Opinione scritta da Martin

17 risultati - visualizzati 1 - 17
 
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Martin Opinione inserita da Martin    23 Agosto, 2021
Top 500 Opinionisti  -  

Disincarnarsi

Franz Kafka diceva che un libro deve essere un’ascia che rompe il mare di ghiaccio dentro di noi, uno strumento atto a turbare la nostra placida esistenza, fatta di abitudini e confortanti illusioni: “La vegetariana” della scrittrice sud-coreana Han Kang incarna appieno questa idea. Unendo all’eleganza stilistica un’accorata intensità, l’autrice racconta una fiaba oscura, che mescola il sublime e il grottesco, la bellezza dei fiori e l’odore pungente del sangue, in cui si interroga - persino meglio di quanto si faccia nei saggi filosofici - su una questione ancora dibattuta nel nostro mondo contemporaneo: vale sempre la pena di vivere la propria vita?
Come il Bernini eternizzò nel fulgore del marmo la trasformazione della ninfa Dafne che - secondo la leggenda greca - scampò alla follia amorosa di Apollo pregando gli dèi di tramutarla in un albero, così Han traccia con l’inchiostro della sua penna un’analoga metamorfosi vegetale che ha come protagonista una donna coreana, Yeong-Hye. Il romanzo si apre con la decisione della donna di diventare vegetariana: dietro tale scelta, però, non ci sono ponderate ragioni etiche o salutistiche, ma un istinto viscerale di disincarnarsi, di liberarsi del peso della sua esistenza. Un istinto che le si rivela per la prima volta in un sogno orrorifico, che la vede stritolata in quintali e quintali di carne marcescente.
Guardata con disprezzo dal marito e osteggiata dalla famiglia tradizionalista, che non accetta la sua scelta vegetariana, Yeong-Hye entra progressivamente in un vortice di rinunce, abulia e isolamento sociale: non ha voglia di far sesso perché suo marito “puzza di carne”, parla poco, diminuisce sempre più le razioni di cibo, mentre il suo seno si aguzza e il suo corpo diviene sempre più evanescente. Il manicomio in cui viene confinata dalla sorella In-Hye, dove si consuma la parte finale del romanzo, non migliora la situazione. Le uniche azioni che la rendono viva, Yeong-Hye le imita dal silente mondo degli alberi: si denuda per suggere la luce solare con tutti i pori della sua pelle, ama affondare le mani nel terreno come se fossero radici, sembra rinascere quando il genero - un’artista inquieto e perverso - le dipinge sul corpo fiori screziati. Le piante, esseri autotrofi, non hanno bisogno della sofferenza e della morte altrui per sopravvivere. Per loro non vale il detto latino mors tua, vita mea. Yeong-Hye, in fondo, non aspira alla morte, ma aspira a una vita che non sia fabbrica di morte. Ma una simile aspirazione si scontra con le leggi inesorabili della natura.
Han lascia sullo sfondo le ragioni inconsce che potrebbero celarsi dietro il malessere che attanaglia la protagonista, come ad esempio l’infanzia trascorsa con un padre violento o il matrimonio infelice che la imprigiona; non c’è alcuno scavo psicologico, la descrizione della vicenda è affidata alle voci narranti del marito, del genero e della sorella, che poco o nulla sanno del vissuto interiore della donna. Tutto rimane volutamente ambiguo: Yeong-Hye appare ora una malata, che non riesce più a sostenere il peso delle violenze ricevute e dell’indifferenza riservatale, ora una lucida mistica, che squarciando il velo di Maya che offusca la vista a tutti, giunge alla verità essenziale dell’iniquità della vita umana. Nel finale, In-Hye, persona pragmatica e di successo, con alle spalle una biografia meno travagliata della sorella, giunge a scorgere – come una gobba di un mostro che fuoriesce dalla placidità di un lago - l’orrore e l’insensatezza dell’esistenza. La malattia è contagiosa o In-Hye ha finalmente compreso la filosofia della sorella? Ma la ricerca delle cause che si annidano dietro esperienze così tragiche, deve cedere il passo a una questione più urgente: che fare di fronte al dolore di persone come Yeong-Hye? Il romanzo sembra suggerire come soluzione quella che molti non hanno il coraggio di ammettere: l’eutanasia, la liberazione dalla sofferenza, il rispetto per una vita che non ce la fa più.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienza e tecnica
 
Voto medio 
 
4.2
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    26 Novembre, 2019
Top 500 Opinionisti  -  

