Opinione scritta da Natalizia Dagostino

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Aprile, 2020
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Riflessione sulla vita


Il fotogiornalista Sergio Ramazzotti scrive un libro di parole patite, di realtà e di verità, per continuare ad interrogare più che a trovare risposte, a conoscere più che a seguire opinioni o schieramenti sul suicidio assistito, sull’eutanasia, sul sacrosanto diritto al libero arbitrio. L’autore afferma di voler raccontare perché: “se non lo scrivo rischio di impazzire”. A leggere questa storia, posso impazzire davvero. Il tema è il fine vita e la lacuna legislativa, l’immaginaria patologia organica e l’attività di un giornalista serio.

Cosa accade ad un uomo quando è lui a fissare l’appuntamento con la morte? Cosa accade ai suoi sentimenti, ai pensieri, ai comportamenti? Assisto ad un colpevole aiuto ad uccidersi o registro un atto di compassione? Incontro un eroe o un codardo? Nel racconto conosco Erika, la medica svizzera che ascolta, visita e concede il suicidio ai pazienti in un monolocale di Basilea: una moderna accabadora pietosa o una spietata affarista che specula sulla paura della malattia e della sofferenza?

A tratti, l’autore si sente un avvoltoio voyeur, accompagnando in Svizzera, per quarantotto ore e per millequattrocento chilometri, l’ex magistrato sessantaduenne Pietro D’Amico, il sonnambulo che cammina verso la luce verde che indica il via libera al suicidio assistito. Dinanzi ad una scrittura umile ed energica mi impegno in un confronto libero e crudele.

Diventare compagna in questo viaggio significa meditare sull’intensità di una relazione innominabile, di due esseri umani estranei e, allo stesso tempo, legati da una intimità vitale che non consente di dimenticare. La vita, talvolta insopportabile, chiede di morire. I lettori e le lettrici non si dividono in sostenitori e in detrattori, ma creano una zona di ragionamento, di necessità, di analisi intorno alla sofferenza fisica e psichica e intorno alla solitudine in cui ogni persona precipita.

Il libro vince il premio “Alessandro Leogrande”. Come il giornalista prematuramente scomparso, Sergio Ramazzotti non presenta solo un’inchiesta e non trasferisce solo dati. Mi confronto con una esperienza al limite, diretta e destabilizzante che allontana dogmi e certezze e rimette al centro il pensare assieme, chiedendo un sincero atto di coscienza. Con la scrittura, Ramazzotti, come Leogrande, apre, non risolve, interroga e problematizza, non racconta giudicante le scelte degli altri, ma chiede a se stesso di riconoscere la paura, la rabbia e la certezza della libertà.

Cadute le grandi narrazioni e gli specialismi esasperati, l’autore propone il pensiero dell’esperienza senza ideologie. La quotidianità diviene un laboratorio di cambiamento in cui Sergio Ramazzoti offre la voce e la parola alle ombre, ai margini, alle periferie, agli scarti di una umanità destrutturata.

“… oggi per legge si può aiutare a morire solo chi è sano di mente, ma può dirsi sano di mente uno che desidera morire?” p.151

“Un letto d’ospedale è una trincea, un luogo dove dal paziente ci si aspetta che combatta. Eppure, a differenza delle trincee, quando comincia a desiderare la morte lo si taccia di viltà: da lui si esige che compia atti di eroismo, che non perda il buonumore, che fino alla fine sia d’esempio ai propri cari e addirittura li sostenga nel dolore che essi sono costretti a provare.” p.157

Ogni persona parte da se stessa e arriva all’incontro con l’altra-da-sé in una relazione che gira intorno e va in profondità. Non si tratta semplicemente di decidere da che parte stare, ma di allargare la visuale chiedendomi della solitudine, della fragilità della mente, dell’onnipotenza e dell’efficienza a cui mi sento condannata, dello spettacolo e dell’esposizione di me a tutti i costi.

Come Leogrande, Ramazzotti appartiene al più sano giornalismo, utilizzando il potere delle parole di chi non idolatra il potere.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    27 Settembre, 2019
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Ogni viaggio è amore

Forse la follia che ogni essere umano si porta addosso come una possibilità, serve a conoscerci fino in fondo, a capire, a sapere davvero. Infatti, crescere è una malattia insanabile. Laura Pariani, con una scrittura abile e coraggiosa, ricorda Dino Campana, un genio pazzo, arrabbiato e triste, rinnegato ancora dai programmi scolastici e ritrovato nella solitudine delle letture intime.

Il Poeta viene rinchiuso dal 1926 al 1930 nel Regio Manicomio di Castel Pulci, un inferno di attenzioni speciali e pratiche inumane. Ripercorriamo il destino di pazzia e di poesia: una opportunità per ripensare ad una vita folle e alla follia vitale. Il dottor Carlo Pariani è lo psichiatra che ascolta il Poeta raccontare di viaggi, di amori, ascolta la storia in cui la realtà e l’immaginazione si tessono nella trama dolorosa del disturbo mentale. Il romanzo è il racconto a capitoli ed episodi di un viaggio in Sudamerica con la testa persa a fantasiare e a sentire il tremolìzio come voci di potenze invisibili. Che il vagabondaggio ricordato, a piedi o su mezzi di fortuna, sia accaduto o meno, per chi legge non ha alcuna importanza.

Il viaggio chiamato amore testimonia che la poesia ha una relazione diversa e privilegiata con la realtà. Laura Pariani modera la voce per facilitare un percorso doloroso con il corpo, con la mente, con il cuore. E cos’altro è viaggiare se non tornare diversi, con l’occhio esercitato a vedere altre prospettive? La parola di poesia (non il poetico tout court) è sempre reale ed è sangue, lacrime, sudore, è acqua trasparente di fonte ed è torbida pozzanghera, pensiero vivo di morte.

Quello che ci rende schiavi può anche liberarci (p.173): la libertà è intesa come l’esercizio del pensare in autonomia, del godere di ogni volto, di ogni storia, come la possibilità di ogni essere umano di generare significati e valori, anche attraverso l’irreparabilità della morte. L’ombra è sempre espressione di una luce. Lo scarto e la spazzatura raccontano la disciplina alimentare. L’escluso e il nemico portano il nome delle paure. Le periferie e le trincee disegnano la tristezza dei limiti mentali e il bisogno di uno sguardo che si protegge con un orizzonte certo. Le follie tradiscono il desiderio di contare, in ogni caso, sulla relazione. Attraverso la lettura del romanzo, ci tocca ascoltare e ringraziare perfino il nostro diavolo custode.

Dino è profondamente consapevole che le parole a volte giocano brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà… (p.85)

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    15 Settembre, 2019
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Il luogo dell'intimità

Questa riflessione origina da una storia d’amore, da un piccolo libro che racconta la relazione difficile, anche a causa della prima guerra mondiale, di un uomo e di una donna. Il racconto è centrato su un pensiero fondo e suggestivo: ogni persona interiormente scopre e difende la terra di nessuno, il luogo della indissolubile intimità con il proprio nucleo. Ed è grazie alla no man’s land che custodiamo la potenzialità dell’amore.

La scrittrice nasce a San Pietroburgo nel 1901 ed emigra negli Stati Uniti vivendo lo spaesamento dei transfughi dalla Russia rivoluzionaria. Soprattutto la relazione come confidenza con se stessi è il tema ricorrente nei suoi romanzi. Le storie di coppie diverse rimandano, in ogni modo, all’indagine psicologica di ogni personaggio e alla necessità di riconoscere e mantenere la libertà nell’amore.

“… se permettiamo a qualcuno di organizzare la nostra no man’s land, alla fin fine, secondo logica, arriveranno a rinchiuderti in una lussuosa camera di un lussuoso albergo, e bruceranno i tuoi libri, e allontaneranno da te tutti quelli che ami. Basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto…” (p.77)

Trasformare se stessi in un giunco, questa è la benedizione: l’elasticità, la capacità di dondolarsi nella realtà che va presa in carico senza la pretesa di cambiarla. Il giunco si propaga con i rizomi sotterranei, è molto resistente e difficilmente viene attaccato dai parassiti, come le coscienze di chi provvede in tempo ad indagare e a capire la sua terra di nessuno, no man’s land.

Nella vicenda narrata, a Parigi, a Stoccolma, a Venezia, per tutta la vita, assistiamo alla dignità degli addii. I due amanti dichiarano il desiderio di rimanere assieme e la necessità storica di andarsene. E infine, navigando verso il nucleo di sé, nei sotterranei dell’anima, si dissolve l’urgenza dell’incontro e la relazione esprime proprio nell’assenza la sua più sottile e complessa presenza.

Nella vita, tre volte finora ho sperimentato la straordinaria assenza di relazioni cave, radicate, arcane. Essa non é mancanza, ma è assoluta essenzialità: io so e tu sai. Non abbiamo nulla da dirci, dichiara l'abbandono peggiore ed è, invece, la migliore intimità possibile. Penso, attraverso il romanzo, ad un'etica del non incontro. Rilevo l’immobilità dell'assenza a causa di una eventualità di presenza totalizzante ed eccedente. Più sottile e profonda è, sempre, l'assenza dell’altro che rivela il mistero della vicinanza a se stessi.

Berberova indaga con dolcezza e con determinazione il canto che lega indissolubilmente l’amore e la solitudine, il dolore e la giustizia, la realtà e il desiderio. Così, la relazione può continuare ad esistere, a prescindere dalle scelte obbligate della storia, nell’incontro doloroso e gioioso con le proprie viscere. Consapevolmente e autonomamente.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Settembre, 2019
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Relazioni attese

Serve la sapiente scrittura di Lidia Ravera che non molla mai chi legge, serve ad alzar la voce, come racconta Emma, la protagonista femminile del romanzo ultimo della Scrittrice con la quale, annualmente, ho appuntamento dall’adolescenza. Esistono amori che finiscono solo per quegli esseri umani che non si interrogano, che non approfittano delle situazioni anche dolorose per avviare un'indagine psicologica. Per se stessi, gli amori durano, anche se non ci si frequenta più. Durano perché quello che io sono diventata ha origine, anche, in quell'amore che combacia.

“La gente ha un cattivo rapporto con la tristezza, la vuole schiacciare sotto il tallone dei buoni propositi come un insetto nocivo, la vuole estirpare come un’erba infestante. Ma io no. Io ci tengo a questa tristezza riparatrice, la custodisco dentro di me, in una teca di vetro resistente alle interferenze esterne. E non permetto a nessuno di manometterla. Non intendo procedere per cancellazioni, io. Preferisco di gran lunga soffrire.”p.235

L’amore dura perché c’è la necessità, prima o poi, nella vita, di riflettere sulle situazioni, diverse, che ci hanno consentito di divenire ciò che siamo. Ci vuole energia. Permettere a se stessi di incontrarsi con le luci della gioia e con le ombre della responsabilità, magari non assunta pienamente quando serviva. Bisogna perdonarsi per non aver capito in tempo, per la fretta, per l’onnipotenza.

Ad un certo punto di vita c’è uno strappo: è quello il momento giusto per recuperare la propria origine e procedere con generosità verso i giorni nuovi. Proteggersi è operazione da grandi. E allora c’è davvero la possibilità di “rivivere… riassaporare” con uno sguardo consapevole. Emma e Carlo si innamorano a 16 anni, nel 1968, al tempo dei primi femminismi. Si sposano a 26, si separano a 36, si rivedono, lasciandosi andare a 46. A 56 anni, dinanzi al rischio di non vedersi mai più, vivono la libertà accogliersi per quello che sono.

“Ma io no, non ero contenta. Non sono contenta. Perché quando la storia che racconti rispecchia la nostra vita di rivoluzionari sedicenni mi sento usata e quando se ne discosta per concedere allo spettatore un po' di sana “action” mi sento defraudata della complessità dei miei ricordi.”p.49

Il tempo non trascorre invano e illumina l’identità dell’amore che è stato, rivelandolo in tutte le sue possibilità. Talvolta, gli amori giovani finiscono perché ciascuno dei due ha bisogno di uscire dalla simbiosi, di apprendere l’indipendenza, di sperimentare l’ebrezza di cadere liberamente senza trovare, sempre, il sostegno. Chi trattiene l’amore, non lo rivela mai pienamente. A tutte le Emma e ad ogni Carlo, l’abbandono serve ad incontrare se stessi e a vedere l’altro per quello che è, nella meraviglia di una fragilità senza magie e senza proiezioni personali.

Nel romanzo, il finale è senz'altro bellissimo e non ne chiederei un altro sottotono. Ma, in fondo, il finale da favola c'è sempre perché se mi vedo, vedo l'altro luminoso. L'amore dura perché gli uomini, come Carlo nel romanzo, talvolta, tornano. Quelli che se ne erano andati davvero, tornano. Carlo decide di capire, oltre l’orgoglio e “l’inconsapevolezza assoluta degli uomini belli, che non hanno bisogno di essere belli. E perciò diventano ogni anno più belli.”p.115

L’autonomia di sé si impara, attraverso le relazioni che innamorano ma che, anche, annoiano, mortificano, tradiscono perché la liberazione, di sé per prima, necessariamente conosce, misura e abbandona le catene che frenano e che impediscono l’evoluzione. E la libertà autentica, acquisita attraverso il dolore e la fatica della conoscenza, è un bene anche per l’altro.

“Come si pesano i pensieri? Quali sono i pensieri pesanti?” “Quando ti senti addosso la responsabilità della felicità degli altri, del loro benessere, quando ti sembra di non aver fatto abbastanza o di aver sbagliato… dacci un taglio. Non rimuginare su quello che è stato, che avrebbe potuto essere o che sarà.”p.354

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    08 Settembre, 2019
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Tululù, parte di ciascuna

Che incontro inaspettato e dolce, questo romanzo sottovoce e questa Matilde, soprannominata dalla sua stessa madre, segnata da un nomignolo che si manifesta come un programma di vita inevitabile: “…Tululù vuol dire ingenua, anche stupidina…”

E penso ad ogni donna che, in situazioni diverse, mi appare come Tululù. Per esempio, quando si fida senza verificare la realtà. Quando scusa gli altri mentre la offendono perché loro, in fondo, sono in buona fede. Ogni volta che si riserva l’ultimo posto e, in ogni caso, mai il primo. Quando sceglie di essere remissiva ad oltranza, e si accontenta, e aspetta, stanca ma sempre pronta a servire. Quando pensa che le ambizioni sono troppo grandi, tutte. Quando è in soggezione e preferisce obbedire.

“… non sapeva dire le preghiere come si doveva, ma solo con sospiri e divagazioni, insomma a modo suo.” p.16
“… per chiedere alla Madonna che non cambiasse niente in peggio, non certo per chiederle qualcosa di meglio.” p.54

Tululù prega con purezza, ama e difende il suo amore a prescindere, non chiede, urla disperata e gli altri credono che sia isterica. Tululù salva inutilmente il mondo, oppure è vittima seccante e ridicola, o, ancora, è persecutrice lagnosa o dispettosa. Fare Tululù è scusarsi di esistere, di essere così come si è e non un’altra. Più che una donna singola, Tululù è una parte di tutte le donne, rappresenta un momento di vita che tutte attraversano, una tappa di evoluzione obbligata verso la consapevolezza di sé.

“Matilde non si era mai accorta di essere avvenente, né aveva mai pensato alla propria persona come a qualcosa che potesse colpire qualcuno, ma visto che la Signora, che era la sua padrona, non poteva sbagliarsi, a quelle parole era rimasta turbata. Solo per poco, s’intende. Perché interessarsi di se stessa proprio non poteva, quando a questo mondo c’erano secondo lei tante cose e persone per le quali adoperarsi che lo meritavano di più.” p.13

Ma Tululù è anche lo sguardo di meraviglia, l’ingenuità della interazione. È la pacifica soglia, il rimanere senza l’urgenza di abbandonare, è fidarsi perché la speranza è l’ultima a morire. È il tempo della suggestione, la sindrome di Stendhal. È l’accorgersi stupìta di quanta acqua c’è nel mare, come se lo si incontrasse per la prima volta, è lo sguardo sognante, il pensiero che si vedrà, che chissà, che forse…

Non si tratta di fingersi scema per non confliggere con l’altro, o di essere davvero scema per chissà quali difetti neurologici. Invece, penso che sia una conquista vivere con coscienza anche la parte meno brillante, più modesta e sottotono di sé. Tululù, in fondo, sono io, nell’ombra o nella parte cieca, così diversa dal personaggio dipinto da Stelio Mattioni e così uguale. Come Tululù, svelando la parte tenera cinestesica, misuro la libertà mia e dell’altro, guardo la differenza e me ne faccio carico, patisco la distanza e registro le ragioni. E, allora, accetto che non dipende da me e che non posso farci nulla. E che va bene così.

Da quando si era sposata, Matilde si sentiva veramente felice: un marito era stata la prima cosa che aveva avuto di suo, e perciò le pareva di aver raggiunto il cielo, o di trovarsi almeno in una sua succursale in terra. p.11

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    31 Agosto, 2019
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Relazioni di padri e figli

Ogni persona ferita dal dolore della perdita e dell’assenza avvia naturalmente un percorso di consapevolezza. La morte è un’opportunità di vita e Giulio, il protagonista trentenne di questo romanzo, ritorna a Berlino per seppellire suo padre e ripercorrere il cammino di relazione, per domandare e per capire.

Nelle pagine finali l’autore raccomanda: questo romanzo è opera di fantasia… tratta di temi come il fallimento, la morte del padre, la dissoluzione della famiglia, l’amore per i figli, il dolore del distacco, l’impossibilità di fare davvero i conti con la nostra finitezza, l’egoismo insito nella nostra stessa natura, il ritorno vero o presunto di ideologie che hanno segnato il Novecento, la linea d’ombra che separa il Bene e il Male.

Leggo una storia violenta e tenera di uomini irrisolti fino a che non si donano il permesso di perdonarsi e di perdonare. È la paura dell’essere solo e abbandonato, è l’angoscia della morte, che Giulio riconosce dinanzi al rischio di un padre sicuramente maniacale e forse pure filonazista. Fra i libri e i documenti ritrovati, il giovane scopre l’inspiegabile passione paterna per il nazionalsocialismo e, in generale, per le proposte hitleriane. Cosa è accaduto perché un uomo libero, colto, brillante, intelligente si sia così tanto appassionato agli ideali populisti di estrema destra? Ma davvero senza Hitler e il nazionalsocialismo, Furtwängler non avrebbe mai diretto magistralmente quel concerto? Ma, in un regime totalitario, davvero vale l’idea di poter salvare qualcosa?

“Per questo sono arrivato alla conclusione che per eseguire la Nona Sinfonia nel solco del pur inarrivabile Wilhelm Furtwängler, sia assolutamente necessario ancora oggi studiare, anzi immergersi, in Hitler e nel Nazionalsocialismo. A partire dalla celebre biografia dello storico Joachim Fest.” p.56

La depressione prevede sempre l’impossibilità di perdere e di fallire, la necessità di tener duro, come ricorda il tatuaggio sulle dita del maestro d’orchestra. Un papà, Federico Rallo, che piangeva troppo e che si deprime nello sforzo di calare se stesso e la sua orchestra nell’epoca storica in cui Furtwängler diresse la Nona sinfonia di Beethoven, nell’aprile del ’42, in onore del compleanno di Hitler. Nella proposta del padre che vive in solitudine a Berlino, avendo perso il posto di lavoro, l’esistenza è registrata come una guerra in cui i traditori si condannano a morte ed in cui è bene non sposarsi mai e non arrendersi e resistere e considerare il Trionfo della Volontà. Il maestro Rallo crede nella “freddezza del grande giocatore d’azzardo”, nel “duro e intrepido sfidare il destino”, nella risolutezza senza fragilità e nella magica irresistibilità. Crede in un uomo che non ha mai capitolato e che insegue la perfezione e l’unicità escludente: insomma, segnala un paranoico.

