Opinione scritta da Antonella76
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La vita non ci appartiene, ci attraversa
Ebbene sì, non avevo ancora letto "Anna".
Dopo il suo recente ultimo libro, che mi ha lasciato un po' tiepida, avevo bisogno di ritrovare l'Ammaniti che piace a me, quello che sa graffiare ed emozionarmi, quello capace di esorcizzare il tragico con un'ironia sferzante, spesso grottesca, quello impagabile nel dare voce agli adolescenti e alle miserie degli ultimi, di coloro che sono sempre ai margini di qualcosa.
Qui siamo proprio ai margini del mondo, o meglio... ai margini dell'umanità.
Sicilia 2020, il mondo è stato devastato da una pandemia, "la rossa", che ha sterminato tutti fatta eccezione per i bambini, nei quali il virus rimane latente fino alla pubertà.
Chissà che effetto mi avrebbe fatto leggere di una pandemia nel 2015, ovvero quando il romanzo è stato (profeticamente) scritto, quando ancora certe cose potevano accadere solo nei libri, distopici per giunta!Oggi conosco troppo bene la portata di questa parola e tutto ciò che ne consegue, e questo ha sicuramente influito sul mio coinvolgimento emotivo.
Ciò che un tempo avrei definito "fantascienza", adesso non mi sembra poi così assurdo e devo ammettere di aver provato una quasi imbarazzante sensazione di sollievo, pensando che "poteva andare peggio di così".
Tante critiche sono piovute su questo libro a causa delle cose in comune con la "La strada" di McCarthy, ma ad essere sinceri, se proprio vogliamo trovare una somiglianza, questa inizia e finisce nell'ambientazione "post-apocalittica".
Non riesco a metterli a confronto in quanto viaggiano a livelli di profondità completamente differenti, con stili molto diversi.
Quello di McCarthy, per me, è un libro intoccabile. Il Libro. Intriso di una malinconia struggente, senza eguali.
Questo di Ammaniti è invece un ottimo romanzo, che porta con sé la cifra stilistica di Ammaniti che riesce a fare sua una tematica non nuova, dimostrandoci ancora una volta la sua grande capacità di entrare nella testa dei ragazzini.
In "Anna" si sente forte la voglia dell'autore di provare ad immaginare un mondo di bambini privati della presenza degli adulti, e quindi anche del loro condizionamento.
Ce ne aveva dato un piccolo assaggio già in "Io e te", presentandoci un ragazzino che si autoisolava dal mondo dei grandi, che (s)fuggiva dalle loro regole.
Qui porta all'eccesso questa intenzione, la estremizza fino a mettere su carta una sorta di esperimento sociale: un'infanzia allo stato brado, dove le regole del passato non valgono più.
Con il suo stile crudo, e senza mai cedere troppo il passo al dramma, Ammaniti ci mette di fronte allo scardinamento di tutte le sovrastrutture sociali e ci consegna un mondo desolato, brutale, violento, inselvatichito, in cui coloro che, da sempre e per sempre, sono il simbolo dell'innocenza, manifesteranno ben presto il loro lato selvaggio, primordiale, alternando picchi altissimi di umanità a livelli di ferocia inauditi.
In mezzo a tutto lo sfacelo, Anna riesce ancora ad emozionarsi, ad amare, a vivere sprazzi di "normalità", di un'adolescenza che le è stata strappata.
In mezzo alle barbarie messe in atto per poter sopravvivere, c'è ancora chi mostra atti di altruismo, di generosità.
In un mondo dove tutto è ridotto a puro istinto, le bestie, quelle vere, brillano di una luce ineguagliabile, portatori sani di amore e speranza.
Ed è proprio con quest'ultima che Ammaniti ci lascia.
Un'allegoria della speranza, forse un po' infantile, forse troppo ingenua, ma proprio per questo pura: il miglior finale che potesse scrivere per questa storia.
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Ammaniti torna, ma non è lui
Si sta parlando molto, anche troppo, di questo tanto atteso ritorno di Ammaniti dopo otto anni di silenzio, (chi urla al capolavoro, chi lo definisce una cagata pazzesca)...tanto da chiedermi se il mondo abbia davvero bisogno anche del mio inutile parere.
Ovviamente no.
E quindi lo dico lo stesso ????.
Ammaniti, per quanto mi riguarda, ha due modi di narrare: uno più intenso che smuove e fa male ed uno più grottesco e tragicomico che, attraverso l'ironia, sa essere feroce.
Personalmente apprezzo entrambe le versioni.
"La vita intima" però, secondo me, resta in una sorta di limbo tra le due.
Non è drammatico e nemmeno grottesco, è più una commedia brillante... il cui luccichio però arriva un po' in ritardo, diciamo pure nelle ultime 100 pagine.
E per l'ultimo capitolo, le ultime due pagine proprio, farei una recensione a parte perché non mi capacito come possa averle scritte lui... avete presente il finale di "Ti prendo e ti porto via"?...ecco, siamo lontani anni luce...
L'ho sentito un po' superficiale, "esteriore"... un po' come la vita della protagonista.
Mi sono mancati i graffi.
Pur essendoci una continua critica a certi ambienti italici, non ho avvertito l'affondo della lama.
Lui sa essere molto più incisivo, più spietato, più caustico.
Certo rimane intatto il suo modo di catturarti, di incollarti alle pagine e trascinarti nella storia, perché Ammaniti è comunque un ottimo narratore.
Ha creato qui un personaggio femminile sfaccettato, imprigionato in una vita soffocante, per quanto dorata, apparentemente debole e frivolo, ma capace di evolversi.
Quindi mi è piaciuto?
Non lo so. Davvero non lo so.
Sono troppo onesta con me stessa per non pormi qualche domanda fondamentale: "se non l'avesse scritto Ammaniti avrei questi dubbi? Esiste una sorta di condizionamento in noi lettori quando uno scrittore"ci piace"? Quanto siamo disposti a perdonare ad un autore per non deludere noi stessi e le nostre aspettative?
Di certo non tra i suoi migliori, via.
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- sì
- no
La disgregazione delle relazioni
Questo libro della Atwood, pubblicato recentemente da Ponte alle Grazie, è in realtà un romanzo del 1979, il suo quarto libro, ma già contiene tutta l'abilità, che la scrittrice ha dimostrato poi di possedere, nell'esplorare le dinamiche interpersonali e sociali dei protagonisti, in tutta la loro complessità.
Potremmo sottotitolarlo "la disgregazione delle relazioni".
Assistiamo infatti ad un lento, ma profondo ed inesorabile disfacimento di rapporti.
Può una coppia che fa del "compromesso" il mattone fondante sopra cui costruire una relazione, sopravvivere a tutti gli scossoni che la vita le riserva?
Ovviamente quella che apparentemente può sembrare un'unione bizzarra, fuori dagli schemi, troppo libera, troppo moderna, basata sulle rispettive relazioni extraconiugali, è il frutto di trascorsi, di avvenimenti, di perdite e traumi che hanno segnato i protagonisti fin dall'infanzia, e che la Atwood non manca di raccontarci (e analizzare) attraverso i numerosi e minuziosi flashback.
Non amarsi più, ma scegliere comunque di continuare a stare insieme.
Per le figlie, per una stabilità famigliare ed economica, perché forse, in fondo in fondo, incapaci di vivere "senza" l'altro.
L'altro come presenza costante, come stampella di vita.
Elizabeth e Nate sono due persone estremamente fragili, sempre con un piede nell'abisso, che sperano di rimanere sempre padroni del difficile gioco emotivo a cui hanno dato vita e di cui hanno scritto le regole.
Ma il peso di ogni mossa, e di ogni contromossa, è di gran lunga maggiore di quello preventivato.
E coloro che entreranno a far parte della loro vita, i loro nuovi amori, verranno schiacciati, triturati da un meccanismo assolutamente imperfetto nel quale la figura del coniuge (per quanto informato e consenziente) sarà così ingombrante, così presente, così intoccabile, da farli soccombere.
Letteralmente.
Chris e Lesje, rispettivamente l'amante di lei e l'amante di lui, sono il cibo di cui questa coppia si nutre per sopravvivere, incapace com'è di prendere decisioni definitive, di mettere in discussione ciò a cui ha dato vita, ovvero un rapporto malsano, tossico per entrambi e letale per chi vi entra in contatto.
In definitiva, la Atwood ci racconta una storia in cui nessuno è felice, in cui l'insoddisfazione dilaga in ogni singola pagina delle oltre 400 presenti nel libro.
I personaggi modellati dalla scrittrice sono pieni di sfaccettature, di tormenti interiori, perennemente insoddisfatti, uomini e donne assolutamente difficili da comprendere (figuriamoci da amare), ma nella loro complicata psicologia hanno il coraggio del fallimento, dell'errore, e, seppure solo per qualche sfumatura, ci rappresentano.
Rappresentano le umane debolezze, il nostro peggio che cerchiamo di tenere a bada, le zavorre emotive che ci trasciniamo dietro per paura di essere diversi da quello che avevamo deciso di essere.
In particolare la Atwood riesce sempre a creare dei personaggi femminili pazzeschi!
Elizabeth... dura e fragilissima, mangiatrice di uomini e succube della vecchia zia e dei fantasmi del suo passato, donna libera eppure prigioniera di se stessa, rigida e controllata, ma sostanzialmente disperata.
Usa gli uomini come se fosse un uomo, mangia troppo e vomita.
Questo personaggio permette alla Atwood di spargere i semi di un tema a lei tanto caro, quello della donna, del suo ruolo all'interno della coppia, del femminismo.
Tema che poi sviscererà magistralmente con "Il racconto dell'ancella".
Lesje... paleontologa, affascinata dai dinosauri e da tutto ciò che c'era prima, donna di scienza e sognatrice, sentimentalmente inesperta e per questo molto vulnerabile.
Scopre l'amore e la sua fatica.
La vita prima dell'uomo è il suo "luogo mentale" in cui trova pace e rifugio dal caos dei rapporti umani, così difficili e, molto spesso, troppo estenuanti.
Questo non è un libro semplice, né tantomeno leggero, ma la bravura della Atwood di entrare nei complessi meccanismi dei rapporti di coppia, lo rende un romanzo capace di smuovere riflessioni importanti sui legami affettivi.
Io l'ho masticato, lentamente, pagina dopo pagina, cogliendone la densità e cercando di metabolizzare ogni singola parola.
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Meno ipocrisia e più Bill Furlong!
Piccolo libro, suggestivo nell'ambientazione irlandese (1985) invernale e natalizia, e apparentemente "da nulla".
Potrebbe sembrare un racconto in cui non succede assolutamente niente: famiglie numerose, gente che lavora duramente per mettere il pane a tavola, il convento, le scuole "perbene", la messa la domenica mattina...
Eppure proprio qui, negli spazi tra un rigo e l'altro, si cela una pagina di cronaca irlandese vergognosa: le "Magdalene".
Per chi non lo sapesse, le "Magdalene" erano case/prigioni (travestite da vere e proprie lavanderie) gestite da suore e preti (ma va?!?) dove venivano rinchiuse le ragazze che si erano macchiate di azioni immorali: gravidanze fuori dal matrimonio, stupri (ebbene sì, subire uno stupro nella cattolicissima Irlanda era una cosa disdicevole per la vittima!!!), ma anche la semplice "esuberanza" di una ragazza era un buon motivo per rieducarla in questi posti di violenza e umiliazioni.
Tutti erano a conoscenza della loro esistenza, ma non di cosa avveniva al loro interno, fino a quando non vennero trovati centinaia di corpi senza nome tumulati nelle aree circostanti.
Non stiamo parlando mica del 1800, l'ultima Magdalene fu chiusa nel 1996!!!
Alla luce di tutto questo (che NON è la trama del libro eh!), il romanzo della Keegan assume una grande valenza anche solo come spunto per approfondire questa pagina di storia recente, e ci mostra come quelle che potrebbero essere piccole cose, piccoli gesti, sono invece in grado di cambiare la vita di qualcuno.
Siamo abituati a chiudere gli occhi, a girarci dall'altra parte, a far finta di non vedere e non capire...poi magari siamo seduti in prima fila in chiesa, la domenica mattina.
Meno ipocrisia e più Bill Furlong, per favore.
Consiglio la lettura di questo libro piccolo piccolo, come "prologo", come "intro", prima di dedicarvi alla visione di un bellissimo (e durissimo) film del 2002, per la regia di Mullan, "Magdalene".
Il libro, da solo, non è sufficiente.
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Supermercato, da "non-luogo" a Letteratura.
Avete presente quando si dice "di questo autore leggerei qualunque cosa, anche la lista della spesa"?
Ecco, la Ernaux lo ha fatto.
E nel tenere questa sorta di diario delle sue visite al supermercato, è stata capace di fare letteratura.
È stata in grado di allargare il suo sguardo e riuscire a vedere tutto quello che si cela nei posti più illuminati che esistano, la vita che brulica sottotraccia tra le corsie piene di cibo, le tenerezze, le nevrosi, le disparità sociali, gli stereotipi di genere (il reparto giocattoli è sicuramente ancora fortemente radicato nella gabbia mentale che vuole differenziare i giochi per femmine e per maschi).
Il supermercato è considerato un luogo non-letterario, necessario a soddisfare il bisogno primario della sopravvivenza e spesso appannaggio femminile... quindi poco degno di nota.
Annie Ernaux ci mostra quanto tutto questo non sia vero, anzi ci dimostra come l'ipermercato sia un grande specchio della realtà sociale, forse il più grande spazio di aggregazione umana, un vero e proprio microcosmo.
Con il suo solito stile minimale, la Ernaux ci racconta quello che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, eppure, leggendola, è come se vedessimo "davvero" tutte queste cose per la prima volta.
Un racconto lucido e intelligente, ma... se ancora non avete mai letto nulla di questa autrice, questo NON è il libro giusto con cui iniziare.
Solo per chi già la conosce e l'apprezza.
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Bugie adulte
Giovanna,
basta una sola frase di tuo padre, ascoltata per caso senza essere vista, e la vita che hai sempre conosciuto e in cui hai creduto, ti si sgretola tra le mani come pastafrolla impazzita, soprattutto se hai quattordici anni.
Improvvisamente tutto è in discussione: la tua bellezza, l'amore di tuo padre da sempre "mitizzato", la famiglia da cui provieni.
Come una bomba inesplosa dalla tua nascita, ti ritrovi adolescente con, tra le mani, un ordigno che porta il nome di tua zia.
Una zia che non hai mai conosciuto.
Vittoria.
Com'è zia Vittoria?
È davvero così brutta?
...o forse è solo imbruttita dalla vita?
Da questo momento in poi non sai più dove specchiarti per capire chi sei veramente, parli per trovare la tua vera voce, guardi i dettagli per capire il mondo.
Vivi su al Vomero, ma senti forte il richiamo di giù, del Pascone...
Sei cresciuta divorando libri, ascoltando i dibattiti dei tuoi sulla politica, sulla religione, sulla società, ma adesso provi il piacere proibito di una frase in dialetto, dei modi sguaiati, dei comportamenti scabrosi...
Vuoi sporcarti, sporcare quel mondo lindo e pinto in cui "i grandi" ti hanno fatto credere di vivere, mentre loro, sotto il tavolo, accumulavano le loro bugie adulte.
Cresci di colpo, solo con le tue forze, non sai neanche bene cosa vuoi, ma sai come non vuoi diventare.
Se c'è un aspetto costante che ho riscontrato nei romanzi della Ferrante (ma non ho ancora letto la saga de "L'amica geniale") è la ruvidezza, la capacità di lasciarti addosso un senso di malessere, come un ematoma sulla pelle, come un tessuto dai bordi sfilacciati.
E questo mi piace, così come mi piace il suo lasciarci senza una catarsi finale, obbligandoci a lasciar andare la protagonista verso il suo futuro, a noi ignoto.
P.s.: Ho guardato anche la serie Netflix che ne è stata tratta e, tutto sommato, mi è piaciuta.
