Opinione scritta da joannes88
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Un inetto ante litteram
Il povero musicante (conosciuto anche come Il povero suonatore) è uno dei pochissimi testi in prosa lasciatoci dal grande poeta austriaco Franz Grillparzer (1791-1872). Le prime pagine del libro - ambientato nella Vienna dell’Ottocento - sono dedicate a una meravigliosa festa popolare che si teneva in piena estate sulle rive del Danubio: la sagra di Santa Brigida. L’incipit è veramente una chicca: alla maniera elegante degli scrittori dell’epoca, ci viene offerto lo sguardo su una realtà paradisiaca, da paese dei balocchi. Nella festa di Santa Brigida, infatti, danza, vino, buoni bocconi e fuochi d’artificio danno vita a un’atmosfera incantata, quasi surreale, dove non esistono differenze sociali e tutte le sofferenze sono dimenticate. Il quadro è dei più idilliaci, una vera esaltazione della gioia di vivere viennese. Tutto sembra apparecchiato per una storia allegra e spensierata, quando il nostro autore finisce per concentrarsi su un particolare dal sapore amaro: un povero, anziano violinista che dietro al suo vecchio leggio suona sempre la stessa inconsistente melodia, suscitando l’ilarità dei presenti, i quali non lo degnano neppure di un’elemosina. Il suo contegno estremamente dignitoso e alcune parole in latino stimolano però la curiosità di un passante, che vi intravede il segno di un trascorso ben più nobile di quell’esistenza oscura. Dalla conversazione tra i due scaturisce il vero racconto, quello della gioventù del povero suonatore e di un amore perduto anni addietro per inettitudine e ingenuità.
Pagina dopo pagina, si delinea una malinconica novella sentimentale, dalle sfumature fiabesche, dove affiorano alcuni dei temi tipici di questo genere letterario: un padre dispotico, un’educazione dura e severa, una quotidianità grigia e insieme a tutto questo una promessa di redenzione, anzi due: la musica e una ragazza. La ragazza purtroppo resta un miraggio, e la musica, senza amore, assume i connotati di una lamentosa e nostalgica rievocazione.
Il protagonista del libro è a sua volta un personaggio ricorrente nella produzione letteraria austriaca di fine impero: un uomo riservato, umile, dai modi signorili ma decisamente poco pragmatico. Un personaggio che con alcune modifiche e un’indagine psicologica molto più accentuata sarebbe poi entrato anche nella nostra letteratura grazie all’opera di Italo Svevo: l’inetto. Contraddistinto da una deprimente incapacità di vivere e da un costante timore per l’azione, l’inetto è generalmente una persona animata da buoni valori e propositi, ma che a causa di un’irrimediabile inconcludenza finisce ai margini della sua stessa vita, rimanendone spettatore impotente.
Nell’opera di Grillparzer questa caratterizzazione acquisisce dei tratti forse esagerati, ai limiti del patetico. Come sempre in questi casi, occorre tenere a mente il gusto e la morale dell’epoca, dove la rinuncia e l’umiliazione di sé (entro una certa misura) potevano ricordare la figura di un santo o comunque quella di un buon cristiano.
Tradotto in italiano dal germanista Ervino Pocar, Il povero musicante di Grillparzer è stato stampato per anni dalla Mondadori. Al momento l’unica edizione in commercio è quella della Passigli (sempre con la traduzione di Pocar).
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Il silenzio della Francia
Il silenzio del mare di Vercors, uscito clandestinamente nel 1942, è un racconto ambientato nella Francia della seconda guerra mondiale, agli inizi dell’occupazione tedesca. L’intera vicenda è ambientata tra le quattro mura di una casa, dove vivono un anziano (la voce narrante) e sua nipote. I due, loro malgrado, devono ospitare Werner von Ebrennac, un ufficiale della Wermacht. Per mostrargli il loro disprezzo, decidono di trincerarsi in un silenzio glaciale, non rivolgendogli mai la parola. Werner, dal canto suo, è un nazista atipico: musicista colto e raffinato, pervaso da una sincera ammirazione per la cultura francese, sogna che i due Paesi un giorno possano fondersi e dare vita a una nuova civiltà. Parla di tutto questo ogni sera con l’anziano e la giovane che lo ospitano, ma i suoi discorsi dovranno scontrarsi prima con il loro silenzio e poi con l’amara realtà dei fatti.
Considerata unanimemente un’opera manifesto della Resistenza francese, di fiera opposizione all’invasore nazista, Le silence de la mer offre al lettore almeno due paradossi. Il primo è quello di dovere la propria intensità narrativa alla mancanza di dialogo. Si cita spesso, a ragione, la forza della parola, mentre si tende a sottovalutare quella del silenzio. Ebbene, qui il silenzio, come espressione di un rifiuto radicale e di una tenace volontà di resistenza, emana un’energia davanti alla quale è impossibile rimanere indifferenti. Il richiamo metaforico al mare, a sua volta, evoca un’idea di invincibilità ed immutabilità, dando a intendere che il popolo francese, apparentemente calmo e innocuo all’indomani dell’invasione, è pronto in ogni momento a scatenarsi in tempesta, iniziando la propria riscossa.
Il secondo paradosso è dato dal fatto che pur trattandosi di un libro “contro”, il nemico, impersonato dall’ufficiale Werner, assume contorni del tutto umani. Probabilmente Vercors non teme tanto la barbarie nazista, quanto la prospettiva che la sua Francia possa farsi pecora mansueta e assimilare gradualmente l’ideologia del conquistatore. L’intento politico dell’opera appare dunque chiaro: schiudere gli occhi ai francesi e ammonirli circa i propositi predatori della Germania hitleriana, contro ogni opposta parvenza.
La lettura di questo racconto (tradotto all’epoca da Natalia Ginzburg) non chiede più di due serate e fornisce un ottimo spunto di riflessione sia sulla vicenda storica che fa da sfondo sia sul successivo rapporto tra Germania e Francia, dal quale, come noto, scaturirà il progetto di un’unione tra i popoli europei.
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"Il mondo non era più il mondo"
Siamo ai primi del ‘900 e a un tavolino del caffè Gluck di Vienna siede quotidianamente Jakob Mendel, “persona senza eguali e uomo leggendario”, capace di scovare il libro più strano nella più sperduta libreria antiquaria esistente. Non c'è un volume che sfugga alla sua conoscenza enciclopedica, maturata in decenni di maniacale lettura, l’unica attività a cui abbia dedicato la sua esistenza. Oltre ai libri, però, Mendel non sa nulla del mondo ed è proprio questo innaturale distacco a giocargli un terribile scherzo, da cui non sarà più in grado di riprendersi, divenendo l’ombra di se stesso.
