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Dod Opinione inserita da Dod    09 Luglio, 2018
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Una divertente ideologista vegana

A chi è in dubbio se leggere o non leggere "Ho sposato una vegana" consiglio di leggerlo. Leggetelo, prendendo il libro per quello che è: un divertente racconto autobiografico dello scrittore e della sua conquista (anzi resa) di fronte alle posizioni etiche in ambito culinario della moglie Claudia. Eccoci di fronte al primo appuntamento, allo choc del veganesimo, alle ideologie e alle costrizioni alimentari a cui viene sottoposto Fausto pur di riuscire a mettersi insieme a Claudia.
Lo scrittore appartiene a quella specie di persone (pare in via di prossima estinzione) che amano mangiare cibi gustosi che li porteranno alla morte prematura. Carne, formaggi e latticini di ogni tipo affollano la dieta e i desideri di Fausto. La parola vegano nel suo vocabolario indica prima di tutto il popolo di alieni provenienti dal pianeta Vega in Ufo Robot. Al contrario il rispetto per l'ambiente, la salute personale, la vita portano a Claudia a battersi per il cibo del futuro e a farne le spese sono tutti coloro che si imbattono nella sua strada. Fausto dinanzi alla bellezza di Claudia cede via, via alle sue pretese alimentari, in un divertente e umoristico susseguirsi di rinunce, tentazioni, cadute culinarie che rendono il libro davvero spassoso per chi vuole concedesi una lettura leggera e dilettevole. Da leggersi in spiaggia

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Dod Opinione inserita da Dod    06 Marzo, 2018
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C’era una volta….Vivremo felici e contenti

Un pallido orizzonte di colline è ben lungi dall’essere una laica fiaba di intrattenimento. Il libro di Ishiguro (Premio Nobel per la letteratura 2017) si caratterizza, al contrario, per una evoluzione della storia che pare non portare da nessuna parte. A creare l’illusione di una storia (di riconciliazione col passato) contribuisce già la narrazione in prima persona della protagonista. Invece, assistiamo a una continua sospensione narrativa e introspettiva dei personaggi, conducendo il lettore sulla soglia della comprensione degli avvenimenti passati e di ciò che accadrà dopo, per poi abbandonarlo lì, in attesa, in un continuo intermezzo tra il passato, ricordato con rammarico, sconforto o nostalgia, e un indeciso e sospirato futuro di felicità.
L’esordio del romanzo è incentrato sull’incontro tra Etsuko, la protagonista che narra la vicenda in prima persona, e la figlia minore Niki, venuta da Londra a trovare la madre che vive nella campagna inglese. L’arrivo della figlia porta Etsuko a ritornare con la memoria al periodo del dopoguerra, vissuto da lei in una Nagasaki in ricostruzione dopo la tragedia atomica, e al suo rapporto con Sachiko, Butterfly instabile e angosciosamente protesa verso un futuro migliore, e la figlia Mariko.
Dal primo incontro tra le due nuove vicine si anticipa e intuisce il clima che accompagnerà il ricordo della narratrice: un’atmosfera di sospensione tra l’attesa di una qualche rivelazione e l’accadere di un evento decisivo di svolta e l’inquietudine e il dolore permanente che avvolge il presente. Questa atmosfera impregna il ricordo delle vicende del passato, il presente, le proiezioni sul futuro.