Sulle tracce dei transumanisti

Mentre la comunità scientifica lancia allarmi, seriamente preoccupata delle condizioni di salute del nostro pianeta, una strana fauna si aggira in California, nell’Eden capitalistico che prende il nome di Silicon Valley, parlando di un avvenire luminoso, convinta di poter rivoluzionare il mondo e la condizione umana e in costante ricerca di finanziamenti. Si tratta dei transumanisti: scienziati, ingegneri, pensatori, grandi manager ma anche persone “comuni” che lavorano per far sì che le fantasie e le intuizioni dei grandi scrittori di fantascienza possano realizzarsi concretamente. I transumanisti fondano il loro credo sull’idea che sia possibile sbarazzarsi dei problemi legati alla nostra limitata biologia umana, fatta di organi inefficaci e flaccidi, scarsa intelligenza e bias cognitivi, e, in particolare, della morte, la quale da destino inscritto nell’ontologia dell’uomo diviene mera malattia da eradicare il prima possibile per mezzo della tecnologia. Messosi sulle loro tracce, Mark O’Connell, giornalista dublinese, firma del “The Guardian” e del “New Yorker”, ne delinea una stupenda zoologia nel suo saggio d’esordio: Essere una macchina (2017). Il saggio, impreziosito qua e là di riflessioni molto profonde, è una galleria di personaggi pittoreschi, che l’autore ha avuto la fortuna di incontrare. Si va dal filosofo-becchino Max More, fondatore del movimento transumanista e presidente e amministratore delegato della Alcor, un’organizzazione no-profit che si occupa di crionica, cioè della preservazione di corpi umani a bassissime temperature in attesa che le future tecnologie possano riportarli in vita, al neuroscienziato Randal Koene, il quale sogna di realizzare il mind uploading, il trasferimento delle menti umane in sistemi informatici; si va dai grinders, “transumanisti pratici” che s’impiantano dispositivi e chip sotto pelle con l’intenzione di divenire cyborg immuni al decadimento fisico, al funereo Aubrey de Grey, impegnato nel progetto SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence), che si propone l’obiettivo di trovare una “cura” per l’invecchiamento per mezzo delle biotecnologie, fino all’eccentrico Istvan Zoltan, candidato alle presidenziali americane che O’Connell ha accompagnato durante la campagna elettorale, condotta su un camper a forma di bara e incentrata sulla promessa di trovare un modo per “abolire” la morte. A questo caleidoscopico gruppo non si può non aggiungere il guru Ray Kurzweil, che O’Connell non è riuscito a incontrare ma a cui ha comunque dedicato un capitolo: si tratta di un noto inventore e informatico della Silicon Valley che ha scritto diversi libri sul transumanesimo e che ha predetto l’avvento imminente della Singolarità. “La Singolarità di Kurzweil – scrive O’Connell – è una visione quasi psichedelica dell’abbondanza tecnologica, una teleologia definita nei più minuti particolari in cui tutta la storia converge verso un’apoteosi dell’intelletto puro”. Con la Singolarità ci disincarneremo, non saremo più in balia di pulsioni primordiali e superstizioni, avremo a nostra disposizione nuovi corpi, esoscheletri robotici o virtuali, acquisiremo un potere tale da poter imporre finalmente un senso all’inerte materia, simili in questo al demiurgo di Platone.
O’Connell affronta i suoi interlocutori con una buona dose di scetticismo e più che colpirli sul terreno delle possibilità della scienza e della tecnica, a cui del resto non può che riconoscere un potere che sembra inarrestabile, cerca di mostrarne l’attaccamento psicologico ad antiche idee e desideri, che hanno fatto la fortuna di mitologie, religioni e filosofie, quali l’idea che la mente sia qualcosa di distinto dal corpo, il desiderio di trascendere la limitatezza umana, il rigetto della natura, il desiderio di trovare un senso che innervi e muova la storia. La filosofia transumanista cade così in una lampante contraddizione: pretende di svuotare l’uomo di tutti i bisogni e le credenze funzionali a “vivere nella savana” ma inadatte per costruire il futuro, ma lo fa abbarbicandosi a desideri umani, troppo umani.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    10 Febbraio, 2019
Top 500 Opinionisti  -  