Ho ritrovato le parole della Ferrante, quel senso di disagio che la contraddistingue, interi dialoghi riportati fedelmente, ma avevo dalla mia parte la conoscenza completa della storia, anche quello che sullo schermo non è stato spiegato a dovere, per cui non so dire se, al netto della lettura del romanzo, mi sarebbe piaciuta allo stesso modo.
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I matti ci spogliano
La follia, la malattia mentale, i disturbi psichici, sono un tema che da sempre mi incute timore e mi affascina, dove per fascinazione s'intenda "interesse", voglia di capire, di superare il confine del razionale e riuscire ad andare al di là del mio mondo protetto, per entrare in un luogo dove vivono le menti libere da ogni catena.
Che la pazzia sia espressione di libertà è un concetto letterariamente meraviglioso, e allo stesso tempo spaventoso.
"La loro libertà mette in crisi la nostra. Per questo gliela togliamo.
Però vogliamo capire perché sono liberi di dire e fare quello che gli passa per la testa, perché loro sí e noi no".
I matti vivono luoghi altri, a noi inaccessibili solo se abbiamo paura di entrarci: a volte sono bui, e rischi di sprofondare in un burrone di pensieri strani, apparentemente senza senso, altre volte sono luoghi pieni di sfumature, di colori...
"- Il poeta ha un occhio marrone di umore triste e l'altro celeste per vedere le stelle.
- Non mi hai messo il rossetto.
- Il rossetto non serve, solo il lucidalabbra, il poeta ha labbra lucide di bugie."
Entrare nel loro mondo significa innanzitutto fidarsi, lasciarsi prendere per mano e farsi accompagnare.
Potresti scoprire come si gioca a nascondino con i fiori...
Come ci si deve truccare per ogni occasione...
Come si semina un prato...
Come si leggono tre libri insieme...
Come nascono i triangoli dai nei...
Come si redige il Test dell'Fbi...
Come si curano le malattie con le equazioni...
Potresti scoprire, per esempio, che P+F=P (presente + futuro = passato).
Che si può costruire nel deserto.
Che la barzelletta più bella è l'amore.
Che se incontri un satanino lo devi uccidere per 900 minuti.
Che mangiare "Il Piccolo Principe" guarisce dalla schizofrenia.
Che se guardi troppo la luna piena ti accorgi del suo squallore, e del tuo.
E chissà che qualcuna di queste scoperte non ci appartenga, non parli di noi.
Perché in fondo i matti ci spogliano, trovano le nostre verità.
Loro così ingenui, così sensibili, così intatti da non essere in grado di stare al mondo senza rischiare di essere schiacciati, divorati, violentati.
Redaelli con la sua scrittura asciutta, ma piena di voli pindarici e di dialoghi suggestivi, ha scritto un romanzo (questo non è un reportage) elogio della fragilità, attraverso la finzione nella finzione ci ha raccontato delle storie inventate (ma non troppo)... ma io sono certa che, da qualche parte nel mondo, ci siano un Angelo, un Simone, un Carlo, una Cecilia e una Marta che aspettano, in una Casa delle Farfalle, che il mondo si ricordi di loro.
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C'è un'unica tenebra, per tutti
Emmaus è la città della Palestina in cui due discepoli incontrano Gesù risorto, senza riconoscerlo, se non quando egli è già andato via.
"Emmaus" è un libro che odora di incenso e sacrestia, ha il suono dell'organo suonato in chiesa, ma brucia come il fuoco e fa male come la luce di una torcia puntata dritto negli occhi.
È tutto lì, davanti ai protagonisti, ma loro non sono in grado di comprenderlo, di vederlo, se non dopo che si è manifestato.
Ma forse siamo tutti un po' ciechi davanti alla verità che ci cammina affianco.
Baricco è sempre difficile da commentare per me: so di aver letto qualcosa di molto bello, di profondo e dannatamente denso, ma mi sfuggono le parole per dirlo, come se le uniche possibili le avesse usate tutte lui e a me non rimanesse altro che assaporarne gli effetti.
(Un motivo ci sarà se anche nel libro stesso mancano la seconda e la quarta di copertina, tutto bianco, senza spiegazioni...)
Due mondi che si sfiorano e poi si intersecano, mondi che si guardano da lontano, diffidenti, che parlano lingue diverse eppure si attraggono, generando col loro incontro un terremoto emotivo tale da sconquassare ogni quotidianità, da sconvolgere tutte le vite coinvolte in questo impatto.
"Chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo."
Da una parte quattro ragazzi 17enni della media borghesia torinese (presumo), dediti alla scuola, alla Chiesa e al volontariato, schiacciati da una fede che tramortisce ogni loro pulsione, figli di un moralismo che li ha cresciuti "bravi" e sinceri nel loro credo, ma assolutamente impreparati alla vita.
Dall'altra parte una ragazza, Andre, bellissima e perduta, appartenente all'alta borghesia, con la sua libertà sfacciata e disinibita, i suoi nervi a pezzi, e il suo sfidare, quotidianamente, tutto quello in cui loro credono a suon di alcol, sesso e morte.
Ed ecco che, quando attraverso la porta di una stanza sempre chiusa e buia, riesce ad infiltrarsi uno spiffero d'aria, anche solo un sottilissimo filo di luce, non è più possibile non sentirsi attratti da quel vento sconosciuto che imperversa fuori, e allora la porta si spalancherà e la tempesta entrerà da ogni crepa possibile, lasciando tutti sbigottiti e stravolti.
Perdizione e salvezza.
Dannati e salvati.
Lussuria e castità.
Buio e Luce.
La verità ce la dice Baricco già a pagina 25: "Per quanto assurdo sia, c'è un'unica tenebra, per tutti."
Un Baricco con meno virtuosismi linguistici, meno poesia, ma con una grande profondità (e complessità) di pensiero, e raggiunge comunque vette stilistiche di una bellezza disarmante.
Un Baricco tormentato, ruvido (come la copertina del libro) e sofferto.
Ed è proprio così che io riemergo da questa lettura: ammaccata, con un carico di riflessioni sulla vita, sulla morte, sulla depressione, sulla religione, sulla capacità di trovare una dimensione altra, non imposta dal cattolicesimo, in grado di coniugare orrore e bellezza.
Perché tutto intorno a noi è tale.
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Ossessioni e ambiguità
Grande, grandissima ambiguità.
Fantasmi o ossessioni?
Presenze paranormali autonome o entità che hanno bisogno di essere evocate? di avere un "tramite" terreno?
Bambini posseduti (consapevoli e coinvolti) o visioni della mente disturbata di un'istitutrice?
Chi sono i buoni, e chi i cattivi???
Eh, James mica te lo fa capire...
Il mistero permane fino alla fine, ed anche oltre.
È un libro che sembra scritto per "giocare" con il lettore, per instillare in lui il dubbio su ogni cosa che vi è raccontata.
Ci sono disseminate tante piccolissime anticipazioni, una sorta di "ora ti dico questo, ma poi vedrai, poi capirai...", e invece poi non capisci.
Come se l'atmosfera (sfumata) che si respira fosse più importante del fatto in sé.
Non ci saranno risposte ai mille interrogativi...
L'unica cosa certa è che Henry James ha scritto un racconto magistrale (raffinato ed elegante), gotico, ma soprattutto psicologico, dove i fantasmi, reali o immaginari che siano, ci raccontano di luoghi bui della mente, di spettri interiori, di ossessioni, seduzioni, e di innocenze perdute.
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Loro siamo sempre noi
Lo inizi e sei perduto, non puoi più fare a meno di continuare, come se fossi vittima di un incantesimo...
L'atmosfera che si respira fin da subito è ansiogena e perturbarte, non accade nulla, ma sai che non dovrai rilassarti neanche per un attimo, avverti una sensazione di tragedia che incombe, di pericolo imminente, che t'inchioda lì.
Tutto è limpido e trasparente (scrittura compresa!), come le pareti di vetro della casa in cui si svolgono i fatti, ma allo stesso tempo è tutto molto sinistro, torbido e oscuro.
Una storia di fantasmi?
Sì, forse... ad un primo sguardo potrebbe sembrarlo.
Ma in realtà è una storia di abissi della mente, quei luoghi inaccessibili dove può accadere di perdersi.
Perché ci sono verità che la mente umana non è in grado di reggere, di sopportare, e allora se ne racconta un'altra, più accettabile.
"Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo."
Tutta la narrazione è una sorta di tiro alla fune tra razionalità e soprannaturale.
Fondamentale il tema del doppio.
Di più non si può dire però, se non che, una volta terminato il libro, meriterebbe una seconda lettura alla luce di un finale, a mio parere, perfetto.
Io l'ho trovato davvero bellissimo.
Uno stile lineare, fluido, senza fronzoli, ma non per questo piatto o insapore, tutt'altro.
Pare...dicono...sembrerebbe che... che questo romanzo ricalchi un po' troppo "Il Giro di vite" di Henry James, e che, ovviamente, nel paragone ne esca sconfitto, ma io "Il Giro di vite" non l'avevo letto, lo sto facendo adesso... e, pur non avendolo terminato, mi sento di dire che questo di Cotroneo è sicuramente un omaggio a James, un po' come ha fatto Charles Simmons con "Acqua di mare" nei confronti di "Primo amore" di Turgenev.
Io continuo a pensare che sia stata un'ottima lettura.
"Loro"...ma loro, quasi sempre, siamo noi.
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100% Naspini!!!
100% di bravura!
Naspini continua a confermarsi scrittore di grande talento, capace di racchiudere in poche pagine un concentrato di emozioni, un distillato di vita vissuta, un romanzo breve dal forte impatto, proprio come i pugni sferrati sul ring dal protagonista.
Un'intervista.
Ci troviamo di fronte ad un' intervista che il vecchio pugile, Dino Carrisi, decide di rilasciare, raccontando tutta la sua vita, raccontando come sia passato dai combattimenti clandestini nei sotterranei ai campionati del mondo, dalle pagine patinate dei rotocalchi fino al carcere e alla solitudine più completa...
Un personaggio (inventato) tremendamente credibile, pieno di rabbia e di rimpianti, ma anche ricco di umanità.
Una vita vissuta al massimo, puntando sempre dritto l'obiettivo: schivare i colpi, trovare il momento giusto, stendere al tappeto l'avversario, dimostrare di essere nato solo per quello, per boxare... e quando sarà la vita a sferrargli il suo gancio perfetto, lui incasserà il colpo senza battere ciglio, sopportando il dolore e il sapore del sangue nella bocca, aspettando il momento giusto (perché quel momento arriva sempre) per rialzarsi e riprendersi il round.
Ma ci sono colpi che lasciano segni profondi, con i quali bisogna imparare a convivere.
Continuerà a combattere anche quando si renderà conto che l'obiettivo è sempre stato sbagliato, che la sua vita, la sua vera vita, si stava svolgendo altrove, senza di lui.
Il suo ultimo KO (esistenziale) sarà il più difficile da assestare, ed anche il più triste... in quanto ultima performance di un uomo ormai solo, fallito, tradito proprio da chi mai avrebbe dovuto farlo, colpito nel suo unico punto scoperto, quello che nessuna guardia e nessun guantone potrà mai proteggere del tutto... il cuore.
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Non mi ha addomesticato...
Ci sono libri di cui si sa già tutto anche senza averli letti, perché sono dei classici, perché le loro frasi più importanti le puoi leggere un po' ovunque (anche e soprattutto dove non dovrebbero essere), perché dividono i lettori a metà, tra chi li ama follemente e chi li trova insignificanti, e questo ti fa un po' passare la voglia di affrontarli.
Ecco, "Il Piccolo Principe" è sicuramente uno di questi.
Libro della vita per alcuni, aria fritta per altri.
Poi però arriva tua figlia, di 8 anni, e ti chiede di leggerlo insieme... la sera, a letto, abbracciate.
E come dirle no? ????
Risultato... ho adorato leggerlo "con lei", ma il libro in sé a me non è piaciuto mica poi tanto, lei (nonostante io cercassi di spiegarle tutte le metafore e gli insegnamenti celati) non l'ha capito del tutto o quantomeno non mi è sembrata entusiasta.
Noiosetto lo è eh, a qualsiasi età.
Credo che il problema risieda proprio nel fatto che si presenti in maniera troppo semplicistica per un adulto e troppo difficile (nei contenuti) per un bambino.
Attenzione, non ho detto che sia un libro semplice eh (già vedo orde di persone pronte a linciarmi per avermi fraintesa), ma che la sua impostazione sia quella tipica di un libro per bambini, quindi lineare, con frasi semplici, brevi ed elementari, con molti dialoghi, per poi rivelarsi un libro di filosofia.
Filosofia un po' spicciola però (ecco arrivare le orde... ????)
Sinceramente, non dico che sia brutto, forse, semplicemente, non è il genere di letteratura che fa per me, preferisco altro.
Vabbè, com'è è come non è, adesso l'ho letto e comunque sono contenta di averlo fatto.
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- sì
- no
Amour fou e malattia mentale
141 pagine di dolce follia, di un meraviglioso vivere sul fragilissimo confine che separa realtà e fantasia, razionalità e pazzia.
Leggi e sorridi, ti commuovi, piangi...
Entrare nell'universo di questo bambino, che sente suo padre chiamare ogni giorno sua madre con un nome diverso, che li vede ridere, amarsi e ballare felici ogni giorno sulle note dello stesso disco (Mr Bojangles di Nina Simone), incuranti delle opinioni altrui e delle regole, che sente sua madre dare del tu alle stelle e del voi a tutti gli altri (figlio compreso), entrare in un mondo fatto di cocktail, feste, gioia ed entusiasmo per ogni piccola cosa, dove una gru di Numidia passeggia per il salotto e la tristezza e i problemi non sono ammessi, anche a costo di mentire agli altri e a se stessi... ebbene, entrare in questo universo, è stata la cosa più bella che mi potesse capitare!
Quanta dolcezza.
Quanta ironia.
Quanto romanticismo.
Quanta pazzia ci vuole per essere davvero felici?
Questa è la storia di una famiglia, la storia di un amour fou e di una malattia mentale.
È un racconto strambo, surreale, volutamente esagerato, che va letto con la testa libera, leggera, liberata dalle nostre gabbie, e dalle briglie che ci àncorano alla realtà.
Qui c'è una donna che preferisce una bugia felice ad una verità triste, e tutti coloro che la circondano rimangono incastrati in questa finzione, per amore.
Ci vuole una bella dose di coraggio per amare così, senza logica, senza punti di riferimento, con i piedi sul bordo di una terrazza a strapiombo sul mare, senza una ringhiera.
Cerchiamo quindi di rimanere il più a lungo possibile dentro questa bugia, perché tanto, prima o poi, la realtà torna e chiede il conto.
E allora, rinunciamo al realismo per qualche ora, lasciamoci trasportare da queste pagine, lasciamoci accarezzare dalla voce di Nina Simone (Mr Bojangles) e balliamo, balliamo fino a farci girare la testa, e ridiamo, ridiamo fino a piangere...
È una musica triste e felice, proprio come questo romanzo, la cui anima è tutt'altro che spensierata.
Entriamo in questa fiaba dolceamara, ma facciamolo col sorriso e il cuore aperto... perché Renée, Josephine, Marylou, Georgette o chi per lei non sopporta la tristezza e i musi lunghi.
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Visionario, delirante e realista
L'estate sta finendo (diceva qualcuno...), ed io cerco di trattenerla leggendo questo libro, ma non aspettatevi un romanzo fatto di spiagge affollate, mare, musica, vita, colori, e flirt al sapore di salsedine...
No, questo è un libro decadente, per chi riesce a trovare nella luce accecante delle giornate estive un che di dolente e malinconico.
Una luce forte che permette di vedere tutto con estrema chiarezza e lucidità, ma allo stesso tempo un caldo che cuoce, che asfissia e che genera sogni ad occhi aperti.
Visionario, delirante e realista.