Pubblicato nel 1929, Mendel dei libri è il racconto di un uomo travolto dalla Storia, la metafora di un mondo che inconsapevolmente viaggia spedito verso la propria fine, lasciando di sé solo un ricordo sfocato. Una novella malinconica, dal sapore amaro, esempio di una celebre letteratura austriaca successiva alla Grande Guerra, capeggiata da Stefan Zweig e Joseph Roth, orfani della “belle epoque” asburgica.
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Novella degli scacchi, Stefan Zweig
Come il pensiero può volare in una prigione
Chi non ha mai sfogliato Le mie prigioni potrebbe pensare a un vecchio testo politico dalla prosa ammuffita e grondante di retorica, buono tutt’al più a chi si occupa di storia patria. Ebbene, nulla di tutto ciò. Certo, il capolavoro di Pellico è scritto in un italiano ottocentesco e la sua ambientazione non è attuale, ma dalle pagine di questo celebre libello emerge soprattutto un grande senso di umanità. Al cuore della trattazione, infatti, non stanno gli ideali politici del rivoluzionario, bensì i sentimenti del prigioniero, i suoi dolori, le sue speranze, il suo attaccamento alla vita.
Nelle Mie prigioni Pellico racconta con stile asciutto e diretto il suo personale incubo iniziato nelle carceri di Milano e Venezia e terminato ai confini dell’Impero Austriaco, in Moravia, nella tetra fortezza dello Spielberg. L’accusa di affiliazione alla Carboneria lo spinge lentamente verso il baratro, mettendolo di fronte a una prova fisica e morale difficilissima. Dopo la condanna a quindici anni di carcere duro, lo scrittore vive con dignitosa rassegnazione e senza rancore un’esistenza ignobile segnata dalla solitudine e tormentata dalle malattie causate dall’ambiente malsano del carcere. Con sforzo enorme tenta di rimanere aggrappato al mondo, nella convinzione che il male inflittogli sia ordinato a un suo giovamento.
Confinato in una terra lontana che non gli appartiene, strappato dall’affetto dei propri cari, costretto in antri freddi, umidi e bui, con una catena al piede, un tavolaccio di legno per letto e un rancio da fame, Pellico può contare unicamente sulla propria immaginativa per non impazzire. Compone, filosofa, poeta e legge avidamente i pochissimi libri che gli vengono concessi. Cerca di imporsi una ferrea disciplina dello spirito e di scacciare dal cuore ogni forma di cinismo, risentimento e odio, comprendendo che finirebbero per peggiorare la sua esistenza.
Alla nuda cronaca degli anni di prigionia, la narrazione interseca un caldo dialogo interiore, un vivido discorso dell’anima dove affiorano ricordi di una vita perduta e maturano confortanti riflessioni sull’uomo e su Dio. La filosofia e la fede sono infatti le fiaccole che Pellico si sforza di tenere accese per impedire alle sue tenebre di parlargli e per nutrire di sostanza le interminabili giornate del prigioniero.
Fortunatamente, a donare un minimo di incoraggiamento e di colore ci sono anche delle presenze umane. La prigione è un mondo parallelo popolato di figure che di tanto in tanto spezzano il duro isolamento del carcerato: sono gli altri prigionieri, i secondini, i medici e chiunque altro per occasione entri in contatto con quel desolante cosmo di reietti e dimenticati. I personaggi che il protagonista incontra nell’arco della sua prigionia restano scolpiti nella mente e sono forse l’immagine più dolce che rimane al termine della lettura. C’è il mutolino, il bimbo senza parola che si affeziona a Pellico e torna a fargli visita davanti alle sbarre della cella di Milano; il povero e sprovveduto Maroncelli, carbonaro e amico di Silvio, protagonista dell’episodio più commovente della storia; l‘ingenua Zanze, figlia quindicenne del custode dei Piombi a Venezia, che rimane colpita dalla sventura dello scrittore e si intrattiene spesso a conversare con lui. Ma più di tutti resta impresso il vecchio caporale Schiller, carceriere di Pellico allo Spielberg, probabilmente la figura più nobile di tutto il racconto. Schiller è pur sempre un anello della catena oppressiva austriaca, ma l’autore lo descrive come un giusto che compatisce l’amaro destino dei prigionieri e fa tutto ciò che è in suo potere per alleviarne il dolore.
Silvio Pellico cominciò a scrivere i propri ricordi di prigionia nel 1831, soltanto dopo la scarcerazione. L’opera uscì a Torino un anno più tardi ed ottenne un successo travolgente, tanto da diventare il libro italiano più letto nell’Ottocento. La censura non poté nulla contro un testo che si dichiarava espressamente non politico e che in effetti non conteneva un solo attacco esplicito nei confronti dell’Austria. Nonostante ciò, come disse il cancelliere Metternich, esso arrecò più danno all’Impero di una battaglia perduta. La descrizione degli eventi infatti porta il lettore a solidarizzare con il prigioniero e a detestare i mandanti di tanti inutili sofferenze. L’atto d’accusa, anche se non espresso, si legge tra le righe, risultando forse ancora più incisivo.
Le mie prigioni costituiscono in definitiva una splendida testimonianza, una lettura edificante a cui sarà utile andare non solo per approfondire una pagina importante della nostra storia nazionale, ma anche per conoscere l’esperienza di un uomo fuori dal comune, trovando nella sua abnegazione e nei suoi valori uno stimolo a superare ostilità e momenti bui.
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Un libro sull'orrore della guerra
La guerra chiude gli uomini in una “tomba di indifferenza e di malvagità”, li deturpa nell’animo, rendendoli apatici, duri di cuore e privi di pietà verso le disgrazie altrui. Questa è l’idea principale che attraversa le pagine della Ciociara di Moravia, dove la triste storia di Cesira e di sua figlia Rosetta è l’emblema di un’Italia dilaniata e sfigurata dalle tragedie del secondo conflitto mondiale. Le disavventure delle due protagoniste – costrette ad abbandonare Roma nell’estate del 1943 per la paura dei bombardamenti e a rifugiarsi tra i monti della Ciociaria – fanno da tessuto narrativo ad una più ampia meditazione su un imbruttimento morale che non risparmia quasi nessuno. La carestia, i prezzi folli della borsa nera, la mancanza di un tetto dove trovare riparo e l‘imperscrutabile malignità degli occupanti mettono a durissima prova i malcapitati del tempo, costringendoli a una lotta per la sopravvivenza dove non c’è spazio per “le leggi e il rispetto degli altri e il timor di Dio” e i valori dell’epoca di pace sono irrimediabilmente capovolti.