Ogni procede del racconto, per essere più precisi, è l’illusa speranza di avvicinarsi alla comprensione del dolore di Etsuko per il suicidio della figlia maggiore, di giungere a una espiazione della presunta responsabilità per questa morte, di trovare una possibile soluzione (positiva o negativa che sia) del faticoso rapporto tra Sachiko e Mariko, di scoprire chi si cela dietro agli omicidi che avvengono in città, di assistere al risolversi o al rompersi del teso rapporto tra Shigeo Matsuda e il vecchio Ogata-San, simboli rispettivamente del desiderio di modernità e redenzione del Giappone moderno e del nostalgico rimpianto dei tempi imperiali e della società tradizionalista nipponica.
Persino il finale, lasciando intravvedere una possibile novità, la blocca nel momento stesso in cui la suggerisce, impedendone il risolversi. Lo stesso racconto dell’amicizia tra Etsuko e Sachiko crea un’aspettativa nel lettore, porta a far immaginare un finale, una conclusione e offre tutte le condizioni necessarie perché questa si realizzi (specialmente una scena raccapricciante presente alla fine del ricordo), ma anch’esso si interrompe senza preavviso, lasciando il lettore nell’incertezza e nell’allusione minacciosa e inquietante.
Che cosa rimane allora? Probabilmente due temi.
Il primo è l’angosciante sospensione della storia. Se i personaggi della storia raccontata da Etsuko vivono divisi tra il passato di cui vogliono sbarazzarsi e il futuro in cui si illudono di poter vivere (emblematico il conflitto tra Ogata-San e Shigeo Matsuda), la narratrice si ritrova nella stessa sospensione, meditando sul suicidio della figlia ripercorrendo i primi anni di vita matrimoniale e ricercando nel passato qualcosa che possa aiutarla a comprendere la vita presente. Tutti attendono qualcosa (un perdono forse) che non arriverà mai.
Il secondo tema penso possa essere racchiuso dalla rievocazione di un episodio di puro orrore. Sachiko racconta a Etsuko una scena raccapricciante vista da lei e sua figlia mentre erano a Tokyo sotto i bombardamenti: la scena di una giovanissima donna che mostra sorridente il neonato appena affogato da lei in un canale. Questa scena fa probabilmente cogliere il motivo per cui Etsuko, nel ricordarsi della figlia maggiore suicida Keiko, si ritrova a ripensare al suo incontro con Sachiko. Ci troviamo, cioè, dinanzi a due storie incrociate di rapporto doloroso tra una madre e la figlia, di due madri responsabili, più o meno direttamente, della morte della figlia. Da una parte la fredda Etusko, incapace di fare memoria del suicidio della figlia e avvolta da un vago sentimento di colpevolezza, dall’altra Sachiko e la sua incapacità di essere una figura educativa e affettuosa verso la problematica figlia Mariko.
Stile asciutto e stesura del testo a tratti poco chiara. Non ci troviamo davanti a un libro da leggersi a cuor leggero, né particolarmente invitante a essere terminato, ma, se si sceglie di giungere fino all’ultima pagina e ci si ritorna, si rivela un buon libro su cui vale la pena riflettere.