Sfuggire al dominio

Ernst Jünger, classe 1895, scrive il Trattato del ribelle (1951), traduzione fascinosa ma imprecisa del titolo originario Der Waldgang, negli anni del dopoguerra, in una Germania ferita e scissa a metà. Si tratta di un piccolo libro che si legge facilmente e che spesso, come un bivalve, discopre perle di autentica bellezza. L’obiettivo polemico di Jünger è lo Stato, qualsiasi sia l’assetto ideologico che lo caratterizzi: non importa che ci si trovi sotto il fascismo, il comunismo e persino la democrazia liberale (come si evince da alcuni passi, al tempo stesso vaghi e rivelatori), l’individuo nello Stato moderno è sempre sondato attraverso continue interrogazioni-interrogatori, è costretto a disperdersi nel gregge della massa, è illuso attraverso elezioni apparentemente libere, le quali, in realtà, sono imbastite per legittimare il potere. Votando “si” si cede l’anima alla maggioranza su cui siedono i tiranni, votando “no” si fa credere alle teste della maggioranza di agire liberamente, nonché di essere minacciate da una minoranza sovversiva. Ma la crocetta sul “no”, pur essendo funzionale allo Stato Leviatano, rappresenta un punto di partenza a partire dal quale l’individuo può scrollarsi di dosso le paure instillategli dalla propaganda e recuperare la propria autenticità. “Quel voto non scuote il nemico e tuttavia modifica chi si è deciso a un simile passo”. L’autore che dice “no” è il waldgang, termine che, nel Medioevo, designava i criminali islandesi che andavano a vivere nelle foreste, lontani dall’umano consorzio, e che per Jünger ben si attaglia al suo nuovo uomo, un uomo che è pronto a costituire una minaccia per i tiranni. Innanzitutto egli deve epurare la sua mente di certe idee nichiliste, come il valore intrinseco della maggioranza, l’utilizzo della fantasia per evadere dalla realtà dove si scuoiano i propri fratelli o l’affidarsi ciecamente alla tecnica, che fa del nostro mondo un Titanic, ricco di comforts ma diretto verso un destino atroce. “Fintantoché regna l’ordine, l’acqua scorre nelle tubature e la corrente arriva alle prese. Non appena la vita e la proprietà sono in pericolo, come d’incanto un allarme chiama i vigili del fuoco e la polizia. Ma il grande rischio è che l’uomo confidi troppo in questi aiuti e si senta perduto se essi vengono a mancare. Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia del macello”. Il waldgang deve, dunque, coltivare il suo “bosco interiore” e dotarsi di un armamentario morale che gli consenta di sopravvivere alla fine della civiltà e delle sue rassicurazioni. Il waldgang è colui che si getta nel vortice, nel pericolo per testare la sua integrità; che attinge dall’antichità e dalla religione un universo valoriale oramai perduto (anche gli atei dovrebbero avere una loro catechesi); crede nella santità del libero volere, del sacrificio e della proprietà privata. Il motto “la proprietà è un furto”, può sembrare paradossale, non ha condotto a un paradiso comunista, ma alla facilità con cui i poteri finanziari sottraggono le abitazioni ai cittadini. Occorre rivoltarsi, combattere i tiranni che ci aggiogano, recuperare il diritto di essere umani, diritto trascendente e che nessuna costituzione può normare. Il materialismo culturale (di cui Hollywood, ai giorni nostri, ne è, talvolta, eccellente espressione) non ci libera dal potere di Dio, ma tenta piuttosto di sostituirlo con quello, illegittimo, dei tiranni. Il waldgang ha decisione sovrana su ciò che concerne il diritto, la medicina, l’uso delle armi. Il trattato del ribelle può essere per certi versi pericoloso: se da un lato porta, giustamente, ad evitare di santificare la realtà così come è (è uscito da poco Illuminismo adesso di Steven Pinker, un elogio spassionato della nostra modernità), dall’altro può spingere a trascurare i progressi scientifici, tecnologici, giuridici e politici dei nostri giorni e può incoraggiare chiunque a credersi in diritto di fare tutto ciò che vuole, in virtù di un ipotetica naturalezza ritrovata (penso ai no-vax o ai populisti più agguerriti). Il bosco deve essere chiaro, appartiene ai pochi, a un élite di uomini coraggiosi, romantici, anarchici e forse mitologici.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Le opere di Nietzsche
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    19 Dicembre, 2018
Top 500 Opinionisti  -  