"Maledette sere d’estate, tutte, nessuna esclusa. Le sere di giugno, che sanguinavano e ti dicevano bugie; le sere di luglio, in cui la luce sopravviveva al tramonto ma come svuotata dei colori; le sere d’agosto, camicette d’organza nera con gli astri al posto dei bottoni."
Così come ne "Gli autunnali", ci troviamo di fronte ad una ossessione amorosa, un desiderio che non trova pace né realizzazione, una visione dell'amore cinica, stanca, che risente degli anni che ognuno si porta addosso, del logorio dell'abitudine... ma non vuole soccombere sotto il peso del tempo che passa e trova, sotto diverse forme, il modo di resistere.
Perché se è vero che siamo mortali, è ancora più vero che desideriamo amare per sempre.
Ancora una volta Ricci ci presenta un uomo mediocre, pavido, in questo caso uno scrittore che non scrive, senza idee, senza slanci, un cinquantenne annoiato che inizia a vivere un amore platonico per una ragazza giovanissima che gli si palesa, come una stella cadente, in una notte di San Lorenzo al Circeo, dove è solito trascorrere le vacanze.
Ed ecco che il romanzo si nutre delle sole estati del protagonista, lasciandoci solo immaginare il resto del tempo.
Quindici estati, quindici anni di desiderio, pensieri, assenze, avvicinamenti e distanze siderali.
Quindici estati in cui non accade quasi nulla, fra loro, se non piccoli giochi crudeli, ripicche da ragazzini innamorati.
"C’eravamo amati a modo nostro, un dispetto per uno, sotto l’insegna tarlata della crudeltà, rendendoci insopportabili (e perciò impossibili), ma proprio per questo c’eravamo amati di più."
Secondo capitolo di Luca Ricci che ci presenta, con le sue atmosfere impalpabili, la sua visione dell'umanità e dell'amore, coniugale e non, attraverso le quattro stagioni, intese anche, e soprattutto, come stagioni della vita.
Un volersi calare nel procedere del tempo, cercando di capire, di analizzare e di inseguire, la conseguente andatura dei sentimenti.
Bello e intenso.
I dialoghi fra lui e la moglie sono graffianti e arguti, quelli con il suo editore traboccano di amore per una letteratura buona e pura, i suoi sogni ad occhi aperti hanno un fascino perverso che raggiungerebbe vette tragiche, se non fossero anche comici.
Un romanzo che ha, dentro di sé, il sapore del racconto, la sua verticalità e il suo ritmo.
Se l'Autunno è stata la stagione dello struggimento, l'Estate è quella dell'incoscienza... da non confondere assolutamente con la leggerezza.
Aspettando "Gli invernali"...
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Disturbato e disturbante
Ma cosa ho letto?...
Questo libro è un buco nero che ti risucchia nel suo vortice di buio, violenza, perversione (reato), oscenità, ma anche di arte, poesia, letteratura, cultura...
È un libro disturbato e disturbante, eppure mi è piaciuto moltissimo.
Mi è piaciuto e mi ha disgustato.
E questa cosa mi fa stare male, mi fa sentire in qualche modo "sbagliata".
Giulio Mozzi ci ha messo 23 anni per scriverlo, e probabilmente per chiudere un cerchio.
Io pochi giorni per leggerlo e venirne fuori smarrita.
Le ultime due pagine, credetemi, sono la cosa più raccapricciante che io abbia mai letto.
È sempre un 17 Giugno, data che si ripete e che ci mostra Mario, il protagonista, in un determinato momento della sua vita, o forse dovremmo dire delle sue vite... perché ne ha tante, tutte separate l'una dall'altra.
C'è Mario che sta per sposare Viola (che, a sua volta, vive una doppia vita).
C'è Mario che sta con Bianca, dalla quale... forse...ha avuto una figlia, Agnese.
C'è Mario servo e schiavo di Santiago, uomo dalle sadiche ed estreme pratiche sessuali.
E ancora Mario amico di Gas (grande artista sconosciuto) con cui discetta di arte e letteratura, e Mario figlio amorevole che si prende cura dei genitori anziani.
Ma Mario è soprattutto un uomo passivo, che non compie nessuna scelta, che non si evolve col tempo, un uomo che rimane incastrato nella ripetizione dei giorni, del tempo che passa.
Un uomo privo di ricordi, e quei pochi che ha sono pure sbagliati.
Una scrittura pazzesca, un periodare lungo, pieno di dettagli, di proposizioni incisive in cui sembra di perdersi, ma che, alla fine, risulta quasi ipnotico.
La cosiddetta trama c'è, ma non è lineare, ci sono solo dei quadri, delle situazioni che non necessariamente si intrecciano con il resto, a volte lo fanno, a volte semplicemente stanno lì o si sovrappongono ad altre, lasciando comunque dei buchi che rimangono tali, dei vuoti che non saranno mai colmati.
Ma ci troviamo di fronte ad una frammentarietà che affascina.
È una lettura complessa, di cui io, probabilmente, non ho neanche compreso tutti i rimandi.
Ma ne ho percepito la grandezza.
È un romanzo brutale sul male dell'essere umano, che è costantemente intorno e dentro di noi (anche quando è solo immaginato).
Forse per questo è tanto indigesto e mette a disagio.
Mozzi è stato coraggioso a scriverlo, noi però ancora più coraggiosi a leggerlo, va detto.
Non sono sicura che lo Strega sia il posto più adatto per un libro così, ma è sicuramente un libro che merita attenzione.
(P.s. Il capitolo "La lettera" merita un plauso speciale... davvero bellissimo.)
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- sì
- no
Fermo sul terzo gradino...
Quanta bellezza racchiusa in così poche pagine.
Una vita iniziata e finita in una nave, in 88 tasti di un pianoforte.
Una vita che non riesce ad andare oltre, che non riesce a scendere quei tre scalini che la separano dalla terraferma, dalla brulicante realtà con le sue strade, tante, troppe, così tante da non poterne immaginare la fine.
Troppe incognite, troppe variabili.
E allora Novecento rinuncia, si volta e torna indietro.
Torna alle sue note, che sono soltanto 7, ma con cui riesce a inventare infiniti mondi, uno per ogni passeggero del Virginian, uno per ogni sogno che non potrà mai realizzare, per tutte le donne che non amerà mai, per i figli che non potrà avere, per la vita che ha scelto di non vivere.
"Cristo, ma le vedevi le strade?
Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una...
A scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire.
Tutto quel mondo,
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce,
E quanto ce n'è,
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? A viverla…"
Lui è un uomo senza patria, senza famiglia, senza data di nascita.
Ufficialmente non è mai esistito.
Lui sa stare solo lì, sul transatlantico dove è nato e dove è stato abbandonato, dove è cresciuto suonando e dove vive i sogni e le passioni degli altri trasformandoli in musica, una musica unica, travolgente, una musica mai suonata prima.
La terra è una nave troppo grande per lui...
"La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare indietro.
Per favore."
Novecento ha paura.
Novecento è la paura!
La paura di impattare nella vastità delle relazioni umane con tutto il loro carico di responsabilità, delusioni, difficoltà, sconfitte, dolori, nell'ignoto dei sentimenti, che sono tanti, troppi, infiniti...
Eppure Novecento non è poi così strano...
Chissà quanti di noi sono fermi, da troppo tempo, su quel terzo gradino... a guardare la vita scorrere da lontano.
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Rassegnazione e malinconia in stile Ford
Dopo tanti autori italiani avevo una gran voglia di "americanità", e chi meglio di Richard Ford per sentirmi in America, per coglierne l'essenza?
"C'era, bisogna ammetterlo, la vaga sensazione di essere un semplice spettatore della vita. Ma era l’America. Erano tutti spettatori. Nessuno, gli sembrava, era dentro fino al collo in qualche cosa”.
Dieci racconti.
Dieci volte una fine.
Fine della vita, fine di un amore, fine di rapporti famigliari, di amicizia...
Fallimenti, perdite, lutti, separazioni.
Tutti i protagonisti perdono qualcuno, qualcosa... o si sentono fuori posto, inadeguati.
Patteggiano col dolore.
Poche parole per rappresentare interi universi.
Siamo negli Stati Uniti del Nord- Est, perlopiù nel Maine, ma c'è anche molta Irlanda, Canada, Parigi...tutti luoghi cari allo scrittore.
I suoi uomini sono rappresentanti della classe americana medio-alta, fatta di professionisti, avvocati, intellettuali, artisti.
Lo stile è minimalista e asciutto, molto elegante, fatto di dialoghi densi e moltissime riflessioni nascoste.
Ford fotografa momenti apparentemente minimi, insignificanti, eppure decisivi, di uomini e donne ormai maturi, che hanno attraversato unioni, allontanamenti, amori, disamori, che hanno perso tutto e ricominciato, e si ritrovano di nuovo soli, stanchi, sfiniti di fronte a nuove deviazioni della vita.
Aleggia fra le pagine un sentimento che abbraccia il rimpianto, la rassegnazione e la malinconia, come se quello che poteva (e doveva) accadere fosse già accaduto ed ora non rimane molto altro da fare, da dire, da vivere, il meglio è già passato.
Niente da dichiarare.
Eppure il libro non è deprimente, anzi... in qualche modo persino consolatorio.
Ford ci tiene in una sorta di penombra, condizione ideale per fare bilanci esistenziali.
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UN PAESE FORTE È UN PAESE POPOLOSO. MOLTIPLICATEVI
... e a me viene subito in mente De Andrè e il suo Testamento di Tito: "feconda una donna ogni volta che l'ami, così sarai uomo di fede. Poi la voglia svanisce e il figlio rimane, e tanti ne uccide la fame."
Certo, le ragioni di Ceau?escu, nella Romania degli anni '80, non erano di tipo religioso, ma il risultato non cambia.
Procreare come dovere patriottico!
Ah, certo...più siamo e più diventiamo forti, lo dicevano anche Hitler e Mussolini!
I metodi contraccettivi erano proibiti alle donne con meno di 4 bambini e l'aborto a quelle con meno di 45 anni che non avessero già dato alla luce quattro figli.
Ed ecco tanti bambini non desiderati lasciati negli orfanotrofi, tutti figli dello Stato (mi hai costretta a farlo nascere, ora occupatene tu!), a patire la fame, il freddo, il disamore, la miseria, la sporcizia, le malattie, e gli abusi.
Tanti, troppi.
Abusi fisici e psicologici che hanno portato tante piccole vite a decidere di farla finita.
Auspicare la morte come liberazione, e poi morire senza avere neanche una croce su un anonimo cumulo di terra.
Tanto quella, la croce, l'hanno portata già in vita, nella loro brevissima e terribile vita.
Per non parlare di tutte le donne che, pur di non ritrovarsi ad abbandonare i figli in questi posti (perché non avevano di che sfamarli!), sono morte dissanguate, avvelenate o consumate dalle infezioni durante gli aborti clandestini.
Quanta disperazione.
In nome di che cosa, poi?
In questa bella cornice di terrore, delazione e oppressione, la Lazar ci racconta una storia.
La storia di un'ostetrica e di un bambino...e di queste case-lager.
Lo fa con una scrittura diretta, semplice, analitica e distaccata, oserei dire anche fredda, come privo di ogni calore era il clima in cui vivevano questi bambini.
Ma vorrei che la leggeste voi...
Per poi metabolizzare gli orrori di un recente e buio periodo storico, e riflettere su come il bene più prezioso dell'umanità, i bambini, siano stati calpestati in ogni modo.
Bambini fatti nascere a forza, e poi privati del futuro.
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Roberto Venturini
Ho letto questo libro perché candidato nella dozzina dello Strega (li sto leggendo tutti), ma non sapevo bene cosa aspettarmi.
Autore a me sconosciuto, titolo originale che, chissà perché, mi portava a credere ad un giallo/noir, ma poi, leggendo le prime pagine ho capito di sbagliarmi... con mia grande gioia.
Mi sono trovata di fronte due personaggi problematici: Alfreda, una donna obesa, accumulatrice compulsiva, con chiari segni di demenza senile e suo figlio Marco, un ragazzo dedito alle droghe e al sesso, ma completamente dipendente dall'amore materno.
Bravissimo Venturini nella descrizione della donna, ormai completamente alla deriva in seguito ad una perdita importante, che si muove in una casa fatiscente, ingombra di scatoloni, oggetti, vestiti, utensili sporchi, spazzatura, tutta roba da buttare e da cui non riesce più a separarsi, e con cui crede di poter riempire un vuoto interiore lacerante.
Una casa popolata da formiche che le camminano addosso, scarafaggi che si muovono indisturbati tra le pentole, muffa, insetti e tutto ciò che può attecchire su superfici ricoperte da residui di cibo e mai lavate...
Di contorno troviamo altri due personaggi, abbastanza reietti e disperati: un pescatore che si porta addosso un senso di colpa pesantissimo e un transessuale dal cuore spezzato, entrambi segnati da una perdita dolorosa.
Il tutto incastonato in un paesaggio di periferia dall'odore salmastro e pungente (siamo a Torvaianica), in un villaggio ("Villaggio Tognazzi") che in passato ha vantato un illustre inquilino del mondo del cinema, con un via vai di personaggi della cultura e dello spettacolo... e che ormai si avvia verso la decadenza.
Mi pregustavo già l'esplorazione di una situazione di disagio e degrado dovuto alla "perdita", attraverso un punto di vista ed una scrittura che mi sono parsi subito originali ed intelligenti... ma poi, nella seconda parte del romanzo, la narrazione ha preso una direzione completamente diversa, e molto lontana da quanto sperassi, sfociando in situazioni tragicomiche.
Grottesche.
Il fulcro del racconto si sposta radicalmente dai problemi esistenziali di madre e figlio al ratto della salma di un personaggio dello spettacolo, con tutta una serie di scene, sicuramente molto cinematografiche (e che richiamano la commedia italiana degli anni '70), ma che si allontanano completamente dallo scavo psicologico e sociale a cui già (erroneamente) ambivo.
Mi sono sentita come un soufflè che si sgonfia appena apri lo sportello del forno...
Peccato, perché la scrittura di Venturini mi è piaciuta parecchio, mi è piaciuto il suo tuffarsi nel ricordo di periodi luminosi, di pubblicità di quando io ero bambina, di richiami nostalgici di tempi passati...
Bello anche l'uso della lingua sapientemente intervallata da idiomi dialettali.
Insomma il libro ha una sua spiccata personalità, va esattamente dove doveva e voleva andare... quella sbagliata sono stata io e le mie aspettative.
Quindi bravo Venturini, comunque.
Casa può essere ovunque...
Ma che bello questo viaggio nella vita di un uomo attraverso le case da lui abitate, dove con il termine "casa" non s'intende solo quello comunemente riconosciuto, ma anche altri luoghi, fisici e non, che hanno avuto un ruolo importante nella formazione di "Io" (il protagonista) e del suo Io.
In questo senso può essere stata "casa" anche un'automobile, una banca, un'ospedale, il tribunale, una cabina telefonica (casa della voce), una banchina ferroviaria, il carapace di una tartaruga, la fede nuziale (casa del persempre) ed anche una casa al di fuori di ogni localizzazione geografica, ma collocata sulla linea spazio-temporale, la casa dei ricordi fuoriusciti...ovvero la scatola nera di ciò che si è dimenticato, di ciò che anche la memoria ha rifiutato di trattenere.
Anche la televisione è stata un mezzo attraverso il quale Io è potuto entrare, non visto, nella casa di Prigioniero (chiaro riferimento al rapimento di Aldo Moro) e nella casa di Poeta (chiaro riferimento alla morte di Pasolini).
Così come in "Un bene al mondo" anche qui i personaggi non hanno nome, ma sono indicati in modo impersonale, o attraverso il loro grado di parentela con Io, quindi Padre, Madre, Sorella, Nonna, Parenti, Donna con la fede, Tartaruga, Prigioniero, Poeta, ecc.
Non li conosceremo mai veramente bene, mai fino in fondo, ma solo in funzione di ciò che hanno rappresentato per Io, in questa strana prospettiva che analizza angoli, perimetri, superfici, metri quadri, luci, ombre, corridoi, finestre e porte, alcune aperte attraverso cui passano messaggi e la vita, altre sempre chiuse.