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Dod Opinione inserita da Dod    16 Agosto, 2017
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I fuochi purificatori

Scrittrice scoperta solo recentemente, dopo il ritrovamento dell’incompleto manoscritto “Suite francese”, Irène Némirovsky ci regala un bel libro in cui i temi “classici” dell’amore, del denaro, del piacere e della guerra vengono amalgamati nel dare vita a una storia per nulla banale e scontata e dal finale solamente intravisto in una delle pagine più cupe della storia dell’Europa: la Seconda Guerra Mondiale. Certamente non mancano libri che trattano l’amore in tempo di guerra o le conseguenze che essa ha su coloro che la vivono. Sembra che l’argomento sia ormai stato affrontato da tutte le angolature possibili e che “I falò dell’autunno” (terminato nella primavera del 1942) sia uno dei tanti libri entrati – in ritardo – a far parte del lungo elenco in questione. Nel nostro caso la guerra sarebbe affrontata come la causa della rovina morale di un’intera generazione e come l’orizzonte verso il quale gli uomini guardano ora con il desiderio di trarne vantaggi e ricchezze ora semplicemente impegnati a “spassarsela” finché pace e benessere durano. Ci troviamo certamente davanti alla descrizione di una “generazione senza scrupoli” di gaudendi, di politici corrotti e fabbricanti di armi che la brutalità e il sacrificio inutile ha contribuito a rendere sfrenata e assetata di vita, dimentica della vita piccolo-borghese sognata dai francesi durante la Belle Époque. A Thérèse e Bernard la Prima Guerra Mondiale ha tolto qualcosa. A Thérèse ha tolto il novello sposo Martial, morto salvando un altro uomo. A Bernard ha rubato gli anni della giovinezza, l’amore per la patria e la moralità, lasciandolo con l’anima svuotata e indurita, incapace persino di lasciarsi toccare interiormente dal ritrovo di Thérèse.
Però, sebbene la guerra (la Prima e la Seconda) giochi un ruolo fondamentale nel determinare la vita dei due protagonisti, nel romanzo della Némirovsky non troviamo solamente questo ritratto: al centro di tutto stanno i due protagonisti e la loro faticosa relazione d’amore. Il cuore del libro sta nella difficile appartenenza reciproca.
Il libro, diviso in tre parti (1912-1918; 1929-1936; 1936-1941), inizia in una Parigi giunta al termine della Belle Époque. Qui la giovane e bella Thérèse acconsente a convolare a nozze con il gentile ma non particolarmente affascinante medico Martial.
Tra i personaggi troviamo anche il quindicenne Bernard Jacquelain e i suoi genitori e la nonna di Thérèse, la signora Pain. Con lo scoppio della guerra, Martial deve partire per il fronte, ma anche il diciassettenne Bernard si arruola e parte volontario. La vita di Thérèse e di Bernard, come già scritto, né rimane sconvolta. Al termine della guerra Thérèse avrà vestito gli indumenti della vedova ancora legata al marito morto eroicamente; Bernard quelli del giovane intenzionato unicamente a spassarsela. Bellissima la scena in cui la madre di Bernard organizza per il suo ritorno una serata al circo convita di ritrovare lo stesso figlio che aveva visto partire per il fronte. Ora il figlio è stanco delle loro idee e delle loro aspirazioni. «Lo sapevano loro cos’è la sofferenza, e così adesso avevano una sola idea in testa: finire la guerra e darsi alla bella vita per recuperare quello che si sono persi».
Le traiettorie di Thérèse e Bernard si incrociano occasionalmente. I due si ritrovano nel 1918. Dicevamo che il centro dell’intera storia è la fatica e la ritrosia dei due ad appartenersi reciprocamente. La giovane vedova è attratta dal ragazzo conosciuto anni prima, ma non vuole appartenere a Bernard per non tradire la memoria e l’amore che ancora prova per Martial., qualora acconsentisse alle avances di Bernard. Costui invece non vuole appartenere a Thérèse perché non vuole essere d’altri che di se stesso, usando e sfruttando cose e persone allo stesso modo con cui la Francia aveva usato lui e milioni di uomini dietro a falsi proclami e fervori patriottici. «“Gli eroi, la gloria…Dare il proprio sangue per la patria…”, sono tutte balle, chiacchiere dei civili. In realtà, di me non c’è neanche bisogno. Per la guerra occorrono macchine».
Nel ritrovarsi Bernard spera di fare di Thérèse la sua amante, mentre lei, rendendosi conto di amarlo da tempo, cerca di cambiarlo e di farlo veramente innamorare di sé. «Era sta a un passo dall’amarlo. E adesso capiva che lo amava da tanto tempo…Ma non per “scherzo”, non per il piacere di un’ora. Questo non poteva farlo. Non era così lei. E le parve orribile che lui fasse arrivato a farla quasi vergognare di un sentimento tanto normale. A complicare il tutto troviamo i coniugi Détang: arrivisti, affabulatori e guidati unicamente dalla ricerca del piacere e del benessere. Lei diviene l’amante di Bernard, mentre lui è il capo della società che trae enormi profitti dagli affari illeciti che intrattiene negli Stati Uniti.
Thérèse non demorde. Devo dire che in questa faticosa conquista (e nel suo crollo) ho trovato la parte veramente bella del libro, in particolar modo le pennellate che ritraggono la febbrile e agitata Thérèse dirigersi verso la casa del giovane cinico e avido di piacere, al tempo attratta e respinta da lui. Sarà proprio lei a spuntarla, grazie al tradimento della signora Détang, ma quella vita da “piccolo borghese” a cui aspiravano i Jacquelain e che si ritrova a volere anche Thérèse, non è sufficiente per Bernard, abituato al lusso più sfrenato, allo spreco e alla continua ricerca edonistica. Neppure la nascita dei figli servirà a restituire Bernard alla moglie.
Ecco, allora, l’importanza dei “falò dell’autunno”, intravisti dalla nonna, la signora Pain, durante la sua agonia: quei roghi purificatori che i contadini appiccano nei campi perché il terreno possa essere più fecondo diventano il simbolo di una prova e di un dolore che avranno come conseguenza un cambiamento della situazione. E nel loro falò– il nuovo tradimento del marito, la perdita di un figlio e lo scoppio di una nuova spaventosa guerra – i coniugi Jacquelain potranno, forse, veramente appartenersi l’un l’altra.