Le uniche luci a brillare nello scenario cupo e miserevole descritto da Moravia sono quelle di due giovani ragazzi: Rosetta e Michele (uno studente sfollato con cui le protagoniste instaurano presto un rapporto di amicizia). Pur animati da opposti ideali – Rosetta è estremamente religiosa, mentre Michele crede ferventemente nel socialismo – questi due personaggi appaiono puri, genuini e sorprendentemente saldi in un mondo che continua a precipitare. Tuttavia, seppur in maniera diversa, la guerra non tarderà ad allungare le sue mani anche su di loro. La ciociara, per buona parte, è la storia di queste gioventù spezzate, di due promettenti vite che in un contesto differente avrebbero ottenuto ben altra sorte.
Dopo La romana, pubblicato nel 1947, questo romanzo conferma una volta di più l’estrema sensibilità di Alberto Moravia nella descrizione dei personaggi femminili, una sensibilità che trova pochi pari nella letteratura italiana contemporanea.
Tutta la vicenda è filtrata attraverso gli occhi di Cesira, una donna semplice e di umili origini. Il racconto è pertanto improntato a una semplicità di espressione che rende la lettura fluida e agevole. Chiunque può tranquillamente avvicinarsi a questo libro, senza quella sorta di timore reverenziale che tante volte rende titubanti davanti alla lettura di un classico.
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Terra rossa
“Dal mare veniva su un po’ di tramontana e portava con sé il profumo della terra appena arata: profumo di terra rossa, che non se ne trova un altro eguale”
Oggetto di desiderio e di privazione, la terra è la grande protagonista di Materada, un romanzo di frontiera ambientato nell’Istria del dopoguerra, da poco assegnata alla Jugoslavia. Qui, in un paesino di campagna (Materada), si consuma l’amara storia dei fratelli Coslovich, Francesco e Berto, due contadini che pur avendo trascorso l’intera vita al servizio dello zio non ricevono nulla in eredità, se non una terra appena confiscata dal nuovo regime comunista. Caduti nell’imbroglio, i due faranno il possibile per ottenere quanto gli spetta, ma dovranno chiedersi fino a quale punto sono disposti a spingersi per avere giustizia.
Sullo sfondo di questa intricata trama familiare si staglia lo sconsolato quadro di un’Istria che giorno per giorno va svuotandosi, con le strade piene di camion traballanti di povere masserizie diretti verso Trieste. Pochi, infatti, scorgono un futuro roseo in quella terra martoriata e dimenticata dal mondo, in cui usurpazioni pubbliche e private si intrecciano e dove i torti arrivano come fendenti non solo dai nuovi dominatori, ma da tanti compaesani che in una situazione precaria e bizzarra rispetto al passato preferiscono guardare unicamente al proprio particolare. La rassegnazione raggiunge quasi tutti, compresi gli spiriti più forti, e l’Italia, anche se non tornerà mai più, è troppo vicina per non rappresentare una tentazione agli occhi di chiunque desideri trascorrere una vita diversa.
Inserita in questo contesto, la vicenda della famiglia Coslovich, con il suo carico di ingiustizie ed egoismi, è a ben vedere una parabola del più ampio dramma che attanaglia la povera gente di Materada e delle altre città dell’Istria, dove l’unico modo per non rimanere schiacciati dalle iniquità della storia è partire, lasciare alle spalle i luoghi di una vita (e con essi la terra, la casa, la giovinezza), nella speranza di trovare fortuna altrove, come traspare chiaramente nell’ultimo, intenso dialogo tra Francesco Coslovich e Barba Nin, il vecchio del paese: “Va” mi disse “a cercare la tua fortuna. Qua essa ti ha lasciato; e tu corrile dietro”.
Il libro contiene pagine di commovente poesia, come quando il protagonista Francesco, in fila al municipio per consegnare la domanda di espatrio, immagina come avrebbe potuto essere la vita sua e dei suoi figli a Materada, o come in uno degli episodi finali in cui gli esuli, impastata la voce di vino, esorcizzano il dolore per la partenza in canti alla città e alla gioventù ormai passata.
Se alcuni passaggi di Materada fanno brillare gli occhi, tuttavia, non è certo per una retorica più o meno alta (di cui il romanzo appare in realtà privo), ma piuttosto per l’abilità narrativa di Tomizza nel trasmettere con realismo la tragedia dell’esule, stretto tra affetti ancestrali e necessità di vivere, e chiamato infine alla dolorosa e ineludibile scelta.
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La perduta gente
Anno 1944. Le bombe riducono a un cumulo di macerie la città di Treviso, che per interi giorni continua a crollare e bruciare, alzando colonne di fumo e tingendo il cielo di rosso fuoco.
Chi legge Il cielo è rosso di Giuseppe Berto ne rimane segnato. E’ un romanzo che scava a fondo nell’anima e che col suo stile asciutto ma carico di sentimento si legge tutto d’un fiato. La durezza della miseria, raccontata con crudo realismo, fa da sfondo alla storia di quattro ragazzi (Daniele, Tullio, Carla e Giulia) che dopo il bombardamento della loro città si trovano senza famiglia a dover affrontare un mondo cupo e miserabile, dove “la gente non aveva altro scopo di vivere che quello di procurarsi il cibo per non morire”.
Daniele, timido ed introverso, fugge dal collegio dopo la morte dei suoi genitori e vagando smarrito tra le macerie della città trova Tullio, un ragazzo disinvolto che ruba per vivere. Assieme a quest’ultimo, in un’abitazione di fortuna nascosta in mezzo alle rovine, ci sono Carla e Giulia, cugine, ma così diverse tra loro. Carla è esuberante, spesso irriverente. Giulia a suo confronto appare così ingenua ed insicura. Daniele viene accolto nella loro dimora e la sua vita non sarà più come prima.