Immagini dalla Cina

La Cina ha due premi Nobel per la letteratura: il primo è l’eretico Gao Xingjian, voce critica che dalla lontana Francia agita lo spettro degli eventi di piazza Tienanmen, il secondo è invece Mo Yan, romanziere esperto, esaltato in patria, il cui successo si deve anche al regista Zhang Yimou, che ha tramutato in immagini il libro più celebre di Yan, “Sorgo Rosso” (1988). Anche “I quarantuno colpi” (2003) è un romanzo che ben funzionerebbe come sceneggiatura di un film: le immagini che il romanzo evoca sono “eloquenti”, vivide, corpose, forti e talora viscide; dalla carta esala l’odore acre della carne e spesso s’alza un nugolo di mosche, assettate di morte. “Grande monaco dalle nostre parti quando i bambini fanno gli sbruffoni e raccontano bugie si dice ‘che sparano cannonate’, ma ciò che le racconterò è la verità, pura e semplice”: è così che Luo Xiatong, protagonista del romanzo, inizia il suo lungo tuffo nel passato che gli permetterà, sotto la supervisione di un silente monaco, di poter iniziare un percorso di purificazione e di affrancamento.
La storia di Xiatong è l’ennesima storia inscritta nel grande oceano dell’esistenza, il samsara, un oceano di sofferenze dove i pesci si divorano reciprocamente a piccoli morsi: vissuto nella miseria più nera, Luo subisce l’allontanamento del padre, che fugge con l’amante Ye Luozi, e gli improperi dell’arcigna madre, che lo costringe a una vita di stenti; il ricongiungimento dei genitori e l’amicizia con la sorellastra Jiaojiao si rivelano essere soltanto degli illusori momenti di tranquillità, che anticipano la completa rovina. La famiglia di Luo, infatti, si affida al capo-villaggio Lao Lan, che ha intenzione di dar vita a una vera e propria industria della carne, in grado di soppiantare le macellazioni “artigianali”, e finisce stritolata da giochi di potere, tradimenti e indifferenza. Luo Xiatong trova il balsamo di tutti i suoi mali nella carne, nonostante sia corrotta, piena d’acqua o di formaldeide; essa gli sembra vibrare, contorcersi e piangere di piacere stretta fra i suoi denti. È la sua proverbiale ingordigia a renderlo una vera e propria divinità agli occhi dei suoi compaesani. Ma quando si rende conto che persino l’amata carne è ricettacolo di sofferenza (la piccola Jiaojiao morirà per un’indigestione di carne avariata), Luo Xiatong non può che constatare che la mondanità in cui è conficcato è un cancro che dissipa e assorbe ogni energia positiva. È per questo che egli tenta (o sogna?) di distruggere il villaggio e di uccidere il temibile Lao Lan. È per questo motivo che si rivolge al monaco. Eppure il romanzo si conclude con il protagonista che, una volta terminato il racconto, non s’immerge nel vuoto buddhista, ma guarda l’orizzonte popolarsi di tutte le figure, amiche e nemiche, che hanno accompagnato la sua esistenza: una scena che non poteva non ricordarmi quel capolavoro di “Otto e mezzo” di Fellini, il cui finale è un caleidoscopico girotondo di fantasmi del passato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
2.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Martin Opinione inserita da Martin    10 Dicembre, 2018
Top 500 Opinionisti  -  