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Dod Opinione inserita da Dod    13 Luglio, 2017
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Chi vince piglia tutto

L'approccio a questo libro (il mio primo di J. Coe) è stato abbastanza condizionato dalle recensioni non troppo positive trovate sul presente sito. Devo dire che il testo non parte proprio benissimo ed è abbastanza fumoso per buona parte del primo racconto, non facendo capire molto dove si vuole andare a parare.
Il passaggio dal primo al secondo racconto, soprattutto, è infelice, perché il legame tra i due diventa chiaro solo dopo un po' senza apparire molto congeniale. Leggendo il libro diviso in capitoli non ci si aspetta di trovare una storia molto differente passando da un capitolo all'altro. Se questo stacco nei capitoli successivi riesce abbastanza bene, nel primo capitolo è un po' contorto e spiazzante.
Se la prima parte zoppica un po', poi il testo migliora decisamente - già dal secondo racconto - per offrire alcune bellissimi pagine soprattutto ne "Il giardino di cristallo".
J. Coe ci regala un testo in cui a essere ben presentate non sono tanto le singole storie quanto le riflessioni personali incarnate dalle particolari immagini visive quali il giardino ghiacciato simbolo dell'ossessione di un marito defunto, la telecamera che si sofferma crudelmente una cantante di poco successo che spera di ritrovare denaro e dignità in un reality, l'undicesimo piano sotterraneo di una casa di Londra opulenta, ambiziosa e vuota, un mostro immaginario nascosto nelle profondità sotterranee di Londra, un autobus (la linea 11) che percorre a rotazione la città di Birmingham, i tavoli da cui emergono le teste dei "menù parlanti", la casetta sull'albero dalla quale due ragazze guardano i nonni di una delle due durante la morte di un giornalista politicamente scorretto...
La grandezza del libro sta proprio nelle immagini utilizzate per personificare i sentimenti principali: la paura, la perdita dell'innocenza, l'ossessione, la rabbia, l'odio. A connettere queste immagini è la una sensazione di impotenza arrabbiata e di nostalgia disincantata per il passato (spesso quello infantile) perduto per sempre, perché a dominare la realtà sono le bugie di chi è al potere, l'ottusa cecità dei ricchi, la competizione fino al sangue - incarnata dalla famiglia Winshaw - in cui "chi vince piglia tutto, chi perde non ha niente".

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Dod Opinione inserita da Dod    08 Ottobre, 2016
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E' possibile espiare la propria colpa?

Ho preso il libro in questione con il timore di trovarmi dinanzi a a un romanzo complesso e sufficientemente pesante. Questa paura è stata rafforzata dalla lettura dei primi capitoli della prima parte del libro. Superate le prime 80 pagine, però, la lettura si è fatta via, via più intrigante e scorrevole. A colpirmi piacevolmente è stata una certa diversità di stile impiegata nelle tre parti che compongono il romanzo. Uno dei maggiori pregi penso sia proprio la ricerca di cambiare la scrittura a seconda del protagonista delle parti. Indubbiamente la propensione all'introspezione e la sottolineatura del dettaglio caratterizzano tutto il libro, ma le parti sono sufficientemente diverse tra loro. Basta prendere in considerazione la prima e la terza parte, che ha per protagonista sempre Briony, per vedere come McEwan sia riuscito molto a calarsi nella mente nello stato d'animo di una ragazza che cresce.
Dalla mente narcisista della tredicenne Briony, impegnata irrealisticamente a preparare la rappresentazione teatrale del suo ultimo lavoro, passiamo alla sorella maggiore Cecilia, sicura di sè, addirittura altera, ma al tempo stesso timorosa nel riconoscere i suoi sentimenti, per giungere, infine, all'affascinante e sfrontato Robbie Turner.
Il lasso di tempo che intercorre tra la prima e la seconda parte con lo scoppio della guerra, segna un espediente felice e ben riuscito per catapultare il lettore in una nuova e drammatica realtà in cui tutto il mondo, precedentemente incontrato, svanisce co le sue abitudini e le sue ingiuste ipocrisie.
Il prezioso vaso, ricordo perenne delle coraggiose imprese militari compiute dal fratello dell'inconsistente pater familias di Villa Tallis, diventa il simbolo del vecchio mondo e del suo cambiamento. La scalfittura del suo bordo, avvenuta durante una contesa tra Cecilia e Robbie presso la fontana della villa, fa comprendere ai due il loro amore, ma è anche l'avvenimento che porta Briony a passare dall'amore per il teatro e le fiabe (e quindi dal mondo dell'infanzia) a quello per il romanzo e il mondo adulto con il suo realismo e la sua imperscrutabilità. Similmente è l'inizio della fine dei sogni di Robbie di diventare medico. Da questo episodio incomincia il dramma che legherà Briony, Cecilia e Robbie per il resto della loro vita.
Il crimine odioso di cui Briony accusa Robbie trascina la giovane scrittrice in erba nel mondo degli adulti di cui fanno parte pure il realismo della colpa e l'angosciosa ricerca di una sua espiazione. Briony passa dal mondo dei figuranti da palcoscenico al mondo reale degli uomini. Il passaggio è dolorosissimo e il resto del libro non sarà che la messa n pratica di una espiazione: quella di Robbie passata in prigione e al fronte durante la ritirata verso Dunkerque e quella di Briony all'ospedale militare di Saint Thomas.
Se la scalfittura del vaso segnava l'inizio del cambiamento interiore dei tre protagonisti e il compiersi del peccato, la sua rottura accidentale all'inizio della guerra manifesta la fine di quello che esisteva fino ad allora e la sua impossibile ricostruzione.
Si potrà ricostruire il rapporto tra Briony e Cecilia? La storia d'amore tra Cecilia e Robbie potrà superare l'ingiustizia subita e la guerra? Le relazioni familiari rotte si potranno ricongiungere? In sintesi: l'espiazione è davvero possibile? "Come può una scrittrice espiare le proprie colpe?...Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono". Il compito è unicamente suo.
A noi lettori è consegnata una storia ricca di riflessioni e vibrante di disperazione, angoscia, rabbia e amore tenace. "C'è stato un crimine. Ma ci sono stati anche gli amanti".