“Il nazismo non tanto come dottrina politica ma come… concezione dell’esistenza.” p.107

Ed è questo sguardo a preoccuparmi: la visione di mondo e di vita, la weltanschauung drammaticamente chiara. Non mi scappa di fare la psicologa, ma questa è un’epoca in cui non è opportuno coltivare ingenuità storiche e scelgo di offrire una possibile chiave di lettura che ritengo essenziale, non certo l’unica. Non si tratta di demonizzare e liquidare velocemente le dottrine politiche che sostengono presunte superiorità e obbligate sottomissioni, semmai di capire la follia del potere nei primi atti e fermarne la deriva, innanzitutto, nella propria coscienza.

È una lettura che mi rende inquieta con le presenze richiamate: Hitler, Goebbels, Heydrich, Göring, seduti in prima fila nelle foto e nel romanzo. Uomini feroci perché matti. Ai lati le bandiere con la svastica. Ovunque. E un popolo tedesco vittima perché carnefice.

Nella storia narrata, i protagonisti sono meravigliati e ben disposti per l’affetto che i carnefici tedeschi mostrarono nei confronti dei loro pargoli e per l’attrazione e l’apprezzamento manifestate verso le forme artistiche. Il paranoico criminale, certo, può apparire come un genitore affettuoso e un amante dell’arte e pareggiare le tenebre della coscienza profonda con le luci abbaglianti di una ideologia salvifica. E, a questo punto, per chiarire lo scenario, è necessario richiamare alla memoria, brevemente, la paranoia definita come una psicosi caratterizzata da diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri che iniziano nella prima età adulta e che sono presenti in una varietà di contesti. La paranoia rimanda ad una forma di schizofrenia caratterizzata dalla presenza di uno o più deliri o di frequenti allucinazioni uditive. La costruzione delirante subordina tutta l’attività psichica ai propri fini e la quotidianità ne viene irreparabilmente contaminata. I deliri si rivelano relativamente coerenti, logici, relativamente plausibili nella loro forza macabra di convinzione. (1)

Ora, il cave canem è nel dubbio che i totalitarismi possano proporre, in fondo, anche ideali buoni o produrre opere d’arte! La malattia mentale non può essere venduta o sdoganata e accettata dalla massa come scelta politica. Il dittatore di turno cade e perde non perché ha osato scelte che si sono rivelate fatali, ma perché l’evoluzione della malattia ha seguito il suo corso. Il precipizio psicologico e antropologico è la patologia e non le scelte che eventualmente ne conseguono. Gli oppressori sono paranoici e, di conseguenza, se non fosse accaduta una vicenda mortifera ne sarebbe accaduta un’altra che ne avrebbe interamente manifestato il delirio. La generalizzazione e il relativismo sono presupposti pericolosi e nulla condividono con la prospettiva sana della complessità che trattiene in sé gli opposti, il bene e il male, l’ombra e la luce, la gioia e il dolore, il fallimento e la rinascita, la creatività e l’inquietudine psicologica.

Il cuore e la tenebra è un romanzo di formazione che avverte l’urgenza di indagare nella relazione fra padre e figlio, come da molti anni, la letteratura e la psicologia studiano il rapporto fra madre e figlia. Attraverso questa storia, sono contenta di aver avviato una riflessione che mi sta a cuore anche come cittadina e come formatrice. Con l’incontro in presenza, Giuseppe Culicchia si conferma persona e scrittore di adultità e di coraggio che non si sforza di trovare soluzioni, ma consente di incamminarci sulla via che dalla comprensione porta all’assunzione della responsabilità e alla rinascita. Auguro più che mai ad ogni lettrice e ad ogni lettore di questo libro, il pensiero critico e il discernimento, oltre alla capacità di accogliere storie complesse e di custodirne il mistero.

(1) DSM, Diagnostic and statistical manual of mental disorders

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Romanzi autobiografici
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    20 Agosto, 2019
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L'estraneità di sè

Se la riconoscenza è la memoria del cuore, allora apprezzo questo romanzo che è grato alle storie passate e le illumina con gli occhi adulti da giovane di Claudia Durastanti, scrittrice, traduttrice, saggista e organizzatrice di eventi culturali. Il lavoro svolto dimostra il carattere attivo e volontario della memoria. Il futuro non può solo tenere a bada il passato che ringhia se rimane rinchiuso; le tracce recuperate attraverso i ricordi muovono il pensiero e la capacità di giudizio.

Leggendo il romanzo “La straniera” consento agli sguardi, alle parole, al sapore, agli odori dei diversi luoghi di attraversarmi. Da lettrice, recuperando le conoscenze passate, consegnate all’intelligenza e al cuore, amplio la consapevolezza del vissuto presente. Aggiungere prospettive e chiavi di lettura è l’esercizio della responsabilità e della libertà.

Carver definisce l’autobiografia come la storia dei poveri. Ma un’autobiografia non si scrive a 35 anni. L’autrice realizza un’opera che è diario e romanzo assieme in cui, non vincendo la cronologia, come in un puzzle ben assemblato, la dispersione diviene man mano unità. Il racconto non prevede l’analisi psicologica del profondo, non è sublimazione, ma è presa in carico della realtà. Non catarsi, ma appropriazione. Non denudamento, ma scelta letteraria descrittiva.

Penso ad una pratica psicologica della estraneità per garantire l’appartenenza a me stessa mentre cambio continuamente. Sentirmi estranea rimanda al dolore necessario dell’intimità che consente, in seguito, l’ironia. La precarietà, l’instabilità, l’ombra, l’errore, l’inciampo, la rottura, non sono il male, semmai rappresentano la condizione necessaria di migrante, di naufraga, appunto, di estranea, vicina e lontana, dentro e fuori.

Dare senso alla memoria vuol dire offrire significati ai fatti del passato e riconoscere la direzione del desiderio. Coscienza e orientamento, identità ed estraneità non sono poli opposti: l’io siamo noi e ciascuno si va definendo come persona nella relazione che accade. Esiste una lingua tutta intera, impenetrabile e intraducibile e poi ascolto una lingua “tutta rotta”, come nella famiglia di Claudia Durastanti, e scopro la lingua parlata e la lingua dei gesti, non dei segni, la lingua che cura, la lingua dell’esserci come presenze fondanti. L’idea delle radici o delle spore, come afferma la scrittrice, prevede la stanzialità e, anche, la possibilità del nomadismo. Ritrovo il senso del cammino in chiave iniziatica; è andando che si apprende di sé, oltre che dello straniero.

La democrazia mette insieme le diversità e crea una volontà collettiva unica, rendendo la differenza un bene collettivo. La visione democratica non si riduce alla legge della maggioranza: promuovendo la produttività del conflitto, rispetta le minoranze e utilizza in maniera feconda la prospettiva di ognuno. La tessitura delle diversità è un lavoro complesso che presuppone la scelta della pace e del dialogo. L’interdisciplinarità e la contestualizzazione sono necessarie: farsi mondo, come apprendo dal romanzo, nei luoghi e con il prossimo, significa scrivere la storia. L’autonomia si nutre di multiple dipendenze e l’autonomia mentale ha bisogno di dipendere da varie conoscenze ed è da queste basi che è possibile sviluppare un pensiero libero. Una cultura è tale perché integra culture straniere, opera métissage, sintesi.

È evidente nel romanzo il lavoro di ricerca sulla forma e sullo stile, infatti il testo rimane essenzialmente letterario ed esprime l’originalità nella capacità di combinare il diverso. Il libro è strutturato come le voci di un oroscopo, a parte i grandi temi della classe, della diversa abilità e dell’educazione culturale, ritrovo il lavoro, l’amore, la famiglia, i viaggi, la vita raccontata con ironia in Lucania, a Brooklyn, a Londra. Mi è caro questo romanzo perché è così che si fa per diventare adulti, in ogni età, andando indietro e tornando nel presente, capendo e perdonandosi. È il caso di essere gentili, ogni persona ricorda e racconta una storia.

“Tempo fa, l’ecologista Suzanne Simard ha dimostrato che la foresta è un sistema cooperativo e gli alberi “parlano” tra loro per scambiarsi sostanze nutritive o rilasciarle in caso di minaccia: quando scoppia un incendio, gli alberi usano i mycorrhizal fungi nel sottosuolo affinché trasmettano delle sostanze vitali alle specie più giovani attraverso una fitta rete neuronale in modo che le piante più deboli possano andare avanti.” p.34

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Storia e biografie
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    11 Agosto, 2019
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Conflitti d'arte

Qualche giorno fa, presentando la sua ultima pubblicazione MoranteMoravia edito da Neri Pozza, ho conosciuto Anna Folli, giornalista mite, scrupolosa e di affinata sensibilità.

Dalle prime pagine capisco che questo libro è costato studio, ricerca, interviste difficili, visite in luoghi diversi. Ogni capitolo esprime l’interesse onesto e riservato per Elsa Morante e Alberto Moravia. Non c’è voyerismo, non c’è l’urgenza di guardare dal buco della serratura le vite di due geni. Riconosco una scrittura di rispetto e di gentilezza che svela una storia d’amore attraverso venticinque anni di storia d’Italia: il fascismo, la guerra, la ricostruzione, la comunità degli intellettuali.

Durante la lettura sono concentrata e commossa e mi avvicino in silenzio ad ascoltare la coppia dei contrasti: Elsa e Alberto, legatissimi e liberi, nati in contesti familiari diversi, complici e nemici, dannatamente entusiasti e felici. Una relazione tormentata contro la noia che esprime la meraviglia del pensiero custodito prima e, dopo, condiviso.

Il percorso nei sotterranei dell’anima è sempre doloroso. Gli amanti della letteratura intuiscono che procedere significa andare indietro, in fondo, a recuperare le origini, a cercare nelle visceri le ragioni della vita e delle relazioni. Il sentire profondo sperimenta il paradiso e l’inferno, la benedizione e la maledizione, il dolore e la felicità. Coloro che decidono di vivere sprofondando nella coscienza non scelgono il masochismo, ma la libertà. L’assoluta passione per la letteratura non rappresenta solo un incastro nevrotico, ma diviene respiro unico di due anime oltre la quotidianità e la morte, angosciate e gioiose, a capire la profondità, l’abisso dell’esserci. Coloro che credono si condannano e condannano il prossimo agli inferi: così, i poeti e le poete, così per chi è scelto dall’arte.

Rivedo Elsa e il suo volto di gatto, come ricorda lo scrittore Raffaele La Capria. Elsa che ama i bambini, il mare, i gatti, in quest’ordine. E che per tutta la vita assume la parte della donna folle e geniale, a rivendicare le sue idee. Solo una donna timida, salutando Moravia la sera del loro primo incontro, può lasciare scivolare nelle sue mani le chiavi della propria casa. Rigore e fantasia, sogno popolare e sogno di principessa, autonoma e assoggettata, talvolta, Elsa sembra davvero richiedere relazioni simbiotiche:
“… io vorrei disperatamente essere te per essere te” (p.49)
“Alberto mi fa venire le rughe e io a lui faccio venire gli attacchi” (p.59)

Moravia è sistematico nella scrittura, Morante cerca l’incantamento e l’ispirazione. All’inizio della loro vita assieme, si scambiano l’unico tavolino per scrivere, lui di mattina, lei di pomeriggio. Moravia racconta: “era più facile pensare di ucciderla che separarsi” e l’accusa di non saper stare al mondo, le rimprovera di non essere mondana né diplomatica. Sempre, però, riconosce l’eccellenza di Morante in letteratura. Lui cerca donne autonome, intelligenti, giovani e, soprattutto, innamoratissime e si rivela un uomo simpaticissimo che adora mangiare in compagnia.

Fra Elsa e Alberto riscopro il linguaggio della notte, intimo e feroce che non può sopravvivere alla luce senza risultare inadeguato, eccessivo. E la profondità invecchia, fa sentire pesanti, aggravati da tutto il rumore e il dolore del mondo. Elsa parla della pesanteur come il suo difetto principale, “la pedanteria, il bisogno di dare giudizi definitivi, l’incapacità di dimenticare e di dimenticarsi” (p.220), il dubbio, l’insoddisfazione, la pretesa d’assoluto.

Nelle pagine scorrono i luoghi, i viaggi, le relazioni amorose, gli amici e le amiche, la natura e gli animali, la guerra e la fame, la malattia, i conflitti e le urla, la vita da bohème, il rapporto con la maternità e la paternità, una genitorialità diversamente espressa, la frequentazione di pittori e scrittori nell’ambiente culturale romano. Il dopoguerra è anche il tempo vivacissimo degli artisti e degli imprenditori che si incontrano creando un mondo di idee. Nel 1947 nasce il premio Strega e nel 1953 Adriano Olivetti finanzia la rivista Nuovi Argomenti che accoglierà presenze significative.

L’invito, dopo questo libro, è a rileggere gli scritti di Morante e di Moravia per capire di più, esercitando, magari, il diritto al bovarismo che racconta Daniel Pennac: il diritto a emozionarci, a lasciarci prendere dalla storia. Il diritto a piangere, a sorridere e ad analizzare, se è il caso, perché i libri ci salvano la vita riconsegnandocela ricca di prospettive diverse. Grazie ad Anna Folli, io spero nel contagio del bovarismo come una malattia benedetta.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    04 Agosto, 2019
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L'attesa

Quanti anni compie un desiderio perché non si trasformi in una fantasia delirante? E chi stabilisce il limite fra la giusta aspettativa e l’inizio della follia? Ne Il deserto dei Tartari, il trentaquattrenne Dino Buzzati, racconta il sentimento dell’attesa che, infine, può ammalare con la previsione del proprio destino di successo, con l’ostinazione nel sogno di un evento che possa dare senso, finalmente, alle rinunce di una vita.

Rivedo qualche spezzone del film, messo in scena nel 1976 dal regista Valerio Zurlini. Un giovanissimo Jacques Perrin, nel ruolo del tenente Giovanni Drogo, aspetta una improbabile invasione nemica. La immagina, la visualizza, la prevede nell’organizzazione, quella battaglia che gli offrirà onore, riscatto, vittoria. Rinchiuso dentro la fortezza Bastiani, rinunciando a farsi una famiglia, a costruire relazioni gioiose, a scegliere le comodità di una casa, Giovanni è riconoscente alla sua vita militare perché, ne è certo, arriverà il nemico e combatterà e vincerà. Insieme alla battaglia, scoppierà la felicità tenuta a freno per così tanto tempo.

In realtà, la fortezza Bastiani, dal nome altisonante, è una modesta bicocca, vissuta come il luogo dell’avventura memorabile, dell’emancipazione e del prestigio. L’imperturbabile presidio militare è un bluff e il grande avvenimento e l’invasione nemica arriveranno troppo tardi e passeranno, insieme alla vanità di una vita eroica.

Anch’io ho avuto il mio deserto a cui fare la guardia e un nemico/salvatore da aspettare. Una frontiera che si affaccia sul nulla è un modo per restare ferma e il deserto inanimato e inutile continua ad attrarre perché in quel vuoto può accadere tutto, come può essere scritta qualunque storia su un foglio che rimane bianco.

L’attesa nella fortezza Bastiani attribuisce al tenente Giovanni Drogo uno statuto di superiorità. È nel futuro il risarcimento: così il nemico invasore che salva, acquisisce un valore fondamentale, non può non essere vero e non può che manifestarsi come nemico a cui opporre resistenza. Nel frattempo il giovane Drogo accumula diritti rispetto all’altro e alla vita. È un’economia psicologicamente povera: dipendo dall’altro che non si manifesta, accumulando crediti inutili di felicità, maturando il rancore vendicativo, perché sono io che li faccio esistere, i Tartari! La rinuncia e la sofferenza diventano merce di scambio perché la gloria sia meravigliosa.

L’essere umano che attende diviene nevrotico perché sposta sull’altro che non arriva la possibilità di godimento e di scelta vitale. È l’altro, ancora assente, il responsabile della mia angoscia. È nell’inconcludenza che posso vivere, e mi ostino a resistere. Se appagassi il desiderio, non soffrirei più e, però, mi sentirei in colpa. Chi o quello che non arriva, proprio con la sua mancanza, garantisce la mia esistenza e mi tiene tesa, vigile, irrequieta. Se non ci fosse, mi toccherebbe scegliere, assumere la responsabilità di decidere e di agire. Quando l’attesa, di qualcuno o di un evento, si lega al sacrificio, la frustrazione è assicurata.

Nella voce dell’Autore, riascoltata da adulta, intravedo un’altra prospettiva della speranza, della pausa, più in ombra e più consapevole. Se il tempo dell’attesa non fosse di ricatto e di sottomissione? Se, insomma, non fosse il tempo isterico che richiede la conditio: continuo ad aspettare solo se non arrivi? Se quel tempo sospeso non fosse perduto, ma si rivelasse come cifra di coscienza e di riappacificazione con se stessi? Forse ogni persona deve passare da quell’incantamento per giungere alla possibilità critica, al discernimento, dinanzi alla realtà. Il desidero è salvo ed è liberato dalle catene della patologia e può essere duraturo perché non è più legato all’apparizione dell’altro, al suo assenso, ma alla curiosità della coscienza, all’approfondimento del proprio copione.

Se l’appuntamento atteso è con l’esistenza, allora, non c’è battaglia, e riconosco la riconciliazione armoniosa nell’utilizzo del tempo e dello spazio concessi per completare l’opera prevista che io porti a compimento. La relazione ricattatoria si risolve con la scelta e la certezza del dono. Non sono ostaggio di chi non arriva, ma faccio dono, innanzitutto a me stessa, delle ore di riflessione e di comprensione, attraverso quell’attesa che ha continuato a custodire apprendimenti che nessuno può portarmi via. Il conto torna.

Magari, l’augurio è accorgerci di quest’ultima prospettiva prima della vigilia della morte.

"Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. Non si erano adattati all'esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima." p.48

"No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare." p.201


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Agosto, 2018
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La consapevolezza del corpo

Il libro autobiografico di Roxane Gay offre, a chi legge e comprende la sua storia di sofferenza, la possibilità di riflettere sulla relazione che ogni persona crea, coltiva e si ritrova ad avere con il proprio corpo. Roxane è una donna colta e coraggiosa che confida la sua esperienza con parole dure, feroci, scritte sulla propria carne prima che sulla carta. Senza protezione, dichiara la violenza subita nell’adolescenza, un evento terribile che segna per sempre la sua esistenza. Ed io, ogni volta che ascolto storie di aggressione e di ferite incancellabili, spero che i disturbi psicologici che ne derivano possano essere curati. L’obesità può essere considerata una patologia? Con certezza, sì. I disturbi dell’alimentazione sono diversi e di varia origine.

La vicenda umana di Roxane ribadisce che l’obesità rimane un sintomo ingombrante di un percorso mancato, anche psicologico. Non credo al corpo solo e ribelle da addomesticare, ma credo all’essere umano tutto intero con una storia da desiderare e da riconoscere nelle ombre e nelle mancanze. Ci sono molte cose di cui aver fame, il cibo è più a portata di mano. Non si tratta di dimagrire e basta, ma di farsi carico della possibilità sana di abitare il mondo perché ne siamo degni, con tutte le contraddizioni che ci abitano. Non guardo con ossessione al risultato della dieta e che, talvolta, può risultare nullo o minimo. Accolgo l’orientamento dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che fa riferimento alla salute come ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l'individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive ed emozionali, di esercitare la propria funzione all'interno della società, di rispondere alle esigenze quotidiane, di stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, di partecipare costruttivamente ai mutamenti dell'ambiente, di adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.

