Opinione scritta da Njna
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Malaussene, un eroe della vita di tutti i giorni
Se siete di quei lettori che facilmente si affezionano alla storia e ai suoi personaggi e, che concluso il libro vorrebbero con loro incominciare una nuova avventura, il ciclo di Belleville è quello che fa per voi. Sono infatti ben sei i romanzi che hanno per protagonista Malaussene e la sua straordinaria famiglia e, della serie, Il paradiso degli orchi è solo il primo capitolo.
Nonostante un certo disorientamento iniziale a causa dei troppi personaggi e delle loro dinamiche non ancora chiarissime, lo stile -unico- di Pennac mi ha tenuto avvinta alla lettura: per quanto non propriamente lineare (perché ricca di dialoghi alternati a pensieri qua è là inclusi in parentesi) la scrittura risulta fluida ,chiara, calibrata alla perfezione. Da essa trasuda quella comicità che, come Pirandello ci insegna, attraverso la “riflessione” diventa umorismo che non a caso lo stesso Pennac definisce “irriducibile espressione dell’etica”.
Ad appena un terzo della lettura la trama spicca il volo e mantiene alta quota fino all’ultimo capitolo e mentre gli indizi, le ipotesi (anche quelle del lettore) e i colpi di scena si avviluppano in questa intrigante matassa, prende nitidezza il ritratto di ogni personaggio, ciascuno con i suoi propri colori e le sue peculiarità.
Credo sia impossibile non affezionarsi al personaggio di Benjamin Malaussene, di lui sappiamo tutto perché Pennac ce lo racconta in ogni suo brontolio mentale e l’immagine che se ne riceve e quella non di un “santo”( come spesso viene definito nel libro) ma di una 'bella persona', un eroe della vita di tutti i giorni prima che dell’avventura di turno nella quale è coinvolto.
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Uno pseudogiallo
Quella con Simenon è stata la mia prima vera esperienza di lettura di un giallo seriale. Ho acquistato un’edizione dell’Adelphi intitolata I Maigret volume uno che contiene cinque romanzi in ordine cronologico ma non immediatamente successivo, il primo dei quali è appunto Pietr il Lettone. Ho scelto tra i cinque quest’ultimo per svariati motivi; innanzitutto è il primo romanzo di Simenon nel quale compare il commissario Maigret, una sorta di episodio pilota, ed è quindi il primo che consiglio di leggere a quanti intendono approcciare a questo autore, ma, con alcune dovute precisazioni. Il romanzo presenta delle particolarità rispetto ai successivi: più che un vero giallo sembra avvicinarsi al thriller/poliziesco toutc ourt. Già dalle prime pagine (dove troviamo il cd. “ritratto parlato” del ricercato) sappiamo chi sia il personaggio sulle cui tracce si trova Maigret e che in un modo o nell’altro (questo posso dirlo senza disvelare nulla) è coinvolto nell’omicidio di turno. In realtà, a tal proposito c’è da dire che ambiguità che si risolvono in tiepidi colpi di scena vi sono, ma ugualmente mancano dei veri e propri punti di tensione che incitano a quella lettura nervosa e compulsiva che caratterizzano il genere, eppure Pietr il Lettone costituisce per un verso l’emblema di una fra tutte le peculiarità che normalmente si associa a Simenon per distinguerlo da altri, ovvero la forte empatia che lega l’autore/protagonista ai colpevoli.
Maigret ci viene presentato come un uomo burbero, di poche parole e dai modi bruschi. Mangia in continuazione e ovunque vada è attratto da fonti di calore quali stufe camini e simili. La dichiarata placidità (quasi pigrizia) associata al carattere del personaggio è contraddetta nei fatti dalla sua grande attività. Il commissario durante le indagini si sposta molto e di continuo, anche se ferito gravemente, anche a costo di non far ritorno a casa propria per giorni. Ha un modo molto particolare di occuparsi del caso: si lascia guidare dall’istinto e pertanto potrebbe piantonare la hall di un albergo per ore pur in assenza di apparente motivo. Ma veniamo al punto: in Pietr il Lettone il motivo della narrazione appare essere –più che il crimine o i crimini commessi- più che la ricerca del colpevole, proprio il rapporto tra commissario/ricercato che qui prende le forme di un acchiapparello sui generis:
“Al punto in cui era la sfida sarebbe stato inutile fare tanti misteri. Maigret riprese il cammino e duecento metri più avanti trovò il Lettone, che non aveva tentato di approfittare di quell’incontro per sfuggire alla sorveglianza. E perché avrebbe dovuto? La partita si giocava su un alto terreno. Gli avversari si vedevano in faccia, quasi tutte le carte erano in tavola.”
