoerotismo, ormai immancabili oggi, come se il pudore, anche nello scrivere, fosse la vera perversione. Altro tormentone della scrittura creativa americana, il lavoro sui filtri sociali e culturali della narrativa. Oppure semplicemente perché certe cose fanno schizzare le vendite e questo è difficile negarlo, siamo sotto l'egida delle sfumature a colore, improbabile sfuggire alla dittatura dell'erotismo narrativo e nemmeno Safran Foer ci riesce, con tutto il suo talento, il mercato è mercato.
La prima pagina inchioda a uno stile perfetto, andando avanti ci si perde in faccende inutili. È vero ci sono dei guizzi d'autore, ma anche delle cadute di stile impressionanti. Le sperimentazioni linguistiche fanno pensare a un maxi laboratorio di scrittura nel quale siamo invitati e cogliere la grandezza tecnica dell'autore, innegabile, ma la narrativa non è solo tecnica. Togliendo qualche inutile digressione tutto sommato forse di pagine ne bastavano anche 333.

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Romanzi storici
 
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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    23 Agosto, 2016
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Esperimenti di fiction storica

Un ottimo libro, piacevole e intenso. L'autore ha scelto una narrazione coinvolgente e intensa, propria del suo stile elevato e corposo, ma non altisonante, cosa che avvince il lettore e lo tiene ben legato emotivamente alla storia.

C'è anche un certo studio della lingua e dell'espressione dialettale o tipica, una scelta coraggiosa e intelligente. Lo studio della lingua, dei dialetti locali e delle espressività tipiche di un certo periodo storico è affascinante e avvicina il lettore alla verità storica. Questo non è un saggio è un romanzo e come tale va accolto, ma la cura per questi dettagli lo mette al di sopra della media del romanzo storico attuale, unitamente al fatto che, un volta tanto, non ci sono eccessi ideologici.

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Storia e biografie
 
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Vania Russo Opinione inserita da Vania Russo    10 Agosto, 2016
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Greenblatt: tra storia e interpretazione

ll Manoscritto di Stephen Greenblatt, sottotitolo come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea, è un saggio pluripremiato edito nel 2012 dalla Rizzoli.
Sapientemente scritto con il piglio narrativo e affabulatore di un romanzo, il testo racconta la storia del ritrovamento del poema De Rerum Natura del poeta e filosofo latino Lucrezio da parte del segretario papale Poggio Bracciolini fuggito da Roma dopo gli eventi che travolsero l’antipapa Giovanni XXIII, al secolo Baldassarre Cossa, cancellato dall’elenco dei papi per tutto quanto fatto in vita di terribile.
Nell’inverno del 1417 il Bracciolini, cercatore di manoscritti antichi, si reca in un’abbazia in Germania, a Fulda, e si imbatte nell’obliato poema lucreziano composto a metà del I secolo a. C. sulla scia della passione per Epicuro (con una sostanziale differenza tra i due e cioè che Epicuro seppe placare i suoi malesseri esistenziali, Lucrezio, nonostante il suo invito a non pensare alla morte e a considerare gli dei come superstiziosi simulacri di paure umane e quindi interessarsi solo ai piaceri della vita morì suicida a 44 anni).
Il Bracciolini si rende immediatamente conto della portata del suo ritrovamento letterario, almeno così ci riferisce il saggista, anche perché è Uno che l’invito a godersi la vita lo prende molto sul serio (ha 14 figli con le amanti e 5 con la moglie).

Stephen Greenblatt è docente di letteratura inglese alla Harvard University. Critico letterario e fondatore del New Historicism, corrente critica che basa la rilettura storica in prevalenza sui testi letterari, rispetto ai documenti d’archivio (come dire meno fonti documentali a favore di un'interpretazione letteraria del percorso storico culturale). La tesi che sostiene nel suo saggio è che Poggio, nel rinvenire il De Rerum Natura, riporta alla luce un libro che avrebbe aiutato nel tempo a smantellare tutto il suo mondo.

In un società “schiacciata e oppressa” dalla paura della morte, dal terrore dell’inferno e dell’aldilà, dal mito della sofferenza, Lucrezio, secondo l’autore, non poteva avere posto. Discepolo culturale di Epicuro, il poeta latino nega l’immortalità dell’anima, invita ai piaceri della vita, all’eros che tutto consola e lenisce, e come Orazio, invita a vivere per il momento e per il piacere vista l’impossibilità dell’uomo a controllare gli eventi, anzi, essendo vittima degli stessi: solo Venere acquieta Marte.

Per questo l’opera, dice Greenblatt, fu avversata dalla Chiesa poco propensa a che i cristiani godessero di qualche felicità terrena in vista di una vita eterna inafferrabile. Eppure, nonostante tale ostacolo, il ritrovamento fortunoso del poema avrebbe cambiato il corso della storia, una sorta di “miracolo laicista” che pose le basi della rivoluzione culturale del Rinascimento, periodo in cui gli uomini si sarebbero “liberati” dagli dei, in favore di una materialità più degna di essere presa in considerazione e in luogo di essere chiamati figli di un dio lontano e indifferente, forse inesistente, sarebbero diventati finalmente parte del cosmo, fatti della stessa materia delle stelle, non divini, dunque, ma materiali, non votati all’eterno, ma al piacere del momento da vivere nel modo più intenso possibile.

Greenblatt rintraccia la filosofia di Lucrezio nell’astronomia di Galileo e nella fisica di Newton, in Aonio Paleario e nell’immancabile Giordano Bruno, che di certo apprezzava opere in cui l’anima fosse dichiarata mortale, anzi anche meno, quasi animale. E poi ancora nelle opere di Shakespeare, di Machiavelli, di Tommaso Moro, Leopardi, Kierkegaard, Camus e persino in Thomas Jefferson, che da Lucrezio avrebbe tratto la famosa frase sulla “ricerca della felicità” impressa nella Dichiarazione di Indipendenza.

La tesi del saggio, così come si presenta, riguarda inevitabilmente la raffinata espressione di élite sociali, politiche ed economiche (oggi come anche nel ‘500) dove l’essere, l’agire, i valori e gli ideali di vita corrispondono all’esigenza di coloro che ritengono di essere, per un qualche motivo di misteriosa elezione, l’espressione della civiltà del loro tempo, cosa che comporta una rimozione di quel resto di umanità che in tale visione edonistica della vita non potrebbe proprio rientrare. Tuttavia senza questa rimozione degli “scarti” sociali, culturali, economici il messaggio del libro non regge.

Il saggio è scorrevole, ben scritto, astuto, seducente, ma alla fine fine si riduce a una riscrittura del mito umanista per cui, grazie all’eroismo di alcuni pensatori e scrittori (martiri del pensiero unico religioso), l’uomo si sarebbe liberato dai secoli di bui del dominio dell’Ecclesia. Il lettore più smaliziato non può non sospettare che Poggio Bracciolini sia una sorta di alter ego che Greenblatt usa per esempio per criticare il sistema monastico, descrivendolo similmente a un carcere punitivo, e osannare invece la cultura classica, in special modo quella romana con gli spalti del Senato che diventano emblema della democrazia e della libertà di pensiero. Per Roma classica si sa, gli americani nutrono una grande ammirazione, ignorando evidentemente che nel democraticissimo Senato romano, se uno non era d’accordo lo si faceva fuori con una trentina di coltellate.

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De rerum natura di Lucrezio.
The New Historicism, Harold Veseer.
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