Qualunque malessere psicologico necessariamente coinvolge e si esprime attraverso il corpo. Roxane Gay annota, ricorda con precisione i sentimenti, i comportamenti e le riflessioni durante la sua vita. Ha un corpo, ma lei stessa è quel corpo. Nessuno può affermare di avere una malattia senza accettare di essere, anche, diventato quella malattia. “… perdere peso, essere magri è moneta sociale corrente” afferma Roxane. Scelgo di avvicinarmi ad ogni persona in sovrappeso e obesa evitando le generalizzazioni. Un fatto è la stupidità della cultura dominante che impone la magrezza, altro problema è il peso in eccesso che ammala e che cancella la gioia di vivere. La scrittrice, spesso, confonde la questione estetica e la necessità fondamentale di prendersi cura del proprio corpo, prima, e di intervenire con le cure, dopo. Se la misura è la perfezione – ogni delirio culturale ne costruisce e ne vende una – siamo tutti e tutte inadeguati/e. Se invece la misura è la dignità dell’esistenza, siamo tutti legittimamente umani.

Non ci liberiamo velocemente e meccanicamente dai chili in eccesso e dalle cicatrici. Ogni persona può affermare di essere quella che è riconoscendo anche la sua ombra. Attraversati dall’esperienza, ogni donna e ogni uomo riconosce di andar bene così com’è e decide, se vuole, di cambiare vecchi pensieri e abitudini obsolete. Il corpo non è la croce alla quale è inchiodato l’essere umano e non è il tiranno che ci sfida. Apparteniamo ad una umanità diversa, colorata, fastidiosa e bisognosa di accudimento. È l’esistenza stessa che percepisce la gioia attraverso la corporeità, attraverso il sentimento, il pensiero e l’azione della carne. Il corpo è la comprensione della persona che cambia, che invecchia, che apprende.

Forse, naturalmente con l’età si arriva a volersi bene di più. Un percorso di coscienza e di conoscenza può agevolare, può anticipare e cristallizzare la rinascita. È dura. Essere donna, nera, obesa e custodire il segreto di uno stupro a 12 anni: è la realtà. E facendosi carico di essa, ogni Roxane può scegliere di evolvere, di diventare, di capire, di dare una lettura possibile ai fatti. Ha un senso, la realtà, sempre, e bisogna che ognuno per sé trovi quel senso. Quando si acquisisce una buona relazione, una confidenza onesta con se stesse, tutte intere, il corpo sa ciò che gli fa bene e chiede e basta solo ascoltarlo, basta sintonizzarsi sul bisogno che si svela in modo chiaro. Senza sacrifici disumani, senza ingaggiare guerre fra la mente, l’anima e la carne.

Roxane afferma: “Ho deciso che non permetterò al corpo di dettare le condizioni della mia vita, perlomeno non tutte. Non mi nasconderò dal mondo.” Io sono convinta che il corpo non può rappresentare la parte malata di una persona. Il corpo, a 20 anni, come a 40 e a 60, certo, detta le sue condizioni. Non esiste un’altra Roxane, un’altra Me. Non credo si tratti di essere più o meno amati o innamorate per salvarsi dal sovrappeso. Dubito che dal sovrappeso e dall’obesità ci si possa salvare assumendo la convinzione di un corpo avverso, nemico, barricato nella ciccia. Invito a non violentarsi, evitando di perpetuare lo stupro su se stesse. È bello convincersi in ogni età della vita che è fondamentale l’equilibrio fra il sonno, l’alimentazione, la sessualità, intesa non solo come rapporti sessuali più o meno amorosi ma, soprattutto, come la confidenza affinata con il corpo e la cura di esso. È il ruolo della guida psicologica: la rabbia, la tristezza e la paura non sono sfidate e rancorosamente negate, ma sono riconosciute e accolte, in modo da diventare una guida per la rinascita.

Grazie, Roxane, per la fatica di questa testimonianza scritta.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    07 Agosto, 2018
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Faites le jeu, messieurs! Faites le jeu, messieurs

Faites le jeu, messieurs! Rien ne va plus? È la voce del cerimonioso croupier, amico d’inferno, testimone impassibile di derive umane che oggi è sostituita dal rumore musicale delle macchine.
Mi occupo di prevenzione e nel territorio ampio di questa rimango. La riflessione psicologica e culturale che propongo non è risolutiva, precede ma non corrisponde al lavoro clinico e psicoterapeutico.

Fëdor Dostoevskij è il maestro: egli ricerca la verità assumendo come guida l’errore. Lo Scrittore russo spende la sua vita a cercarne il senso, è un moderno ed evoluto ulisse, slegato, con i sensi pericolosamente attivati e rapito dinanzi al richiamo di immortali sirene, nella possibilità di perdere. Quindi, condannato ad essere mortale e libero. Ha già vinto e con lui vince ogni essere umano nella tensione alla conoscenza e nell'affondo della coscienza turbata.

Forse, oltrepassando una tal quantità di sensazioni, l’anima non si sazia, ma ne è solo eccitata ed esige altre sensazioni, via via sempre più forti, fino allo stordimento finale. (Dostoevskij:192)

L’Autore è costretto a firmare un contratto capestro con l’editore Stellovskij e, grazie all’aiuto di Anna Grigor’evna Snitkina, la stenografa a cui detta in ventotto giorni il testo de Il giocatore, riesce a consegnare il nuovo romanzo. Non riesce, invece, ad allontanare il demone della roulette, del biliardo e delle carte. La febbre, il delirio, l’attacco isterico: ogni situazione è marchiata dal gioco e l’arbitrio del caso e la sete di rischio diventano la misura di tutto. Il processo del gioco, nelle azioni ormai convulse, si impadronisce del pensiero, della pietà verso se stessi. Lo sguardo è ipnotizzato dalla roulette che gira, gira ed in ballo non è certo "la sregolatezza russa o il modo tedesco di accumulare denaro con un lavoro onesto" (Dostoevskij:p.75)

Apprezzo la traduzione del romanzo di Serena Prina, le parole per descrivere i numerosi personaggi, cretini in modo commovente, il “servitorame ossequioso” che usa il ricatto basato sul sesso, sul denaro, sulla calunnia. Il giocatore non è mai un giocatore e basta, non è mai un semplice scommettitore, è inserito in un contesto complice e nessuno più di Dostoevskij, inseguito dai debitori, ne ha analizzato i malesseri.

"Per quanto fosse ridicolo che mi aspettassi tanto dalla roulette, mi sembra che sia ancora più ridicola l’opinione comune, da tutti riconosciuta, che sia stupido e assurdo attendersi qualche cosa dal gioco. E perché il gioco dovrebbe essere peggio di un qualsiasi altro modo di far denaro, per esempio del commercio? È vero che vince uno su cento. Ma a me che me ne importa?" (Dostoevskij:58)

"Penso che mi siano finiti tra le mani all’incirca quattrocento federici in nemmeno cinque minuti. A quel punto avrei dovuto andarmene, ma in me era germogliata una sorta di strana sensazione, una specie di sfida alla sorte, il desiderio di darle un buffetto, di mostrarle la lingua. Giocai la massima puntata consentita, quattromila fiorini, e persi. Quindi, tutto infervorato, tirai fuori tutto quello che mi era rimasto, puntai la stessa somma, e persi di nuovo, dopo di che m’allontanai dal tavolo come stordito." (Dostoevskij:72)

Il gioco d’azzardo, in fondo, è una possibilità di vedere il mondo e di provare a possederlo. Credere alla sorte, sfidare la fortuna, fregare la povertà: il giocatore vuole conquistare tutto velocemente e non comprende la curiosità e la fatica dell’opera della propria esistenza da completare attraverso un percorso più o meno difficoltoso. Vuole vincere. E perde. Ha già perso prima del risultato perché non gode. Chi si diverte, può essere che vinca e che si allontani. Il giocatore, invece, rilancia, vuole strafare e i suoi occhi sono sbarrati su un nulla che fa le capriole. La sregolatezza, all’inizio, è solo una cattiva abitudine. Spesso, in origine, non è detto che ci siano malesseri psicologici ma solo voglia di eccedere, solo esagerazioni brillanti di un bulimico di vita, di un ubriaco di sensazioni forti. Bisogna prestare attenzione e rimanere vigili perché il processo del gioco si impadronisce di chiunque. Riconosco il piacere morboso di rendersi oggetto, schiavo di un’azione ossessivo compulsiva che porta il nostro Autore ad impegnare il cappotto e i pochi gioielli della compagna. Non può che ripetere l’atto della giocata, condannandosi in una foto statica dell’eterno presente.

"Io, certo, vivo in uno stato d’ansia costante, gioco le somme più piccole e aspetto qualcosa, faccio calcoli, me ne sto per giornate intere accanto al tavolo da gioco e osservo il gioco, persino in sogno vedo il gioco, ma con tutto ciò ho l’impressione di essermi in qualche modo irrigidito, come se mi fossi impantanato in chissà che fanghiglia." (Dostoevskij: p.221)

La Kamorka è il bugigattolo, il ripostiglio, la stanzetta in cui spesso i miserabili di Dostoevskij vivono anche mentalmente. Anche il giocatore contemporaneo ha la sua Kamorka, obbligandosi a rifugiarsi nello spazio esiguo che finisce per imprigionare il corpo e la mente, nell’attesa dell’evento eccezionale, sentendosi destinato ad una quotidianità fantasmagorica, sopra le righe. Il giocatore rifiuta il confronto con la realtà, la tiene a bada, si convince che deve piegarla. Al centro del processo che sottende la giocata ci sono sempre molteplici problematiche relazionali serie e irrisolte. Senza il governo di sé, il caso si impadronisce irrimediabilmente di ogni individuo.

Considerando gli scenari raccontati, forse, la condanna odierna delle sale da gioco può diventare una beffa, esprimendo unicamente una lotta di potere fra le parti che evitano la pre-occupazione, il preoccuparsi prima, del giocatore. La legge pare contro l’imprenditore, quest’ultimo, spesso, è contro lo psicologo, la chiesa è contro il peccato, tutti si esprimono contro tutti.

Chiedo nella discussione di uscire dalla logica binaria della giocata, del vincere o perdere, della contesa, del proibizionismo per evitare il meccanismo di difesa dello spostamento. Di conseguenza, a favore del pensare assieme, desidero ampliare la prospettiva che prevede solo l'ambivalenza del torto e dell'opposta ragione. Scelgo di accogliere una teoria e una metodologia di educazione Alla persona, verso e a favore di questa che preveda il divenire, il processo di ampliamento di sé. Per la società, la persona con le fragilità e i vizi umani non può rappresentare un problema da risolvere.

L'essere umano non è solo un peccatore da redimere, un poveretto da ammaestrare, uno sciamannato da beccare ed escludere. Credo in una nuova antropologia che accompagni la maturazione benedicendo il processo spesso complesso di evoluzione che passa sia attraverso comprensioni immediate, sia attraverso apprendimenti difficili. Amplio la visuale e l'attenzione dalla chiusura, dall’allontanamento e dalla conseguente ghettizzazione delle sale da gioco alla presa in carico della prevenzione, dell'accompagnamento dell'essere vivente a diventare umano e felice non nonostante la propria fragilità, ma attraverso di essa.

L'ipotesi alla base dei miei interventi di prevenzione è che l'attrazione per il gioco compulsivo sia un derivato dello stile di vita, ancora ben radicato, maschilista e padronale, dannoso e distruttivo per gli uomini e per le donne coinvolte, il quale sciaguratamente richiede di essere vincenti, forti, ricchi, accettati, famosi a tutti i costi. La credenza errata molto diffusa è che chi ha i soldi ha il potere e che la dignità personale è legata a quanto si è capaci di guadagnare! Altrimenti si è fuori gioco! Si diventa un arrivista sfidante oppure si rimane uno sfigato senza vacanze glamour.

La salute psicologica riguarda, invece, l’accettazione di una esistenza talvolta modesta o di periodi di vita con possibilità di spesa ridotta rispetto ai desideri. Nell’attività lavorativa svolta, la persona sana accoglie anche i risultati minimi rispetto a quelli attesi. Il benessere psicologico consente di farsi carico di ciò che si è e si va diventando nella propria storia, differenti e molteplici, mai rispetto ad altri, stretti in valutazioni che nello sforzo della definizione finiscono per ingabbiare. Di conseguenza, le attività da svolgere nella prevenzione e intuisco anche nella cura, sono culturali e psicologiche assieme. Ci ammaliamo nella formazione intellettuale, oltre che nell’anima e nel corpo.

Il giocatore o la giocatrice possono divenire consapevoli dei propri stati emotivi e più forti rispetto al sintomo riuscendo a gestirlo, solo analizzando la visione di vita, il copione personale, la mentalità rispetto a se stessi, agli altri, alla vita. Vivere non significa solo guadagnarsi da vivere ed è, quindi, importante indagare il rapporto di ogni essere umano con il denaro e con il significato della parola successo.

Il processo che rende libera e autonoma una persona non prevede proibizioni, punizioni, esclusioni, valutazioni che facilitano il processo di cosificazione di sé e dell’umano. La maturazione è frutto di riflessione, di tempo trascorso presso di sé, magari con una guida nella comprensione dei sotterranei dell’anima.

"Domani, domani tutto finirà": è la chiusa del romanzo e Dostoevskij ci credette.

Al centro rimane ogni persona con la sua ricerca tormentata di una difficile felicità. La prevenzione è il tempo fra la coazione a ripetere e la strutturazione psicologica definitiva del giocatore che non si diverte più, che ha perso la gioia. Considero sacro, quel tempo, dal latino sacer, il tempo dell’essere umano che viene al mondo per creare coscienza e che chiede il sacrificio della consultazione a più voci e dell’indagine profonda.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    31 Luglio, 2018
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Relazioni da innovare

Rebecca Solnit è diventata mia compagna di viaggio, anche in questa pubblicazione apprezzo e mi conforta il suo pensiero.
“La credibilità è uno strumento di sopravvivenza fondamentale.” (p.13)
Considero essenziale questa affermazione. Perché non c’è più speranza di relazione se non credo a me o non credo all’altro/a e non vedo la realtà dei fatti. Screditare me stessa, l’altra persona, la situazione nella quale siamo coinvolte, è un atto conclusivo. Infatti, non risaliamo dall’inferno del niente serve a niente, dall’impotenza in cui precipitiamo.

Credo ad ogni persona. Da parte mia chiunque è credibile mentre dice un pensiero o un sentimento – spesso tutti e due contaminati – che rimandano alla sua storia, alla sua esperienza. Anche se le cose affermate non mi fanno piacere e non trovano riscontro nella mia vita, perché, appunto, diversa.

Fino a ieri, anch’io mi sono sentita dire “che le cose non erano andate affatto come dicevo io, che era la mia opinione soggettiva, che le cose me le immaginavo, che ero nervosa e in mala fede: insomma, mi comportavo da femmina.” (p.15). Aggiungo: mi comportavo da femmina, quindi, alterata nella capacità di pensare, quindi, pazza.

Oltre il riferimento a uomini e/o donne, io riconosco in ogni situazione un modello maschile che manipola e sottomette, che “amorevolmente” ammonisce e sconforta, che bacchetta e svaluta. L’assoggettamento alla cultura patriarcale del dominio e del controllo ha una origine certa nell’ignoranza e nella nefasta complicità di esseri umani inconsapevoli e bisognosi di affermarsi come i migliori.

Apprendiamo a proteggerci e, contemporaneamente, a darci il permesso di riconoscere, di smontare le tecniche predatorie sin dalle prime avvisaglie. L’aggressività anche sorridente non è mai casuale, anzi, peggiora. Più che ai processi dopo i misfatti, io credo alla educazione e alla prevenzione. Mi impegno a trasformare i rapporti gerarchici in relazioni egualitarie, diversamente felici.

L’imprenditore che incontro nel mio lavoro è un povero cieco quando ricatta le persone sulla difficoltà di trovare lavoro altrove. Quando avvelena il clima con vessazioni sottili operando scotomizzazioni con sarcasmo e calunnie. Quando tratta i/le dipendenti esclusivamente come un costo e crea gli alibi, strumentalizzando i fatti, per trattare tutte le persone come nemiche, usurpatrici, ladre, come perdigiorno. È un cieco ostinato ogni volta che ribadisce di essere l’unico a lavorare, a tenere all’azienda, a produrre.

“Appariva così ferocemente sprezzante e così aggressivo nella sua sicurezza, che discutere con lui sembrava un pauroso esercizio di inutilità e un ulteriore stimolo all’insolenza.” (p.16)
In psicologia, scotomizzare è l'operazione inconsapevole mediante la quale la persona esclude, occulta, mente, pur di confermare la sua inamovibile convinzione copionale.

Piuttosto che dichiarare che non è vero, che non ci credo, che non sono d’accordo, l’interazione che ristabilisce la relazione è: voglio capire meglio; ti chiedo di chiarirmi il tuo pensiero; parliamone ancora. Cosa mi sfugge della prospettiva che l’altro/a insiste a segnalare? Non credo in conclusioni affrettate, ma nel conflitto mantenuto aperto.

Solnit ricorda nomi, date, episodi: conoscere la realtà è indispensabile.
In giornate come questa leggo, penso, scrivo. Solo e da sola.

“Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che impedisce di essere udite quando osano parlare… Per noi è un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la propria immotivata tracotanza.” (p.12)

“Certe volte credo che queste messinscene di sapere autorevole siano fallimenti del linguaggio: la lingua delle asserzioni spavalde è più semplice, meno faticosa rispetto alla lingua delle sfumature, dell’ambiguità, dell’ipotesi – e in quest’ultimo linguaggio Virginia Woolf non aveva pari.” (p.87)

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    23 Luglio, 2018
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Madre

Avrei potuto dire di no all’Angelo? Certo che avrei potuto, altrimenti il sì non avrebbe avuto alcun valore. (p.34)
Maria Pia Veladiano riflette sulla possibilità della scelta che riconosco sempre come azione di libertà. Un Figlio sceglie Maria come Madre e Lei accetta. Sono anche i figli che ci desiderano madri e padri e ci insegnano a guidarli. Lasciando che ci attraversino, apprendiamo l’arte di lasciar andare, di non capire. Perché non capire, in molte situazioni, è un’arte. Bisogna fidarsi, bisogna perdonarsi, consentire la luce. I figli e le figlie del mondo sono di carne e di sangue, per questo fanno male. Apprendiamo ad amare senza capire e a svelare la relazione di éros, il legame di noità di uomini e di donne. “Vedere è meno di sapere” e la maternità lo sa.

Sono stata tentata.
Di dire non sia mai che lui sia l’inizio e la fine.
Ti chiedo che la sua fine sia quella di tutti
piegato d’anni o di stanchezze o di malattia
ma non dall’odio, a sentire i colpi impensati.
Non si mette al mondo un bambino
per il dolore.
Quando all’inizio ho detto sì, come ho potuto?
...
Se io dimentico l’Angelo,
niente è accaduto, e lui è un bambino
normale.
...
Ma che non sia mio figlio.
Sono stata tentata di sperare che capitasse a un altro figlio.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Luglio, 2018
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La rinascita possibile di Shaharazad

Oltre i cliché e gli stereotipi consumati con superficialità, Joumana Haddad chiarisce che “le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe sono musulmane. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi… non tutte le donne arabe piegano la schiena”. (pp.23-24)

L’hijab islamico, il burqa sunnita e lo chador sciita sono le percezioni e le visualizzazioni più immediate e consolidate nella coscienza collettiva occidentale della donna araba, immaginata unicamente come sottomessa, impotente e mascherata. Dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Barhein, tra i pavoni e gli struzzi, tra i vanti e le ipocrisie di società vecchie e mortifere, la libertà di espressione segue necessariamente la libertà di pensiero, altrimenti le parole si fermano solo in superficie.