Pensieri dalla Cina

François Jullien è uno studioso che, dopo essersi formato in Francia studiando filosofia greca, ha lavorato per anni in Cina, affascinato dal pensiero dei suoi saggi (Confucio, Mencio, Mozi, Laozi, Zhuangzi, ecc…). Il suo soggiorno in Estremo Oriente è stata un’occasione straordinaria per guardare il pensiero occidentale non più dal suo interno, da un punto di vista situato, “emico” , come direbbe un antropologo, ma dall’esterno, in modo “etico”.
Il saggio “Essere o vivere” (2015) non è un’opera che definisce le differenze fra le due culture analizzate; è, invece, un armamentario di concetti, attinti dalla saggezza orientale, in grado di operare degli squarci nell’arazzo della cultura occidentale e mostrare delle possibilità di pensiero, incarnatesi in Cina, che da noi sono stati germogli che non sono riusciti a fiorire. In seno ad ogni cultura, sostiene Jullien, ci sono le stesse possibilità di pensiero, non esistono modi di vedere tipicamente cinesi o tipicamente greci. Non esistono differenze culturali, ma scarti: ci sono culture che si sono focalizzate su certi aspetti, lasciando che gli altri rimanessero sullo sfondo, e culture che, invece, hanno rovesciato tale struttura. Le culture non sono, dunque, incomunicabili, come porterebbero a far credere testi di successo come quelle contenute in “Lo scontro delle civiltà” del politologo Huntington; sono capaci degli stessi slanci, delle stesse riflessioni, degli stessi moti interiori. Si tratta soltanto di far emergere i non detti, l’inespresso, ciò che è rimasto nascosto, inascoltato, sotto-sviluppato. Diversi sono per Jullien i filosofi occidentali le cui parole sembrano insaporite dalle foglie del tè: Eraclito, Montaigne, Spinoza, Montesquieu, Nietzsche.
“Essere o vivere” è un dizionario che consta di venti concetti cinesi, ciascuno dei quali è presentato affiancato dall’alternativa occidentale: il concetto cinese di “disponibilità” è affiancato da quello di “libertà”, alla parola “coerenza” fa da contraltare il “senso”, al termine “evasivo” fa da contraltare “assegnabile”.
Ciò che costituisce il nucleo originario della filosofia occidentale è la nozione di “soggetto”: è intorno a un soggetto pensante che si struttura la ricerca libera delle verità morali e naturali; è il soggetto l’elemento di cui Descartes non riesce a fare a meno, discendendo negli abissi dello scetticismo. Confucio, invece, non si fa problemi a dire: “Quattro cose il maestro non aveva: né idea, né necessità, né posizione, né io”.
Il minimalismo della filosofia cinese porta a sbarazzarsi del fardello di oggetti metafisici come il “soggetto”, a cui possiamo aggiungere “Dio”, “volontà” e “verità”, e a concepire il mondo non come un paesaggio che mi sta dinanzi e che mi trovo a dominare, quanto piuttosto come una situazione in cui sono inglobato e da cui non emergo prepotentemente. Le azioni morali, invece, non sono il risultato causale di una volontà libera, ma un liquido scivolare negli anfratti della trama dell’energia del cosmo (qi). Mencio sostiene che non bisogna pretendere di ottenere ciò che si cerca, perché questo sarebbe una forzatura, ma bisogna che ciò venga da sé. La scelta si limita ad essere una selezione di contesti che si profilano. Il taoismo, ancora, si fonda sul concetto di “wu wei”, che letteralmente significa “azione senza azione”.
L’occidentale pensa tramite modelli da applicare al mondo, modelli che stritolano il vivere per produrre ontologie, classificazioni; il cinese aspetta che le cose arrivino a un punto di maturazione tale da essere colte naturalmente. L’occidentale è colpito dalla sonorità dell’evento, dallo scoppiare della rivoluzione, che pone quale punto di partenza di un nuovo corso; il cinese è attento al silenzio della trasformazione e non si stupisce di certe esplosioni, che non vengono mai assurte a nuovi inizi. L’occidentale è sincero, non può tradire se stesso e può sacrificarsi per la propria idea; il cinese è, invece, affidabile, aspetta che le condizioni siano giuste (che, ad esempio, la relazione di amicizia si infittisca) per dire ciò che ha da dire. L’occidentale è retore, ama scontrarsi con l’altro e far confliggere le proprie opinioni con quelle dell’altro, mentre il cinese è obliquo, cerca di far sua la posizione avversaria per imprimergli una nuova direzione. L’occidentale attende l’evento, possiede un Dio che si rivela e spezza il continuum della storia, ha un medico che lo cura da una malattia; il cinese attende che la situazione si regolarizzi, crede in un Cielo (tien) che placa i disordini e produce il continuum, ha un medico che mantiene la salute.
Jullien è abilissimo nel tracciare le possibilità incarnate dal pensiero cinese e quelle fatte proprie dalla filosofia occidentale, possibilità che spesso ritiene conseguenza delle strutture stesse delle lingue sino-tibetane e delle lingue indo-europee (egli è debitore della tesi di Sapir-Whorf), ma il suo linguaggio non può che apparire ostico, appesantito da tecnicismi filosofici, talvolta inconcludenti. Il rischio maggiore non è però quello di non essere capito. Il problema vero è che le descrizioni di Jullien, che pure sono state scritte con l’intento di dare agli occidentali modi di pensare inconsueti, possono essere utilizzate per fomentare immagini stereotipate: quella dell’occidentale teatrante, sempre pronto a vomitare il proprio ego, che si dibatte in questioni di lana caprina e che tende sempre a intellettualizzare le sue esperienze di vita; e quella dell’orientale sfuggente, anonimo, poco dedito all'astrazione e i cui occhi a mandorla sembrano essere lì appositamente per nascondere le verità del suo sguardo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Libri di filosofia.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Martin Opinione inserita da Martin    28 Marzo, 2018
Top 500 Opinionisti  -  