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Dod Opinione inserita da Dod    06 Ottobre, 2016
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L'accumulo del tempo e il suo senso

La recensione contiene qualche spoiler.

Ognuno di noi vorrebbe essere il proprietario esclusivo del proprio tempo; un tempo in cui gesti, eventi e persone riflettono l'immagine che vogliamo trovare di noi stessi. Julian Barnes ci affascina con una storia particolarmente profonda e introspettiva, mettendo il lettore dinanzi alla difficile comprensione del senso del proprio esistere e che porta ogni uomo a riconoscersi “soggetto”, cioè artefice e al tempo stesso vittima, della storia che vive.
A offrire la base di una simile riflessione troviamo la storia di un uomo qualunque. Tony Webster è una persona non più giovane, appartenente al ceto medio, con alle spalle un matrimonio fallito dal quale ne è uscito senza grandi sconvolgimenti interiori e che si è ritrovato a vivere in una generale tranquillità priva di entusiasmo e passione. È un uomo – come sottolineato da lui stesso – senza qualità che si ritrova a subire lo scorrere del tempo senza essere arrivato a concludere e far memoria di alcunché di particolarmente significativo, tranquillo nella sua “attitudine all’autoconservazione”.
È questo uomo mediocre a trovarsi inaspettatamente a riflettere sul senso del suo tempo e del tempo in generale. Una lettera in cui gli viene annunciato il lascito di cinquecento sterline e del diario di un compagno di classe portano Tony – e il lettore con lui – a scavare nella memoria, riportandolo ai febbrili anni dell’adolescenza con il loro desiderio di libertà, di cambiamento e di passionale amore. Barnes, tramite la memoria del Tony adulto, tratteggia rapidamente e con sorprendente efficacia l’animo del Tony giovane, le sue ambizioni, i suoi desideri sessuali e la sua forte infatuazione (potremmo osare e chiamarlo amore) per una ragazza, Veronica, mentre i febbrili anni Settanta si affacciano sulla sua vita senza intaccare pienamente il sistema in cui vive.
L’attenzione si sposta ora su Tony, ora su Veronica, ora su Adrian, il nuovo, brillante studente a cui viene permesso di entrare nel terzetto di cui fa parte il protagonista.
A guidare questa prima appassionante parte del libro rimane sempre il tempo e la riflessone sulla capacità che l’uomo ha di individuarne un senso e di comprendere gli eventi del mondo e delle persone che li vivono e li subiscono. Seguendo le disquisizioni scolastiche di Adrian, il lettore di interroga sull’irrisolvibile conflitto tra l’interpretazione oggettiva e soggettiva della storia, tra la comprensione obbiettiva, puntuale, scientifica di quello che accade e la necessità di passare tramite molteplici mediazioni umane che reinterpretano continuamente e dimenticano l’accaduto: “Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta”. In questo gioco sta tutto il libro di Barnes.
L’inspiegabile suicidio di Adrian, “tragica scomparsa di una Giovane Promessa”, e la lettera dell’avvocato in cui si comunica il lascito del diario segnano lo spartiacque tra la prima e la seconda parte del libro. Da questo punto, la storia, precedentemente “raccontata dal testimone che è sopravvissuto”, crolla sotto i colpi di una nuova narrazione, presentata sempre dallo stesso Tony, ripresa e smascherata come il tentativo fatto dal protagonista di considerarsi innocente e privo di responsabilità per quanto è accaduto.
Lo svelamento degli eventi del passato ha l’effetto di un lento e progressivo shock (di Tony e del lettore con lui). Il ritrovo di Veronica, dopo quarant’anni di silenzio, rompe il filo di perle con cui Adrian ha rinchiuso la sua identità, il suo amore per Veronica, il suoi rapporti con la madre di lei, i rapporti con Adrian e il suo suicidio si sfilacciano.
Il tentativo di padroneggiare il tempo e di nasconderlo, simboleggiato dall’immagine dell’ “orologio con il quadrante sull’interno del polso”, fallisce.
A rimanere, soprattutto dopo l’imprevista (forse un po’ azzardata) fine del libro, rimangono i frammenti della propria identità, ma anche la domanda sulle nuove responsabilità che si sono dimenticate, “la fine di ogni probabilità che qualcosa nella vita cambi” e l’accumulo del tempo che si apre all’inquietudine.