È il processo di ideazione e di creazione che rende sostanza la forma. Il corpo visibile ha la pelle porosa, le forme sono l’espressione più profonda di un io adulto e svelato che combacia con la sua più intima natura. Le parole non sono coperture più o meno elaborate, ma corrispondono direttamente a visioni di vita, a pensieri che si riflettono in azioni decise. Come afferma Zaha Hadid, citata dall’Autrice: “Non importa quanti progressi sono stati fatti, c’è ancora un mondo che per le donne è tabù. E in questo mondo risiede la sua libertà”.

Joumana ha 48 anni ed è figlia di una famiglia libanese conservatrice; cresce nella libreria paterna, leggendo la letteratura e i saggi che attutiscono i fischi dei missili per le strade di Beirut, trasformate in luoghi di guerra, negate al passaggio, alla cultura, negate agli scambi di relazioni. Joumana è convinta che “la vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo)". (p.24)

Partendo dalle riflessioni di Haddad auspico un passo avanti nella consapevolezza di ogni donna che si trovi a confliggere con le proposte del potere e ad orientare lo spirito e il comportamento verso esiti non distruttivi. Chiedo di curare la personale predisposizione al conflitto aperto senza la guerra e di accudire con determinazione le scelte di vita che aprono potenzialità del pensiero e del comportamento. Oggi, come psicologa adulta, invito a ragionare e a coniugare l’attivismo con la testimonianza di una quotidianità vissuta con attenzione, con gioia e con serietà.

La rivendicazione, la sfida, la dichiarazione di guerra, la ribellione centrata sui bisogni personali manifestano una risposta di opposta forza che rimane, purtroppo, sul binario del potere. Oltre la sovversione, l’esaltazione e l’invettiva, credo nella relazione che, spesso, è parziale, che inciampa, che è fraintesa e che ha bisogno di tempo per raccontare, per spiegare ancora, per capire assieme. Quando affermo che la modalità aggressiva per rispondere all’indignazione rabbiosa è inadeguata, voglio dire che nelle interazioni, ogni persona, naturalmente, trasferisce la sostanza della propria visione di vita e che l’essere umano vigile vive decidendo equilibri possibili fra le occasioni per parlare, per aprire confronti duri senza odio e le situazioni in cui lasciare correre, perché il sangue risparmiato risulta, talvolta, più utile di quello versato.

“Un mondo migliore non è possibile senza liberare
Le menti, i corpi e soprattutto il linguaggio delle donne”
Nawal Saadawi, scrittrice, attivista e psichiatra egiziana
p.53

Al centro non sono sempre il malessere personale, la rabbia e l’offesa che mi abitano. Invito al passaggio dalla visione egocentrica, “sto male e ho diritto a stare bene”, alla scelta egocentrata, “come posso mantenere aperta una relazione che ci consenta di continuare a parlare e a raccontare le proprie ragioni?”. Il femminismo che vorrei incontrasse Joumana è proposto dal pensiero della differenza di Luisa Muraro per credere in rivoluzioni che partono da sé e che creano alleanze in cerca di soluzioni mai definitive. Il sultano esiste e rivendica la sua sessualità primordiale e ha necessità di apprendere nuovi comportamenti e intravedere cammini sconosciuti, oltre le formule binarie, questo o quello, bianco o nero, vita o morte, io o l’altro, adesso o mai.

Shahrazad racconta non per ambizione, non per vincere, non per poter sopravvivere, ma per offrire tempi e spazi a sé e all’altro al fine di pensare e diventare assieme. Shahrazad non è solo la donna che ottiene ciò che vuole con il compromesso, compiacendo l’uomo e raggirando a suo favore le situazioni in un eterno gioco psicologico a “Calzetta”, a sedurre. Non necessariamente trova un marito ricco, divenendo complice inconsapevole (?) di un sistema che mantiene la svalutazione, l’esclusione e la sottomissione. Shahrazad non si addomestica e non si arrende, semmai, parte dalla resa saggia dinanzi alla realtà e si protegge anche prendendo tempo. I muri rischiano sempre di essere rimpiazzati da altri muri e molte persone continuano a promuovere la capacità critica e il lavoro di educazione, la liberazione e i risvegli. Talvolta, la paura di essere tornati indietro dichiara solo la posizione per uno slancio più determinato e duraturo. Non si tratta di non lasciarsi intimidire, anzi, il contrario, attraverso il timore avvertito fino in fondo, ci consentiamo di non scegliere fra il ruolo di vittima o di ribelle per non rimanere nel gioco del dominio, ma osiamo rilanciare, nella differenza, le prospettive e gli scenari.

“I veli esistono in diversi tessuti e modelli. C’è il velo della negoziazione, dell’autoinganno, del compromesso, delle etichette esotiche, dei parziali messaggi politici, delle visioni ed estrapolazioni distorte, dell’apprensione e della paura, delle grette sentenze, e poi c’è il più pericoloso: il velo dei falsi simboli fabbricati dai media…” (p.124)

Oggi non si tratta di voler essere scomode e crudeli, graffianti e imprevedibili, per partito preso, ma è importante credere nelle necessità e possibilità relazionali di eros e di conflitto. Credere nel proporre e nell’ascoltare le storie. Ho una notizia per Joumana e per tutte le donne: Shahrazad è morta, non è stata uccisa. Viva è Sherahrazad. Ogni donna la custodisce. Non seduce, non rivendica, non persuade. Studia e desidera oltre la rabbia sfidante, la paura sottile, la tristezza dura. Adesso, ogni Shahrazad, regala le storie in cambio di niente.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    04 Luglio, 2018
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Le donne e la guerra

La Storia senza le revisioni ufficiali racconta le scelte dolorose delle donne, la paura, l’umiliazione, la tristezza, la vergogna della morte. La giornalista e scrittrice Ritanna Armeni incontra Irina Rakobolskaja, vice comandante del 558° reggimento che, durante la seconda guerra mondiale, con le sue compagne, ferma l’avanzata dei nazisti verso Mosca. La vegliarda ricorda e confida la storia di quel “gruppo di giovani che volevano a tutti i costi una parità che pareva impossibile, un’emancipazione che superava ogni limite e che alla fine ce l’avevano fatta” (p.35).

Irina ricorda la bruna cantante lirica Raskova che incontra e convince Stalin a costituire i reggimenti di sole aviatrici selezionate e addestrate per il bombardamento notturno. Seguendo i fatti, non considero “il piccolo padre” della nazione sovietica un conoscitore e, men che mai, un promotore dell’emancipazione delle donne. Marina e Joseph, l’una inconsapevolmente, l’altro per opportunismo, inaugurano i tre reggimenti delle streghe della notte.

Molte donne accorrono al grido: “Care sorelle, è arrivata l’ora di una dura ricompensa: entrare nei ranghi di guerrieri per la libertà”. Nel 1942, il reggimento delle stupidine, come viene apostrofato, decide non solo di difendere il Paese, ma anche di vendicare le compagne uccise e di bombardare il nemico tedesco.

Le donne devono spicciarsi, devono essere forti e perfette, devono mettercela tutta. Devono combattere contro uomini e come uomini, non confinate al ruolo di infermiere e di telefoniste. In molte occasioni sapientemente descritte, il dimostrare di essere più degli uomini diviene un gioco al massacro, un tiro alla fune. Leggo le vicende che in modo accurato e sensibile Armeni raccoglie come un passaggio obbligato nella via di liberazione del pensiero femminista.

Ne šagu nazad! Non un passo indietro. Il comando è resistere oltre la confusione, oltre il disorientamento, oltre le sconfitte, con azioni decise per rompere e per rivendicare. Figlie della Rivoluzione, partono per la guerra, vogliono salvare la Patria, attraverso l’ostilità, lo scetticismo, la diffidenza e lo scherno dei colleghi aviatori dell’Accademia Žukovskij. A convincersi assieme che Ženš?ina možetvsë, una donna può tutto.

Possibile siano donne? Così brave, abili, precise, spietate? Così incuranti del pericolo? Arrivano la notte all’improvviso, seminano il terrore e poi toccano di nuovo il cielo. Misteriose, sfuggenti, inafferrabili. Sembrano streghe. Nachthexen, streghe della notte. (p.12)

Mi spiace, ma riconosco che questo è stato il cammino dolorosamente obbligato delle donne che hanno consentito l’evoluzione. A loro è toccato di diventare complici della guerra per essere accettate come uguali – perché poi il dovere di essere uguali? – ed è toccato di darsi e dare morte per un pericoloso senso del patriottismo. La Storia che desidero approfondire è anche lo sguardo dei vinti, delle persone morte di paura, dei bambini, delle streghe.

Non era loro l’eguaglianza a scuola o sul lavoro promessa dalla patria socialista, non erano stati sufficienti i manifesti che sui muri delle città e dei paesi annunciavano che le donne potevano salire sui trattori, andare nei cantieri e sugli aerei. Avevano preteso anche la parità tragica e feroce delle bombe e della morte. ( p.18)

Mi chiedo se il cammino di autonomia di ogni donna deve naturalmente attraversare lo stadio della competizione con il maschio, per giungere, solo in seguito, alla scoperta di un territorio differente di sentimento, di pensiero e di comportamento rispetto alle regole di dominio, di prevaricazione e di uccisione. Oggi, siamo sicure che applicarci per somigliare agli uomini sia un guadagno? Siamo sicure di non perdere la nostra forza, l’energia vitale, contendendo il potere agli uomini? Come mai ancora ci importa di dimostrare che le donne possono tutto?

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    25 Giugno, 2018
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La storia del voto alle donne

Dieci donne a chiedere, a resistere, a credere nel diritto di contare e di esistere socialmente, convinte che “…non ti guadagni soltanto il pane, con l’istruzione. Ti guadagni la possibilità di vivere a occhi aperti” (p.92). E, allora, ecco le maestrine, - diminutivo che sottende pregiudizi e svalutazioni - missionarie dell’alfabeto, girovaghe in tutta Italia, a rappresentare la disciplina, il nerbo della scuola.

Maria Rosa Cutrufelli, da molti anni e con diverse pubblicazioni, si interessa, studia e riporta, come in questo suo ultimo romanzo, alcune vicende fondamentali sulla strada della coscienza e della liberazione delle donne. Stavolta, ci accompagna a Montemarciano, nei primi del Novecento, nel periodo politico in cui accadeva lo scandalo dei popolari, in cui i cattolici stringevano l’accordo, considerato contro natura, con i repubblicani e i socialisti.

Un gruppo di maestre accoglie l’appello lanciato da Montessori e, di conseguenza, in paese diviene insopportabile la febbre del voto, la febbre delle donne giudicate malate di suffragismo. L’articolo 54 della legge elettorale lo recitava chiaramente: “…il voto è interdetto alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento…”

Come ricorda il romanzo, Lodovico Mortara, nuovo presidente della corte d’appello di Ancona non ostacola e, anzi, offre alle donne la possibilità di scegliere e la libertà di raccontarla, la scelta, di argomentarla. Così diviene il giudice delle donne, unico essere umano a rappresentare la possibilità di una cultura del cambiamento e dell’apertura che ancora oggi stenta a manifestarsi.

È interessante, attraverso il lavoro della scrittrice, seguire lo sviluppo delle vicende di Alessandra, di Teresa, di Luigia, sentire la fatica, le idee, l’autorità, senza odio, per amore di sé e delle altre, in situazioni diverse in cui fa comodo a uomini spaventati che la donna rimanga timida e goffa, giacché “oggi pretende il voto, domani chissà” (p.72).

In una società confusa e in continua trasformazione, è certo, solamente, che le donne devono tacere, lavorare in casa, supportare, semmai, il marito, i figli, gli anziani, a garanzia della stabilità familiare. L’indipendenza lavorativa, economica e, prima ancora, psicologica, delle donne è vissuta come una minaccia per l’ordine sociale. La cultura prevede con certezza che il loro mestiere è sposarsi per accudire marito e figli. “Udivo di nuovo la voce furiosa di mio padre che sbraitava: .” (p.9)

Ancora, negli anni ’80, io ascoltai questi discorsi, certo più sottintesi e meno imperativi, a coronare la mia laurea, come fosse un finale, come il limite massimo, come la moneta di scambio per poter fare da moglie ad un professionista! Il lavoro delle donne ha sempre umiliato gli uomini perché ritenuti incapaci di provvedere al loro mantenimento economico ma, in realtà, preoccupati di mancare il controllo. Ancora oggi sento voci di persone imbrigliate/i nel vecchio modello: fra loro c’è sempre una Vittima e un Persecutore, chi sceglie e chi si sottomette, chi vince e chi perde, chi è infelice e chi comanda, chi festeggia sguaiatamente e chi studia e riflette.

Tale professor Benanni, amministratore pubblico, urla convinto “con la pappagorgia tremante d’emozione: Le donne sono schiave della natura, non possiedono quel superiore spirito maschile che da sempre è, e deve essere, il cardine dello Stato.” (p.71) E anche don Peppo dal pulpito, definitivamente maledice: le donne oneste non si sporcano con la politica. Perciò le donne raccontate nel romanzo devono essere caute, proteggersi e farsi da parte.

Cutrufelli nel poscritto ricorda come “gli scrittori…sono come gazze ladre che rubano tutto ciò che luccica…E la realtà, i fatti, le cose realmente accadute, sono molto luccicanti” (p.250). Ed io ricordo a lei come le scrittrici sono gazze ladre, di più!

“A volte penso che Luigia sia un po' come quei pesci che mettono nei pozzi o nelle vasche per spurgare l’acqua. Ecco: lei ripulisce l’acqua perché tutte, in futuro, possano nuotarci dentro.” (p.70)
Abbiamo bisogno di libri come questo e di donne che possano continuare a ripulire, con tenacia, con sapienza, rimanendo severe, gioiose e pazienti.

“Ma ci sono parole che umiliano, che vogliono umiliare al solo scopo di toglierti coraggio. Forse, ancora una volta, aveva ragione lei: c’è un momento in cui bisogna lasciare il tavolo da gioco, per poterlo rovesciare in seguito.” (p.244-245)

“Non esporti, per carità! Dammi retta: una donna che lavora, tanto più se maestra, è sempre sotto esame.” (p.24)

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Giugno, 2018
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Amori storici

È gradevole e convincente la Storia raccontata da Luciana Castellina, pensatrice e giornalista, iscritta al PCI nel 1947 e radiata dallo stesso partito nel 1969. Leggo di eventi che prevedono la presenza di vinti e non solo di vincitori, di uomini e anche di donne, di gente potente e miserabile, di umanità tormentata e perdente, da qualunque parte io guardi. Intuisco una Storia scritta dalle menti, dai corpi, dai cuori di ogni persona coinvolta, giacché “il comunismo è colmo di errori e di orrori, ma anche di dolorosissimi amori” (p.153).

È interessante il modello del racconto che intriga e appassiona: di ogni fatto storico, Castellina indica una lettura politica e psicologica, offre una prospettiva sociale e pubblica, privata e introspettiva. Vedo le voci dei protagonisti, guardo la pelle, ne percepisco con l’olfatto il pensiero. L’attenzione alle scelte artistiche, ai desideri d’amore e alle visioni politiche aiutano a compiere il viaggio al contrario rispetto ai testi scolastici: dai nomi di personaggi storici lontani e noiosi, alla quotidianità di persone vive che patiscono, scelgono e confermano una idea di mondo e di relazione che un tempo chiamavamo comunismo.

La denuncia politica e la sensualità amorosa, la poesia del proletariato e la resistenza in carcere o in montagna, il lavoro e la fatica, le abitudini di studio e di piccole comunità, i sentimenti: di tutto questo è fatta la Storia che diviene, grazie a Luciana Castellina, non solo conoscenza di fatti e di idee, ma sentimento di gratitudine e possibilità di pensare il futuro. Diviene speranza e riconoscenza. Rimane fra le mani un libro di interviste e di ricordi, commovente e giusto.

Turchia, Creta e Stati Uniti sono paesi reali, amati, difesi, vissuti da tre coppie determinate e spaventate, coraggiose e fragili. L’amore, la salute, la certezza nel credo politico, il carcere, la lotta per resistere rappresentano il filo conduttore degli amanti raccontati.
Capisco la clandestinità e la passione politica, l’isolamento, la passione e la leggenda nella vicenda, più lungamente narrata nel libro, di Münevver Andaç e Nâzim Hikmet. A sessantuno anni, nel 1963, Nazim, espressione del comunismo romantico, come lo definì la figlia di Stalin, Svetlana Allilujeva, scrive: “… la morte mi ha mandato la sua solitudine ancora prima del suo arrivo” (p.141). Münevver ci lascia nel 1998 avendo dedicato tutta la vita alla traduzione delle opere del suo Nazim.

Mi importa di Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki che nel 1948 si incontrano e si scelgono sulle montagne cretesi durante la guerra civile greca. Castellina li incontra nel 2007 in un villaggio vicino a La Canea e conosce in modo accurato la storia dei guerriglieri cretesi, abituati, ancor prima, alla guerra contro i turchi. È curiosa l’avventura leccese di Nikos e Arghirò sbarcati nel 1962 e nascosti nella scogliera di Porto Badisco, vicino a Otranto.

E, infine, rinnovo l’amore di distanza e di durata fra Sylvia Berman e Robert Thompson. Studioso di Marx, Engels e Lenin, Bob viene accusato nel 1949 dal pubblico ministero che, a dimostrarne l’infamia, legge brani del Manifesto del Partito Comunista e lo incolpa di rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Quando, nel 1957, Sylvia se ne innamora, Bob è già stato condannato, poi latitante e ancora processato e imprigionato. Tutte e tutti militanti dell’esistenza per i quali, come fu per Robert Thompson, nel 1965, è difficile anche la degna sepoltura.

Ritorno ad alcuni versi del 1951 di Nâzim Hikmet:

Quando mio figlio
avrà la mia età
non sarò più di questo mondo.
ma il mondo sarà
una meravigliosa culla a dondolo
tutti i bambini
bianchi
neri
gialli,
sul rotondo cuscino di seta blu.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    12 Giugno, 2018
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Rivoluzione e potere

Darkness at Noon, Buio a mezzogiorno è pubblicato nel 1940, nell’epoca delle grandi purghe staliniane.
Ma più che sugli eventi, l’autore ungherese scrive sui moti della coscienza di un uomo convinto della sua militanza in un partito che gli chiede di rinunciare alla propria individualità in nome di un fine superiore. Il romanzo indaga con toni forti il rapporto fra politica e morale.
Nel marzo del 1983 Koestler e la sua giovane moglie Cynthia Jefferies Patterson si uccidono: dieci anni prima si sono affiliati all’associazione Exit, favorevole all’eutanasia.
Il cambiamento, la rivoluzione, l'analisi profonda, portano con sé sempre la violenza?
All’Autore si interessano Maurice Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir, Italo Calvino.
Io mi avvicino a Koestler per studiare le possibili evoluzioni delle idee di potere e di rivoluzione. La personificazione dell’uno e dell’altra portano gli esseri umani a sottomettersi e ad immolarsi per cause assunte come indiscutibili e immodificabili. Il corredo di comportamenti maschili, come Rubasciov insegna, prevede la durezza, la resistenza ad oltranza, il cinismo, l’irreparabilità della scelta, la perfezione dell’azione, lo sforzo della vittoria, la certezza della risoluzione del dubbio.
L’ideologia è tale ed uccide perché instaura il processo di cosificazione di ogni persona. Ciò che manca alla stortura dell’ideologo non è l’intelligenza, ma l’amore. Nello stalinismo, nel totalitarismo, nel terrorismo di ogni colore, manca l’intelligenza sociale, manca il senso consapevole e condiviso della relazione e dell’esistenza. Quando vince il potere, quando vince l’idea a prescindere dal contesto reale, le persone perdono.
L’autoaccusa di Rubasciov che si dichiara colpevole di tutti i delitti che gli sono contestati si ferma all’ammissione di colpa verso il popolo e questo non basta a salvarlo e a salvare noi. Il dubbio, il malessere, il crimine non si possono valutare solo sul terreno delle idee fisse e del ragionamento binario del torto e della ragione. Il dramma è la complessità. La fatica consiste nell'evitare le semplificazioni e le risposte maschie: da una parte la comunità operosa creativa onesta e accogliente e, dall’altra, alcuni gruppi criminali, la maggioranza buona, la minoranza cattiva. La guerra senza sconti continua a produrre folli, suicidi ed omicidi.
L’idea nuova è perdersi nell’energia relazionale che argomenta e problematizza, che integra la complessità, le luci e le ombre e che, infine, compie la rivoluzione simbolica promuovendo lo studio, la ricerca, l’intuizione, la capacità di essere prossimo, di sentirsi intimi/e. L’Analisi della Cultura e l’Educazione.