Una storia di amicizia e d’amore, dove i caratteri e le emozioni dei quattro personaggi sono tratteggiati dalla penna dell’autore con mirabile sensibilità. Il destino di questi ragazzi, la loro esistenza semplice ma non banale, l’intreccio dei sentimenti che li lega fin dal principio della loro convivenza non possono in alcun modo lasciare indifferente il lettore, che è anzi spinto a sperare, assieme ai giovani protagonisti, nell’arrivo “del grande giorno in cui il bene sarebbe venuto sulla terra per tutti gli uomini”, cancellando ingiustizie e miseria. Ma arriverà mai questo “grande giorno”? Si può davvero avere fede nell’umanità?
Il cielo è rosso è un libro drammatico che scombussola, lasciando nell’animo un senso di vuoto e una grande amarezza.
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Ai confini dell'Europa
Ai nostri occhi, le regioni del Baltico appaiono come un’entità misteriosa e lontana dalla vicende storiche che ci riguardano direttamente. “Macchioline su una carta”: così il generale inglese H. H. Wilson definì Lituania, Lettonia ed Estonia durante la conferenza di pace di Parigi del 1919. Eppure, basterebbe una breve ricerca per scoprire che si tratta delle stesse terre che hanno dato i natali a uomini come Immanuel Kant, Hannah Arendt, Mark Rothko, Romain Gary ed altri ancora. Dietro ai paesi baltici esiste quindi una storia più interessante di quella che noi pensiamo: è questo il messaggio principale che lo scrittore olandese Jan Brokken ha voluto trasmettere ai suoi lettori con Anime baltiche (pubblicato in Italia da Iperborea nel 2014), un libro che non è solo un viaggio in questo remoto e semisconosciuto angolo d’Europa, ma anche tra arte, letteratura, cinema e musica, i segni più tangibili di una vicinanza culturale da molti nemmeno immaginata.
Attraverso la vita di alcuni celebri personaggi, l’autore racconta le vicissitudini di queste terre di confine, dove la convivenza di tedeschi, ebrei, russi, lituani, lettoni ed estoni ha prodotto nell’ultimo secolo violenti e drammatici conflitti, che hanno cambiato per sempre un mosaico etnico che aveva pochi pari in Europa per varietà e complessità. Che dire, ad esempio, della città prussiana di Königsberg, dove nel Settecento nacque il filosofo tedesco Kant? Oggi si chiama Kaliningrad, in onore a un bolscevico sovietico, e si trova in territorio russo. E Vilnius, l’attuale capitale della Lituania? All’inizio del Novecento era abitata da circa 100.000 ebrei, che costituivano il 40% della popolazione locale. Oggi, dopo l’Olocausto, non ne restano che poche centinaia. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Le storie che Brokken ci descrive sono per lo più spaccati di vite sradicate, che hanno usato l’arte per reagire alle brutture della storia, nella speranza di un nuovo inizio. Lo scrittore Roman Gary esorcizzò nei suoi romanzi un passato triste e per lui inconfessabile. La filosofa ebrea Hannah Arendt parlò di quella “banalità del male” che tante vittime aveva mietuto in Europa negli anni dell’ultima guerra. Lo scultore lituano Jacques Lipchitz raffigurò nelle sue opere quell’angoscia che provò da bambino quando riuscì a sopravvivere fortunosamente a un pogrom. Il compositore estone Arvo Pärt espresse magistralmente nei suoi concerti quella spiritualità a lungo repressa durante il dominio sovietico.
In queste terre di dolorosi sconvolgimenti, solo la natura sembra essere rimasta identica a prima, con le sue fitte selve incontaminate, il mare gelido, le strade ghiacciate e i venti del nord che si abbattono su castelli in rovina e palazzi decadenti. Una natura a tratti maligna e in triste armonia con i tanti drammi umani del secolo passato.
Quello che emerge dalle pagine di Anime baltiche è un piccolo mondo perduto e dimenticato, che meriterebbe tuttavia di essere conosciuto più da vicino. La sua storia, in fondo, è anche quella della nostra Europa.
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Un libro senza particolari pretese
Un figlio di Re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: “Mamma, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue”.
“Eh, figlio mio, chi è bianca non è rossa, e chi è rossa non è bianca. Ma cerca pure se la trovi.”
Con questa citazione di Italo Calvino tratta da Fiabe italiane si apre il primo romanzo pubblicato da Alessandro D’Avenia, al quale mi sono avvicinato con curiosità per una serie di buoni motivi: il titolo, la copertina, le buone recensioni sentite in famiglia e non per ultimo il desiderio di leggere qualcosa di leggero. Sì, perché Bianca come il latte, rossa come il sangue è un libro per ragazzi, privo perciò di particolari pretese letterarie.
Nel suo romanzo d’esordio D’Avenia riprende un tema molto ricorrente, quello dell’amore impossibile. Non potrebbe definirsi altrimenti infatti il sentimento del sedicenne Leo, un adolescente come tanti altri, per la bellissima Beatrice, una ragazza dai capelli lunghi e rossi, gli occhi verdi e un terribile segreto: la leucemia che lentamente la sta spegnendo. Quando Leo lo scopre, un tumulto di emozioni e pensieri lo sconvolgono, costringendolo ad interrogarsi sul suo sogno e sugli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione.
Raccontata in una forma che si avvicina molto al diario, con una scrittura che vorrebbe ricalcare quello di un giovane liceale, la vicenda di Leo è la storia di una progressiva e necessaria crescita interiore, stimolata sia da eventi apparentemente più grandi di lui sia da due personaggi che con la forza della loro presenza e la dolcezza delle loro attenzioni lo aiuteranno a guardare le cose del mondo con occhio maturo e fiducia nell’avvenire.
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L'inafferrabilità delle cose
Dino è un uomo giovane che pur avendo a disposizione denaro e ricchezze rifiuta gli agi e i lussi della bella vita che gli sarebbero garantiti dalla facoltosa madre per dedicarsi alla pittura in un modesto appartamento di Roma. E ciò non per spirito francescano o per una spiccata inclinazione artistica, bensì per sfuggire alla noia delle sue giornate, per illudersi cioè di avere un rapporto autentico con la realtà. Ma per quanto egli si sforzi di dipingere, non gli riescono che quadri mediocri: il mondo infatti continua ad apparirgli in ogni sua manifestazione un oggetto estraneo, impenetrabile e privo di significato, così che raffigurarlo su delle tele gli è semplicemente impossibile. Ecco cos’è la noia di cui soffre: non assenza di divertimento, come si potrebbe pensare, ma incomunicabilità, incapacità di instaurare un legame vero con tutto ciò che lo circonda, dalle cose alle persone. Si tratta perciò di un malessere esistenziale, che condiziona interamente la sua vita.