Una prospettiva che parte dall'esterno, dalle mura che abitiamo, per poi arrivare al centro, all'anima.
Ma l'anima, come ben sappiamo, è imprendibile e inconoscibile... esattamente come sfuggente è il personaggio creato da Bajani.
Un libro molto originale, pieno di buona poesia, dalla scrittura curatissima, metaforica e visionaria, ma anche essenziale nella sua struttura, pregna di sensazioni visive, con un'architettura letteraria cronologicamente disordinata che obbliga il lettore a costruire un puzzle.
Sicuramente un libro tutt'altro che facile... molto denso, per certi versi faticoso, da assaporare a piccole dosi e solo se si è pronti a lasciarsi trasportare dalla visione di ogni casa in cui Bajani, con grande maestria, ci porta.
Non bisogna avere fretta con questo libro, non bisogna cercare "la storia".
Apparentemente non succede niente, eppure succede tutto... ci scorre davanti agli occhi un'infanzia non proprio felicissima, situazioni famigliari difficili, depressione, crescita e innamoramento, matrimonio, figli, ascesa sociale, malattia, separazione, solitudine, parole sentite, parole dette e parole scritte.
Sembra niente... e invece è la vita!
Per me, bellissimo.
Bajani è davvero bravo, ha una grande personalità letteraria, un suo timbro... i suoi libri hanno un suono, una melodia riconoscibile anche da lontano.
Con lui hai sempre la sensazione di essere in superficie, poi, all'improvviso, ti accorgi di essere giù nel profondo.
Su di me ha un effetto ipnotico.
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Dolce Pia, ruvido Rocco...
Tre vite, tre amici.
Due andati via troppo presto.
Uno, quello che rimane, cerca di regalare agli altri due una seconda vita, attraverso le sue parole.
"Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene.
E quando anche l'ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno."
Emanuele Trevi, Rocco Carbone e Pia Pera sono stati amici a lungo, quel tipo di amicizia che possiamo definire intima, quella che permette di conoscersi a fondo, scoprendo reciprocamente i lati più bui dell'altro.
Due di loro muoiono prematuramente, Rocco Carbone, a 46 anni, in un incidente stradale, Pia Pera, a 60 anni, per una malattia che se l'è portata via lentamente, muscolo dopo muscolo... la SLA.
Trevi rende omaggio ai suoi amici e alla loro opera letteraria attraverso questo scritto, cercando di farceli conoscere attraverso i suoi ricordi, le serate passate insieme a parlare, gli allontanamenti e le riappacificazioni, gli entusiasmi, le sfuriate, i consigli, i cambiamenti.
Conosciamo un Rocco Carbone dal carattere difficile, spigoloso, ripiegato su se stesso e sostanzialmente infelice.
Un uomo che si è sempre sentito in credito con la vita, e quindi affamato di attenzioni e considerazione.
Difficile stargli accanto.
Pia Pera, invece, è ritratta come una donna incantevole, sensibile, solare, anticonformista e a suo modo indomabile, che, da un certo punto in poi, scopre la sua passione per il giardinaggio (inteso proprio come filosofia di vita) e la porta avanti fino alla fine, curando il suo giardino fino all'ultimo giorno.
"Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio, e le persone incantevoli spesso si consumano e infine si dissolvono nel loro sciame vorticante di minuscole luci."
La scrittura è impeccabile, non gli si può dire nulla.
Eppure... qualcosa con me non ha funzionato.
Ho percepito la sua delicatezza quasi come una distanza, una freddezza che non mi ha permesso di entrare nelle loro vite, di emozionarmi.
Lui stesso scrive che "L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta", ecco, per me, lui è rimasto qualche passo troppo in là, troppo lontano affinché mi arrivasse al cuore.
Avrei voluto un maggiore impatto emotivo nel trattare argomenti così forti come il male di vivere, la malattia degenerativa, la morte, avrei voluto uno scavo psicologico tale che mi permettesse di sentire la sua perdita come se fosse anche un po' la mia, invece loro sono rimasti lì, sulla carta, lontani.
Ma sicuramente è stato un limite mio.
È un buon libro, che però in me non ha vibrato. Capita.
(Di sicuro devo ringraziare Trevi per avermi fatto venire voglia di cercare i libri di Pia Pera, in particolare "La bellezza dell'asino" e "Al giardino ancora non l'ho detto", che leggerò al più presto.)
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Gli irregolari, gli interrotti, i dispersi...
Mi piace Desiati, mi piace il suo modo di parlare della mia generazione (i quarantenni di oggi), il suo modo di raccontare la mia terra con i suoi odori, colori, tradizioni, modo di pensare, di "mettersi", il suo sguardo aperto verso il mondo, ma sempre, in qualche modo, ancorato alle origini, la dolcezza e la ruvidezza che si incontrano e si scontrano nella sua scrittura dando forma alla reale consistenza della vita.
Un libro di partenze, di ritorni, di amore e sesso vissuti senza il peso del giudizio, di ricerca interiore e liberazione dalle catene mentali.
Spatriati, ovvero "spatrièt?" in dialetto martinese (Martina Franca, paese di origine dell'autore), non sono semplicemente coloro che sono senza patria, che sono andati via, ma sono gli interrotti, gli irrisolti, i disorientati, i dispersi... in un senso più ampio e metaforico.
Possono essere anche i ritornati, quelli che hanno provato a cercare se stessi altrove e non ce l'hanno fatta, e continuano a vivere con una valigia sempre pronta.
È un concetto legato ad un modo di pensare che ti vuole "sistemato" in un luogo fisico e mentale ben incasellato, in un genere ben preciso, in relazioni stabili, con lavori facilmente definibili, e che fatica a comprendere la complessità del sentirsi fuoriposto in ogni luogo, perché ancora alla ricerca della propria identità, dei propri desideri più reconditi.
Ci sono persone affamate di vita, che sentono il bisogno di ampliare i propri confini, di spingersi oltre il limite per poter conoscere e accettare i propri, che hanno necessità di prendere le distanze dalle proprie origini per trovarsi davvero, scevri dall'influenza della famiglia e del "pensiero comune"...
Persone dalla consistenza più fluida che, molto spesso, nello squilibrio, riescono a trovare nuovi equilibri, nuove forme, e non tornano più.
E poi ci sono quelli che non ce la fanno, che sentono forte l'appartenenza, che provano ad allontanarsi, a sperimentare, magari trovando anche una dimensione più grande capace di contenere tutte le sfumature del loro essere e sentire, ma poi immancabilmente ritornano.
Ed ecco che Francesco Veleno (sí, un nome che ritorna da "Il paese delle spose infelici" ? e dalle pagine de "Il libro dell'amore proibito", promosso da soprannome a cognome) e Claudia danno voce a questa generazione che cerca il proprio spazio, la propria identità sociale e sessuale, dando vita ad una relazione che non è amore, non è amicizia, non è sesso, ma è tutto questo e molto altro.
Nessuna etichetta, neanche nei sentimenti.
Lei è proiettata verso la scoperta, ha bisogno di aria, di spazio, di libertà... libertà che troverà prima a Londra, poi a Milano, infine a Berlino.
Lui ha bisogno di lei, invece.
Quindi partirà anche lui, la seguirà, e troverà lì, nella capitale della trasgressione, il coraggio di essere veramente se stesso, senza censure, senza tabù... ma poi tornerà a Martina Franca, spatriato, solo, senza famiglia, ramingo in casa propria.
A casa, ma comunque sradicato.
Alla fine, qui al sud siamo tutti un po' spatriati, quelli che vanno via e anche quelli che restano.
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"E siamo noi"
"Questa è la storia di Livia, di Emanuela (Orlandi), di tutte le ragazze cadute nella botola."
...di ragazze che non tornano, che si perdono, ognuna a modo suo.
La Ciabatti è così... prendere o lasciare.
È spudoratamente antipatica, anaffettiva, egoista, mitomane, manipolatrice e dichiaratamente bugiarda.
Ma io la adoro.
Mi piace proprio perché non si nasconde, non cerca di apparire migliore di quel che è... e perché è capace di vergognarsi.
Dopotutto bisogna avere molto coraggio per ammettere di essere vigliacchi!
La sua scrittura è schietta, scarna, veloce, a volte caotica, ma capace, a suon di graffi, di farti arrivare nel profondo, di farti sentire il bruciore della pelle graffiata.
Io con lei mi sento sprofondare nelle umane debolezze, nelle fragilità, nell'irrisolto che, in un modo o nell'altro, appartiene a tutti.
"E siamo noi".
Solo che noi tentiamo in tutti i modi di nasconderlo, lei lo scrive.
Lei è la dimostrazione di come ognuno di noi riesca a contenere in sé tante cose disarmoniche. Spaiate. Asimmetriche. (Come i seni della protagonista).
In questo libro c'è tutto.
Confessione, voglia di rivalsa, grido di rabbia soffocata, dolore, ma anche tenerezza, pietas.
C'è la crescita di una ragazzina, attraverso la non accettazione del proprio corpo, attraverso le differenze sociali, l'esclusione, il non appartenere a certi ambienti e soprattutto a certi canoni di bellezza fisica.
Lei, la deforme.
Lei, che voleva gli occhi blu.
Lei, che sognava di sprofondare nel camerino del negozio, di cadere nella botola, essere rapita, rinchiusa, solo per poter essere notata. Sentirsi importante.
C'è l'amicizia.
Un'amicizia femminile fatta di condivisione, di giornate intere sul tappeto azzurro passate a sentirsi ai margini, troppo grasse, troppo vergini... ma anche di gelosie, di invidie, di troppe cose taciute.
C'è il tempo che passa, l'apice del successo (che non dura per sempre), i fallimenti di moglie (fedifraga) e soprattutto di madre (snaturata).
C'è la menopausa che di colpo la catapulta al di là del muro, c'è l'espiazione, il senso di colpa, la voglia di riparazione, o semplicemente il desiderio di perdonarsi.
Con il passare degli anni la bellezza come strumento di prevaricazione non esiste più, il tempo livella tutto.
Vecchiaia democratica.
C'è il danno, la "sopravvivenza" che passa attraverso la disabilità e la malattia.
Passare dall'essere oggetto del desiderio di tutti al rimanere prigioniera nella testa di eterna ragazza, regredita in un mondo fatto di volteggi su se stessa, di palloncini che volano e primi amori cristallizzati nel tempo.
Un romanzo che fonde autobiografia e fiction. Non sapremo mai qual è il confine, e forse il bello è anche questo. Lo è per me, almeno.
Un romanzo pieno di donne.
Donne che sono figlie, sorelle, madri, amiche, nemiche, amanti... donne che si sentono inadeguate, che sbagliano, che si perdono, che si ritrovano, che si perdonano.
"E siamo noi".
Trascinante.
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...del prendersi cura
Ci sono donne che scelgono di diventare madri e donne che scelgono di non farlo.
Poi ci sono quelle che vorrebbero, ma non possono.
E quelle che già lo sono e non vorrebbero esserlo più, per senso di inadeguatezza.
La maternità è una condizione così intima e complessa, così ricca di incognite e sfumature, che ognuna di queste situazioni è degna di rispetto, nessuno può giudicare, nessuno può decidere cosa sia giusto per una donna se non se stessa.
L'avere o non avere figli, ma soprattutto il volere o non volere figli, non rende migliori o peggiori.
Questa società dovrebbe smetterla di mettere alla gogna, di pressare, chi fa una scelta diversa da quella "socialmente" considerata giusta.
Ma giusta per chi poi?
Forse per la Chiesa? Per Dio?
Per la conservazione della specie?
In realtà è soprattutto un retaggio storico e culturale che vuole da sempre la donna impegnata nell'accudimento dei figli, considerando una donna tale solo in quanto madre.
In questa storia troviamo tante diverse declinazioni della maternità: quella rifiutata a priori, quella desiderata, quella negata, quella subìta. Io ne ho intravisto anche un'altra... quella accettata.
Tutte queste donne, ognuna col proprio vissuto, con i propri desideri e bisogni, ma anche debolezze e paure, creeranno inconsapevolmente una rete di supporto reciproco, donando e donandosi l'un l'altra senza nessuna pressione sociale, senza nessun dovere a monte che le obblighi a comportarsi in un certo modo.
Si può essere madri anche senza esserlo biologicamente, in molti modi e molte forme.
Ma, a guardar bene, questo libro non parla neanche di maternità in senso stretto, quanto più di un "prendersi cura".
È ampiamente dimostrato, dalla vita e dalla natura, che si può amare e accudire anche chi non è sangue del proprio sangue.
Alcuni uccelli depositano (abbandonano) le loro uova nel nido di altre specie lasciandoli crescere da altri, e questi altri si ritrovano a prendersi cura di piccoli "estranei" come se fossero i propri.
Che cosa terribile e meravigliosa insieme!
E poi c'è la disabilità, le malformazioni genetiche, la depressione, il disagio infantile, il femminismo...
Tanto.
La scrittura di questo romanzo (ispirato ad una storia vera, di un'amica della scrittrice) è apparentemente semplice, ma la sua semplicità è solamente al servizio di un contenuto ad alto tasso emotivo, pieno di sfaccettature e di significati nascosti sotto una narrazione lineare.
La Nettel sa essere diretta, efficace, ma allo stesso tempo dolce e sensibile.
Un libro bellissimo, che dà speranza anche dove sembra non essercene più.
Un libro che dovrebbero leggere tutte le donne.
E tutti gli uomini. Soprattutto loro.
Indicazioni utili
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
ATTENZIONE: recensione un po' strana, forse non si capirà molto, forse troppo. Ma quello che vorrei fosse chiaro è che Carrino è geniale, traboccante.
Lui va oltre la narrazione, oltre la scrittura.
È approdato nel luogo delle menti devastate ed è riuscito a parlarci da lì.
Leggerlo è stato un viaggio non facile, per nulla piacevole, eppure meraviglioso!
Io ve lo racconto così:
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
un manicomio criminale e Gioia, una donna o un uomo non importa, che non sa perché si trovi lì (da 25 anni), le sue mani sono sporche di sangue, ma non ricorda di chi, né come, né perché.
La sua mente è come una mente bambina, offuscata da ricordi confusi, che la fanno piccola, indifesa, calpestata e buttata via...
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
una mamma con un ago e la sua mano di bambino bucata come un portaspilli.
No mamma, ti prego non farlo, e invece sì, dieci volte, altrimenti non impari la lezione!
Un criceto, una girella al cioccolato, una vasca da bagno piena d'acqua, moscacieca, un fratellino bendato... ma tu sei troppo piccolo per stare da solo e badare a lui.
La mamma esce sempre, ma non si può dire.
Altrimenti gli spilli. La mano come portaspilli. Dieci volte.
E poi i gradini di una casa con la serranda chiusa, e tu che aspetti e aspetti una mamma che non torna.
Ma quanto la ami!
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
un papà che non c'era mai, che non ti voleva. Anche lui.
Mani sporche, saldatrice, calci pugni botte...
Eppure l'hai amato, fosse anche solo per uno sguardo.
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
una masseria col pergolato, i nonni, il lavoro in campagna, un telone, un'auto rotta e zio Giggino che gli prometteva tante cose, in cambio di.
In cambio di.
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
la strada, il fuoco, le macchine con i clienti e poi c'eri tu, Mario.
Mario magnaccia, Mario crudele, Mario violento che la usava e non l'amava.
E il suo braccio che ogni notte usciva dal muro con la sigaretta accesa.
C'era c'era una volta, ora mi ricordo che c'era...
Gioia che ha amato tutti, ha amato le mani che l'hanno picchiata, stuprata, umiliata, rinnegata, che hanno ucciso la sua innocenza e il suo pudore.
Pure quelle che l'hanno legata al letto e intontita coi farmaci.
Un amore intenso, a senso unico.
Gioia che si è calata nel Pozzoromolo, e ha dovuto pagare con la follia la strada per risalire.
Lei che voleva soltanto un po' d'amore.