"Il fatto è: non credo più nella mia infallibilità. Ecco perché sono perduto."p.86
"Sapeva per esperienza che la prospettiva della morte alterava sempre il meccanismo del pensiero e causava le più sorprendenti reazioni, come i movimenti di una bussola portata nei pressi di un polo magnetico." p.43
"Bisogna trovare la causa della deficienza del Partito. Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono sbagliati. Questo è un secolo malato. Abbiamo diagnosticato la malattia e le sue cause con esattezza microscopica, ma ogni qualvolta abbiamo applicato il bisturi nuovi mali si sono sviluppati. La nostra volontà era pura e ferma, avremmo dovuto essere amati dal popolo. Ma il popolo ci odia. Perché siamo tanto odiati?" p.50
“Il Partito non può mai sbagliare” disse allora Rubasciov. “Tu e io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è più di te, di me e di mille altri come te e come me. Il Partito è l’incarnazione dell’idea rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni. Scorre, inerte e infallibile, verso la sua meta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé e i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del Partito” pp.37-38


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    06 Giugno, 2018
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Vittime

Ulla, Beate, Leni, Elfriede, Heike, Augustine, Theodora, Sabine, Gertrude e Rosa, la narratrice: cosa accade al corpo e all’anima di dieci donne preposte ad assaggiare il cibo potenzialmente avvelenato di Adolf Hitler?

“Quando si mangia si combatte con la morte, diceva mia madre, ma solo a Krausendorf mi era sembrato vero” (p.108). Le protagoniste nello stomaco hanno il buco di fame e paura. Buon appetito, è il ghigno feroce che le accompagna.

“Abitavamo un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza, e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza” (p.192). Obbligate a mangiare forzatamente la torta, le uova al cumino, il purè di patate, mentre gli altri muoiono di fame, le donne vengono addomesticate nel fetore della paura. Non uomini o soldati, le dieci assaggiatrici sono donne, in prima linea, a mostrare il privilegio impietoso di poter mangiare in abbondanza in un periodo di magra per tutti. Sono berlinesi, ma nessuna si sente una buona tedesca come viene loro insegnato. “Odiare, diceva la mia professoressa di Storia al liceo, una ragazza tedesca deve saper odiare” (p.85).

Contrastare, sovvertire, deridere l’esistenza, è questa la regola del Führer: la vita è poco, quella di una donna è meno. Mentre agli uomini è richiesto di morire da eroi in battaglia, le donne possono incontrare una morte simile a quella dei topi, con la docilità delle vacche, come “a spiare le budella di Hitler”. La follia mostruosa proietta all’esterno la minaccia del veleno che corrode e uccide e così il dolore diviene un tratto della personalità e rende inquietanti i messaggi sottintesi. Il risultato produce follia e Rosa lo ammette. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza” (p.116).

La vittima sacrificale non è mai stufa di vivere. “Ma ci sono io: non puoi aver paura. Assaggio il tuo cibo come la mamma si versa sul polso il latte del biberon; come la mamma si ficca in bocca il cucchiaio della pappa, è troppo caldo, ci soffia sopra, lo sente sul palato prima di imboccarti. Ci sono io, lupacchiotto. È la mia dedizione a farti sentire immortale”( p.179).

A causa di un maternage immorale, la vittima pensa continuamente di finirla, ma si riconsegna al compito di salvare. In situazione di sudditanza, di vessazione continua, di violenza morale, le donne si abituano ad un torpore di dimenticanza e sopravvivono assumendo sulla propria coscienza una colpa senza senso. Così, muoiono un po' per volta, convincendosi orgogliosamente della bontà del proprio ruolo di non esistenza, purché il monarca sia salvo.

L’astuzia del potere si manifesta con la prevaricazione, con l’oscenità della violenza morale: va in scena, quotidianamente, la banalità del male. Il peccato mortale del potente è nell’azione demoniaca di annullare la dignità dell’altra che finisce per sentirsi persona immeritevole e giustamente immolata per la salvezza illusoria del suo persecutore. “Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono” (p.82).

Sapere di poter disporre dell’altro è la vertigine, il godimento del monarca “a nome di tutto il genere maschile”. E le donne riescono tardi e male a fare comunità, ad unirsi complici, pur riconoscendo un irreparabile desiderio di ritrovarsi umane, sane, amanti, vive, degne. E la colpa di sopravvivere ogni giorno si fa ventre originario del pericoloso legame fra Rosa e il tenente delle SS Ziegler. Nel profondo del suo cuore, Rosa sa che “non esiste alcuna ragione per abbracciare un nazista, neanche averlo partorito” (p.244). Non chiediamoci più perché una donna non ce la fa a denunciare subito, ad uscirne viva, ad urlare, ma tace, si avvicina al pericolo, quasi, lo cerca. Il male che il potere agisce contro l’essere umano è tale che lo stesso individuo che ne fa uso è, esso stesso, vittima. Margot Wölk, l’assaggiatrice di Hitler, muore prima che Rossella Postorino possa intervistarla. Ringrazio l’autrice per aver scelto, scrivendo il romanzo, di non consegnare all’oblio la storia.

“Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli” (p.250)

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    03 Giugno, 2018
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Oltre il limite

Nella sua ultima pubblicazione “Diventare se stessi”, Irvin Yalom, psichiatra americano che stimo, racconta del ritrovamento di alcune lettere inedite di Ernest Hemingway all’amico Buch Lanham. Gli scritti riletti dallo psicoterapeuta offrono una lettura puntuale della psiche dello Scrittore, premio Nobel, suicidatosi nel 1961. Yalom dichiara: “… uomo estremamente problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso all’età di 62 anni” (p.192).

Scelgo di rileggere Il vecchio e il mare, non certo alla ricerca del disturbo psicologico, ma con un sentimento di lettrice compassionevole, condividendo lo sguardo e l’ascolto di Fernanda Pivano che all’Autore si dedicò, incontrandolo fra Venezia, Cuba e Cortina e che, appassionatamente, tradusse in italiano le sue opere.

Il romanzo racconta del vecchio cubano Santiago, sfortunato da mesi nella pesca e del suo giovane apprendista Manolin, consigliato malamente dai genitori di accompagnarsi a più esperti pescatori. Santiago, da solo, decide di avventurarsi per sfidare la malasorte e per rivendicare la sua professionalità. Finalmente, un gigantesco marlin abbocca all’amo e, per tre giorni, l’abile pescatore, con forza sovraumana, attira il pesce verso lo scafo e riesce ad ucciderlo. Purtroppo, sulla via del ritorno, la carne del marlin attira gli squali, lasciando dietro di sé un’abbondante scia di sangue. Santiago è presente fino in fondo nella sua guerra, ma arriva in porto con pochi brandelli. Sfinito e rancoroso, il vecchio lascia la grande carcassa attaccata allo scafo e si addormenta mentre molti, accorsi sulla spiaggia, ne ammirano l’impresa.

“Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?” (p.77)

È stanco il vecchio, è stanco dentro e sanguinante nelle mani che imbrigliano la preda, attraverso le funi solide e le azioni fiere. Il marinaio torna vincitore avendo perso e dichiara che: “… l’uomo non è fatto per la sconfitta… l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. La pesca è scarsa, ma in quella barca vuota, è in gioco la dignità. “Pesce resterò con te fino alla morte” decide Santiago che non può accettare l’atto incompiuto. Il grande marlin che abbocca è la condanna che lo immobilizza nel moto all’infinito dell’attesa: deve farcela, non deve mollare, deve dominare l’enorme corpo del pesce conquistato, solo così potrà ancora essere vivo.
“Come vorrei che ci fosse il ragazzo”, è la parola ripetuta come un mantra, una preghiera, una sfida, come il rimpianto per il puer che vive dentro, disperso. È Manolin che si prende cura del vecchio amico, consentendogli di rinnovare la speranza, di sentirsi esistere.

Non azzardo diagnosi sull’Autore, ma riconosco l’odore e il sapore salato della tristezza, il colore scuro dell’impotenza, la consegna alla realtà che non è rassegnazione, ma è fiducia ultima nella vita, comprendendo anche la morte.
Hemingway ribadisce che, in fondo, l’uomo non vince mai ed è la fatica che importa e che rimane motivo di orgoglio. Da psicologa rifletto sulla vecchiaia come una condizione dello spirito, determinata non solo dagli anni, ma dal carico di fatica e di amarezza e mi soffermo sull’ordine patriarcale “Metticela tutta” con il quale io stessa, ancora, faccio i conti. Capisco che, talvolta, può valere la scelta di smetterla di sforzarsi, di insistere, di riprovarci. Seguendo il pregiudizio antico ed obsoleto, non è da uomo, è davvero da donna l’apprendimento di lasciare andare, ad un certo punto. La proposta per ogni persona in evoluzione è di scambiare l’ordine “Io devo sforzarmi” con la possibilità “Io posso sforzarmi, se desidero. Oppure, no”. Recupero, così, la parte sana della maledizione copionale. Provarci ancora e ancora e crederci, non per vincere, ma perché non c’è un’altra vita, per fedeltà alla vocazione di essere umano e di pescatore. Non è la lotta, è il naturale lavoro di chi, vecchio, desidera concludere. È l’inutilità della bellezza.

E, allora, la pesca diviene un pretesto, un mezzo per continuare a conversare fra sé e l'eterno. Il mare ne è la misura, a registrare il momento massimo della coscienza. Non è il vecchio, è la vecchiaia come esperienza di vita che cerca la risoluzione, il guadagno, la chiusura giusta. È che quella lisca di pesce enorme ha un prezzo altissimo. Ed è solo una carcassa. È l'ombra di ciò che sarebbe dovuto essere. È il riflesso scarno di un’azione faticosa e vitale. Rimane il segno. Lo scheletro forse non basterà a raccontare lo sforzo, il coraggio, la fede, la ragione del viaggio. Accolgo e attraverso la vecchiaia come esperienza, non da vecchia, infine, in autonomia e senza ricatti dell’ordine genitoriale, continuando a sognare i leoni.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Agosto, 2017
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Assieme

Faccio bene con Kent Haruf a superare il sospetto delle pubblicazioni il cui successo sembra organizzato da esperti del marketing. Infatti, il mio viaggio in treno scorre veloce, la lettura del romanzo risulta piacevole, di conforto.

Addie e Louis, solitari e dispersi in un mondo di conoscenze in superficie, si scelgono e diventano l’uno per l’altra un luogo sicuro. Si incontrano di notte, a casa di lei e, nel lettone, prima di dormire si raccontano, si scambiano confidenze. Non si innamorano, né si desiderano pazzamente. Addie e Louis non conoscono gli eccessi, si fidano, riconoscono l’odore della pelle e della intimità costruita un po' per volta. Sono potenti davvero, lenti e tenaci, lontani dalla energia dirompente della passione e dalle giovinezze rapite nella presunzione e nella voracità.

Un’amicizia amorosa che “il caro vecchio buio” protegge, scopre, sussurra, rivela. Un esame di coscienza a due voci: i due ricordano e raccontano per se stessi, per ascoltarsi più che per informare l’altro. Due esseri umani che, in presenza, recuperano le ragioni dell’amore, del dolore, della solitudine, della morte. Per Addie e Louis, a settant’anni, è il tempo di meritare la compagnia e di ascoltare assieme il profumo della pioggia.

“Adoro questa cosa. È meglio di quel che speravo, è una specie di mistero. Mi piace per il senso di amicizia. Mi piace il tempo che passiamo assieme. Starcene qui al buio di notte. Parlare. Sentirti respirare accanto a me se mi sveglio.” p.84

“Dov’è la tua mano? Proprio qui accanto a te, dove sta sempre.”p.83

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Agosto, 2017
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Libertà di follia

Mario Tobino è stato medico nei manicomi, poeta e scrittore, ed io recupero questo suo prezioso romanzo, pubblicato nel 1953.
La pazzia è davvero una malattia? È una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo?
La scelta diaristica dell’autore offre al romanzo un valore di testimonianza, una valenza politica. Con una scrittura lirica e popolare, Tobino racconta, con sguardo e parola di carità, la quotidianità delle matte nude e sole, senza che avvertano la solitudine e la nudità. Donne che, a causa della follia, hanno usato l’amore, la mancanza, la solitudine, il corpo, per farsi male, per evitare la felicità dolorosa dei conflitti nella relazione e nel mondo.
È una musica di grida e di lamenti, per confrontarsi con la realtà, per continuare ad amare il lavoro di psichiatra. La follia è una malattia della quale “non si sa l’origine né il meccanismo” e, per poterla dire, bisogna frequentarla e coinvolgersi nelle esperienze che di essa recuperano le ombre da cui origina.

Tobino esprime gratitudine verso la follia e verso quelle matte che, ad una ad una, riconoscendolo, lo riportano al senso della sua professione e che, ancor prima, lo confermano nell’accettazione di un’umanità diversa. Per le persone sane è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli, quindi, di vederli, di capire, di ricordare. Dopo, molto più tardi, arriverà il ’68, noi conosceremo Franco Basaglia e lo psichiatra americano che lo ispirò, Thomas Szasz, conosceremo Bruno Orsini e la legge 180 che ha reso l’Italia l’unico paese al mondo, ancora oggi, che ha scelto l’abolizione del manicomio psichiatrico.

Il manicomio di Magliano è un piccolo mondo antico, tenero, povero e romantico, dove la chiusura è protezione, giacché fuori, nel dopoguerra, c’è ancora la fame, l’ignoranza, la paura, l’ingenuità dinanzi all’oscuro potere. Il racconto della quotidianità sofferente è triste e compassionevole. Il paternalismo che riconosco, l’atteggiamento bonario e benefico, lo sguardo di benevola concessione di Mario Tobino rappresentano un primo passaggio obbligato nella lunga strada che ancora compie la moderna psichiatria.

La malattia mentale esiste. Come la comunità riconosce le persone malate di mente e come se ne prende cura? Ancora oggi, queste scelte, continuano a fare la differenza, in una organizzazione civile. La follia è, in fondo, quello che una società decide di farsene di essa, nelle sue diverse espressioni: opzione di libertà oppure incapacità di produrre, spazio e tempo di creatività o diversità oscura e nemica, bellezza difficile o inutile sopravvivenza.

"La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare." p.14

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    03 Agosto, 2017
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Sopravvissuto

Leggo un racconto improbabile e violentemente sarcastico di una coppia male assortita: due giocatori psicologici che si scambiano, superficialmente, i ruoli di vittima e di persecutore. In verità, tutti e due, senza amore, sono invischiati in pensieri e in comportamenti cattivi, fra deliri, ossessioni e rivendicazioni. Non so quale dei due sia più pazzo dell’altro. Leggo assieme una commedia e una tragedia. I personaggi minori girano inutilmente intorno alla casa della coppia, come oggetti, tutti, di Maria Antonietta Salvatores, commissario di polizia e di suo marito, Antonio Maria Cotroneo, ex sarto con problemi di salute. Il finale è degno di entrambi, condannati ad una morte storica e, ancor più, ad una morte sociale, per chi, fra i due, pensa di sopravvivere.
Continuo a preferire Recami delle prime storie. E, ancor più, scelgo i romanzi di Highsmith, la mia ironica, sottile, intelligente e luminosa Patricia Highsmith

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    28 Gennaio, 2017
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Relazioni familiari

Conosco con questo romanzo Vivian Gornick e, dalle prime pagine, apprezzo la scrittura indipendente e autonoma di questa scrittrice, legata liberamente al movimento americano femminista degli anni ottanta.

p.151

Il romanzo offre una testimonianza del carattere attivo e volontario della memoria. Immaginare il futuro non significa soltanto tenere a bada il passato che ringhia, ma presuppone l’analisi, la capacità critica, il discernimento, attraverso le tracce recuperate.

Nella memoria delle donne che diventano adulte, talvolta, gli uomini sono vagamente presenti. La protagonista ricorda il condominio “tutto ebreo” dove vive, da sei a ventuno anni, negli anni ’40 e ’50.

Ricorda i genitori vicini al partito comunista e le donne fiere, furbe, incontrollabili, illetterate, sboccate, ognuna assorbita come cloroformio. Donne che salvano, che perseguitano, che sono vittime. Come sua madre, capo del Comitato degli inquilini, con l’obiettivo di evitare gli sfratti per morosità.

Vivian Gornick riconosce la rabbia erotica come energia per esistere, per offrirsi attenzione, per prendersi cura di sé e delle altre. Con una prosa ironica e dolcemente pungente, l’autrice ricorda a sé e scrive storie di donne in via di liberazione dai mariti distrattamente violenti, dalla cultura maschilista e aggressiva, dai vicini ignoranti e arroganti.

I legami sono feroci perché vivi. Essi creano una intimità pedagogica: gli sguardi, le parole ascoltate, i fatti vissuti ampliano la coscienza del presente. “Qui una delle due di questo legame ci muore, pensai quel pomeriggio” (p.110).

È solo attraverso la relazione con la propria madre che si procede verso la coscienza e la conoscenza di sé e dell’alterità, anche attraverso gli ordini perentori: “i figli non vogliono bene ai genitori come a miei tempi”. “Tu sei mia figlia. Sei forte. Devi essere forte”. Questa madre tiene sotto controllo il dolore ed è “una cuoca di una competenza noiosa, puliva con la furia di un turbine, lavava come in preda al demonio.”(p.21)

Il delle donne esprime sempre la storia dell’attaccamento fra madre e figlia. La violenza è povertà, l’odio è difesa, il racconto è un antidoto alla paura, sì, “bisogna lasciarla vivere, l’infelicità, perché possa succedere qualcosa.” (p.38)

“Pensa come sarebbe bello se… immagina che…”: è un esercizio di sopravvivenza, è un modo per farsi compagnia e diviene uno strumento di libertà per ognuna di noi.

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Scienze umane
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    23 Gennaio, 2017
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Congedo

“Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno del riposo, il settimo giorno della settimana e forse anche della propria vita, quando uno sente d’aver fatto la sua parte e può, in coscienza, abbandonarsi al riposo.”p.54

Riconosco, in queste lettere, la scrittura lucida, semplice e consapevole di Oliver Sacks, un autore che mi guida da sempre. Le sue riflessioni sulla vita che trascorre irrimediabilmente, sono una carezza ad ogni persona che riflette e che si interroga sul senso della malattia e della morte, a partire dalla vita.

Non esiste la fine, quando si è vissuti coltivando il sentimento, il pensiero, la scelta di agire.
Vivere in presenza, capendo, coinvolgendosi, talvolta, compromettendosi con l’alterità è l’unica possibilità di offrire un senso alla mancanza, al limite, alla provvisorietà dell’esperienza umana.

Rimaniamo a perdonare l’onnipotenza e a riconoscere la paura, così, diventiamo vivi oltre la mortalità, nell’amore gratuito di relazione.