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Dod Opinione inserita da Dod    28 Settembre, 2016
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Un libro grottesco

Ho scelto di dare un 1 di incoraggiamento, perché il Non classificabile non rientrava tra le opzioni. Presi questo libro molti anni fa, dopo aver letto "Il codice da Vinci" e "Angeli e demoni" di Dan Brown. Questo libro fa parte di quella categoria di libri dozzinali che hanno sperato nella loro pubblicazione solo grazie all'onda lunga prodotta da testi di successo - come i thriller di Brown - che hanno aperto o riaperto un filone narrativo di grande interesse per il grande pubblico.
Come sono stati pubblicati molti libri su storie di vampiri dopo il successo della serie di "Twilight", così dopo "Il Codice da Vinci" hanno visto la luce molti romanzi e thriller legati al potere e ai segreti del Vaticano (o presunti tali), ad alcuni episodi di storia della Chiesa su cui è già stato scritto di tutto (Inquisizione e crociate in testa), alla Massoneria. Un thriller sui segreti di Fatima, a cui unire le presunte apparizioni di Medjugorie, in effetti, mancava. Imitando Angeli e Demoni di Brown, si è pensato di aggiungere pure un Conclave, privo di spessore e realismo avvincente, in cui i cardinali si affrontano in maniera grottesca, ricalcando il solito stereotipo "progressisti-conservatori".
Il culmine dell'assurdo, però, è costituito dal prete assistente del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede: una sorta di scagnozzo che si presta a fare i lavori sporchi per il cardinale, futuro papa. Anche il nome del pontefice è un programma! Pietro II, così da poter mettere in questo guazzabuglio pure la profezia attribuita al vescovo Malachia di Armagh.
Il contenuto della parte segreta del terzo segreto di Fatima, "rilanciato dalla Madonna" a Medjugorie!, tradisce il vero intento del libro: voler cambiare la morale cattolica in ambito sessuale e matrimoniale. Peccato che non servisse un libro così grottesco per proporre un simile argomento di discussione, peraltro assai complicato e interessante.

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Dod Opinione inserita da Dod    22 Mag, 2016
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La saggezza è sempre giustizia