E adesso c'e questo libro coraggioso, bellissimo e dolorosissimo, straripante, fatto di parole sincopate, caustiche, reiterate, deformate e disordinate, parole vomitate che sembrano susseguirsi a caso, con una grammatica che non conta più, che ha lasciato il passo all'ossessione, alla poesia di pancia, di una pancia pazza, e alle canzoni che si impastano al delirio.
Ma ora che ho finito di leggerti, Gioia, adesso che il tuo dolore è diventato anche un po' il mio, adesso che ho assistito a tutte le tue notti affollate dai fantasmi, adesso che ho la testa piena dei tuoi "C'era c'era una volta...", io mi sento sfinita, sfibrata, stanca.
Ho bisogno di dormire, di farmi piccola nel letto, e di sognare sogni belli.
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Fulminante e poetico
"SE NON HAI MAI PROVATO IL DOLORE PSICHIATRICO, NON DIRE CHE NON ESISTE.
RINGRAZIA IL SIGNORE E TACI."
Che libro, che libro, che libro!!!
Paolo Milone, psichiatra dal 1980, ci apre le porte del Reparto 77 a Genova, e ci fa immergere, attraverso una narrazione molto personale che è memoria, appunti, ricordi, diario, confessione e poesia (meravigliosa poesia), nel mondo terribilmente difficile dei centri di salute mentale e del Pronto Soccorso psichiatrico.
Ci mostra dei quadri tanto fulminanti quanto poetici, perché la Psichiatria d'urgenza è questa: disperazione, velocità, violenza, dolore e sofferenza che possono essere affrontati e curati solo se, chi si trova dall'altra parte, col camice bianco, riesce a non perdere lo stupore e la meraviglia.
Il senso della vita.
La sete di umanità.
La capacità di "afferrare" chi si sta perdendo.
Un racconto nudo, sincero, apparentemente leggero ma profondo come l'abisso della mente umana... scritto da "medico", ma che ci mostra principalmente il suo lato di "uomo".
Con i suoi dubbi, le sue fragilità, tutto il dolore preso in consegna dai pazienti, il senso di colpa dei fallimenti, la disperazione per i primi suicidi, il turbamento per gli innamoramenti pericolosi, non consentiti.
Legare le persone, tenerne insieme i pezzi...
Un corpo a corpo con la follia, una lotta che ha il solo obiettivo di proteggere chi si è perso, a costo di creare confini, di alzare muri.
Perché nel momento acuto della crisi psicotica, quando il paziente ha smarrito l'essenza stessa del concetto di esistere, non è l'ossigeno, non è la libertà, né la gentilezza che lo salveranno, ma le mani forti di chi saprà contenere la sua dispersione, restituendogli unità, identità.
"L'ARTE DI LEGARE LE PERSONE.
LEGARE LE PERSONE AL LETTO.
LEGARE LE PERSONE A TE.
LEGARE LE PERSONE ALLA REALTÀ.
LEGARE LE PERSONE A SE STESSE.
LEGARE LE PERSONE È UN'ARTE.
INCONOSCIBILE."
Un libro anomalo, inclassificabile, unico, che mi ha emozionato profondamente, mi ha commosso, ma mi ha anche fatto sorridere...
Un libro di cui vorresti parlare a tutti e dire "leggilo, leggilo, ti apre un mondo, fa bene al cuore, alla testa, all'anima!!!"
In queste pagine c'è l'amore per la propria professione, un lavoro che fa paura, che fa paura anche a chi lo fa.
Medici appassionati, fragili, che soffrono e sbagliano, sono fallibili e mortali.
Uomini e donne che, senza mai perdere la passione, "hanno scelto di guardare l'abisso con gli occhi degli altri".
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Cortocircuito mentale. Cattiveria o follia?
Ho provato per questo libro, fin da quando l'ho visto sullo scaffale della libreria, un'attrazione ipnotica di tipo acustico.
Mi risuonava quel "crack" della plastica accartocciata nelle orecchie, non riuscivo proprio ad ignorarlo (ed infatti il libro è tornato a casa con me)... ma mai avrei immaginato quanto fosse importante e tristemente definitivo quel suono ai fini della storia in esso raccontata.
Emiliano Bardanzellu, il protagonista, non sopporta il rumore delle bottiglie di plastica compattate.
Non lo sopporta al punto da andare in "cortocircuito", da perdere completamente la testa e compiere un'azione terribile, la peggiore che si possa immaginare, di cui però non ricorderà nulla, di cui (almeno apparentemente) non sembrerà portare alcuno strascico a livello morale, né sensi di colpa, né pentimento... solo una pacata accettazione della pena.
Ma si può provare disperazione e pentimento per qualcosa di cui non si ha memoria?
È difficile autoriconoscersi come "mostro" se non si riconosce come proprio il gesto compiuto.
Oppure ci troviamo di fronte al più subdolo calcolatore che si nasconde dietro l'alibi del black out mentale?
Cattiveria o follia?
Il romanzo cerca di esplorare proprio questo, ovvero dove risieda il limite tra le due cose.
Quando si può davvero affermare che un atto di violenza inaudita sia figlio di un momento di buio totale e quando il frutto di un sentimento rancoroso?
Sì, certo, ci sono le perizie psichiatriche, ma... la verità è custodita solo lì, nei meandri della mente degli assassini.
Delogu nell'esplorare questo abisso mentale, ci porta in Sardegna, ci apre i cancelli delle carceri, in particolare quella di Buoncammino e la colonia penale di Is Arenas, ci fa fare amicizia con i compagni di cella di Emiliano, con il direttore, con il secondino...
Impareremo a guardare i criminali con occhi più "umani", scoprendo i loro piccoli gesti quotidiani, le loro piccole fragilità.
Ci indispettirà la mitezza di un uomo che vorremmo vedere straziato dal dolore, non riusciremo mai a comprendere fino in fondo il suo distacco, la sua oltraggiosa compostezza.
Saremo spiazzati da un finale che ci costringerà a fare quello che per tutto il libro abbiamo cercato di evitare di fare: schierarci.
Un romanzo che non assolve il male, ma che vuole raccontarci una storia, una brutta e triste storia, da una prospettiva scomoda, difficile... e vuole portare il lettore a riflettere sul nostro tempo, sulle nostre nevrosi e idiosincrasie.
Un libro che non fornisce risposte (come dovrebbero fare tutti i buoni libri), ma che vuole obbligarci a pensare, a prendere una posizione nostra, a portare a termine quello che lo scrittore ha lasciato volutamente ambiguo.
Molto bello, ma di sicuro non compatterò mai più le bottiglie con lo stesso stato d'animo...
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La rabbia soffocata degli ultimi...
"...ERAVAMO FATTI A BRICIOLE, ERAVAMO BAMBINI, ERAVAMO SENZA GIOCHI E SENZA CASA, MA ERAVAMO ATTENTI."
Sono ormai tre giorni che ho finito questo libro, e ancora non riesco a trovare le parole giuste per esprimere quello che questa lettura mi ha dato.
È una storia potente, che mi ha lasciato dentro tanti pensieri, tante riflessioni e sentimenti, ma è come se non riuscissi a metterli nero su bianco, forse perché sono ancora lì che vorticano...
Non riesco a lasciar andare le due figure femminili che abitano queste pagine, che cercano in ogni modo di rimanere a galla, di trovare il loro posto (e non solo metaforico) in un mondo che le vuole emarginare, che cercano un riscatto che forse non arriverà mai... e intanto l'infelicità si annida negli angoli più bui, la rabbia ribolle in fondo allo stomaco e cerca la strada per venire fuori.
"La mia rabbia è stesa sulla terrazza, prende il sole e fa smorfie, striscia tra le ombre e si affaccia alle spalle dei presenti, la mia collera è cruda, è viva...
[...] La mia ira è sproporzionata, ha gambe lunghissime, orecchie piccole e docili, piedi corti e pelosi."
Una madre che non si arrende, che combatte, arranca, lotta per la giustizia e crede nel bene comune, una madre che domina e ingombra, che non accarezza e pretende, la cui ala protettiva si espande prepotentemente e finisce per soffocare.
La vita l'ha indurita, le ha inspessito la pelle, le ha insegnato a fare a meno di tutto, tranne che di un tetto sopra la testa.
E quello cercherà, per tutta la vita.
Una figlia che nasce nella privazione, che si adatta ai 20mq da dividere in sei, senza giocattoli, senza tv, senza niente.
Cresce cercando una rivalsa non sua, senza mai lamentarsi, spingendo giù ogni dolore, soffocando il risentimento, studiando tanto, leggendo i libri giusti, tuffandosi senza paura nell'acqua torbida e scura, sparando con precisione i bersagli, spaccando ginocchia ai prepotenti, affogando i traditori, accendendo fiammiferi, prendendo e difendendo ciò che ritiene sia suo, amando senza sapere cosa sia l'amore, piangendo l'amicizia perduta...
Una ragazza che vorrebbe trovare se stessa, ma rimane sempre impigliata nell'ombra di sua madre.
"Penso che siamo materiali di scarto, carte inutili in un gioco complicato, biglie scheggiate che non rotolano più.
Siamo a terra, come mio padre, caduto da una impalcatura inadeguata, in un cantiere illegale, senza contratto e senza assicurazione e da laggiù, dal punto in cui siamo precipitati, vediamo gli altri mettersi al collo collane di gemme."
Due figure femminile che ami e che odi, che vorresti abbracciare e prendere a schiaffi, perché portano dentro di sé tutto il disagio degli ultimi, i poveri, e tutto il cinismo e l'arroganza di chi si sente (giustamente) in credito con la vita.
Ma non ci sono solo loro in questa storia: c'è un marito/padre che in un attimo perde tutto, e rimane fermo, inchiodato su una sedia, inchiodato in un rapporto che lo vede sempre secondo, laterale, senza voce.
Poi c'è un figlio che non è suo figlio, ma con cui si evolverà uno strano rapporto di odio/amore.
Un ragazzo caparbio, anarchico, l'unico in grado di sottrarsi al dominio materno, divenendo punto di equilibrio per tutti gli altri.
E poi c'è il lago, così vivido, così magico e così spettrale, così protagonista da riuscire a sentirne anche l'odore.
Tutto ispirato a vita vissuta...
Giulia Caminito, dov'eri? Dove ti nascondevi? Perché io ti scopro solo adesso?
Per me entri, di diritto, nell'olimpo delle grandi scrittrici italiane contemporanee.
La tua scrittura è bellezza autentica!
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Tutti divorati e divoratori. Tutti infelici.
La vita è feroce, affamata, non risparmia niente e nessuno.
C'è chi è abituato ad essere "pasto" per gli altri, chi ha messo la propria vita in un piatto, il piatto più bello e costoso possibile ovviamente, e si lascia divorare senza pietà da chiunque, per vanità, per bramosia di successo, per contratto.
Il suo sapore non è genuino, è finto, come finta è la sua esistenza patinata.
Piacere ad ogni costo è faticoso, stancante, sfibrante... ad un certo punto si ha il bisogno di chiudersi in un bagno e tirare fuori il peggio, o forse il meglio... di sicuro "il vero".
Ma c'è anche chi è inconsapevole di mettere in atto e di subire questo aspetto famelico dell'esistenza.
Fino a quando non si ritrova faccia a faccia con i propri istinti, fino a quando non si ritrova nel piatto le briciole dei propri fallimenti.
Tutto accade nell'arco di una cena.
Una grande abbuffata la cui portata principale è costituita da loro, le celebrità hollywoodiane, ma i cui contorni, le esistenze comuni, sono la parte più viva e saporita della cena, perché non artefatti, non costruiti a tavolino, perché ignari di essere cibo per le loro debolezze, vittime della loro stessa fame.
Fame di realizzazione, di riscatto sociale, fame di potere, fame di piacere, di sedurre, o anche solo incapacità di proteggersi, e quindi, per questo, destinati ad essere fatti a pezzi, divorati e masticati dai sensi di colpa, dai rimpianti, o semplicemente da una vita che non dà molte seconde occasioni.
Tutti divorati da se stessi, spolpati da una vita che, in fondo, per nessuno di loro, è andata come avrebbero voluto.
Tutti divorati e divoratori. Tutti infelici.
L'essere umano contemporaneo di Sgambati è cinico, meschino, affascinato dal sopruso, autodistruttivo.
Sostanzialmente solo e disperato.
Poco emozionale e molto cerebrale, esattamente come il romanzo.
Un libro sicuramente originale, scritto bene, chirurgico, attento al dettaglio.
Che fa pensare.
Però, per me, ha un grande difetto: l'eccessiva caduta nel "mondo delle celebrità reali".
L'ho trovato troppo infarcito di veri personaggi dello spettacolo, del cinema, della musica (da Fabio Fazio e Filippa Lagerbäck a Charlize Theron e Damien Hirst, passando per una lunga serie di citazioni: Jude Law, Hugh Grant, Saviano, Bono, David Letterman, ecc.).
Questo voler inserire nella narrazione persone vere, famose, ha tolto al romanzo il suo respiro universale, relegandolo ad un tempo piccolo, molto circoscritto.
Il nostro adesso. Qui e ora.
Avrei preferito meno riferimenti celebri, meno scimmiottamenti (la coppia hollywoodiana è troppo esplicitamente simile a Brad Pitt e Angelina Jolie, lo chef stellato è una versione letteraria di Cracco...).
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L'assenza presenza
Un romanzo fatto soprattutto di silenzi.
Piccoli, continui e infiniti silenzi, che cercano di coprire quel silenzio più grande e assordante che è dato dall'assenza.
L'assenza di una moglie.
L'assenza di una madre.
L'assenza di una figlia.
L'assenza di una donna che non ce la fa, che va via da suo marito, da suo figlio, dai suoi genitori, senza una parola, un bacio, una carezza, un perché.
Questa assenza si fa presenza costante tra le pagine del libro, diventa fulcro e centro intorno al quale orbitano tutte le domande mai fatte, i giudizi mai esternati, le accuse represse, i "come sarebbe stato se...".
Camurri ci consegna un uomo e un bambino che imparano ad andare avanti da soli, trovando codici di comunicazione personali, cercandosi tra le parole mai dette e odiandosi quando quelle mancanze diventano un'eredità troppo pesante da portare.
Il vuoto che li circonda è incolmabile.
Eppure la vita va lo stesso... si cresce, ci si innamora, si sbaglia, si ha paura, si prova ad essere giusti, si va via e si torna indietro, alla ricerca di quell'alfabeto sconosciuto che possa un giorno aiutarli a capire, a dare un senso, a dare loro il coraggio di pronunciare quel nome.
Camurri ci dona una storia fatta di piccole cose, di sensazioni, di colori, di stati d'animo, ci dona Fabbrico, la sua tristezza e la sua bellezza, i paesaggi della campagna emiliana, la sua umidità, i raggi del sole che si perdono sulla vastità della pianura, il senso di gioia e smarrimento di chi prova ad allontanarsi, per poi tornare lì, in un paese che è casa.
Esattamente come il suo libro d'esordio ("A misura d'uomo"), anche questo romanzo è molto bello, intimo e sensoriale.
Mentre lo leggi, lo vivi.
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Abbiamo tutti una stanza 411
"Se non avessi conosciuto questo amore, e dunque te, sarei più libera, oppure lo sarei meno?
Forse semplicemente continuerei a non sapere niente dell'amore.
E invece, qualcosa la so.
So che passa. So che finisce. Che delude. Illude. Corrode. Che evapora. Che è una pozzanghera d'acqua limpida, e poi sporca. Che è un liquido fatto di umori corporei. Che è cattiveria. Dolcezza. Che credi sia finito e poi torna. Che è indistruttibile. Anche se si sfibra ogni secondo che passa.
So che è imprendibile. E che non si può dire."
La storia di un amore?
La storia dell'impossibilità di un amore? Del suo ineluttabile destino?
Una storia che è storia di tutti, pur non appartenendoci.
Ma per narrare l'universale bisogna analizzare il particolare, il privato.