“Non posso fingere di non aver paura. A dominare, però, è un sentimento di gratitudine. Ho amato e sono stato amato; ho ricevuto molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Ho avuto un contatto con il mondo, di quel tipo particolare che ha luogo tra scrittori e lettori. Più di tutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura.”p.29

E, allora, io sono grata, sempre.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Gennaio, 2017
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Liberazione di donna

Leggo questo libro dalla copertina che mi seduce, scritto dalla coreana Han Kang, figlia d’arte. , potrebbe essere il sottotitolo di questa storia. Un uomo innocuo, pigro, ordinario, sposa una donna mite, modesta e pericolosamente lettrice. Yeong-hye è la moglie, “quasi una specie di fantasma, silenziosamente ostinato a restare dov’era”(p.17). I due non sono più innamorati e non avvertono neanche il calo del desiderio, rinsecchiti in un matrimonio senza figli, senza passione, senza e basta. L’unica mania della donna, sotto i vestiti, nessun reggiseno!

L’autrice descrive immagini di sangue, di carne che cuoce sui barbecue, vedo sulla pelle, sui vestiti, il rosso che cola dalla massa cruda molle e scivolosa. E la protagonista sente, con forza, “l’obbligo morale di non prendere più parte alla distruzione della vita.”(p.23).

È macilenta, pallida, stanca, compie di più di una scelta vegetariana, si abbandona ad una triste voglia di vivere, alla necessità di punire la propria carne. Malattia, nuova mentalità, diversa cultura? La mente equilibrata va di pari passo con un’alimentazione equilibrata? Un libro inno per vegetariani? Penso a una strada possibile di formazione, segnata da una animalesca disciplina fai-da-te, senza alcuna guida psicologica a curare la cultura, a proteggere le ferite dagli usi e costumi brutali di un passato primordiale.

Yeong-hye è un grumo di ribellione, un desiderio di liberazione, è essa stessa un diniego urlato attraverso il rifiuto di alimentarsi, è una voce muta contro le violenze intorno alla carnalità vivente. Tutta la famiglia è in agitazione, è preoccupata: bel tornaconto da ottenere per la protagonista, un utile riscontro, una sfida vinta con la protesta sistematica. Spesso, chi è carnefice con se stessa, è anche una vittima lagnosa. In alcune pagine, le situazioni descritte sembrano irreali ed estranee all’umano. In ogni vicenda narrata, la realtà rivendica con onestà la possibilità per Yeong-hye di risalire dall’ombra e di rivelarsi.

La donna compie un cammino duro, da autodidatta, con le viscere, con il sangue e il sudore, con i piedi, la lingua, le mani. Attraversa un inferno di coscienza verso l’autonomia di sé. Il dolore, anche fisico, si fa passaggio, apertura. Assisto alla generatività di ogni donna che si rimette al mondo, che rinasce con la fatica gioiosa di essere tutta intera, sola. Il plesso solare di Yeong-hye, bloccando il respiro, trattiene e ferma l’energia vitale, non muore, ma la ripulisce bruciando, oltre la macchia mongolica azzurra che segna il passaggio.

“Io non mangio carne”. Il messaggio è chiaro e risoluto: non fagocito, non uccido, non aggredisco, rinnego il potere e la violenza del comando e del controllo. Ancora una volta, l’arte e la bellezza come altari salvifici e trasfiguranti. È Yeong-hye l’animale mutante che sviluppa la capacità di svolgere la fotosintesi.

La via dell’éros per il mondo è solo follia. “Sorella...Tutti gli alberi del mondo sono come fratelli e sorelle” (p.143)

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Racconti
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    04 Gennaio, 2017
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Festività di fiaba

Natale è anche riconoscere il bisogno di fiabe che ogni persona nutre, per nascere ancora e per credere. Scelgo di ricominciare in compagnia di Selma Lagerlöf che, con la sua voce dolce e lenta di maestra, racconta la magia degli esseri umani, quando sono felici e pensano e amano e intessono e scambiano pensieri. Ascolto i risvegli della terra che rimanda a rinascite di piccole comunità: è il Natale di Göinge.

La leggenda della rosa di Natale è il primo racconto della raccolta ed è il luogo per ritrovare atmosfere di riflessione e di riposo, di inquietudine e di proponimenti.
Commuove il perdono del violinista Lars.
Meraviglia la speranza dell’abate Hans.
Ispira la saggezza di padre Verneau.
Rattrista la solitudine della vecchia Agneta.
Fa sorridere l’ispirazione di Jan ?ster, violinista impegnato nella marcia nuziale.
E’ una guida, il buon senso del parroco incontrato dal re Gustavo III in viaggio attraverso il Dalarna.

Le comunità umane trasmettono la memoria delle storie per ritrovare le ragioni del quotidiano e il senso della realtà. Sette storie, come regalo e come impegno, a confermare la presenza di una umanità, alla ricerca di parole ancora possibili nelle relazioni.

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Racconti di viaggio
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Gennaio, 2017
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Rinascite di viaggio

Viaggiare significa, sempre, consentire di essere attraversate dalla diversità.

Francesca Pacini si incammina, da sola, guidata da una cartolina. Ed è subito in sintonia con i luoghi e le persone di Istanbul. Una donna che si offre il permesso di andare, può ritornare all’origine, può scegliere di rinascere, ampliando il proprio sé. Francesca la conosco ed è così, indipendente e liberata, leale e tenera. Irriducibile. La cacciatrice di tramonti è in dialogo con Istanbul: una cittàpersona per interrogarsi, capire, meravigliarsi.

Il libro propone un viaggiare di donna e da donna, con rispetto e accoglienza, con tenerezza e pudore. L’andare è prova, sopportazione, logora e spoglia chi lo compie ma, proprio per questo, predispone al cambiamento, facilita la trasformazione. Mi appassiona questa donna che legge il Corano, che si informa sulle abitudini, che mette in valigia un fazzoletto per coprirsi il capo. È la preparazione del viaggio che indica l’intimità e l’impegno. Com’è il mondo visto da un burqa?

Riscopro il piacere della narrabonda, curiosa e seria, oltre gli orpelli e i giochi d’immagine, alla ricerca di ogni territorio come spazio intenso e come fenomeno spirituale. Mi convince la possibilità del racconto e della condivisione. È il particolare consegnato dell’esperienza vissuta che fa la differenza. Quando si racconta di viaggi, la presenza di consapevolezza offre la possibilità di non perdersi, semmai, di riconoscere le parti Ombra di sé, al contatto con odori, sapori, colori diversi. È suggestivo l’esperire carnale di Istanbul che parla di Napoli, stesso parallelo geografico e “caratteriale”.

All’inizio del Nuovo Anno, coltivo il desiderio che Istanbul continui ad accogliere senza paura, che gli indirizzi segnalati dall’autrice rimangano porte aperte per la comprensione, per lo scambio, per la bellezza nella contaminazione.

“…Istanbul è un passaggio fra i mondi, non è una destinazione finale. E in quel passaggio, misterioso come il momento in cui il giorno diventa sera, si cela il segreto del suo incanto che travolge lo spettatore.”p.22

“Ma sono sicura che, nascoste nell’angolo di qualche palazzo, di notte, nel silenzio rotto solo dal vento, le donne hanno sempre danzato. Con i capelli liberi dai veli di stoffa e da quelli dell’ignoranza, al ritmo nostalgico del ney, non hanno mai smesso di perdersi dentro il semâ. Perché la via dei sufi è la via del cuore, e la via del cuore è di tutti.”p.93

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    29 Dicembre, 2016
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Ricerca di Isabel, ricerca di sè

Nella Giustificazione in forma di nota, Antonio Tabucchi consegna con chiarezza l’intenzione e il desiderio che hanno mosso la scrittura. Da lettrice convinta, perdono l’Autore per la vanità di volermi indicare la strada e gli occhi per leggere la storia surreale e lucidissima della sparizione di Isabel.

La giovane donna non si trova, arrestata e portata nella prigione di Caxias come prigioniera politica. Forse si è suicidata, ma negli archivi del comune non esiste un certificato di morte. Philip Marlow ripercorre i luoghi e interroga le persone che hanno attraversato, in modi diversi, la vita di Isabel.

Mi appassiono ad un’indagine femmina, dell’altra e di sé, alla ricerca senza pace del nucleo di verità che continua a rivelarsi e a svanire. Ogni conoscenza rimanda ad un’altra, in una catena che disegna una rete, una vita di presenze, ognuna, a suo modo, significativa. Isabel, detta Magda, l’antifascista, forse, aspettava un bambino.

Isabel è la parte che ogni persona nasconde dentro di sè come ombra, come suggestiva canzone, come luogo di rossi e di blu e di verdi. Isabel, come un mandala: segno, nota e colore di viaggi intrapresi per conoscere e per svelare.

Sempre, rimane il valore della ricerca come destino e salvezza di ogni esistenza umana.

“Aprì gli occhi. Il violinista stava in piedi davanti a me, sul giardino della stazione la luna era tramontata… È l’ora di rientrare, disse, la ricerca è finita. Si accoccolò sulle gambe e soffiò sulla sabbia. Il cerchio si annullò. Perché fa questo?, chiesi. Perché la ricerca è finita, e ci vuole il soffio del vento che riconduca il tutto al nulla sapienziale, disse lui…”p.117

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    24 Settembre, 2016
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Libertà e liberazioni

Stimo la triestina Susanna Tamaro e apprezzo le sue scelte di vita in solitudine, nella campagna umbra, appassionata di arti marziali.

Le storie di animali che richiamano le virtù e i vizi degli umani da Esopo a La Fontaine, al mio amato Gianni Rodari, svolgono una funzione pedagogica, invitano con ironia, a riflettere sulla condizione umana.
Il genere esopico che ritrovo nella cultura di ogni paese, conserva uno sguardo sornione, amabile sull’essere umano e mi sento liberata, sgravata dal peso della fallibilità e dal destino obbligato di peccatrice.

Ogni libro, certo, si fa incontrare in un momento particolare della mia evoluzione e ogni lettura è l'eco nella mia professione di psicologa. Continuo a preoccuparmi man mano che mi inoltro nella storia con i personaggi e il loro contesto: Piccola Tigre, Tigrotto, il Padre, la Madre, il Grande Respiro della Foresta nella Taiga, il Demone della Noia, l’ingiustizia del Destino, il Domatore del circo, l’Uomo di Stracci…

La narrazione è agevole, ma evoca inquietanti messaggi copionali e situazioni sempre più ansiogene.
“Siate sempre all’altezza!”; “Una tigre deve essere completamente tigre”; “L’uomo uccide solo per uccidere”; “E’ meglio che la tigre e l’uomo non si incontrino mai”; “se non ci fosse stato l’uomo, il mondo sarebbe stato perfetto… è l’essere umano il principio della disarmonia”

Questi messaggi sono tutti potenti e pericolosi ordini genitoriali che mi lasciano assai perplessa. Nella fatica quotidiana di proporre al prossimo relazioni sane, desidero continuare ad amare l’umanità difficile, fragile, talvolta ammalata, ciuccia e arrogante. Scelgo di non difendermi, semmai di confondermi, di capire e di proporre letture diverse nelle situazioni sgradevoli.

Vale la pena di darmi il permesso di non essere sempre perfetta, di non considerarmi cattiva, semmai dolente e malata. Il permesso di accogliere gli incontri, anche indesiderati, come apprendimento, di godere l’armonia anche come disordine e non come perfezione inchiodata. Ecco, si, condivido la possibilità di andare diventando, un pò tigre, un pò farfalla, un pò serpente, e poi, chissà, mai completata e chiusa.

“Tra la libertà e il potere ho scelto la libertà”: convince il programma di Susanna Tamaro. Aggiungo che a tutte le donne e a tutti gli uomini tocca confrontarsi con il volto del potere e trasformarlo in fortezza, in energia vitale, in gioiosa e sporca avventura esistenziale, libera dai copioni.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    24 Settembre, 2016
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Onnipotenza e umiltà

Raccontastorie in conflitto con se stesso e il contesto, Erri De Luca mi ha abituato ad una scrittura che si inerpica e si affossa, a un dialogo intimo fra l’umano e la natura, fra la bellezza e il dolore.

Leggo il racconto dell’onnipotenza del protagonista, della sua tentazione di essere come un dio, di essere Dio e seguo il suo faticoso cammino di coscienza. L’uomo dai molti mestieri, l’uomo del fare, scopre la vera energia, scopre la forza oltre il potere, nell’umiltà del gesto di consegna di sé all’opera artistica, alla vita.

“Eseguivi il lavoro con orgoglio e sei stato respinto. Devi eseguirlo in tremito.”p.123

Assisto ad un corpo a corpo, ad un esercizio spirituale e carnale. Lo scultore presta il suo corpo alla statua e il restauratore ne ripercorre i gesti e le abilità: è intimità, non è imitazione. Il marmo della statua è vita, è ricordo, è promessa di alleanza che si rivela nella cinestesia, nella corporeità.

“Di più di un artista, tu sei un artefice. Uno che forza i bordi spellandosi le mani per aprire un passaggio nuovo. Capisco che devi essere umile, ma non oltre l’umiltà. Invece sei dimesso, rinunci, ti sottrai al dovere di farti conoscere.”p.37

Nessun essere umano può maturare debiti con un altro, perché siamo compagni nello stesso viaggio esistenziale. Ma i pali da supplizio che gli uomini si infliggono sono disumani, “nessun animale si avvicina al nostro peggio”p.47. L’uomo del restauro proietta sull’uomo crocifisso i suoi pensieri, la frustrazione, la solitudine. L’uno diviene l’altro, si confondono i piani del sacro e del profano: nell’esistenza umana vincono la contraddizione e la contaminazione.

Segnare il sentiero, ritrovare la strada, riconoscere la propria trincea è il destino ed è la salvezza dell’umanità. La verità, nella relazione di gratuità, con sé e con gli altri, è scandalosa perché svela, intenerisce e limita.

“Esiste un’economia del gratis, qualcosa in cambio di niente, ma a simbolo di molto.”p.81



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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    18 Settembre, 2016
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Abbandono e invidia

La letteratura russa del Novecento mi riserva la scoperta di Nina Berberova e il racconto carnale, severo, lucido della relazione professionale e amicale di due donne. La giovane e abbandonata Sone?ka condivide l’amore, il talento per la musica e il bel canto con Marija Nikolaevna, rimanendo in secondo piano, come accompagnatrice, come pianista-ombra della famosa cantante lirica.

Sone?ka non ha imparato a riconoscersi attraverso lo sguardo genitoriale, è svalutante nei confronti delle sue qualità, non si vede. “Potevo vivere, ma ero disposta anche a morire: tutto mi era, in un certo senso, indifferente. Mia madre mi osservava con curiosità e tristezza.”p.21

E’ un sollievo ed è una protezione per Sone?ka diventare invisibile, decidere per sé di essere sfondo, evitare la relazione con gli altri che l’ha vista sempre perdente “Devi tirare avanti buona buona, più cheta dell’acqua, più bassa dell’erba.”p.25

Viaggi, avventure, concerti, protetta, sempre, dal denaro, strumento di vita sociale comoda ma, certo, non di serenità interiore. Infatti, Sone?ka nutre risentimento e forte gelosia per Marija “…perché era unica, e invece come me ce n’erano a migliaia, perché i vestiti che l’avevano tanto abbellita e che mi venivano adattati non mi stavano bene, perché lei non sapeva cosa siano la miseria e la vergogna, perché lei ama e io non so nemmeno che cosa significhi... proprio per quella costante felicità, sognavo di punirla.”p.71-77


Le figure maschili, in tutta la storia, rimangono in secondo piano. Ogni uomo, come amante, marito, padre ignoto o come innamorato, è percepito “commoventemente stupido”! Le due donne rimangono complici, si sorvegliano a distanza, si stimano, confliggono, ma si supportano.

Marija non si ama e rimane a chiedere un risarcimento a vita, per ciò che le era dovuto - affetto, denaro, successo, riconoscimento pubblico - e non le è mai stato concesso.
Ma l’invidia, oltre che essere uno dei sette peccati capitali, può rivelarsi uno strumento di crescita, di promozione di sé, di cambiamento.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    18 Settembre, 2016
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Destini irrisolti

Antonio Manzini è uno sceneggiatore eccellente. Le pagine del libro scorrono secondo scene ben articolate. Ritrovo Rocco Schiavone, scontroso, maleducato, irrisolto e con una seconda vita segreta.

Amico di tre ceffi romani con cui sin da bambino a Trastevere gioca a calcio, tutti e quattro poveri e gioiosi, fra canne, femmine e lauti pasti. La storia si svolge in tempo reale e a ritroso nel tempo con Sebastiano, l’orso, Brizio, il levriero, Furio, il ghepardo, uomini socialmente potenti e psicologicamente fragili.

Il vicequestore della polizia di Stato è sospeso fra Aosta e Roma, città che rappresentano diversi stili di vita, di clima, di interazioni. Rocco ruba ai ricchi e ai disonesti, ma ruba e regge il peso di una vita che non sopporta. “Le cose belle sono dedicate a chi il bello ce l’ha già dentro.”p.366

Un giallo furbo, intricante, estivo e Rocco è un protagonista che attira donne come vittime sacrificali, un eroe romantico, un incompreso d’altri tempi, condannato ad una realtà truculenta. Non è il genere d’uomo che m’innamora ma ne subisco il fascino da lettrice.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Settembre, 2016
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Rocco Schiavone, il vicequestore

La storia noir raccontata da Antonio Manzini è frequentata da tanti personaggi e da innumerevoli intrecci, da Aosta a Roma, due città a cui la mia vita è legata e che mi ispirano nella scelta della lettura.
Vicende umane racchiuse in gabbie psicologiche e storiche. Tutti i personaggi sono prigionieri delle incomprensioni, dei risentimenti incomunicabili, delle nostalgie segrete.

Mi imbatto nel vicequestore Rocco Schiavone, nelle sue abitudini, nei suoi vizi: “doccia, colazione da Ettore a piazza Chanoux, questura, canna mattutina. Alla fine, e soltanto alla fine, visita alla morgue.”p.94

Interessante e dominante la figura di quest’uomo in guerra con sé, con gli altri, con la morte, primordiale e contemporaneo, rozzo e benevolo, scaltro e ingenuo, opportunista e simpatico. Un uomo di potere che si salva dalla miserabilità, coltivando il dolore e assistendo con sguardo vigile l’evoluzione della propria storia.

Vivacissime le sequenze: l’omicidio, le feste, il passato, i sogni. Se il frutto della pace è appeso all’albero del silenzio, in questa storia è il contrario, infatti, assisto ad una sequenza di conflitti, di scambi continui di comunicazioni, talvolta oscure. All’inizio, mi perdo nello scenario complesso di voci ma, presto, i miei cinque sensi collaborano nel riconoscere volti e dialoghi, sintomi e narrazioni.

Antonio Manzini soddisfa decisamente la mia bulimia da libro, capace come pochi di tipizzare i personaggi, di accompagnarli con decisione nei percorsi tortuosi delle loro esistenze. Il romanzo è pronto a diventare un film, con le scene che si susseguono determinate, mai monotone, in spazi e tempi giusti, alternando ombre e luci, etica e malavita, coscienza di sé e abbandono, attrazione e repulsione.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    03 Settembre, 2016
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Straniera

Stefano, facoltoso architetto pariolino, si innamora e sposa Sima, la “Straniera”, e rimane distrattamente devoto a lei e a Dario, il figlio rimasto irrimediabilmente non partorito.

Zamardili, con la sua scrittura di delicatezza e di verità, racconta la storia a più voci di una “inconsolabile autocommiserazione”, dello spaesamento e spostamento di una donna, distante, sempre, soprattutto a se stessa.