Anche se vagamente leziosa ho apprezzato la scena in cui Maigret e l’inseguito si trovano faccia a faccia condividendo una surreale quotidianità; proprio questo è il luogo/non luogo scelto da Simenon per far risaltare il secondo indiscusso motivo della narrazione: la psicologia del colpevole con annesso esame delle ragioni che sottendono la condotta. Anche se quantitativamente non è l’elemento a cui viene dato maggior spazio, qualitativamente parlando è tutto ciò che rimane della vicenda una volta concluso il libro.
Per quel che mi riguarda non credo di essere diventata amante del genere eppure qualche pregiudizio me lo sono tolto. Quella dei Maigret è stata una piacevole esperienza di lettura che pertanto consiglio agli amanti del giallo e ai lettori onnivori e non.
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Una sorprendente prima Nemirovsky
Accade che durante una vacanza estiva ad Hendaye, Denise Jessaint, giovane donna dell'alta società Parigina, incontra e inizia una relazione adultera con Yves un sopravvissuto alle trincee che tornato dalla guerra, complice la bancarotta paterna, è costretto ad una modesta vita da impiegato. Ecco che nelle prime venti pagine così riassunte il romanzo si presentava a me come il racconto non troppo interessante di una storia d’amore e nel quale la trama sembrava consumata prima del tempo; ma è proseguendo nella lettura che si accede attraverso le maglie di uno stile che se pur non ancora maturo risulta pulito e carezzevole, ad un universo psicologico e sentimentale che finisce per assorbire la trama e divenirne l’essenza stessa.
Il malinteso è il primo romanzo di Irene Nemirovsky scritto quando l’autrice era poco più che ventenne, dato tutt’altro che privo di rilevanza considerata la maturità, soprattutto emotiva, provata dall’autrice che riesce a rappresentare gli opposti punti di vista dei personaggi in un interessante gioco di inside out. Il lettore è in prima fila e ascolta i pensieri e legge i sentimenti dei protagonisti ricevendone un senso di privilegio tanto più questi siano tra loro incapaci di comunicarseli. Un malinteso infatti c'è e si spiega a più livelli inevitabilmente intrecciati: da una parte Denise grazie alla sua vita agiata e priva di qualsivoglia responsabilità è totalmente impegnata nel pensiero dell’amante e non ha altra preoccupazione oltre quella di non essere a pieno corrisposta e dall’altra Yves con malanimo lavora sodo per permettersi dei lussi che in fondo disprezza ma che ugualmente gli sono necessari, e provato dall'esperienza della guerra pare incapace di esprimere o addirittura provare ancora vere emozioni.
Certamente il punto di vista femminile si spiega con maggiore completezza ed intensità come quando si legge:" Poi cominciò di nuovo ad aspettarlo. In quel momento della sua vita l'attesa era l'elemento centrale. Aspettare il telefono, aspettare la sua visita o l'ora dell'appuntamento...Ah! Il terribile supplizio di amare. E poi perchè? Non erano le sue carezze a tenerla legata a lui; non era passionale come la maggior parte delle donne molto giovani, non era felice tra le sue braccia, sempre tormentata da un'indefinibile angoscia, sorda e avida come un dolore profondo di cui si sente la presenza ma al quale non sappiamo dare un nome. Eppure nonostante quell'inquietudine, a volte, molto raramente, quando era seduta sulle sue ginocchi con la mano infilata nell'apertura della camicia di seta e poggiata sul petto dell'amante, le capitava di sentirsi invadere da un sentimento di calma celestiale...E per quel raro istante di deliziosa beatitudine che l'amore le regalava era pronta a sopportare ogni sofferenza".