Abbiamo avuto tutti una stanza 411, una stanza in cui spogliarsi di tutto, in cui avere paura, in cui darsi e ricevere in preda ad una fame cieca, una stanza che poi rimane vuota, ripulita, inconsapevole del nostro passaggio, le cui pareti però hanno visto e sentito tutto, e trattengono all'interno dei loro muri, per sempre, una parte di noi.
Quella parte che il tempo che viviamo si porterà via, perché l'amore è imprendibile, inafferrabile, rimane solo lì, dove non può essere raggiunto.
Pagine scomode, piene di bugie e di verità.
Perché l'amore si traveste, confonde, ti convince di essere altro e poi si reinventa.
Perché amiamo sempre qualcuno che non esiste, "l'altro che tutti aspettiamo da sempre e che non può arrivare".
"Perché proprio lei - o lui - , quale gesto, sguardo, movimento, quale parola, quale assonanza, eco?
Forse, mi sono innamorata di te perché sono io ad averti inventato."
Solitamente i libri che parlano d'amore sono definiti "rosa"... questo, ve lo assicuro, è nero, e fa male, irrita, disturba.
Con una voce scarnificata, poetica, dura ma anche morbida, una voce intera e poi spezzata, la Vinci attraversa il viaggio sentimentale di una donna che ci prova e fallisce, ma continua a crederci.
E continua a guardarsi nuda nello specchio di quella stanza, anche quando ad attenderla fuori non ci sarà più nessuno, ma ci sono ancora i suoi seni, la sua pancia, le caviglie, le costole, i muscoli, i tendini, tutto il suo corpo così amato e così odiato, in attesa di essere messo in salvo.
Ancora.
È proprio vero che "dei bambini non si sa niente", ma non si sa granché neanche degli adulti, soprattutto quelli di cui ci innamoriamo.
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Il silenzio è buono Leo. Ma il mondo è cattivo.
Corbetta ci sta abituando molto, troppo bene...
Ogni suo libro è un'immersione, struggente ma mai disperata, in una forma di dolore diverso: prima la malattia terminale, poi il sonno bianco di chi è in coma, adesso il mondo sommerso e vibrante di chi è affetto da sordità.
Ogni libro, un trauma.
Lo sguardo dell'autore però ha un taglio obliquo, decentrato, nel senso che si posa e inquadra principalmente chi, quel trauma, lo vive di riflesso.
Il tocco della sua scrittura non è mai invadente, entra con dignità e rispetto nel difficile universo di chi deve imparare forme di comunicazione alternative alla parola, cercando comunque la propria voce interiore... che c'è, esiste e chiede di essere ascoltata.
Siamo negli anni '60, quando ancora la lingua dei segni era proibita nelle scuole... ("perché i gesti erano per gli animali, l’istinto dei primati, e svilivano l’uomo. Solo la parola avrebbe salvato. Perché in principio era il Verbo, e il Verbo era Dio").
Cosa succede ad un bambino di 6 anni, affetto da sordità bilaterale, a cui viene negata la possibilità di "parlare" con le mani?
Quanta rabbia, quanta frustrazione, quanto bisogno di allontanarsi da quei lacci che gli legano le braccia dietro la schiena rendendolo ancora più muto (e solo) di quanto non sia?
Ed ecco che Leo scompare...
Lasciando la sua famiglia, e soprattutto Anna, sua sorella, privata di quel silenzio gioioso che tanto amava, e facendola precipitare in un silenzio davvero muto, privo di qualsiasi vibrazione, un silenzio che, anno dopo anno, ha inghiottito ogni speranza e si è mangiato la donna che sarebbe potuta diventare.
Qualcuno è più solido e continua, seppur nella disperazione, ad andare avanti, qualcun altro non ce la fa... e si arrende.
Ma dopo 19 anni accade qualcosa che rimette in moto tutto... ricordi, dolore mai sopito, domande, sensi di colpa.
Di nuovo quella maledetta notte innevata del 18 Dicembre del '64 che si è portata via Leo... e per Anna la vita non sarà più la stessa.
Indaga Corbetta, indaga con sensibilità e attenzione.
Tocca, scava e accarezza, crea mistero.
"La forma del silenzio" è un libro trasversale, che riesce a toccare, con delicatezza e maestria, diversi temi, tutti importanti: la disabilità, l'amore fraterno, lo smarrimento dell'assenza e della perdita, la disperazione che porta all'egoismo più cieco, la depressione e la ricerca della propria identità.
È denuncia sociale, in un paese come il nostro che ancora non vede riconosciuta, a livello giuridico, la lingua dei segni.
Ma soprattutto, secondo me, è un libro sulla rielaborazione del sé.
Ed è bellissimo.
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L'Arminuta è cresciuta
"L'Arminuta è diventata grande"...così cita la pubblicità di questo romanzo.
E tu, che L'Arminuta l'hai amata visceralmente, ti chiedi se sarà possibile ritrovare le stesse vibrazioni, lo stesso magone nella pancia, la stessa commozione...
Mi sono avvicinata al libro con emozione e timore, voglia di rincontrarla e paura di non riconoscerla.
La punta delle dita in fibrillazione e gli occhi ansiosi... e già questo basterebbe in realtà.
Poi inizi a leggere e tutte le preoccupazioni vengono spazzate via...
Lei c'è, la ragazzina "restituita" è diventata una donna realizzata, ma ancora alle prese con gli abbandoni, c'è sua sorella Adriana con il suo carico di vitalità e irrequietezza, c'è l'Abruzzo con il suo entroterra aspro (anche nei sentimenti) e con il suo mare, il pesce appena pescato, la comunità che si fa famiglia.
C'è ancora la maternità e ciò che resta di un'infanzia trascorsa nel disamore, nell'anaffettività.
Ci sono le crepe lasciate aperte da queste mancanze, vuoti da colmare con l'amore e che, nonostante tutte le difficoltà, lasciano sempre passare la luce.
C'è il matrimonio e la ricerca "necessaria" della propria identità, anche a costo della felicità dell'altro.
C'è il passato che torna, torna sempre...
Sopra ogni cosa c'è il rapporto tra due sorelle, due anime profondamente diverse, inizialmente estranee eppure indivisibili.
Il disagio trasformato in affetto diventa il più forte dei sentimenti.
"Con mia sorella ho spartito un'eredità di parole non dette, gesti omessi, cure negate. E rare, improvvise attenzioni.
Siamo state figlie di nessuna madre.
Siamo ancora, come sempre, due scappate di casa.
[...]
Per ognuna di noi restava la certezza dell'altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate."
Nella scrittura della Di Pietrantonio c'è questa dolcezza, questa calma di fondo che si amalgama al dolore, alla durezza della vita, dando origine così a pagine meravigliosamente ruvide, capaci di farti male, ma con grazia.
Ti senti cullata da una melodia triste, come una ninna nanna che ti fa addormentare mentre piangi.
Quello che provi è un dolore composto, senza eccessi, dove ogni parola è esattamente dove dovrebbe essere.
Qui ogni parola è preziosa, lucente come un diamante, e proprio come un diamante... taglia.
Da non perdere.
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Gioco al massacro in stile Reza
Ma quanto è brava la Reza in questi giochi al massacro!?!
Solo lei riesce ad essere così divertente e crudele allo stesso tempo, solo lei riesce, utilizzando pochissimi elementi, a creare situazioni di grande impatto psicologico/sociale.
Tre uomini, un quadro... e il trionfo dell'ipocrisia, delle rivalità, delle nevrosi, dell'incomunicabilità, celati sotto la morbida coperta dell'amicizia.
Una tela bianca, con sottili filettature bianche, da duecentomila franchi.
- "Un'opera d'arte moderna".
- "Una merda".
- "C'è un pensiero dietro".
E il valzer dei risentimenti taciuti.
Su di una tela bianca puoi vederci qualsiasi cosa, anche la fine e la rinascita di un'amicizia, e questa storia lo dimostrerà.
Piece teatrale sarcastica, raffinata, tagliente.
Dentro ci siamo tutti noi, con i nostri difetti, le nostre convinzioni (sbagliate), le nostre miserie negate.
Ma la Reza ce le mostra tutte, e noi non possiamo far altro che sorridere a denti stretti e ammettere tutto.
Leggiamo Yasmina Reza, ci fa bene.
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Amore tossico, al Plutonio.
Viola Di Grado ha, su di me, questa capacità: di farmi precipitare in un buco nero di tristezza. Senza fine.
Era successo già con "Settanta acrilico trenta lana".
E ora di nuovo.
Ma non è una cosa negativa, non per come intendo io la bellezza di un libro.
E questo libro è bellissimo.
Non si tratta di una tristezza che ti fa venire voglia di piangere, o che ti suscita pietà, o che riporta alla malinconia, all'amarezza, al dispiacere, no.
Per niente.
Non è neanche disperazione, perché siamo già oltre quello stadio...
È una tristezza solida che devasta, che ti inghiotte, è un sentimento che percepisci vivo, che si muove dentro di te, che morde dall'interno e ti pietrifica fuori.
Con la sua scrittura particolare, asciutta, vivida, dal ritmo serrato, la Di Grado ci racconta una storia ispirata ad un fatto di cronaca che ha destabilizzato il mondo, ambientata in un luogo reale che però di reale non ha nulla, perché è un luogo mostruoso che non dovrebbe esistere, e invece è lì con la sua aria infetta e mortale e nessuno ci pensa.
Così mostruoso che potrebbe sembrare un racconto distopico, ed invece parla di un tempo passato e ancora presente.
Musljumovo, ai confini con la Siberia, è un villaggio fantasma. C'è ma non c'è.
È il luogo più radioattivo del pianeta.
Gli abitanti sono tutti malati, i bambini, se riescono a nascere, nascono deformi, e sono tutti lì, fermi, in attesa del nulla, respirando e mangiando morte.
Nessuno può entrare nella città segreta, nessuno può uscirci, nessuno ne parla.
Tutti pagati per il loro silenzio.
"I luoghi, come le persone, o ti riempiono o ti svuotano. Quel posto toglie tutto, proprio tutto, ti lascia solo pezzi d'anima, avanzi di te stesso."
In questa storia il male è fuori, nell'aria, ma anche dentro.
Dentro la terra, dentro l'acqua del fiume, dentro le piante, gli animali...
Si impossessa di tutto, degli organi, delle ossa, del sangue, della mente, del futuro che non esiste più.
Tutto è avvelenato, compromesso.
Anche l'amore.
Quell'amore che pretendeva di guarire il male con la sua forza, che sembrava essere l'unica soluzione per mettersi al riparo, per non sprofondare nel buio.
Fare l'amore, incastrare i corpi, per ancorarsi alla vita.
"Stare sulla pelle per non stare nell'abisso.
Ma lei aveva l'abisso nella testa, dappertutto, un fondale nero.
Un libro tossico, al plutonio, nero come le labbra di chi l'ha scritto, ma capace di trovare una flebile speranza anche nello sfacelo più totale.
Anche a costo della pazzia.
Un libro potente.
Potente la storia, potente l'ambientazione, potente la scrittura, potentissimo l'impatto emotivo che produce in chi legge.
Leggetelo.
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Smarrimento e inadeguatezza
La Rooney mi ha inchiodato alle pagine, non mi ha permesso di staccarmi da Frances, dalla sua vita, dal suo sentire.
Potrebbe sembrare la storia di quattro persone, dei loro rapporti interpersonali, di amori sbagliati, gelosie, invidie (e, in un certo senso, lo è anche), ma in realtà ruota tutto intorno a lei, Frances...e la ricerca della sua identità.
Lei sempre così inadeguata, così insicura nel suo corpo troppo esile, così in affanno dietro i suoi sogni e la loro realizzazione, così poco borghese, ma non abbastanza alternativa e rivoluzionaria come Bobbi, la sua amica, il suo primo amore, il suo idolo...colei che sa sempre cosa dire e come dirlo, colei che catalizza l'attenzione di tutti, sempre sul pezzo, mai fuoriposto o a disagio.
Quel disagio che, invece, ha sempre accompagnato Frances.
La psicologia del personaggio di Frances è ciò che anima tutto il romanzo, è sfaccettata, intima, complessa, ma sopratutto autentica.
"Ai campi preferisce le case, sono più poetiche, perché dentro ci sono le persone. "
Più che una storia vera e propria, più che una trama, c'è l'analisi, la riflessione di un momento, quello dei vent'anni, in cui tutto sembra difficile (ma anche possibile), soprattutto amare ed essere amati.
Sentirsi unici e speciali per qualcuno, a dispetto di tutte le autoconsiderazioni negative, diventa fulcro e linfa vitale.
Qualcuno potrebbe dire "ma non succede nulla in questo libro"!!!
Probabile, eppure succede tantissimo.
Succede la vita!
Omosessualità, forbice sociale, impegno politico e femminismo, malattia (autolesionismo, endometriosi), insicurezza, amore...amore per dovere, amore per bisogno, amore per amore.
C'è davvero tanto in queste pagine.
Non ho più vent'anni, eppure questa storia mi ha coinvolto, è stato inevitabile riconoscersi in tante insicurezze, paure, voglia di essere, o quantomeno di provare a farlo... per scoprire chi si è veramente.
Scrittura modernissima, intelligente, molto lucida e analitica... sicuramente figlia del suo tempo, che riflette il pensare, il sentire e l'agire della generazione dei cosiddetti millennials, ma che, in fondo, coinvolge anche chi millennials non è.
Perché al di là della tecnologia, quei sentimenti di smarrimento li abbiamo provati tutti, ognuno a suo modo e nel suo tempo.
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Normali e non sentirsi tali
Se fosse una canzone, sarebbe "Everybody's gotta learn sometimes" (mi ronzava in testa durante tutta la lettura).
Se fosse una pianta, sarebbe una pianta rampicante.
Se fosse uno stato d'animo, sarebbe il male (e la difficoltà) di vivere.
Se fosse una sola parola, sarebbe "incomunicabilità".
Marianne e Connell.
Si riconoscono, si amano, si salvano, si distruggono, si fraintendono, si perdono, si spezzano, si ritrovano, si respingono, si attorcigliano, si riamano...ancora e ancora.
Crescono cercando sostegno e consolazione l'uno nell'altro, ma lo fanno facendosi del male, involontariamente e ferocemente.
Possono due persone essere inseparabili eppure non poter fare a meno di separarsi?
Possono, sí.
Soprattutto se di mezzo c'è l'accettazione sociale, la vergogna di essere giudicati, il timore di sentirsi sbagliati.
Essere normali e non sentirsi tali.
Non sapere chi sei e che cosa vuoi... o forse saperlo, ma non avere il coraggio di viverlo fino in fondo.
Nascere in una famiglia ricca e anaffettiva, subire abusi, essere considerata strana e "disturbata" dal gruppo dei pari, innamorarsi e doverlo nascondere al mondo.
Nascere da una donna povera, forte e sola, crescere senza padre, ma sostenuto dall'amore materno, essere popolare a scuola, innamorarsi e volerlo nascondere al mondo.
Tutto nasce, si evolve e ruota intorno a questi elementi.
Ancora una volta la Rooney affronta le relazioni fra ragazzi giovani, in particolare si concentra sul loro caos emotivo e il senso di inadeguatezza, sulle differenze di classe e le etichette sociali, sul bullismo... e lo fa con il suo stile analitico, lucido, apparentemente sottotono, ma capace di scavare a fondo e toccare corde sensibili.
La narrazione è fatta di non detti, di piccoli gesti, movimenti impercettibili che nascondono rivoluzioni interiori.
Un libro pieno di sfumature sorretto da una struttura narrativa fresca, dinamica, fatta di brevi capitoli e di salti temporali (sempre in avanti) contenenti piccoli flashback.
La Rooney riesce a fare di una storia di formazione apparentemente banale, un qualcosa di unico e originale.
Una voce che si è imposta, meritatamente, all'attenzione.
Due romanzi, due colpi ben assestati.
Attendo con trepidazione il terzo.