Quando partorire non è gioiosa e fisiologica separazione, ma rimane “un violento strappo da me di quello che ritenevo soltanto mio”, allora si costruisce una relazione simbiotica che possiede, manipola e che, infine, rende vano ogni affetto.

Ogni persona, nel romanzo, racconta dei demoni che ingombrano il cervello e il cuore, della minaccia che arriva dalla parte nemica e interna di sé.

Il dramma di una donna senza permesso di esistere, si costruisce con la paura di misurarsi nello sguardo dell’altro, con l’isolamento come difesa dai rancori del passato, con l’ostinato silenzio dell’abbandono definitivo ad un destino culturale, prima ancora che psicologico.

Un romanzo triste che fa riflettere sulla difficoltà di salvare un copione perdente, sulla necessità dell’adattamento e dell’attaccamento come fondamenta di primaria identità per ogni essere umano, perché decida di partire, di cambiare, di vivere altrove, dovunque, ma nella coscienza della libertà.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Settembre, 2016
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Come un vascello

Mentre scrive, Teresa Cremisi abita in una pensione in terra salernitana, ad Atrani e, divenendo “riccio di mare”, si gode l’arte, le ricerche in internet, la coca cola ghiacciata.

Apprezzo la scrittura di questa donna “di sbieco rispetto all’universo”, per lasciare traccia, per testimoniare un pensiero, per dare ragione di un’emozione, perché racconti il proprio sguardo sul mondo. “Sono quasi certa che sia meglio lasciare dietro di sé qualche riflessione, qualche commento. Annotarli, se possibile. E non distruggere niente.“ p.178

La Trionphante è una corvetta dell’Ottocento che partecipa alla conquista delle isole Marchesi in un periodo in cui la Francia è forte e sicura del suo predominio su mondi possibili. L’immagine della nave ritratta da Jouneau fa parte di una serie di disegni che Teresa ha acquistato molti anni fa da un antiquario di rue de Seine.

La Trionphante è anche uno stile di vita, è una modalità di stare al mondo. E naviga, Teresa, sapendo di non aver avuto a disposizione alcun trionfo facile, alcun porto sicuro, alcuna conquista scontata. Leggo le memorie di una vita, il diario di bordo della direttora editoriale della maison Gallimard, un romanzo scritto ad auscultarsi, da 80 anni indietro, sempre più indietro.

E’una bambina, negli anni ’40 ad Alessandria d’Egitto, appassionata di battaglie navali e, come il secondo canto dell’Iliade suggerisce, autodidatta in ambito marittimo e militare. Teresa dona i ricordi dell’infanzia e della giovinezza felici fra il collegio di Notre dame de Sion e le vacanze, da marzo a settembre, ad Antibes, in Costa Azzurra.

E poi, la fatica di dimenticare l’Oriente per adattarsi, diciottenne, alla nuova vita milanese e alla lingua italiana. In seguito, a 25 anni, racconta il legame e la convivenza con il giovane professore d’inglese Thomas, abbandonato per paura dell’amore che distoglie e allontana dal percorso scelto. “Per molto tempo non mi ero resa conto di quanto fosse, per così dire, penalizzante appartenere al genere femminile: l’idea, innegabile, che fosse difficile per una donna figurarsi un destino come quello di Lawrence d’Arabia non mi aveva minimamente sfiorata.” p.80

Seguo Teresa nel lavoro da giornalista e nel ruolo di dirigente in una grande tipografia che affronta le difficili dinamiche di lavoro. “La capacità che hanno gli impiegati occidentali di sopportare situazioni inutilmente vessatorie è molto più grande di quanto si possa immaginare.”p.108.

Mi appassiona la ricerca sulle città antiche prosperate sotto il regno di una donna: Cartagine e Didone, Alessandria e Cleopatra, Palmira e Zenobia, Ravenna e Teodora, Costantinopoli e Irene.
Per Teresa, di nuovo, a ricominciare daccapo, mai da zero. Ricominciare non per comodità, sempre per libertà. “Sono una traduttrice di immagini a cui sono stati forniti pochissimi indizi.”p.106

Lettura imperdibile di una vita appassionata di donna in continuo divenire consapevole.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    28 Agosto, 2016
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Il progetto Happy pork

“La stanza da letto di Emma era un porcile”. Tutto aperto, tutto fuori, tutto colato, tutto ammuffito: è l’incipit che fotografa la storia di una donna, del suo disordine, della polvere e dei suoi affettuosi abbracci e baci ai maiali sul grugno umido e lercio.

Nella campagna tedesca, Emma da bambina va sempre in giro sporca, guida il trattore, si arrampica sugli alberi, e indossa solo pantaloni, alleva e macella, lavora come un mulo. Emma, la zozzona tenera che ogni donna ha il bisogno di liberare.

Attraverso strani eventi, si ritrova a vivere con un uomo, "il nano Tremontino", e con tanto denaro: sceglie di approfittarne dell’uno e dell’altro, per capire, per operare la trasformazione.
Incontro con Emma, Henner e Karl, Max e Hans, uomini in preda a crisi di nervi, ridicoli e cialtroni, compagni preziosi che attraverso relazioni conflittuali diventano strumenti di cambiamento.
Una storia ilare e sorniona per appendere a vivere il presente, per scoprire che la dimensione ludica è serietà in una esistenza faticosa.

Un romanzo imperdibile, intelligente, divertente e triste, come conoscere la vita.
A tutte le lettrici, auguro un progetto Happy pork, contro il dolore di un passato che azzanna, oltre ogni "macellazione di urgenza", perché la rinascita preme per svelarsi.

“Emma si circondò a poco a poco di una pelle morbida e accogliente: gli altri la chiamavano sudiciume, ma a lei dava calore e protezione. Quel disordine era il suo stato interiore, la mappa della sua anima. Fuori però, in giardino, era un’altra cosa. Quella era una zona inviolata, lì poteva vivere come le piaceva. Il giardino era la prova di ciò che Emma voleva veramente dalla vita. Lo stato in cui versava la casa era la prova di ciò che della vita non era riuscita a lasciarsi alle spalle.”p.149

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    27 Agosto, 2016
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Codirossi...per non dimenticare

Helen Humphreys è una delle scrittrici che apprezzo di più: lucida, studiosa, decisa nell’uso delle parole, profonda confidente della vita solitaria e della natura.

Nel 1940, James Hunter, pilota della Raf, Uomo-uccello, arruolato in aeronautica per non essere “costretto a vedere chi sto per uccidere”, viene catturato dai tedeschi. In un piccolo villaggio del Sussex, Rose, la giovane moglie, rimane a svolgere il lavoro di sorvegliante per il mantenimento del coprifuoco.

La realtà dei due protagonisti, lontani l’uno all’altra, è aspra e sgradevole. L’attesa di Rose è triste e rabbiosa, fino al momento in cui conosce e si innamora di Toby Halliday e accetta, contemporaneamente, di ospitare la sorella di James, in fuga dalla sua vita londinese. La quotidianità a tre è difficile e conflittuale, ma offre ad ogni persona coinvolta la possibilità di riflettere sulla solitudine interiore, sul desiderio, sui legami affettivi, sulla speranza coltivata in ogni modo.

Secondo la convenzione di Ginevra i prigionieri con il rango di ufficiale, non lavorano, “occupati a non dimenticare”. Allora, lo sport, il giardinaggio e la fuga diventano le principali attività. I giorni nei campi di concentramento sanno di pidocchi e di freddo. James guarda il tramonto e decide che, dopo la guerra, quando la prigione della carne sarà terminata, pubblicherà uno studio scientifico sulle abitudini dei codirossi.

Commovente e inaspettato l’incontro del prigioniero con il Kommandant del campo, un tedesco docente di lingue classiche all’Università di Berlino: è nuova vita per i due esseri umani volgere lo sguardo in alto verso i pini e gli abeti, concentrarsi sulla vita dei codirossi, con il cuore da 980 battiti al minuto, per non guadare in basso le miserie della guerra e del campo.

In seguito, per tutte le persone coinvolte nella storia, le situazioni cambiano inaspettatamente: forse, la vita non è solo paura e dolore, è libertà che consente possibili riscritture e programmi felici.

“Che assurdità, pensa James, che questa guerra e la precedente siano state combattute da professori di letteratura classica, appassionati di uccelli, giardinieri e acquerellisti.”p.58

“Questo è il vero problema con il tempo, pensa Rose. Non segue nemmeno le proprie regole. Si dilata e si comprime a suo piacimento. A volte è come un ospite che esita ad andarsene, altre è un specialista delle evassioni.”p.126

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    27 Agosto, 2016
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Vite di Faggeta

Questo romanzo è una finestra che si affaccia su pampini, olivi, mirti, pini, trifogli, fieni, menta, felci, muschi. In questo scenario di natura e di destini leggo la storia familiare di quattro generazioni, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

Le parole di Maria Rosaria Valentini sono scelte con cura ad una ad una, sono pane, acqua, carne. Scopro con meraviglia la sua scrittura gentile, scrittura di poeta che dice di anime belle, di amori sensuali e sinceri.

Vite piene di buche e di assenze, ogni persona, senza parlare, ma non senza parole, condivide segreti e scambia intimità di cibo e di spazi, imparando a rimandare, per paura, per protezione, per aspettare, prima, che il dolore passi.

Eufrasia è la madre dall’, nello sforzo di , viva da morta, nella memoria di chi l’ha conosciuta.
“… le parole altro non sono che voti del desiderio: si parla davvero solo con chi si ama…”p.37

Protagonista assoluta del romanzo è la Faggeta, il bosco nascosto sull’Appennino che attende e contiene, il luogo di rivelazione, il respiro di anime. Ed è nella pietra viva della boscaglia che un segaligno soldato tedesco, Benedikt, somigliante a Cristo morto e con gli occhi come , realizza la sua casa, la tana in un rifugio dei tempi di guerra.

Per Ada Maria, , prendersi cura di Benedikt, ascoltarlo, sfamarlo, significa dare senso e autorità ad una quotidianità faticosa e senza desideri.
La tenerezza di Teresina, la pena di Aniceto, la speranza di Benedikt, la generosità di Pietrino, l’affezione di Rosetta, la resistenza di Ada Maria, la solidarietà di chi sopravvive di fatica, di sola realtà. Tutti ad “osservare la vita senza l’obbligo di prendervi parte.”p.194. Tutti convinti che “basta amare per diventare qualcuno o qualcosa”p.206

“Die Liebe, eine Liebe, meine Liebe. Meine Liebe bist Du”. L’amore, un amore, il mio amore. Il mio amore sei tu.
Pelle e natura, a rimettere a posto il tempo e il ricordo, i baci e i sogni trattenuti di persone solitarie, in comunità.

E’ Magnifica la speranza. E’ Magnifica l’umanità differente. Magnifica è una donna.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Agosto, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Follie di vite e di rinascite

Ore decisamente piacevoli, quelle trascorse nella lettura di questo giallo, che è un po' rosa, un po' noir, insomma, un romanzo che scorre veloce e ironico, in una casa di ringhiera milanese. I condomini, si muovono nei territori di Sesto, Vimodrone, Lambrate, Usmate e … Camogli, a sorpresa, infine.

Tutti mezzi matti, i protagonisti, ma vivi e innamorati, curiosi, vendicativi, generosi e furbi. Ne ricordo alcuni. Per primo, il povero cane Maximilian, finito mezzo morto dal veterinario per aver incautamente masticato marijuana! E Angela Mattioli, fidanzata storica lontana e vicina di Amedeo, che soffre di forma maniacale depressiva di tipo bipolare, in perenne movimento, sveglia e risolutiva nell’evoluzione della vicenda. Incontro il De Angelis, amico ossessivo compulsivo, amante della sua bmw e l’incattivita signora Mattei-Ferri, amante della solitudine e dell’inganno.

Il protagonista, l’Alberto…ops!, Amedeo Consonni, con fama di mitomane, il cane a guinzaglio e una pistola in tasca, uno che viene scelto dai guai per la sua ingenua capacità di compromettersi per salvare la morosa di turno, è amante della vita, dell’amore, delle indagini poliziesche.

“Alcol, tabacco e venere riducono l’uomo in cenere!”p.232: assunto di base che vale come condanna e salvezza insieme, come sfida e come rinuncia, come un’estate tranquillamente tormentata!

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    14 Agosto, 2016
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Il posto di Helga

Incontro Beto e Marta, un architetto paesaggista spagnolo e la sua compagna: amore, carriere inseguite inutilmente, abbandono e interessi diversi. La storia facile facile di una passione che finisce, comunicata con un sms, inviato per sbaglio alla persona tradita.

Seguo le riflessioni di Beto e il tempo che decide di dedicare alla sua ferita e la scoperta che arriva quando si concede lo spazio della resa. L’esperienza del senza – Beto rimane senza soldi, senza lavoro, senza amore, senza casa, senza biglietto aereo per tornare a Madrid – rimane sempre un percorso sicuro verso la comprensione, prima e la rinascita, dopo.

Helga è una donna plus agée, una tedesca solida, capace di tenerezza, ironia e severità e accompagna Beto nella risalita, offrendo la sua cucina, la sua lingua, le sue lenzuola antiche e pulite. E conosco Blitz, a Maiorca, come il luogo del riposo, una cala costruita dal vento che raccoglie maree e umanità: un Lampo ed è già una nuova vita.

“Mi piacciono i giardini, mi piace chiamarli giardini e non spazi verdi, e mi piacciono perché sono un’invenzione dell’uomo alleata con la natura. Un patto fra il territorio e il suo abitante, contrapposto alla guerra abituale per dominare l’uno sull’altro. I giardini ci rivelano di colpo l’altra dimensione dell’uomo. La passione per l’inutile, per l’estetica. Il mio relatore di tesi sosteneva che Dio fosse stato il primo paesaggista della storia e che con i giardini cerchiamo di riscattare la memoria perduta dell’Eden. In ogni fioriera aspiriamo a recuperare l’utopia perduta, il sogno rovinato da quel castigo così originale” p.72

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Racconti di viaggio
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    14 Agosto, 2016
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Pace indiana

Conosco Giorgio Montefoschi che mi ha raccontato le storie ben scritte di Eva (2011) e de Le due ragazze dagli occhi verdi (2008): le relazioni, il dispiacere, i pensieri tenuti stretti a sé. E ritorna per dirmi delle letture e dei viaggi intorno all’India che durante trent’anni hanno contribuito ad ampliare la sua esperienza umana.

Il viaggio fa parte della storia dell’essere umano e agisce come una forza su di lui. Per l’autore i viaggi in India sono prova, sopportazione, logorano e spogliano ma, proprio per questo, sono cambiamento e trasformazione. Le città indiane offrono saggezza e conoscenza e, attraverso la fatica e il patimento, intensificano l’esperienza esistenziale.

“Di che è fatta la pace indiana?”
Seguo i passi e i pensieri dell’autore attraverso i luoghi indiani che chiamano, attraverso la malattia del ritorno, la luce grigia e riposante e il gran caldo umido, gli inni del Veda, il sentimento della sicurezza del ritorno. Capisco il sentirsi “serenamente disperso, nullafacente di diritto”. Come già Pasolini, Moravia e Manganelli (che aveva definito Calcutta ), Giorgio Montefoschi, riprende il camminare lento e pensato fra miseria e agiatezza, fra i diseredati della terra e la Salt Lake City (la cittadella dell’informatica), fra la presenza di Ka, colui che è, e il donarsi delle missionarie della Carità.

Il viaggio come causa e misura per acquisire il coraggio, la resistenza, la capacità di sopportare ed elaborare il lutto e le ferite, come ricerca e scoperta per mantenere il governo di sé anche in situazioni di affaticamento e di pericolo: il K?mas?tra richiama il potere, il piacere e la religione, come i tre fini dell’esistenza.

Ho da viaggiare e da studiare.

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Romanzi storici
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    12 Agosto, 2016
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Rinunce d'amore

L’anarchico Gaetano Bresci il 29 luglio 1900 uccide, a Monza, il re d’Italia Umberto I.
Agli inizi del secolo, la storia della famiglia che Lia Levi racconta, inizia con un matrimonio combinato, di rituali e di automatismi, di società primordiali e rassicuranti.

Amos Segre è proprietario di un piccolo e solido istituto bancario che amministra, fra l’altro, patrimoni altrui. Possiede un rifugio per gli oggetti scelti e acquistati, un rifugio per le cose belle, da innamorarsene, da sopravvivere: i mobili, i quadri, il pianoforte.

“Forse la felicità ha bisogno di pause per poter guardare se stessa, ma la frenesia galoppa per conto proprio senza mai una sosta”p.45

Amos è sottratto all’amore sognante ma organizzato e scontato di Margherita dalla passione urgente e affamata verso Teresa, figlia del fattore Giovanni Scaletta. La contadina diciottenne educata in un collegio di suore è la sposa gentile, la cattolica che rinnega la famiglia, il credo religioso, la sua stessa natura vivace e sensuale per dedicarsi alla cura, all’ossequioso badare, alla seduzione e all’adattamento. Per amore.

La sposa di Amos, il patriarca, diviene la domina e rappresenta il luogo per riunire tutta la famiglia nelle festività ebraiche. Teresa è madre, è un’arca di Noè, è rifugio e sostegno, è Eshet Hail, donna di virtù, come Ruth, la mohabita, che si fa ebrea per onorare il marito e si prende cura della suocera Noemi. Per amore.

La Belle Epoque, l’età giolittiana, il cinquantenario per l’Unità d’Italia, il voto alle donne, il fascismo e le sue guerre, le leggi razziali: in tempi lunghi di profonde trasformazioni, Teresa compie, quieta, la sua opera silenziosa di rivoluzione simbolica, rimanendo vigile, intelligente, cauta e dignitosa.

Quando Amos muore, dopo un tempo che sembra eterno, Teresa, con autorità, rispolvera e sistema sul comò una scultura lignea di Brustolon raffigurante una testa di Madonna col bambino, ritrovando, in un sol gesto, equilibri nuovi con gli spazi, con i figli, con il tempo.

Mai chiusa di romanzo così dirompente, significativa ed efficace. A misurare il recinto, a stabilire il limite, a ritrovare la geografia di sé.
Per amore, infine.

“Guardare avanti è difficile, il passato e il presente arrivano sempre di corsa a riacchiapparti per le spalle…”p.12

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    11 Agosto, 2016
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Le gambe matte di Ágústína

E’ un romanzo poetico, creato dalla immaginazione brillante e leale di Auður Ava Ólafsdóttir. I luoghi sono i veri protagonisti delle sue storie: stavolta, un villaggio e una piccola e indaffarata comunità in Islanda, sul mare, a nord del mondo. La vicinanza al circolo polare artico consente che in giugno e parte di luglio e maggio non ci sia la notte e che d'inverno, invece, il sole si alzi poco sopra la linea dell'orizzonte per non più di 4 ore al giorno.

Mi appassiono all’adolescenza complessa e tenera di Ágústína, figlia di una madre ornitologa girovaga e di un padre esperto di balene che, probabilmente, ignora la sua esistenza.

Ágústína è il nome scelto da Nína, la donna che la protegge e la cura, alla quale è stata affidata: come Augusto imperatore che ha potuto vivere al di qua e al di là dell’anno zero ed è così diventato sia un uomo del più sia un uomo del meno. Ed è sempre Nína che la invita ad assecondare la sua curiosità, giacché “spesso ci si dimentica di guardare ciò che sta fra le cose, quando in realtà è proprio quello che c’è in mezzo a tenerle assieme …e conta tanto anche lo spazio vuoto, o lo spazio intermedio.” p.35.

Senza il buio, il tempo appare immobile. L’accecante sole e il vento pungente del nord educano il corpo e l’intelletto della giovane che si trascina con le sue stampelle come una foca fra i faraglioni. Ágústína lentamente, affinando l’intuizione e il pensiero, diviene una sirena che seduce e incanta. Discreta e introversa, dotata di intelligenza feconda, è creatura che appartiene alla natura, alla bassa marea della spiaggia e alla vetta della Montagna che desidera scalare con la complicità degli scarponcini da trekking ricevuti per il suo compleanno.