Decisi di leggere qualche testo dell'egiziano Nagib Mahfuz, premio nobel per la letteratura, dopo aver scoperto, studiando dottrina islamica, che alcuni suoi libri erano stati oggetto di proibizioni e censure in Egitto dietro pressione della facoltà islamica di Al-Azhar. Sfogliando i suoi libri, fui catturato dalla trama: un tradimento, un desiderio di vendetta, la morte di innocenti. Devo ammettere di essere rimasto davvero soddisfatto dalla lettura.
Lo stile del libro è elegante e straordinariamente poetico in alcune sue parti, nonostante venga quasi sempre utilizzato il tempo presente. Molto belle sono soprattutto alcune immagini e paragoni utilizzate dall'autore per descrivere la profondità dell'animo dei personaggi. La traduzione italiana lascia trapleare un po' della bellezza che penso abbia l'originale arabo, lingua che si presta molto per essere impiegata in poesia (anche dal punto di vista storico).
Sebbene la storia non sia particolarmente originale, ci troviamo dinanzi a un libro di notevole spessore. Basterebbe la scena dell'incontro tra Said Maharan e la figlia Sana' che non vede da anni o la descrizione della celebrazione dello dhikr da parte del sufi Ali Gunaydi per farne capire la grandezza.
Al centro della storia troviamo il ladro Said Maharan, appena rimesso in libertà dopo diversi anni di carcere, intenzionato a vendicarsi di Alish Sedra, suo sottoposto nelle ruberie, e della moglie Nabawiyya. Costoro hanno denunciato Said, facendolo gettare in carcere, e si sono impadroniti delle sue ricchezze. Sono loro "i cani" contro i quali si lancia il ladro.
Il primo cane è Alish, il servo in cui Said riponeva la sua fiducia, che gli ha rubato la moglie e ne ha adottato la figlia. Con lui vive la ex moglie di Said, oggetto tanto del desiderio di Said di riappropriazione quanto di vendetta.
Il secondo cane è l'intellettuale e direttore di giornale Rauf Aluan. Corrotto dal denaro e ripiegato su uno stile di vita borghese, ha rinnegato le idee rivoluzionarie giovanili che avevano affascianto Said mentre costui studiava. Le sue azioni, tuttavia, lo rendono un personaggio ambiguo, che non si riesce a condannare brutalmente e immediatamente.
La principale vittima della storia è Nur, la donna eternamente innamorata di Said, disposta a fare qualsiasi cosa per lui con il solo desiderio di essere ricambiata. Il desiderio di essere finamente amata, la disponbilità a proteggere il ladro e assassino e il richiamo all'uscire dalla spirale di violenza e odio che agita il cuore di Said, rendono Nur un personaggio tragico, votato fin da subito alla sofferenza.
Ciò che maggiormente colpisce della storia è, infatti, la totale assenza di cambiamento da parte di Said: non ci troviamo dinanzi all'angosciante senso di colpa che sconvolge l'animo del dostoevskiano protagonista di Delitto e castigo, nè al pentimento e ai ragionamenti sulla liceità del delitto presenti in altri libri inerenti al desiderio di vendetta e alla morte ingiusta dell'innocente. Said Maharan è insensibile e sordo a qualsiasi altra cosa non sia il suo odio e il suo desiderio di vendetta. La volontà ferrea di vendicarsi trascina con sè ogni cosa: i due innocenti uccisi per errore, la donna che lo ama, la figlia che vuole riconquistare e che l'ha rinnegato, al punto tale da non poter più distinguere chi è realmente vittima e chi è colpevole. Chiuso nella convinzione di divenire un esempio per tutti gli oppressi che cercano giustizia contro il sistema corrotto, il ladro non si lascia nemmeno toccare dalla profondità dello shaykh Ali Guanydi.
Il vero gioiello del libro penso proprio sia l'interfacciarsi del ladro e del mistico sufi. Oltre alle domande e alle risposte che i due si scambiano, a colpire sono soprattutto i due volti: tanto il volto sereno e profondamente assorto dello shaykh rivelano un animo teso alla continua ricerca di Dio e di una vita retta, quanto la febbrile agitazione che caratterizza il adro, rivelano un uomo sordo a ogni richiamo e incapace di "interagire" con le risposte "aperte" dategli dallo shaykh. Alla pace proposta dal primo, raggiungibile solamente mediante l'abbandono a Dio e alla sua volontà, si contrappone quella del secondo, intravista solamente al compiersi della vendetta. E nella placida e provocante figura dello shaykh troviamo - ben saldate insieme - la bellezza letteraria e la profondità della mistica islamica.

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Dod Opinione inserita da Dod    12 Mag, 2016
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Parentesi poco felice

Ho letto questo libro dopo aver apprezzato molto il primo romanzo della Kostova: Il discepolo. La trama sembrava interessante e avvincente. Ero incuriosito, soprattutto, dall'elemento psichiatrico del professore universitario che cerca di distruggere la tela raffigurante Leda e il cigno.
Devo ammettere di essere rimasto deluso dal libro. La trama procede placidamente senza essere accattivante; talvolta risulta proprio dispersiva, mentre il filo rosso che lega gli eventi e i personaggi - l'ossessione di Robert Oliver - si sfilaccia col procedere della storia.
Sebbene siano presenti parti molto interessanti, legate alla malattia psichiatrica del professore, il libro tende proprio a perdere di vista la profondità, l'origine e le implicazioni della stessa. Si poteva rendere decisamente meglio la crisi familiare e la separazione, così come il rapporto, già compromesso in partenza, tra Oliver e la giovane studentessa che ne diverrà l'amante. La vera delusione, tuttavia, è stata, per me, proprio la debolezza della causa che ha scatenato l'ossessione. La conclusione del libro manifesta proprio la debolezza e una certa frettolosità nel risolvere la questione, come pure nell'aprirsi a una sua possibile guarigione.
Stile indubbiamente solido ed elegante, senza eccessive e pedanti ricercatezze. Dopo il precedente romanzo, mi sarei aspettato qualcosa di più dalla Kostova.
Nella speranza che la sua attività letteraria non si interrompa con questo libro, spero, tuttavia, che esso rappresenti una poco felice parentesi della sua produzione artistica.