Nemmeno Cecilia – una giovanissima e procace popolana con la quale intreccia un’intensa relazione sessuale – sembra spezzare le catene della noia che lo imprigionano. Ma un evento inaspettato è destinato a mutare i sentimenti del protagonista per la misteriosa ed inafferrabile ragazza, che diventa il paradigma di una realtà che sfugge proprio nel momento in cui si cerca disperatamente di possederla. Fallito come artista, Dino fallirà anche come amante e in definitiva come uomo?
Per buona parte delle sue pagine il romanzo è un’autentica apnea da cui è difficile risalire: l’indolenza del protagonista e la sua incomprensibile incapacità di attribuire la minima rilevanza a qualunque oggetto o figura gli si presenti innanzi demoralizzano ed irritano il lettore, ma se si ha la pazienza di perseverare nella lettura si schiuderanno delle pagine di profonda e toccante verità.
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"I have written a wicked book"
Non molto tempo fa qualcuno annotò che il romanzo “è una macchina per generare interpretazioni” (Umberto Eco, Postille a “Il nome della rosa”, 1983). Osservazione nient’affatto nuova, se vogliamo, ma che calza alla perfezione per un testo come Moby Dick, che nonostante i lineamenti del romanzo d’avventura e la dimensione conseguentemente realistica (accentuata dalle frequenti digressioni sulla baleneria) si presenta come un’opera dall’alto valore allegorico, tale da appassionare generazioni di letterati e lettori nella ricerca del suo significato più autentico. Moby Dick è entrato nell’immaginario collettivo non solo grazie alle ancestrali fantasie suscitate dalla lotta tra il mostro marino e il temerario capitano Achab, ma anche per la natura intrinsecamente simbolica di questa lotta. Il mito della balena bianca deve molto proprio all’affascinante enigma interpretativo sotteso all’intera trama, la cui soluzione diventa la principale motivazione nella corsa all’ultima pagina.
Trama
La voce narrante di Moby Dick è Ismaele, un giovane maestro di scuola che vive nell’America del Nord della prima metà dell’ottocento e che non avendo nulla di particolarmente caro a terra decide di darsi alla navigazione dell’oceano. Ismaele compie i suoi primi viaggi da marinaio sulle navi mercantili e in breve tempo scopre nella vita di mare la migliore via di fuga contro le avversità dell’esistenza: “è un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso […], allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto”. Desideroso di avventure sempre più coinvolgenti, abbandona il commercio marittimo per cimentarsi nella rischiosa caccia alle balene. Si dirige dunque verso l’isola di Nantucket, il più famoso porto di baleniere degli Stati Uniti. Inconsapevole di ciò che lo attende, salpa sul Pequod, la nave del capitano Achab, il quale ha giurato vendetta contro Moby Dick, un gigantesco capodoglio bianco che nella precedente caccia gli ha mozzato una gamba. Il Pequod e tutto il suo equipaggio sono dunque lanciati all’inseguimento della balena, in una ricerca che, fin dall’inizio, sembra gravata da un’ombra di maledizione e che, per essere ispirata unicamente a un cieco desiderio di vendetta, appare folle e destinata a un esito drammatico.
Achab e la balena
I due capitoli più belli di Moby Dick sono Il cassero e La sinfonia. Entrambi descrivono con grande efficacia l’irrazionale ossessione del capitano Achab, che sceglie deliberatamente di sacrificare quanto resta della sua vita e delle proprie energie all’uccisione della balena, rinunciando a tutto il resto, a partire dalla famiglia e dai legami umani a lui più cari, senza curarsi delle tragiche conseguenze a cui rischia di andare incontro nel tentare un’impresa simile. Il tormento della vendetta consuma interamente Achab, il quale abbandona tutte le sue doti di raziocinio in preda a un delirio di onnipotenza. La balena da lui inseguita con tanta tenacia è descritta da Melville come un animale dalla forza terrificante e dall’intelligenza malvagia. Per questo motivo più di qualcuno ha pensato di interpretarla come l’emblema delle forze oscure della natura, se non come l’incarnazione del male stesso.
“Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Essa mi occupa, mi sovraccarica: io vedo in lei una forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena Bianca il dipendente o sia il principale, io sfogherò su di lei questo mio odio. Non parlarmi di empietà, marinaio: il colpirei il sole, se mi facesse offesa”.
È questo probabilmente il passaggio più esplicito del romanzo, ma ancora non ci dice molto su cosa rappresenti il duello tra il monomaniaco Achab e l’inafferrabile Moby Dick. Molti hanno paragonato Achab all’Ulisse di Dante e in effetti le somiglianze sono parecchie: entrambi i personaggi sono dominati da un unico pensiero e terminano ingloriosamente la propria parabola, inghiottiti dal mare: tuttavia, se nella vicenda dell’eroe omerico cantata dal Poeta è la sete di conoscenza a spingere verso la tragedia, nel personaggio di Melville non pare riscontrarsi una simile tensione. Non è la brama di conoscenza a trascinare Achab nell’abisso, ma l’insensata presunzione di poter condurre la propria azione oltre ogni limite umano. Il desiderio di vendetta è la passione che brucia lentamente Achab e che lo priva sciaguratamente della capacità di discernere tra bene e male, tra ragionevolezza e follia. Per questa ragione, nonostante i tantissimi riferimenti più o meno espliciti all’Antico Testamento, Moby Dick mi è sembrata un’epopea più greca che cristiana: a dannare Achab non è tanto un’offesa recata a Dio, ma il suo pertinace rifiuto a riconoscere l’esistenza di un confine che l’uomo non dovrebbe mai superare e di cui invece dovrebbe essere sempre consapevole e riverente.