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L'altra donna sei tu
"Ora sapevo che non ci si salva da soli, che siamo una catena di storie d'amore, una dentro l'altra, e che i fallimenti appartengono a tutti."
No, non è "l'altra donna" nell'accezione comune che siamo abituati ad attribuire a questo termine, non è la storia di un tradimento, né quella di una donna che si interpone in una coppia, sfasciandola, semmai il contrario... è lui ad essere in mezzo a due donne, a fare da spartiacque tra due generazioni, due modi di essere, di vivere e di amare.
Due donne molto lontane, per età, vissuto, obiettivi, personalità, ma che hanno in comune l'amore per un uomo, in momenti diversi.
Una vive libera e leggera nella spensieratezza dei suoi pochi anni, l'altra è rimasta intrappolata nel suo passato... e per uscirne, ha dovuto coinvolgere lei, l'altra, la nuova donna, e far crollare il suo castello di carta.
La Comencini riesce, in un abile gioco di specchi, a parlarci di confronti generazionali, della rivalità femminile che non è necessariamente negativa, del passato che non ci lascia mai, neanche quando pensiamo di averlo sepolto per bene.
Perché siamo sempre il prodotto di chi è venuto prima di noi.
Ci portiamo dietro quello che abbiamo vissuto, le persone che abbiamo incontrato, amato, le madri a cui non volevamo assomigliare (quasi sempre fallendo), i padri diversi da come ce li aspettavamo, i figli che avremmo voluto crescere liberi e forti e che, invece, abbiamo reso fragili e insicuri.
Le battaglie combattute in nome di una libertà che poi non si è stati in grado di vivere, perché per liberarci davvero abbiamo bisogno, prima di tutto, di assolvere chi ci ha preceduto e scrollarci di dosso le colpe che non ci appartengono.
L'altra donna non esiste, l'altra donna sei tu.
Oh come sa scavare bene la Comencini, scende giù in profondità, illumina gli angoli più bui, esplora diverse prospettive e mette a nudo l'anima con la sua scrittura affilata, mai banale.
Un bel viaggio nell'introspezione femminile.
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Cercare la felicità, sempre
In questo libro c'è l'olocausto, ci sono i lager, c'è il Male, quello con la M maiuscola che è stato tatuato indelebilmente nella storia della disumanità.
Ma più di ogni altra cosa, in queste pagine, c'è lo sguardo pulito, innocente, scevro da ogni pensiero negativo, di un ragazzo ebreo e ungherese di 15 anni che sembra non voler vedere, non voler capire...
Lui cerca di trovare sempre una giustificazione razionale per tutto quello che gli accade, quando si ritrova improvvisamente, senza nessuna spiegazione, sottratto alla sua quotidianità e spedito in Germania ne è quasi contento, pervaso da quell'eccitazione per il nuovo.
Le regole, il "sistema" dei campi di concentramento gli appaiono, almeno inizialmente, ragionevoli.
E i soldati tedeschi non poi così cattivi...
Lui è riuscito a vivere con "naturalezza" ciò che naturale non è stato per niente, come se fosse normale "essere privati del proprio destino".
Un passo alla volta, si è abituato a tutto... alla fame che dilania, al lavoro pesante che strema, al freddo che taglia, alle percosse gratuite, al sonno che non dà tregua, e questo procedere un minuto alla volta gli ha impedito di percepire l'orrore, pur portandone i segni sul corpo.
Scabbia, flemmone al ginocchio, pidocchi, denutrizione: il suo corpo sano di adolescente non gli appartiene più, la sua energia iniziale si è trasformata pian piano in pus, e sarà proprio questo, alla fine, a salvarlo.
La mancanza di percezione dell'orrore da parte di chi, come lui, ha vissuto Auschwitz, Buchenwald e Zeitz, è il vero orrore!
Fa rabbrividire come si possa anche solo pensare di aver avuto attimi di felicità, là dentro, nonostante tutto.
Eppure:
"Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile.
Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti, c'era qualcosa che assomigliava alla felicità.
Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli "orrori": sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile.
Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.
Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l'avrò dimenticata."
Tutto questo ci dà la misura di come la mente umana, e il suo straordinario meccanismo, riesca a mantenere la distanza, ad andare "in protezione" per permettere, a chi ha vissuto l'invivibile, di sopravvivere.
Le ultime (bellissime) pagine ci dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, come noi non potremo mai comprendere davvero. Mai.
(Kertész ha impiegato 13 anni per scrivere questo libro, che non a caso gli è valso il Premio Nobel).
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Lucida disperazione
Un titolo meraviglioso, che promette e mantiene.
Anche il romanzo lo è.
Una sola giornata, il 9 Luglio del 1961. Provincia francese.
È un momento di grandi cambiamenti per la società che si avvia verso la modernizzazione.
Ventiquattro ore nella vita di Albert, operaio cinquantenne, figlio di contadini, che non ce la fa a stare al passo con le trasformazioni, sente tutto il suo mondo e il suo passato andare in frantumi, non riesce a trovare un suo posto in questa nuova e moderna società industriale e consumistica, e vorrebbe solo arrendersi.
Riuscire a provare una tristezza più grande della paura di morire...
"Ben presto morirò. Ben presto non ci sarò più. Non sarò più quello che sono ora e che non amo essere. Non amo quello che sono. Non amo quello che dovrei essere, non amo farmi vanto di questa vita, io non sono di questa vita, sono di un altro tempo che non ho saputo trattenere."
Una scrittura magistrale, dolorosa e raffinata, senza sbavature, in cui la tragedia è pervasa da una sorta di magia e delicatezza, dolcemente accompagnata dalle parole di Balzac grazie ad un parallelismo letterario con "Eugenie Grandet" che fa da fil rouge a tutta la storia.
C'è tanto in queste pagine: c'è la guerra e quello che lascia in chi l'ha vissuta, sul campo e fuori, c'è la tenerezza e il pudore nell'accudimento di una persona anziana che ormai non riconosce più neanche se stessa (queste sono pagine da incorniciare per la loro struggente bellezza!), c'è un rapporto fraterno velato da ombre incestuose, c'è l'amore per i figli, e per la letteratura.
Ma soprattutto c'è un uomo che, proprio nel culmine massimo della sua debolezza, mostra tutta la sua forza, e il suo amore per la vita.
Un romanzo intriso di malinconia e lucida disperazione.
Consigliatissimo.
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Cronaca di un disastro
Ovvero... la cronaca di un disastro.
Solo McEwan poteva raccontare una storia così, trattare un argomento come "la prima notte di nozze" con tanta eleganza, raffinatezza e contestualizzazione socio/economica/culturale, senza dimenticare l'aspetto delle relazioni interpersonali, dei sentimenti...
Siamo nel 1962, e questi due giovani ragazzi di 22 anni, appena sposati, ("erano giovani, freschi di studi e tutti e due ancora vergini"), sono assolutamente impreparati a quello che li attende da lì a qualche ora.
Sono il risultato di una generazione cresciuta a pane e tabù, quando parlare di sesso era non solo sconveniente, ma proprio inconcepibile.
Florence ed Edward si amano, ma non si conoscono come dovrebbero.
Lui è smanioso di poter finalmente coronare anche carnalmente il suo sogno d'amore, pur temendo di risultare troppo "precipitoso".
Florence invece non ha semplicemente paura del sesso, ne è disgustata!
L'incomunicabilità tra i due porterà ad una situazione imbarazzante ed incresciosa, dalle conseguenze catastrofiche.
Ed era proprio qui che McEwan voleva portarci... alle conseguenze del pudore, del moralismo e del bigottismo della classe borghese dei primi anni '60.
Per farlo, però, l'autore dilata il tempo e ci porta per mano nel passato dei protagonisti, nella loro infanzia, nel loro ambiente di origine, riuscendo a condensare in poche pagine, i punti cardine di due vite che non sono riuscite ad unirsi, a fondersi, nonostante l'amore... lasciandoci con un grande punto interrogativo: quanto può cambiare la nostra vita in seguito ad un qualcosa che non abbiamo fatto?
L'eleganza della parola e la raffinatezza psicologica della prosa di McEwan (di cui noi possiamo godere grazie alla grande traduttrice Susanna Basso) qui raggiunge vette altissime, spazzando via ogni possibile prurito, voyeurismo e volgarità su cui era facile scivolare con questo tema.
Chiudiamo il libro con un leggero retrogusto amarognolo in bocca, per quella triste sensazione di aver assistito ad un qualcosa che sarebbe potuto andare diversamente...
Quell'effetto "sliding doors" continua a rigirare nella tua mente, perché da qualche parte, in questa storia, c'è un momento preciso in cui si poteva cambiare il destino.
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Dolcissima tristezza
Quanta dolcissima tristezza...
Simenon è sempre un narratore speciale, capace di portarti dentro le sue atmosfere sommesse, nell'interiorità di personaggi apparentemente anonimi, dalle vite poco interessanti, ma che celano grandi profondità e compromessi esistenziali terribilmente umani.
Qui raggiunge davvero livelli altissimi.
La scomparsa di sua moglie Gina, e una piccola bugia detta in buona fede, procureranno nella vita di Jonas una crepa attraverso cui, molto lentamente, filtrerà una luce in grado di illuminare tutto quello che lui aveva preferito lasciare al buio, nascosto ai suoi occhi e soprattutto al suo cuore.
Sarà accecato da verità che aveva volutamente ignorato, cercando di dare alla sua placida e mediocre esistenza un qualche senso di essere vissuta.
Attraverso i rumori e la vita di una piazza ed un mercato, con le sue botteghe, le sue case, i cui abitanti e frequentatori tutto vedono e tutto sanno, attraverso finestre illuminate di notte, sedie piazzate sul marciapiedi, sguardi attenti e indagatori, attraverso questo microcosmo brulicante di occhi, dove il nostro uomo, di origine russa, cerca da sempre integrazione e rifugio, Simenon ci dona un ritratto impietoso di una piccola, meschina comunità di provincia, pregna di perbenismo da due soldi.
La cattiveria, il sospetto strisciante e la chiusura mentale hanno avuto il sopravvento sulla bontà di chi ha sempre accettato tutto di buon grado, di chi, sentendosi "straniero", ha sempre cercato di mantenere un profilo basso, chiudendo un occhio (e anche due) sul "caos sentimentale" di sua moglie, in nome di quella tranquillità che le aveva promesso in cambio della sua compagnia, pur soffrendo in silenzio.
Un romanzo che non riserva scossoni o grandi rivelazioni, ma che ti s'insinua dentro come una sottilissima lama affilata: all'inizio non senti nulla, nessun dolore, poi...
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L'atelier di una fabbricante d'angeli
Questa donna non finisce mai di stupirmi, ha la capacità di spogliarsi completamente e di rimanere così, nuda, inerme e disarmata al centro di una grande piazza piena di gente, ignara del freddo e degli sguardi altrui, perché assolutamente consapevole della sua nudità e dell'importanza del suo gesto.
Questo fa la Ernaux con ogni suo libro.
Ci offre la sua vita.
Ogni volta un pezzettino in più, ogni volta un dolore diverso.
Queste pagine sono tremende.
Ci raccontano di una notte del '64 in cui, nella stanza 17 dello studentato femminile a Rouen, una giovanissima Annie ha vissuto un'esperienza di vita e di morte.
Quella dell'aborto.
Clandestino.
La disperazione di una ragazza di 23 anni alla ricerca di qualcuno che l'aiuti a commettere "un reato", disposta a tutto pur di non avere quel bambino, anche infilarsi dentro un ferro da calza, da sola...senza però avere il coraggio di andare fino in fondo.
Quando si spegne ogni speranza di trovare un medico disposto ad aiutarla, non le rimane altro che affidarsi ad una "fabbricante d'angeli"...una mammana...una donna che, in qualche modo, l'ha fatta nascere come altro da sé, ha fatto di lei una donna diversa.
Una donna che, in una sola notte, ha perso il corpo della sua adolescenza, un corpo vivo e segreto, un corpo tutto suo, e si è ritrovata esibita, divaricata, abrasa...esposta al giudizio.
Sì, perché questo libro non è semplicemente il racconto di un aborto, ma molto di più...è la voce di tutte quelle donne a cui è stato negato un diritto, che hanno rischiato (ed anche perso) la vita per rivendicare una scelta inalienabile.
Privarle di tale diritto è semplicemente "violenza".
La violenza di dover fare tutto da sole, e in fretta: trovare qualcuno disposto ad infrangere la legge, trovare i soldi, ingoiare in silenzio tutto il dolore, e sperare di non morire dissanguate sul tavolo di una cucina o in un bagno per studentesse...
Viviamo ancora oggi in una società che guarda l'aborto, seppur legale, come "il male", come omicidio...e la gravidanza, anche quando non è desiderata, come una benedizione, un regalo, qualcosa per cui gioire...sempre e comunque.
E non è così.
La Ernaux ci dona, come sempre alla sua maniera, affilata, e senza nessun artificio letterario, un'esperienza che, passando attraverso il suo corpo, si fa universale e tocca la sensibilità di tutti.
Per qualcuno questo racconto potrà essere irritante, fastidioso, addirittura osceno, ma l'autrice ci dice: "se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo".
Questo libro sarà esposto al giudizio esattamente come lo è stato il suo corpo all'Hotel-Dieu, la notte in cui l'hanno salvata dall'emorragia...
Questo libro è proprio come la sua scrittura: necessario.
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Dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui
Ci sono libri che non hanno bisogno di tante parole per arrivare a destinazione, che racchiudono in poche pagine così tanti pensieri e sentimenti da assumere un peso specifico altissimo, a dispetto di quello fisico.
"Almarina" ti prende e ti colloca in mezzo tra il dentro e il fuori, dentro le mura di un carcere minorile e fuori, nelle strade in cui questi ragazzi non sono riusciti a ritagliarsi un pezzetto di mondo degno di essere chiamato vita.
Rimani in sospeso tra la voglia di guardare dentro e accogliere gli sguardi di questi ragazzi così soli, diffidenti, così abituati al disprezzo perché da sempre disprezzati, e la voglia di prendere le distanze dai loro occhi, perché già sai che li perderai, che un giorno "torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui".
Questo è ciò che pensa e vive quotidianamente Elisabetta, insegnante di matematica nel carcere minorile di Nisida.
A Elisabetta Maiorano non interessa il motivo per cui quei minori si trovano lì dentro, non è importante ciò che hanno fatto, ma quello che ancora possono fare.
La possibilità.
Lei ama questi ragazzi cosi tanto abituati alla reclusione e cosi poco abituati "a fidarsi" degli adulti, accetta di avere ogni giorno una classe diversa, è consapevole di non poter mai finire un programma che in realtà non esiste, ogni giorno fa i conti con queste separazioni apparentemente indolori, ma fattivamente laceranti...fino al giorno in cui incontra gli occhi di Almarina, ragazza rumena dal passato difficile, un passato fatto di violenza, stupro, di un viaggio attraverso i Balcani che le è costato tantissimo in termini di vita.
Le loro rispettive solitudini si riconoscono.
Elisabetta vede negli occhi di questa ragazza la luce di un possibile futuro, lo specchio di una parte di se stessa e l'incarnazione del figlio che non ha potuto avere, né partorendo, né adottando.
Sente più che mai l'esigenza di una giustizia che non sempre trova riscontro nelle aule dei tribunali, ed è pronta a lottare affinché la sua voglia di dare e il bisogno di Almarina di ricevere possano coesistere in una sola parola: amore.
Valeria Parrella ci dona, romanzandola, la sua esperienza di insegnante nel penitenziario di Nisida, e lo fa con il suo modo unico di scrivere, così denso, intimo, poetico ed incisivo, tanto che ad ogni frase sei costretto a fermarti, a dare corpo alle parole e a portarne il peso sul cuore.
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Uomini brutali e donne resistenti
Un libro forte, intenso, doloroso e vero.
Per come l'ho vissuto io, prima ancora di essere un libro sulla violenza domestica, sugli abusi sessuali su minori, sulla vita (amara) di chi nasce in una famiglia povera e disadattata del Sud degli Stati Uniti, prima di tutto questo...è la storia di una bambina che perde sua madre.