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Romanzi
 
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Contenuto 
 
4.0
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2.0
Dod Opinione inserita da Dod    23 Aprile, 2016
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Una scommessa mancata

Ho comprato questo libro spinto dall'interesse per il titolo e per la presenza di una storia familiare di risentimento e odio represso.La vittoria del premio Strega è stata una garanzia ulteriore dello spessore del testo e, così, mi sono deciso a comprarlo.
Nonostante l'inizio abbastanza scorrevole e interessante, il libro si è rivelato, già dopo le prime 70 pagine, una sfilata pesante di personaggi legati in qualche modo a Clara, la vittima della storia. Sebbene i componenti familiari, nella loro diversa incarnazione della "ferocia", siano ben caratterizzati e presentino delle storie personali corpose e ricche di contenuto che rendono conto del perché siano vittime e artefici al tempo stesso dell'odio e della corruzione familiare e sociale, troviamo, purtroppo, anche molti, troppi personaggi minori, abbastanza piatti, che contribuiscono a complicare e appesantire una storia familiare dai tratti noir.
Buona, dicevo, la descrizione dei componenti della famiglia, sviluppata tramite flash back e ricordi personali.
Vittorio, vero self made man senza scrupoli e ipocrita, capace di piegare e sacrificare ogni cosa, compresa la moglie e i figli, per il successo lavorativo e l'affermazione di sé.
Annamaria, vittima del marito e madre fredda e distaccata, che continua a nutrire odio nei confronti di MIchele, frutto del tradimento del suo matrimonio.
Ruggero, l'uomo incapace di una vera relazione affettiva con gli altri (soprattutto con le donne) e che vive il suo successo accademico e lavorativo come fuga dal confronto con il padre, a cui concede, suo malgrado, tutto ciò che vuole. Il distacco continuo che ha nei confronti della famiglia, esemplificate dalla sua reclusione giovanile durante lo studio, è solo la patina sotto cui si cela desiderio di vendetta per ciò che ha subito.
Gioia, figlia più giovane di Vittorio e Annamaria, che affronta la morte della sorella invidiata, la realtà familiare e la vita con una leggerezza ridicola e grottesca.
Michele, l'escluso dalla famiglia e vittima di problemi psichiatrici che cerca di far luce sulla morte dell'unica persona che l'abbia mai veramente amato.
Tutti loro ruotano attorno alla protagonista della storia, Clara, la ragazza e donna bellissima e affascinante, che cerca di ricevere genuino amore, attenzione e accoglienza in storie di droga, sesso e violenza. Questo è l'amore che Clara cerca nella relazione soffocante e addirittura morbosa con Michele e che vede negato proprio dai suoi genitori al fratellastro a cui si è legata. Vittime solidali della mancanza di amore.
La corruzione della società fa da sfondo alla corruzione personale e familiare dei personaggi.
Penso che con tutti questi spunti, ci fossero le basi per un ottimo romanzo. Lo stile molto ricercato, il continuo passaggio dal tempo presente al passato senza interruzione grafica, il ricorso a troppi personaggi e storie minori, la cui relazione con Clara poteva essere inserita nelle storie dei suoi familiari, la presenza di periodi auto-compiacenti, complicati, pedantemente astratti e artificiosi che non comunicano nulla, contribuiscono, purtroppo, a rendere la lettura lenta e confusa. Senza contare il fatto che il libro abbia più di 400 pagine.
Si tratta, in sintesi, di un libro che poteva essere un fantastico e chiaro affresco delle ricadute familiari e sociali che vengono dal non guidare la propria "bestialità personale", simulata dal distacco, dalla freddezza, dalla vacua leggerezza, dall'ipocrita auto-giustificazione, dalla ricerca spasmodica di attenzione, un libro che ha mancato il bersaglio che si era prefissato.

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