La verità dell'arte

“Alla ricerca del tempo perduto” del francese Marcel Proust è sicuramente una di quelle opere che non ha bisogno di presentazioni: le sue quasi quattromila pagine, del resto, non passano inosservate. Ma ciò che ha reso famoso il romanzo di Proust è sicuramente la luminosità che promana dalle immagini, dalle tortuose vicende, dai colori, dalle riflessioni, dalle sofferenze, dalle nostalgie e persino dai momenti morti che punteggiano questo labirinto d’inchiostro.
Quando, più di un anno fa, iniziai a leggere quest’opera, regalatami da alcuni dei miei più cari amici, ero convinto di essere alle soglie di un cammino che mi avrebbe prima o poi condotto a un prezioso tesoro, al senso della vita, alla formula per la felicità, a un qualcosa al cui confronto la pietra filosofale ricercata dagli alchimisti e la prova dell’esistenza di Dio dei logici medievali sarebbero stati ben poca cosa. Ma dopo aver terminato questa faticosissima impresa, sento di non aver nulla fra le mani, sento soltanto un vuoto che ha preso il posto di tutti quei personaggi a cui mi ero affezionato, come la vivace Madame de Guermantes o l’acuto Swann, e che non affollano più la mia mente. Quegli ampollosi nomi francesi, sulla cui pronuncia sono sempre stato incerto, già cominciano a sgretolarsi e a piombare nell’oblio. Un piccolo universo si era schiuso, più di un anno fa, ed ora è scomparso, trascinandosi dietro stelle e desolati pianeti, di cui permangono, nel vuoto, soltanto tenui vestigia, conservate dalla memoria.
Non ho ottenuto la formula della felicità, ma almeno ho imparato a farne a meno. E questo perché la felicità, così tanto bramata, non “ha quasi che un’unica utilità; rendere possibile l’infelicità”. “Occorre – scrive Proust nell’ultimo dei sette libri che compongono l’opera magna– che nella felicità si formino legami forti e dolci, di fiducia e tenerezza, affinché la loro rottura ci susciti quella lacerazione così preziosa che si chiama infelicità. Se non fossimo stati felici, non foss’altro che a causa della speranza, le sventure sarebbero prive di crudeltà e di conseguenza resterebbero infruttuose”. Proust è, dunque, un masochista che fa propaganda della sua aberrante filosofia di ricerca del dolore? Del resto non è da tutti dedicare interamente la propria esistenza alla descrizione minuziosa di amori travagliatissimi, come quello del protagonista del romanzo con l’esuberante Albertine, che lo tradisce con delle ragazze, dominati da quel “mostro dagli occhi verdi” che prende il nome di gelosia.
In realtà Proust è semplicemente realista: l’infelicità è ciò che ci rende umani. Già Leonardo da Vinci intuì, secoli fa, che il tratto che distingue le piante dagli esseri animati è la sofferenza, che permette a questi ultimi di scampare alle minacce e che permette di elaborare strategie di auto-difesa. La sofferenza è la molla che porta l’animale, soprattutto se circondato da altri (l’istrice schopenhaueriano si ferisce accanto agli altri della sua specie) e ancor di più l’uomo, questa scimmia nuda e indifesa, ad evolversi, ad arricchirsi di esperienze, a ricercare, a plasmarsi. La sofferenza è, per Proust, all’origine dell’introspezione (soffrire è alla fine un domandare a se stessi) e, dunque, all’origine dell’arte: perché l’arte non è che il rituale attraverso cui evocare il proprio spirito, quello a cui solo l’evoluzione del dolore dà solidità, mentre gli altri, come Albertine, mutano continuamente volto, ed è addirittura l’unico modo che ci è permesso per comunicare. “Ma allora, questi elementi, tutto questo residuo reale che siamo costretti a tenere per noi stessi, che non è nemmeno possibile trasmettere conversando tra amici, tra maestro e discepolo, tra due amanti, quest’ineffabile che differenzia qualitativamente ciò che ognuno di noi ha sentito e che è costretto a lasciare alla soglia delle frasi, dove non può comunicare con gli altri se non limitandosi a dei punti esteriori comuni a tutti e senza interesse, non è forse l’arte […] che lo mette in luce, esteriorizzando nei colori dello spettro la composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che senza l’arte non conosceremo mai?”. Ma per giungere alla verità dell’arte, alla verità del romanzo, Marcel (il protagonista dell’opera ha lo stesso nome dell’autore) ha dovuto compiere un tormentato calvario ora lungo la strada di Guermantes, fatta di strepiti mondani, mancanza di empatia (alla fine del terzo libro i signori di Guermantes non provano alcunché di fronte alle sofferenze del loro amico Swann, in procinto di morire), snobismo e vizio, ora lungo la strada di Swann, la strada dell’amore, all’apparenza rosea, costeggiata da fiori di biancospino, ma in realtà butterata dei segni implacabili del vizio e della menzogna. Soltanto questo lungo itinerario fatto di sofferenze lo porta alla verità dell’arte, alla decisione di scrivere un romanzo: è il ricordo di questo percorso tutto umano, intriso del vermiglio del dolore, rievocato ora dalla pietra su cui inciampa prima di recarsi dai Guermantes dopo tanto tempo e ora dal rumore di una posata sul piatto, che lo spinge a scrivere.
Ho percepito nel non credente Proust una sorta di nostalgia del cattolicesimo: il primo capitolo di “Dalla parte di Swann”, il primo volume, incentrate intorno all'infanzia del protagonista, vissuta a Combray, sono quelle più vivide, più colorate (indimenticabile la descrizione delle ninfee che il piccolo Marcel ammira), sebbene l’ombra della sofferenza sia sempre presente (emblematica l’affannosa ricerca del bacio materno), hanno un perno centrale, che è la cattedrale di Combray, che svettante domina e rassicura. Nel mondo che ha fatto a meno di Dio, invece, quello della mondanità aristocratica e borghese (soltanto M. Charlus è un fervente cattolico ed è ambiguamente al tempo stesso il più vizioso di tutti e la vittima sacrificale dell’alta società), pullulano gli idoli del nome, della reputazione, delle mode, della competizione. Ma è il tempo, che tutto può e che, alla conclusione del libro, è allegorizzato dalla figura di un vescovo che si trascina con al collo la croce, a disvelare la religione fasulla imbastita meschinamente: le matinée dei nobili, i quali, una volta, a teatro, erano apparsi a Marcel come delle divinità marine, abbondano di arrivisti e borghesi camuffati, mentre i nobili stessi, consunti dall’età e i cui volti sono anticipazione della morte, hanno perso ogni densità ontologica. Il dolore e il tempo, che sono così centrali nella teologia cattolica, sono le verità che la letteratura proustiana fa riaffiorare in tutta la loro grandezza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Martin Opinione inserita da Martin    07 Novembre, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