Stile
Una delle caratteristiche più singolari del capolavoro di Melville è la mescolanza di stili che si alternano tra un capitolo e l’altro, come se l’autore avesse voluto cantarci le meraviglie della balena nel maggior numero di forme letterarie possibili. Si succedono così la narrativa tipica del romanzo d’avventura, il tono lirico del poema, la descrizione asettica del trattato scientifico e l’ispirazione manifestamente teatrale di molti dialoghi. Allo stesso tempo, non è raro che l’autore tragga spunto da una nozione di cetologia o di caccia alle balene per una riflessione a sfondo filosofico o spirituale. Una simile operazione letteraria può apparire nei suoi esiti confusionaria e disorientante, e a tratti obiettivamente lo è. Essa risponde tuttavia a una precisa scelta contenutistica ancor prima che stilistica, perché Melville, attraverso la balena, nutre l’ambiziosa pretesa di raccontarci per disteso il mondo e le leggi universali che lo governano, e non trova modo migliore di farlo se non mescolando scienze, filosofia, epica, avventura, religione e gli stili che di volta in volta meglio si addicono a queste materie. La prosa dello scrittore americano è ricca e sovrabbondante, ma sacrificando spesso la mera narrazione alla pretesa poco fa descritta non c’è da stupirsi che pecchi in linearità e scorrevolezza: le pagine richiedono quindi una costante attenzione al lettore, il quale, non senza fatica, riceve in cambio una notevole quantità di spunti di riflessione. Per questo Moby Dick è uno di quei libri che alla fine restano e lasciano il segno.
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Assecondare la propria natura per non soffrire
“A sedici anni ero una vera bellezza. Avevo il viso di un ovale perfetto, stretto alle tempie e un po’ largo in basso, gli occhi lunghi, grandi e dolci, il naso dritto in una sola linea con la fronte, la bocca grande, con le labbra belle, rosse e carnose e, se ridevo, mostravo denti regolari e bianchi. La mamma diceva che sembravo una madonna”
C’è da chiedersi perché La romana sia tra i romanzi meno conosciuti di Alberto Moravia e non abbia raggiunto lo stesso successo di opere come La noia o La ciociara. La sua storia infatti è coinvolgente e la figura della protagonista – Adriana, una giovane prostituta della Roma anni ’30 – è descritta con una delicatezza e una sensibilità fuori dal comune, che possono uscire solo dalla penna di chi sa leggere l’animo umano nelle sue pieghe più intime e profonde, con un livello di immedesimazione spirituale nel prossimo quasi totale. Moravia è capace di tutto questo e il suo romanzo La romana è il ritratto complesso ed estremamente realistico di una ragazza del popolo “piena di contraddizioni e di errori”, che suo malgrado viene trascinata in un tenebroso vortice di eventi scabrosi, a cui tuttavia è costantemente in grado di opporre uno spirito puro e genuino, fatto per amare, che incredibilmente sembra non corrompersi al contatto con un mondo gretto e avaro di felicità.
Adriana sogna di sposarsi e di avere una famiglia ma la condizione sociale, la solitudine e alcune conoscenze sbagliate la conducono lentamente e in modo quasi indolore sulla via della prostituzione, che finisce per accettare non solo come una sua inclinazione naturale (“il mio mestiere non mi piaceva, sebbene, per una contraddizione singolare, ci fossi portata per natura”) ma anche come un amaro ed inevitabile compimento del proprio destino.
“Avevo capito che la mia forza non era desiderare di essere quello che non ero, ma di accettare quello che ero”
La piena e serena accettazione della propria condizione come unico antidoto al dolore dell’esistenza: è questo il fulcro ideale attorno al quale ruota coerentemente l’intero romanzo, anche nei suoi risvolti più drammatici.
L’innamoramento di Adriana per Mino, uno studente freddo e scostante, sembra rimettere tutto in discussione e ridare linfa anche ai quei sogni di vita normale precedentemente abbandonati. Il lettore segue passo per passo l’altalena dei sentimenti contrastanti della protagonista, augurandosi il suo riscatto fino alle ultime pagine, che pur nella loro desolazione lasciano uno spiraglio aperto alla speranza.
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Un libro sulla potenza dei libri
“E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione?” chiesi stupito.
“Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è.”
Un libro sulla potenza dei libri. Penso che questa potrebbe essere una definizione calzante per Il nome della rosa di Umberto Eco.
La storia è ambientata nel novembre del 1327 in un’abbazia dell’ordine benedettino situata su un monte dell’Italia settentrionale e famosa per l’immensa biblioteca (colma di manoscritti introvabili), le splendide ricchezze accumulate dai remoti tempi della sua fondazione e le stupefacenti reliquie gelosamente conservate nella cripta della chiesa. Qui la vita dei monaci cammina da secoli secondo gli austeri e consolidati ritmi della regola, e all’apparenza nulla di maligno sembra insidiarsi all’interno delle mura del vecchio monastero, fino a quando la morte misteriosa e terribile di alcuni monaci turba profondamente l’animo di tutti e rischia di mettere in pericolo l’esistenza stessa di quel luogo consacrato alla preghiera.
Per la sua fama di uomo arguto e il lungo passato da inquisitore, Guglielmo da Baskerville, un dotto frate francescano di origini inglesi, riceve dall’abate l’incarico di indagare sugli atroci ed inspiegabili delitti. Deve fare in fretta, però, perché negli stessi giorni l’abbazia accoglierà due delegazioni, una pontificia ed una imperiale (di cui egli stesso è parte) per un incontro di fondamentale importanza ai fini del futuro dell’ordine francescano, da molti ad Avignone considerato in odore di eresia per i ripetuti richiami alla povertà.
Ad accompagnare Guglielmo c’è il novizio Adso da Melk, un giovane benedettino tedesco tolto alla tranquillità del proprio monastero in Germania per assistere il frate inglese nella sua difficile missione. Sarà proprio lui che ormai ottantenne deciderà di raccontare per iscritto la storia degli avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù nell’abbazia maledetta.
La narrazione quindi corre su un doppio binario, con Adso anziano che dall’alto dei suoi anni può ragionare attentamente sulle vicende che Adso giovane ha vissuto con innocenza e scarsa esperienza del mondo. In questa dialettica tra io-vecchio e io-giovane, ricordi straordinariamente nitidi e ricche riflessioni si alternano continuamente in un racconto che non perde mai il suo interesse.
La nebbia fitta che sul tramonto dell’autunno avvolge le possenti mura del monastero, i meandri bui ed umidi dell’Edificio, i luoghi sacri e inaccessibili dell’abbazia, i passaggi segreti, la misteriosissima biblioteca, le terrificanti ed apocalittiche figure scolpite sul portale della chiesa, l’oscuro passato di alcuni monaci, le torbide e proibite vicende amorose che si consumano di notte, il secolare cimitero dove pare si aggirino degli spettri: tutto contribuisce a conferire alla narrazione quella luce opaca, inquietante ma incredibilmente affascinante che nella nostra immaginazione siamo soliti attribuire al Medioevo e che, nel contempo, tanto si addice a quello che può benissimo definirsi un romanzo thriller.