La perde nonostante l'amore.
Un amore immenso che non si spezzerà mai, ma che, allo stesso tempo, non sarà sufficiente a proteggerla, a salvarla da quelle mani troppo grandi e troppo pesanti...
Le mani che la picchiano brutalmente e che le rubano l'innocenza della sua acerba intimità, sono le stesse mani che accarezzano sua madre.
Una madre che ama sua figlia, ma che non sa restarle accanto.
Bone, la piccola bastarda senza padre, cresce negli anni '50 in una grande famiglia tanto sgangherata quanto unita, che si stringe intorno ad ogni componente in difficoltà, sempre pronta a dare sostegno e amore.
Gente di pochi mezzi, che trova sempre il modo di andare avanti, uomini un po' pazzi, ubriaconi, rissosi, disposti a qualsiasi lavoro pur di guadagnare due soldi, ma capaci di dimostrarsi saggi e protettivi al momento giusto.
Disposti a tutto, anche a sporcarsi le mani di sangue, per difendere chi amano.
Donne consumate dalla fatica e dai figli, sfilacciate da una vita difficile, svuotate dal dolore, ma piene di storie da raccontare.
Uomini brutali e donne resistenti...
Bone cresce e si rifugia in mezzo a tutti loro, tra amore e crudeltà, rabbia e senso di colpa.
Romanzo semi-autobiografico che, per la sua durezza e il suo modo diretto di affrontare temi scottanti, fu molto criticato e, addirittura, messo all'indice in diverse scuole di diversi stati.
Ah, l'America puritana...
La Allison ha fatto dono, della sua storia e della sua vita, a tutti coloro che cercano di dare un senso a ciò che senso non ha, e che ancora sono incapaci di liberarsi del fardello di una colpa che non hanno mai avuto.
"Se impariamo cosa significa sopravvivere a un abuso, saremo più capaci di aiutare coloro che sono ancora intrappolati nel mondo segreto e vergognoso della violenza fisica e sessuale".
Duro, feroce e amorevole, specchio di una scrittrice indomita, testarda e resiliente, ma capace di grande compassione.
Scritto (e tradotto) incredibilmente bene.
In una parola: bellissimo.
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Il cuore è un cane che torna a casa...
Un libro sull'appartenenza, sulle perdite e sui ritorni.
Sei persone ai margini...ai margini di un bosco, ai margini della società, ai margini della vita.
Sei persone che hanno perso qualcosa, qualcuno, se stessi...che cercano di ritrovarsi l'un l'altro, specchiandosi nella perdita altrui, cercando nella speranza dell'altro il coraggio di non perdere la propria.
Alice, Rachel, Malcom, Lily, Jamie e Walter hanno perso i loro cani...questi ultimi hanno abbandonato (e qualcuno è stato costretto a farlo) il calore e le comodità domestiche, per unirsi in branco con altri cani nel bosco, per ritrovare la loro vera dimensione, la libertà di appartenere solo a se stessi.
E non vogliono tornare.
Così, ogni sera, i padroni abbandonati si ritrovano al limitare della foresta per gridare i nomi dei loro animali perduti, per sentirsi meno soli, per studiarsi, raccontarsi, due di loro si innamorano anche...impauriti ed allo stesso tempo attratti da quella linea di confine che li separa dal mondo selvaggio, incapaci di scegliere tra l'ancestrale natura animalesca e il desiderio di essere addomesticati.
Libertà o sicurezza?
Amore o solitudine?
Sí, perché l'amore crea una dipendenza che limita, che implica fiducia, abbandono, debolezza...
E a poco a poco, sera dopo sera, diventano un branco anche loro: uniti nelle loro miserie e in fuga da se stessi.
Un romanzo corale, profondo, difficile da raccontare perché complesso nella sua bellezza, portatore di riflessioni stratificate, grande metafora della paura di amare, ma anche del desiderio intrinseco dell'uomo di liberarsi dalle costrizioni sociali.
Un romanzo sui legami, sulla difficoltà di crearli, alimentarli e mantenerli, sul dolore dell'abbandono e sulla felicità, quando possibile, del ritorno.
"Il cuore è una creatura selvaggia e in fuga.
Il cuore è un cane che torna a casa."
Helen Humphreys si riconferma, per me, dopo "La verità, soltanto la verità", una scrittrice eccezionale, elegante, profonda e introspettiva.
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Cinismo e disincanto firmato Reza.
Disincantato. Cinico. Tagliente.
Ma anche ironico (ironicamente amaro) e arguto.
Se state vivendo un momento idilliaco delle vostre relazioni interpersonali, se l'amore vi sorride e il mondo vi sembra un posto bellissimo, se state percorrendo la strada soleggiata della felicità...non leggete questo libro.
Qui troverete il "dopo", quello che si nasconde dietro l'angolo, le crepe e le debolezze dei rapporti, le ipocrisie e le maschere, scoprirete che troppo spesso la felicità è apparente, appannaggio solo di chi ha talento ad esserlo, felice.
Sì perché forse il segreto è tutto qui, prendere atto che la felicità non si conquista e non si perde, è solo un dono distribuito a caso dalla sorte.
Una predisposizione.
Qui dentro troverete un caleidoscopio di personaggi che, uno alla volta, vi sveleranno cosa c'è dietro il sipario del matrimonio (e delle relazioni di coppia in generale), metteranno in scena la commedia delle insoddisfazioni, il balletto delle meschinità, il teatro delle disillusioni.
Ma non c'è mica solo l'amore a far vacillare i nostri, c'è anche il rapporto con la morte, con la malattia, con la propria omosessualità, con il tempo che passa, con i figli problematici...
La Reza, con la sua scrittura chirurgica, riesce ancora una volta a farci vedere quello che, troppo spesso, ci rifiutiamo di vedere, fingendo un'allegria che non esiste, ad uso e consumo di chi ci circonda e che, a sua volta, sfodera la sua dose di falsa felicità per noi.
E, bene o male, in questo circo di infelici ci siamo tutti, chi più chi meno...e la Reza ce lo ricorda, spietatamente, ma senza farci sentire in colpa.
"Un giorno bisognerebbe studiarlo, questo particolare silenzio dei viaggi in macchina, della notte, quando si torna a casa dopo aver sfoggiato una serenità a uso e consumo degli altri, un misto di conformismo e autoinganno.
Un silenzio che non può essere rotto neanche dalla radio, perché chi, in questa muta guerra di resistenza, avrebbe il coraggio di accenderla?"
Un po' "Lacci" di Starnone per la ferocia e il disincanto, un po' "Piccoli crimini coniugali" di Scmitth per l'amara ironia, un po' "Revolutionary Road" di Yates per la disillusione imperante dei protagonisti...ma con il tratto esclusivo della Reza.
Autrice eccezionale, che riesce ad essere profonda pur restando, apparentemente, in superficie.
E graffia, e s'insinua con la sua eleganza sferzante.
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Imparate questa lezione, ragazzi...
Era dai tempi di "Trilogia della città di K" (di Agota Kristof) o "Dei bambini non si sa niente" (di Simona Vinci) che non provavo questa sensazione di gelo assoluto, spaesamento e mancanza di parole di fronte a questo foglio bianco, solo che stavolta è tutto moltiplicato per mille...perché la storia qui raccontata è maledettamente vera!!!
O forse di parole ne avrei anche, e tante, ma sono così pesanti e oscene, che sarebbe molto meglio tacerle.
Ma non posso neanche fare questo.
Devo sciogliere il grumo che ho dentro...
Non pensavo neanche che il mio organismo potesse riuscire a contenere così tanta rabbia, frustrazione, sbigottimento...credevo realmente di crollare, di spaccarmi, di non arrivare illesa alla fine.
(...e forse tanto illesa non sono)
Ed invece non solo ce l'ho fatta, ma l'ho fatto anche in fretta...e ancora non so dire se il motivo sia stato la bravura di Ketchum nell'incollarmi alle pagine o la voglia di chiudere questo libro e fuggirgli via lontano, per dimenticarlo in fretta (cosa assolutamente impossibile!!!) e poter ricominciare a respirare.
"Imparate questa lezione, ragazzi. Ricordate, è importante".
"Adesso vi spiego cosa significa essere donna in questo mondo".
"Se ho dato il permesso, vuol dire che si farà".
Prendete un figura femminile adulta, amata e rispettata, madre single di tre figli maschi, e molto benvoluta dai ragazzini del vicinato...che però in realtà è una donna pericolosissima e perversa.
Prendete un gruppo di adolescenti degli anni '50, in piena tempesta emotiva e ormonale.
Prendete due sorelle di 14 e 11 anni, orfane di entrambi i genitori ed affidate alla cure della simpatica e generosa donna di cui sopra.
Prendete ora un "eroe" troppo piccolo, troppo debole e troppo in conflitto con i propri sentimenti per poter fare la differenza.
Aggiungete due frasi fondamentali, dette da un adulto: "Non ditelo a nessuno" e "Avete il permesso".
Ora mescolate tutti questi ingredienti...e otterrete la storia più agghiacciante, disturbante e morbosa che abbiate mai letto in vita vostra.
Una storia vera.
Realmente accaduta nel mondo in cui noi viviamo.
Bestialità messe in atto da persone che respirano la nostra stessa aria.
Una storia che io non vi racconterò, perché non ci riesco e perché non voglio.
Ci ha già pensato Ketchum a farlo, e lo ha fatto benissimo.
Vi dirò solo che quando vengono coinvolti dei ragazzini in episodi di immane crudeltà e follia adulta e di fronte al consenso a procedere da parte di questi ultimi, lo scenario che prenderà forma sarà disumano, perché, nella maggior parte dei casi, il ragazzino "autorizzato" ad essere crudele, diventerà il peggior aguzzino immaginabile, privo di qualsiasi coscienza, moralità e pietà umana.
"È un libro che non si limita a promettere terrore al lettore, glielo consegna dritto a domicilio", dice Stephen King nella nota finale al libro.
Io dico che siamo oltre il terrore.
Ma Ketchum ha la capacità di tirarti dentro e farti assistere a tutto senza darti la possibilità di scappare, di andar via...sei lì inerme e sofferente che guardi le scene impotente, esattamente come succede a David, il ragazzino protagonista e voce narrante.
Libro duro, al limite del sostenibile, ma forse necessario.
Indicazioni utili
- sì
- no
Feroce e poetico
Pagine traboccanti di ferocia, miseria, violenza, natura, amore...poesia.
Tutto in questo libro è feroce.
Feroce la vita, che s'impone violenta con il suo carico di dolore e responsabilità...
Feroce la morte, che si prende una madre in cambio di un figlio...
Feroce la natura, madre e matrigna che non ha pietà di nessuno...
Feroce il mondo dei combattimenti dei cani...
Feroce la povertà, che fa crescere in fretta...
Feroce il caldo, che non dà tregua...
Feroce l'amore.
Amore carnale, amore fraterno, amore filiale, amore per gli animali, amore come legame amicale.
Personaggi che non sanno usare le parole per dirlo, ma che amano in modo bruciante.
Che sanno proteggersi, difendersi l'un l'altro come animali in branco, abituati a leccarsi le ferite senza piangere, a vivere di carne, pelle e muscoli.
E carnale è anche la scrittura della Ward, una scrittura piena, plastica, evocativa, che si ramifica come le foglie degli alberi che descrive, portatrice di una forza dirompente, crudele e poetica come la quiete dopo la tempesta.
Ti distrugge e poi ti accarezza.
Dodici capitoli, dodici giorni.
Quelli che precedono l'arrivo dell'uragano Katrina in Mississipi.(Agosto 2005)
Bois Sauvage, zona di boschi, paludi, fango, baracche, rifiuti, carcasse di vecchie auto...qui vive Esch (voce narrante), adolescente afroamericana, con i suoi tre fratelli (Randall appassionato di basket, Skeetah innamorato perso del suo pitbull da combattimento e Junior che non ha neanche conosciuto la donna che l'ha messo al mondo) e suo padre.
Esch ha solo 15 anni, ma è segretamente incinta, è cresciuta senza mamma (dopo averla vista morire di parto) e con un padre inadeguato, spezzato dal dolore e dedito più che altro alla bottiglia.
Unica femmina in una comunità di maschi inselvatichiti dalla vita, induriti dalle precoci responsabilità, desiderosa di amore, tanto da non saperlo gestire, selezionare, filtrare, riconoscere.
Esch come Medea, amante non ricambiata, ossessionata dal suo Giasone/Manny dalla pelle dorata, che però non l'ha mai guardata negli occhi.
Polvere, fango, umidità, sudore, sangue, fanno da sfondo all'arrivo della furia cieca dell'uragano Katrina, che devasta e toglie tutto a chi già aveva troppo poco, lasciandoli nudi, inermi, senza un posto dove stare, ma ancora più uniti, più forti, sicuri che basti un fuoco, un secchio capovolto su cui sedersi e la certezza che chi deve tornare prima o poi tornerà, per poter ricominciare.
Pagine che mi hanno fatto soffrire, mi hanno emozionato, agitato e commosso come pochi altri libri.
Potrei parlarne ancora per ore...
Imperdibile.
Indicazioni utili
I confini del corpo...
"Presto ho scoperto di essere morta.
Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti."
Così inizia questo intensissimo viaggio nella testa e nella vita di chi ha dovuto subire una trasformazione radicale, ridisegnare i confini del proprio corpo, accettare una nuova dimensione...reimparare a vivere.
La protagonista di queste pagine (ed anche l'autrice del libro) ha perso, in pochi attimi e in un fosso fangoso, la sua vita così come lei la conosceva, l'uso delle gambe e il controllo del suo corpo.
Avere due gambe che non atterrano mai, non è come volare...è solo mancanza di "presa", non sentire più la consistenza della terra, la sua temperatura, gli stimoli che si ripercuotono fino alla testa.
Avere un corpo intero, ma non sapere più con certezza dove inizia e dove finisce, quali sono i suoi confini...e se non riesci più a capire "dove sta il confine tra ciò che è dentro di te e ciò che è fuori, allora sarà sempre come scavare nell'acqua".
Ed ecco quindi che diventa fondamentale imparare a riconoscersi, a reinventarsi, venendo a patti con le sensazioni perdute: il peso di tua figlia piccola sulle cosce, il piede che si libera del sandalo quando fa troppo caldo, la straordinaria possibilità, sempre troppo sottovalutata, di camminare...
Questo racconto, con la sua scrittura bella, onesta e mai scontata, priva di qualsiasi forma di pietismo o compassione, ci mette con le spalle al muro, ci obbliga a guardare ciò che solitamente ci ostiniamo a non voler vedere (perché tanto certe cose accadono solo agli altri), ci chiede in modo esplicito "ma tu lo sai cosa significa?", "Tu sai cosa si prova a salire su di un treno con la carrozzella?", "Ci pensi mai alla frustrazione, alla vergogna, alla rabbia di chi si ritrova in una condizione tale?"
Noi (i bipedi camminanti) non sappiamo, e continueremo a non sapere mai, né chi c'è su quella sedia, né come si sente...
Forse, in fondo in fondo, non lo sanno neanche loro: hanno solo capito, e loro malgrado accettato, che si può vivere anche così, sul confine.
Poi c'è chi cerca di colmare la mancanza circondandosi di tutto ciò che non potrà più essere, sforzandosi di non dimenticare mai, vivendo il sogno del passato attraverso il corpo e le gambe degli altri.
E chi, invece, ha paura di essere sopraffatta dalla nostalgia della vita precedente, chi si rifugia nelle parole, scavandosi nicchie e costruendo reti di sostegno per paura di precipitare.
Perché tanto si cade...
C'è però un luogo, un solo elemento, in cui tutte le differenze vengono azzerate, dove non esiste più peso, forma e consistenza, dove non esistono più confini...l'acqua...esattamente dove tutto è cominciato.
È proprio lì, nell'acqua, dove ogni dissolvenza è possibile, tutto si chiude, anche il libro.
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