Corpi Naturali

“Il paese delle nevi” è forse l’opera più conosciuta del premio Nobel Yasunari Kawabata. Il romanzo trasporta il lettore in un Giappone remoto, lontano dalla frenesia delle metropoli e dalle bolle di smog, in un piccolo paesino di montagna, spesso asserragliato dalla neve, in cui la vita scorre tranquilla e scandita dai ritmi della natura. È la natura a dominare gran parte delle descrizioni, semplici e raffinate, simili ad haiku stesi in prosa, che fanno da sfondo alla vicenda raccontata. Ma è forse inesatto parlare della natura concepita da Kawabata quale ‘sfondo’: i personaggi stessi sembrano, infatti, cuciti alla perfezione al contesto naturale in cui si trovano ad agire e non sembrano slanciarsi al di fuori di esso; non c’è alcuna differenza fra i colori della natura e quelli dell’animo, che sfilano senza mai scontrarsi, alternandosi e mescolandosi, fino a confondersi. “E la Via Lattea si precipitò dentro di lui con un ruggito" è la frase che suggella l’epilogo del libro. Le figure umane emergono con la stessa semplicità e con le stesse poche pretese dei tronchi d’alberi e delle ondeggianti piume di erba kaya e tutto quello spessore psicologico che si è soliti ritrovare in romanzi europei dello stesso periodo è qui sostituito da superfici impenetrabili, le quali, tuttavia, sono in grado di parlare anche senza fiumi di parole. Volti, gesti, apparizioni, piccole scelte riescono a suggerire innumerevoli sfumature psicologiche: il riservatissimo Kawabata ci risparmia sezionamenti di anime piangenti e lamentose e quasi come se fosse un regista digiuno di pretese intellettuali ci offre soltanto una cruda estetica, uno scivolare di simboli che suggellano l’interiorità umana. Anche Komako, la geisha protagonista del romanzo, non si lascia andare ad alcun tipo di esternazione emotiva (e al massimo quando lo fa, Kawabata rimane sul vago) e la sua stessa pelle, sempre gelida al tocco, è metafora di questa chiusura ermetica. Le emozioni si afferrano soltanto vibranti negli spasmi del suo corpo, nei semplici gesti di dedizione e cura che ella ha per Shimamura, l’uomo di cui si innamora, nel riserbo delle poche frasi che pronuncia. Eppure Komako non è come gli altri personaggi che, come detto, panicamente partecipano alla grande necessità naturale, e in un certo senso prova a ribellarsi a tutto questo. In un mondo dove la professione, i ruoli sociali sono come radicati nella natura, dove non esiste differenza fra natura e cultura, Komako, che dovrebbe unicamente occuparsi del ristoro e del divertimento dei suoi clienti, alle terme del paese, si innamora di uno di essi e cerca di impadronirsi di ogni goccia di tempo che egli trascorre al paese, pur essendo consapevole, sempre in base alla grande necessità naturale che governa il mondo, che egli presto tonerà a Tokyo, dalla sua famiglia. In un mondo dove essere individualisti significa essere in salute, Komako assiste il figlio della donna che l’ha ospitata (Shimamura non sapendo spiegare tale fenomeno, sospetta una relazione affettiva fra Komako e l’uomo). Komako è strana. Persino una cosa banale come scrivere un diario è tacciata da Shimamura, alto rappresentante della necessità naturale, come una cosa inutile, uno “spreco di energie”. Komako non è sintonizzata con il tutto, non danza ascoltando il grande mantra che spira fra le foglie degli aceri, che