Umberto Eco è superlativo nella precisa e particolareggiata rappresentazione degli ambienti e dei luoghi di quest’abbazia italiana del XIV secolo (come dimenticare le congetture dei protagonisti per capire come muoversi nel labirinto o la descrizione del portale della chiesa contenuta nelle prime pagine del libro?) ma non si limita a questo. In quello che è unanimemente riconosciuto come il suo capolavoro, riesce infatti ad intersecare tra loro trame di politica e religione (senza mai annoiare, anzi) e trame molto più minute, che riguardano i rapporti personali dei monaci e la storia remota dell’abbazia.
Il risultato è un’opera appassionante, che lascia il lettore in sospeso tra mille ipotesi per centinaia di pagine e lo trascina in preda alla curiosità sino ai capitoli finali, che catturano per profondità ed intensità.
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La miseria raccontata da un bambino
Il libro Le ceneri di Angela di Frank McCourt è la storia autobiografica di una gioventù trascorsa in Irlanda tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, nella poverissima e umida cittadina di Limerick, dove anche un uovo sodo è un lusso e l’unico modo che tanti disgraziati trovano per evadere dalla propria miseria è tracannare birre al pub, bevendosi la paga dell’intera settimana.
Parliamo di un romanzo che oltre ad aver vinto il premio Pulitzer 1997 ed ispirato l’omonimo e fortunato film di Alan Parker (1999) ha anche appassionato milioni di lettori in tutto il mondo, e questo essenzialmente per l’abilità dell’autore a trattare con levità temi gravi come la fame e la miseria, senza cedere mai al pietismo o all’autocommiserazione. L’espediente scelto da McCourt per evitare queste facili trappole è presto detto: una narrazione in prima persona filtrata attraverso gli occhi di un bambino. Questa scelta espositiva, volgendo a proprio vantaggio quell’approccio al mondo tipicamente infantile misto di ingenuità ed ottimismo che, qualunque cosa accada, tende sempre a vedere la vita come un gioco e a ritagliare anche dalla situazione più difficile un angolo di beata spensieratezza, permette infatti alla storia di svelarsi in maniera dolce e gradevole, anche grazie a una scrittura fluida, molto incentrata sui dialoghi, che contribuisce a rendere la lettura meno faticosa. Il frequente ricorso all’arma dell’ironia fa il resto.
Naturalmente, al di là del modo leggero con cui la storia viene raccontata, restano i duri fatti che la compongono e che inevitabilmente imprimono l’immagine di una vita trascorsa tra stenti e privazioni: una testa di maiale come pranzo di Natale o una buccia di mela messa in palio dal maestro per chi risponderà correttamente alle sue domande sono solo un paio di esempi.
Purtroppo la storia perde il suo mordente al termine dell’infanzia del protagonista e con la quasi contemporanea scomparsa di un personaggio particolarmente significativo e ben riuscito. Ad ogni modo, è una lettura che consiglio. Non solo vi farà guardare un semplice tozzo di pane con occhi diversi ma soprattutto vi lascerà un gran desiderio di visitare l’Irlanda.
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Il cuore pensante della baracca
“Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore”
Mentre tutto si fa buio attorno a lei, una giovane donna ebrea di ventisette anni conserva ed alimenta una luce nel proprio animo, cercando continuamente nel prossimo “quel nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile, in mezzo alla rovina delle sue azioni insensate”.
Questa giovane donna è Etty Hillesum, che col proprio diario ci ha donato non solo la testimonianza degli ultimi due anni della sua vita, ma anche e soprattutto un ricco affresco interiore, carico di profonde riflessioni personali che a differenza di quanto si possa immaginare non vengono da uno spirito tormentato e afflitto, ma da un cuore costantemente pronto ad irraggiare amore e volontà di vivere in ogni situazione, anche la più drammatica.
Etty Hillesum muore ad Auschwitz nel novembre del 1943, ma prima di essere deportata in Polonia, consapevole che il cerchio attorno a lei e alla sua famiglia va sempre più stringendosi, riesce a consegnare i propri scritti all’amica Maria Tuinzing. Al termine della guerra i suoi amici tentano in più occasioni di trovare un editore che dia alle stampe quel documento prezioso. Ci vogliono quasi quarant’anni perché questo accada, ma poi il successo del diario è vasto e immediato: dalla piccola, Olanda le parole e i pensieri della Hillesum arrivano presto in tutta Europa e nel resto del mondo.
“Avanti, allora! È un momento penoso, quasi insormontabile: devo affidare il mio animo represso a uno stupido foglio di carta a righe”. Eshter Hillesum (per tutti Etty) vive in Olanda, nei pressi di Amsterdam. Ha una laurea in legge e una tenace passione per la letteratura, in particolare quella russa. Si iscrive infatti alla facoltà di lingue slave e quando può offre ripetizioni di russo. Vive a casa dei suoi, in una famiglia benestante, e frequenta alcuni personaggi in vista della borghesia ebraica della sua città. Non è insomma quella che si direbbe una ragazza del popolo, anche se nel corso della sua esistenza – specialmente nei suoi ultimi tragici atti – darà sempre prova di un forte senso di appartenenza alla sua gente.
Una “personalità luminosa”, una ragazza dal temperamento solare e vivace, con molti amori alle spalle e due sogni nel cassetto: viaggiare in oriente e diventare una scrittrice. Etty comincia a scrivere il suo diario su consiglio del proprio psicologo, Julius Spier, un uomo di cinquant’anni famoso per essere stato allievo di Jung e per aver sviluppato un particolare talento nel leggere la psiche dei suoi pazienti dalle loro mani. Spier diventa un punto di riferimento fondamentale per Etty, che se ne innamora e raccoglie il suo stimolo a intraprendere un lungo ed intenso percorso di introspezione attraverso la scrittura. Nato dunque con finalità “terapeutiche”, il diario della Hillesum non è un resoconto della guerra e neppure un racconto dettagliato della persecuzione degli ebrei d’Olanda. Certo, i due temi affiorano spesso nelle annotazioni dell’autrice, soprattutto nell’ultimo anno della sua vita, e sono indiscutibilmente alla base di svariate riflessioni, tanto di carattere generale quanto di natura intima e personale. Ma l’architrave del diario, decisamente scarno in termini di cronaca, è l’incessante, ostinata e talvolta dolorosa ricerca di sé, esposta nella forma di un intenso dialogo interiore, a tratti fortemente spirituale.