Si peccherebbe di superficialità a classificare "il Malinteso" quale romanzo rosa, si è in presenza di qualcosa di più e oltre la vicenda amorosa; qualcosa che involge i rapporti umani e ne indaga le profondità, qualcosa che è descrizione e denuncia delle contraddizioni di un epoca di passaggio: quella fin de siecle di cui i personaggi sono incarnazione. A pochi mesi dalla confessione di chi, destando scandalo, ha ammesso di non leggere libri scritti da donne mi viene da pensare che la Denise donna e la Nemirovsky (in questo caso) scrittrice ghettizzata, soffrano lo stesso tipo di incomprensione e che aldilà degli imperituri pregiudizi troppo radicati in una società che nasce e cresce asimmetrica, forse, ci sono cose scritte da donne che solo le donne possono comprendere perché in fondo e semplicemente solo loro le provano.
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Irriverente, esilarante e spesso sacrilego in una
Irriverente, esilarante e spesso sacrilego, in una parola Palahniuk. L’autore riconferma a pieno il suo stile dimostrando ancora una volta una straordinaria capacità di scrittura a fronte delle tematiche, delle situazioni surreali e di un plot tutt’altro che scontato.
Non è necessario che abbia letto altri libri di Palahniuk perché il lettore sia calato senza troppo disagio in un universo narrativo fatto di parolacce, linguaggio osceno e situazioni che rasentano la pornografia. È un codice studiato a tavolino e il lettore (annoiato e maliziosetto che c'è in ognuno) non può che farlo proprio perché lo scrittore è così forte da riuscire a rispettarne la coerenza sempre. Il punto di vista assunto è quello del protagonista della storia , il sessodipendente Victor e le zone d'ombra create da questa mimesi potrebbero suggerire qualche falla nella trama ma abbiate fiducia, non mancherà il colpo di coda che farà quadrare i conti.
È un libro che si legge con un sorrisino scemo sulle labbra che con facilità potrebbe trasformarsi in una sonora risata; non per questo manca lo spazio per la riflessione; al contrario Soffocare è intriso di messaggi importanti, di moniti alla messa in discussione di se stessi, alla ricerca del riscatto e dell'amor proprio perduti.
C’è da dire che le peculiarità di questa scrittura che in prima battuta ne costituiscono la forza alla lunga potrebbero stancare e l'entusiasmo che facilmente si prova a leggere per la prima volta questo autore potrebbe intiepidirsi.
Vi segnalo inoltre che esiste una trasposizione cinematografica del 2009 meno nota del più fortunato Fight Club.
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Senza vie di fuga
Ho letto Ossi di Seppia a più riprese nella mia vita e come sarà accaduto a molti prima da studentessa e poi da appassionata di letteratura e vorace lettrice. Ciò che immediatamente balza all'attenzione del lettore è la "negatività" e non già il "pessimismo" Montaliano. Ecco perchè non citerei subito "Spesso il male di vivere ho incontrato" ma innanzitutto "Non chiederci la parola" che non a caso apre la raccolta. Montale collocandosi sulla sponda opposta a quella del poeta vate d'annunziano (la cui lezione, specie se consideriamo la cifra stilistica, fu comunque assorbita dal poeta) dichiara di non essere in grado di fornire alcuna risposta o formula agli interrogativi esistenziali: tutto ciò che può dire, parafrasando la quartina con la quale si conclude la lirica, è “ciò che NON siamo, ciò che NON vogliamo". Si tratta di una chiara dichiarazione di poetica: l'autore specifica il modulo procedimentale utilizzato che si risolve in un approccio "negativo", fermo e rassegnato ad una realtà (il male di vivere appunto) che resta immanente e che mai trascende alla maniera di Ungaretti suggerendo un qualche barlume di speranza.
Ossi di seppia sono i ventitré componimenti che corstruiscono la raccolta, resti organici, oggetti inanimati proprio in quanto non forniscono risposte ma constatano "cose". Sebbene questo, essi non restano senza scopo; sono sì oggetti inanimati ma pur sempre oggetti in divenire destinati ad altra "utilità".
Pessimismo, rassegnazione, "negatività"(nella particolare accezione che abbiamo conferito a questo concetto) contribuiscono in ultima analisi a trasmettere al lettore un senso di spaesamento e disillusione: ci si ritrova immersi in una realtà desolante senza vie di fuga.
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