Ágústína e le sue gambe matte diventano grandi grazie alle relazioni, anche in assenza, e alle parole: quelle scambiate con Salómon, figlio adolescente della maestra del coro e quelle lette ne L’idiota di Dostoevskij, le parole ricevute per posta da sua madre e le parole scritte e spedite in bottiglia per suo padre.

La necessità di conoscenza, di comprensione, di riflessione, di dialogo rappresentano il fil rouge della vicenda umana e della storia narrata. E’ importante riconoscere il copione che libera e trattiene, che identifica e limita, ritrovato in un baule, su un foglio che sua madre ha scritto tanto tempo prima:

“…tante altre cose accomunano donne e uccelli: adattabilità, mobilità, inquietudine fisica dipendente dall’accorciarsi oppure dall’allungarsi dell’orbita solare, desiderio di spostamenti frequenti. Ci potrebbe essere dovuto al fatto che la percezione del tempo negli uccelli è simile alla percezione del tempo nella donna…” p.108

“Tua madre era persa in cielo coi suoi uccelli, tuo padre immerso nelle profondità delle sue ricerche sottomarine. Io credo che si siano incontrati a metà strada, cioè su, al campo di rabarbaro.”p.92

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    09 Agosto, 2016
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Cambiamenti

Leggere, acquistare, scrivere, vendere libri, si rivelano attività vitali risolutive che cambiano la vita, consentendo ad ogni persona di ripartire da sé, dal sentire e dal pensare.
La ventiquattrenne Jane è “orfana, cameriera e prostituta…Amante segreta. Amica segreta.”, da sette anni, per sempre, del giovane rampollo Paul, già promesso sposo di Emma, “il vaso di fiori”.

Con il pretesto di studiare, Paul Sheringham, due settimane prima delle nozze, ha la casa tutta per sé e decide di incontrare Jane invitandola ad entrare dalla porta principale.
E’ il Mothering Sunday, la festa della mamma, ed è il giorno simbolico per venire al mondo e per inaugurare una “perfetta politica della nudità”: perché la gioia e il dolore che sempre segnano la strada, possano essere generativi e tradursi in diverse rinascite, per sé e per la comunità.

“E d’altro canto, sarebbe stato ancora corretto definirla una cameriera, ora che se ne stava sdraiata su quel letto? E Paul, era ancora “un padrone”? Era questa la magia, la perfetta politica della nudità.” p.39

Dopo l’amore segreto, appassionato, sognato e giurato in ogni modo, Jane Fairchild, trovatella venuta al mondo e mandata a sevizio, si rivela donna che affronta la morte e il senso del peccato, con una innata licenza a inventare e con un’intima passione per i tanti modi nei quali le parole possono corrispondere alle cose.

La giovinezza audace e l’intelligenza vivace, le letture dei romanzi di Joseph Conrad, l’accompagnano prima come commessa in una libreria, poi come scrittrice famosa di romanzi. E vive, Jane, fino a novantotto anni: ricorda, soffre, invecchia con ironia, con curiosità, con la forza dell’amore taciuto e custodito.

“D’altro canto, non si poteva in alcun modo sostenere che il mondo sarebbe venuto meno o sarebbe stato meno reale, in assenza delle parole che si usavano per definirlo. Tutt’al più si sarebbe potuto affermare che le cose consacrassero le parole utilizzate per distinguerle una dall’altra, e che le parole potessero a loro volta consacrare ogni cosa.” p.103

“…il senso autentico delle biblioteche, le veniva a volte da pensare, non stava nei libri in sé, ma nella capacità di preservare un’atmosfera da santuario maschile, che nessuno doveva permettersi di turbare. Perciò, era difficile pensare a qualcosa di più scioccante di una donna che entrasse nuda in una biblioteca. L’idea in sé era sconvolgente.” p.73-74


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    04 Agosto, 2016
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ll dolore e il slenzio

La perdita del lavoro diviene causa scatenante dell’abbandono di un uomo alle sue paure e alla rabbia incontenibile. “Mi sento come un dio. Non metterti a discutere con me.” p.12

Il male è l’onnipotenza, pensare di essere forti sempre, non prendendosi cura di sé e procedendo verso la perdizione, pur riconoscendo i gradini scesi verso l’inferno depressivo. Ci si può fermare e chiedere aiuto in tempo, purtroppo, però, “la delusione ti tiene legato alle cose sbagliate.” p.166

“Scusa, mi sono perso” p.171: sono le ultime parole che, se fossero le prime, avvierebbero ogni persona verso altre relazioni, verso possibili uscite di felicità, oltre il disturbo psicologico.

Malinconica e complessa la vicenda scelta da Elena Varvello: molte pagine trascorrono in rituali e passatempi, sempre raccontati con stile deciso e benevola sapienza. L’amicizia fra due ragazzi, la vita familiare, le maldicenze di paese: tutti sembrano ingoiati dal silenzio. E il padre, soltanto, che “consuma le parole: le tiene in bocca troppo a lungo e poi le sputa fuori, incespicando” p.73

Leggo di un’estate come confine e come passaggio, di un padre afflitto poco più che trentenne, di un ragazzo di sedici anni affettivamente rapito dalla mamma trentaseienne dell’amico del cuore. Anna ed Elia, si ritrovano “aggrappati l’uno all’altra mentre andavano a fondo” p.91

Chi non si perdona, poi, muore. Ed io assisto dolente, se pur conquistata dalla scrittura puntuale e sicura, all’attesa della punizione che libera, perché nessuno riesce a diluire il cemento dei sensi di colpa, senza una guida.

“Siamo solo persone, Elia”p.185. Ecco, è così, partendo da questa certezza, che potrebbe accadere, oltre il bosco, la vita felice.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    04 Agosto, 2016
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Inciampi di caratteri

Anna Marchesini si è laureata in Psicologia all’Università di Roma e i suoi personaggi devono averlo intuito perché, con naturalezza e generosità, si consegnano alla sua penna immaginativa. Lei capisce le persone ed è legittimata nell’uso ironico dei caratteri. C’è un’intesa, come in un contratto psicologico, e io ritrovo una relazione onesta fra chi scrive e chi si racconta e si rivede.

Moscerine rappresenta una prospettiva sottile e sapiente per guardare il mondo e i rapporti umani.
Leggo nove storie imperdibili di donne, storie di stupore e di educazione alla vita e alle relazioni. Le piccole cose escluse, gli elementi insignificanti, i tarli, le ombre: un’educazione diversa della vista e della comprensione dell’essere umano.

Riconosco nella scrittura di Anna Marchesini l’ironia come la forma intelligente di analisi profonda. La lettura ironica come la possibilità gioiosa dell’esperienza quotidiana che prevede un cammino costante di ricerca e di presenza nei fatti. Affinare la capacità ironica serve a essere in contatto con la realtà, talvolta dolorosa e insopportabile, e a esercitare la propria libertà di scelta.

Anna può utilizzare l’ironia perché, fino in fondo, rimane nella relazione, a sorridere in compagnia delle persone, evitando, così, il fantasma del sarcasmo triste sulla testa degli altri.

“Il bello della morte sta nel fatto che non possiamo farci nulla; questo ci salva dalla fatica di arrabattarci a cercare una soluzione, fatica inutile, ci salva dal delirio di onnipotenza di pensare di trovarla, dalla pena di non riuscire. Arriva e pare che ci dica state pure buoni state cheti, questa volta non vi esaurite, questa volta, alla fine, non c’è niente, nessuno sforzo che vi tocca di fare, non vi date pena, non c’è niente da fare.”p.61

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Marzo, 2016
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La relazione al centro della cura

Apprezzo e leggo con passione i romanzi di Irvin Yalom, psichiatra psicoterapeuta e insegnante di fama internazionale, nato nel 1931. Il titolo riprende un pensiero di Marco Aurelio: “Siamo tutti creature di un giorno; colui che ricorda e colui che è ricordato...”.

La memoria, l’atto di ricordare, dinanzi ad un testimone, gli episodi della propria vita serve, ad ogni essere umano, per offrire un senso al dolore e per ritrovare le ragioni del viaggio esistenziale.
Ciascun capitolo è dedicato ad un incontro, alla storia di una persona che sceglie di essere guidata per ridecidere le proprie prospettive rispetto alla malattia, alla morte, all’abbandono, alla sconfitta, al tradimento, al trauma dell’esistenza. Ogni percorso di rinascita che leggo mi appartiene, ogni racconto è parte di me: l’analisi, la riflessione, la coscienza e la conoscenza rappresentano i passaggi per divenire consapevole e autonoma.

Irvin Yalom partecipa alla svolta relazionalista, iniziata negli anni Ottanta, della psicoanalisi americana. Nell’approccio classico, monopersonale, i confini fra paziente e psicoterapeuta sono rigidamente dichiarati e mantenuti. Invece, nella psicologia bipersonale, ambedue i partecipanti alla relazione terapeutica sono pienamente coinvolti in essa.

Yalom, fine intellettuale, con la grande esperienza accumulata in più di cinquant’anni di pratica psicanalitica, conferma, ed io insieme a lui, l’idea delle possibili numerose letture della malattia psicologica. Nella Educazione alla Persona, la consapevolezza della mancanza, della morte, del limite è la via del benessere, l’unica. La è affrontare il tema esistenziale, all’interno di una relazione di éros che si pone all’opposto del rapporto di potere. La relazione di éros, riconferma le libertà di ogni persona, fa circolare energie vitali positive, avvia apprendimenti nuovi e pratiche quotidiane verso il cambiamento.

“Le categorie diagnostiche sono invenzioni arbitrarie, sono il prodotto del voto di un comitato e vengono invariabilmente sottoposte a considerevoli revisioni a ogni decennio che passa.”p.181

Non ci sono, quindi, tecniche risolutive. Solo nella relazione gli esseri umani accolgono il divenire, governandone i processi con la narrazione. Autore e lettore, terapeuta e paziente, si trovano nella stessa relazione e utilizzano un linguaggio non tecnico, semplice ed amabile. Un elemento importante che permette a tutti gli “attori” coinvolti di partecipare alla ricerca delle letture e delle ipotesi di soluzione possibili.

Il messaggio, per chi legge, deve essere chiaro: è bene rimanere ancorati ad una scuola di formazione, ad una scelta teorica precisa, ad un percorso personale di analisi. Solo attraverso lo studio sistematico e guidato, è possibile divertere e apportare modifiche ai paradigmi di base. Questo assunto vale per i professionisti della psicologia e di ogni altra disciplina. Il rischio riguarda le licenze a fare, a formare e a curare che molti assumono con pericolosa leggerezza, fantasticando che tutto si risolva in una gran bella chiacchierata.

“Rinunciare alla speranza di un passato migliore è un’idea potente… Lei non ha rinunciato alla speranza di un passato migliore, se n’è scritta uno nuovo di zecca…”p.148

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    14 Febbraio, 2016
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Genitorialità e Amore

Selma Lagerlöf, premio Nobel per la letteratura e prima donna nominata fra gli Accademici di Svezia, nasce nel 1858 nel mondo arcaico, fiabesco e spirituale al confine fra Svezia e Norvegia, fra odore di boschi e di contadini rudi che dolcemente suonano il violino.

Gli alberi-troll dagli occhietti maligni che ritirano i loro artigli con la melodia dei canti di Natale, costituiscono lo scenario della storia straziante e gentile sull’amore complicato in famiglia. Ogni capitolo breve è una pennellata sapiente fra privato e sociale, fra immaginazione e realtà, fra desiderio e morte.

Incontro padroni stupidi e disumani e lavoratori sofferenti e profetici e incontro Jan, duro e affaticato contadino di Skrolycka, che scopre e vive la felicità nella paternità, nell’appartenenza e nell’attaccamento alla piccola Klara Fina Gulleborg, nome magnifco che richiama la luce, il calore, la preziosità del sole.

“Ma ora, che aveva una figlioletta così straordinaria, Jan non era più soltanto un povero bracciante. Ora aveva un tesoro da mostrare e un fiore di cui fregiarsi. Era ricco con i ricchi e potente con i potenti.”p.45
“Non è solo il giorno in cui è nata Klara Gulla, è anche il giorno in cui è nato il mio cuore.” p.32

Ma, giovane e bellissima giovinetta, per quindici lunghi anni, Klara abbandona la casa paterna, senza dare notizie di sé. Per Jan diviene impossibile lasciar andare la figlia, luce e ragione della propria vita. Nelle relazioni fra genitori e figli, la distanza marca l’autonomia e la realizzazione libera e compiuta dell’amore. Jan non ce la fa, trasforma in delirio il bisogno di possederla e si protegge dal dolore trasfigurando la realtà.

Nella fantasia amorosa di suo padre, Klara, invece che una prostituta, appare come la discreta e straordinaria imperatrice di Portugallia, paese immaginario. L’amore che non preveda anche la libertà diviene un inganno che trasforma il padre in un folle.

Ma Jan ci convince che la protezione di sé si può esercitare anche smettendo di curare la follia. Il padre, la made e, al suo ritorno, la figlia si lasciano attraversare dalle fantasie, leggendole e assumendole come una difesa e come la forma dell’amore ostinato che continua a credere, consapevole e profetico, alla felicità della propria carne. A dispetto degli avvenimenti, delle calunnie, a dispetto della sua stessa vita, Jan si fa strumento di coscienza e di redenzione.

La storia imperdibile, narrata dalla scrittrice sapiente, sensibile e paziente, continua ad ispirare le vite di madri, di padri, di figli e di figlie, redime e rilancia prospettive e riflessioni sulle complesse relazioni familiari.

“Jan non è matto. Il signore gli ha posto uno schermo davanti agli occhi, perché non veda quello che non sopporterebbe di vedere. E di questo non si può che essere riconoscenti.”p.230

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Storia e biografie
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    25 Gennaio, 2016
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Inessa e Vladimir Il’i?

La storia delle donne nella Storia è giudicata, ancora, inopportuna e stravagante.

Sono contenta di vivere questo mio tempo ristretto e curioso in cui, infine, è possibile rileggere i fatti della rivoluzione bolscevica attraverso il libro , primo nella mia classifica di letture, della giornalista Ritanna Armeni che compie, con un impegno appassionato, per tutte, una ricerca puntuale e precisa, anche negli archivi russi, aperti nel 1992.

La vita di Inessa appartiene alla rivoluzione comunista e alla nascita dello Stato Sovietico, come le vite di Alexandra Kollontaj, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg: il libro è un dono, un risarcimento a Inessa e a tutte le donne che i testi di storia continuano a mortificare, ignorarandole.

Inessa Armand, autonomamente moglie di un industriale tessile, parla quattro lingue, suona il pianoforte, eredita la libertà dei genitori artisti in un ambiente bohémien, preferisce Dostoevskij a ?ernyševskij e Tolstoj a Nekrason. E’ colpita “come da una frustata” quando, in Guerra e pace, legge di Nataša riconosciuta samka, femmina, solo dopo il matrimonio.

Nel 1909, nel parigino Café des Manilleurs, Inessa ha 35 anni, sposata e madre di cinque figli, e rimane rapita dai discorsi del quarantenne Vladimir Il’i? Ul’janov che puntano a rovesciare il sistema zarista. Lenin e la compagna Armand decidono di divenire guide l’una dell’altro e, assieme, provano a convincere la leadership bolscevica dell’importanza delle donne lavoratrici in Russia. Ma Lenin, un po’ per volta, blocca le ambizioni di Inessa e boccia i testi che scrive sulle agitazioni in Irlanda e sul movimento operaio inglese.

E’ bella, Inessa, anche dopo il carcere e i malanni per la tubercolosi; nella foto indossa la kosovorotka, la camicia russa con i bottoni laterali. Ferma e zitta, sconosciuta e a servizio, indispensabile alla causa e silenziosa: prima ancora che culturale e politica, la quaestio è psicologica. Gli uomini e il loro potere non ce la fanno, le rivoluzioni si servono di capipopolo e guardano come secondarie le relazioni e le condizioni del pensiero femminile. Per Lenin, Inessa è Blonina, pratolina, ma rimarrà a riallineare con maniacale precisione, penne e matite sullo scrittoio.

La protagonista apre una libreria, un giornale, una scuola per i figli dei contadini a El’digino, protegge le prostitute e la comunità d’immigrati russi a Parigi, apre una scuola per le donne e a Bologna tiene corsi sulla questione femminile. La sua rivista Rabotnica (Lavoratrice) esce nella giornata della donna del 1914: il tema riguarda l’amore libero e il reddito autonomo, ma chiude contrastata dagli uomini dello stesso partito.

Lenin e Inessa progettano la prima università marxista a Longjumeaux, vicino Parigi, dove lui tiene conferenze di economia politica sulla questione agraria e sul socialismo, mentre lei continua a coltivare divergenze, anche rispetto alla stessa idea di socialismo, espressione di un potere che non sopporta i dissensi.

La compagna Armand sale nella gerarchia del partito, ma scende negli inferi di una Storia che la cancella per decenni. Nella dedizione e nel suo totale impegno pubblico al fianco di Lenin, soffoca perplessità e conflitti. Nel 1918 diviene la donna più potente di Russia, assumendo la direzione dello Žhenotdel, la commissione femminile del Comitato centrale che, nella Russia dei Soviet, pur avendo potere legislativo, è sottovalutata nella sua funzione dalle stesse donne del partito.

Il socialismo e la rivoluzione sono in opposizione agli affetti e al benessere personale, gli interessi della società e della propria vita coincidono, la vita personale è dedicata e immolata all’Utopia. I compagni disapprovano, guardano con imbarazzo i due amanti, rimangono ostili ai diritti delle donne e diffidenti verso il movimento femminile. Lenin continuerà a considerare i sentimenti come una debolezza nell’impegno politico e l’adulterio come pratica borghese: “non si possono avere due passioni” scrive a Inessa.

Vladimir Ill’i?, leader dei bolscevichi, capo dell’Urss, per tutta la vita, si ostina a liquidare la sessualità, l’amore, le relazioni affettive, come stupidaggini, divenendo autoritario e offensivo: per lui, la rivoluzione e la ribellione allo zar hanno bisogno di ben altro. Spaventato dal tradimento del fedele Malinovskij che, in realtà, è una spia della polizia segreta della Russia zarista, Lenin ha contro ormai, in breve tempo, tutti i membri delle varie organizzazioni della socialdemocrazia e muore il 1924, quattro anni dopo Inessa.

Stalin, duramente giudicato da Vladimir Ill’i? nel suo testamento, ricatta Nadja Krupskaja, (moglie di Lenin che ha mantenuto con Inessa un atteggiamento cordiale e sereno e, in apparenza, non ha mai mostrato segni di gelosia e competizione) e la sfida a non pubblicarne il contenuto, altrimenti diventerebbe nota la relazione con Inessa: il patto scellerato dura fino al 1956, anno della pubblicazione del testamento.

Una volta, si chiamavano libri di testo: ricomincio da questo, a riscrivere bibliografie possibili per giovani donne e uomini. Le rivoluzioni devono essere terribili e sanguinose? Il cambiamento di visione antropologica deve prevedere la guerra come necessaria? L’apprendimento sociale di una nuova pluralità è sempre lotta di potere?

La politica come educazione sentimentale: Inessa ci insegna che ogni rivoluzione prevede l’arte e l’attività di coltivare relazioni di éros.

“E’ difficile per uno storico o un accademico, inevitabilmente soggetto a temi maschili, farne il ritratto e orientarsi nella storia e nella psicologia di una donna che riuniva in sé e nella sua vita tante passioni e tante inclinazioni.”p.234


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