Nei suoi scritti Etty mostra una spiccata inclinazione a vivere la propria esistenza dall’interno verso l’esterno, e non viceversa. Il 12 giugno del 1942 annota: “Non sono mai le circostanze esteriori, è sempre il sentimento interiore – depressione, insicurezza, o altro – che dà a queste circostanze un’apparenza triste o minacciosa”. Ed è a partire da questa convinzione che Etty cerca costantemente un’armonia dell’anima, resa tanto più utile e necessaria in un periodo tragico per le sorti del suo popolo. Individua così due modi per raggiungere la propria pace interiore e contrastare quegli innumerevoli nemici che la minacciano dall’esterno. Il primo, ovviamente, è la scrittura: “Il peggio verrà quando non mi sarà più concesso di tenere matita e carta per schiarirmi le idee di tanto in tanto. Senza questa possibilità, che per me è di un’importanza essenziale, potrei anche scoppiare e distruggermi dentro”. Il secondo è la preghiera. Etty intraprende un cammino spirituale molto impegnato, dove alterna letture della Bibbia a momenti di raccoglimento e preghiera che definisce nel proprio diario come la sua “cura” e “l’unico atto degno di un uomo rimasto di questi tempi”. Il 10 ottobre del 1942 scrive: “Com’è strana la mia storia – la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi. O con una variante: della ragazza che aveva imparato a pregare. È il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo. Non si può certo riversare tutto il proprio amore su una persona sola”.
Sono molte le pagine in cui Etty si rivolge direttamente a Dio, e ciò non già per disperazione (sentimento del tutto assente nei suoi scritti), bensì per una fede incrollabile che non cede neppure di fronte ad eventi gravi come quelli che sconvolgono l’Europa del suo tempo. Etty colloca Dio nel cuore degli uomini e sostiene che “non è responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi!”. Aggiunge inoltre: “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini”.
Ma quello che lascia piu stupiti nel diario di Etty Hillesum è il suo continuo insistere sulla bellezza della vita e sulla sua pienezza di significato. Sono parecchie le pagine dove troviamo pensieri di questo tenore: “Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto”. L’amore che Etty prova per la propria esistenza in un momento per lei così difficile può a prima vista apparire forzato od innaturale, quando in realtà è del tutto coerente con la sua visione del mondo e la sua concezione degli uomini: “Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero”.
Qualcuno ha scritto che “se Etty continua a ripeterci che tutto è bello, è perché un’ebraica volontà di vivere fondo in fondo vuole questo in lei” (Sergio Quinzio). Può darsi, ma forse si può formulare anche un’altra spiegazione: in Etty infatti trova splendida manifestazione quella capacità tipicamente femminile di superare le avversità della vita con grazia e semplicità.
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"Sento che la pace dei morti non esiste"
Salvatore Satta ci accompagna in Sardegna, nella Nuoro della sua giovinezza, a cavallo tra ottocento e novecento. Questa città – descritta come un autentico luogo dell’anima – si presenta a ben vedere come tante altre, coi suoi maestri, dottori, preti, avvocati, contadini, pastori, mercanti, muratori, i quali, al di là delle profonde divisioni sociali, hanno tutti in comune lo stesso problema, “quello di vivere, di comporre col [loro] essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere”.
Giunto ormai alla vecchiaia, dopo aver abbandonato la Sardegna per il “continente” ed aver girato l’Italia per anni, l’autore torna alla sua Nuoro per un giorno e decide di visitare il cimitero: si tratta di un’esperienza intensa e rievocativa, perché ogni tomba possiede un nome capace di parlargli e di riportargli alla mente i ricordi della sua infanzia. Ed è così che immagina di restituire voce alle tante anime dimenticate che un tempo avevano popolato il Corso, il caffè Tettamanzi, il quartiere contadino di Seuna, il villaggio dei pastori di San Pietro e tanti altri luoghi, i quali, col passare dei decenni, sono stati quasi del tutto svuotati della propria essenza.
“Sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi”
Ecco che scrivere della loro vita, raccontarla a coloro che non ne sono stati testimoni, significa prendere nelle mani un fardello, quello della memoria di chi è stato ed ora non è più, sperando che questo possa in qualche modo servire. I morti di Nuoro infatti hanno bisogno di qualcuno che li liberi dal loro tormento, lo stesso che ha segnato l’inutilità e l’inesorabile lentezza della loro vita, trascorsa dalla culla alla tomba nello stesso paese, secondo un ordine e dei ritmi così consolidati da apparire l’espressione di una legge divina, al punto che quasi nessuno si è mai azzardato a metterli in discussione, e quei pochi illusi che ci hanno provato hanno assaggiato loro malgrado il sapore amaro del fallimento.
L’ineluttabilità del destino torna ciclicamente nei vari episodi che scandiscono il romanzo, il quale però è soprattutto un libro sulla solitudine, quel male profondo e inguaribile che sembra affliggere tutti i personaggi che appaiono dall’inizio alla fine della narrazione, a partire dalla figura spenta e senza speranza di Donna Vincenza, madre di sette figli e moglie dell’austero e rispettabile notaio del paese, Don Sebastiano. Il giorno del giudizio è anche il sapiente racconto della loro famiglia, o meglio, di quella dell’autore, il quale trae spunto dalle vicende della propria casa per inserirle in un contesto cittadino dove a regnare sono la ripetitività dei gesti e l’insondabile significato dell’esistenza (ammesso che ve ne sia uno).
La narrazione manca di una vera trama, poiché segue il flusso dei ricordi dell’autore. Questo rende la lettura frammentata e a tratti difficile, ma è forse l’unico difetto di un libro che sa descrivere gli eventi della vita con poesia e disincanto al tempo stesso.
Dato alle stampe quattro anni dopo la morte del suo autore, Il giorno del giudizio è stata una vera e propria sorpresa editoriale: scritto da un affermato giurista di cui fino a prima erano stati pubblicati solo testi di diritto, è riuscito in breve tempo a raggiungere un notevole successo, al punto da essere salutato da molti come uno dei principali romanzi italiani degli ultimi decenni.
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