è sopito sotto la neve, che manovra gli uomini come un abile burattinaio. Non è come la giovane Yoko, il cui volto, riflesso sul finestrino del treno preso da Shimamura, è arborescente, mescolato al paesaggio. Komako è innamorata ed è questo che costituisce la grande trasgressione. E l’amore, come scriveva Philip Roth ne “L’animale morente”, non è completarsi, ma è spezzarsi. Ed è lo stesso Shimamura ad accorgersi del potenziale snaturante dell’amore, o meglio dell’essere umani, dell’essere creature fragili e inadatte alla sopravvivenza:
“- la gente è delicata, vero? – aveva detto Komako quella mattina. – Ridotta in poltiglia, si dice, cranio, ossa e tutto. Un orso potrebbe cadere dalla roccia più alta e non ferirsi minimamente -. C’era stato un altro incidente su fra le rocce, e ella aveva indicato la montagna sulla quale era accaduto. Se l’uomo avesse una pelle ruvida e pelosa come l’orso, senz’altro la sua vita sarebbe diversa, pensò Shimamura. Era attraverso una pelle sottile e liscia che l’uomo amava. Guardando le montagne nella luce della sera Shimamura sentì un ardente, struggente desiderio della pelle umana”.

Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Economia e finanza
 
Voto medio 
 
3.2
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Martin Opinione inserita da Martin    21 Agosto, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

SIAMO CIGNI NERI

Ad Einstein è attribuita la frase: “Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente è un miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo”. Per il grande fisico, dunque, o si osserva il mondo con lo sguardo analitico e prosaico del materialista, oppure ci si affaccia alla vita e all’universo con lo spirito di Leibniz, il quale credeva che in ogni cosa, persino nel più minuscolo e insignificante essere vivente, albergasse un’unicità irripetibile. Non è così radicale Nassim Nicholas Taleb, economista e filosofo sui generis, il quale sostiene che i “miracoli”, per essere tali, devono essere fenomeni rari e allo stesso tempo capaci di imporsi e modificare ogni nostra certezza. Il miracolo di Taleb, inteso in senso laico e soprattutto sfrondato da ogni caratterizzazione soprannaturale e morale (esistono miracoli positivi così come miracoli negativi), prende il nome di Cigno Nero: difatti, basta scorgere fra i canneti di una laguna anche un solo cigno nero affinché la certezza che tutti i cigni siano bianchi, frutto di innumerevoli osservazioni empiriche, rovini precipitosamente. Le certezze che noi acquisiamo col tempo, inferendo il generale dal particolare, non hanno fondamento: è questo il grande insegnamento cui sono giunti grandi del pensiero come gli scettici antichi, Sesto Empirico, Al-Ghazali e David Hume, il quale ebbe modo di dire che non è possibile prevedere il sorgere del sole dal fatto che l’abbia sempre fatto finora. Taleb non si limita a far proprio tale insegnamento, ma cerca di corroborarlo con nuovi ragionamenti e prove, pescando da più ambiti (matematica, economia, psicologia, epistemologia): fra citazioni brillanti, omaggi a grandi pensatori del caos (Montaigne, Popper, Mandelbrot), esempi mal riusciti (le vicende del personaggio di Evgenija, che avrebbero dovuto facilitare le spiegazioni, poco si amalgamano alla trattazione) e echi autobiografici, Taleb squaderna un pensiero affascinante, non privo di aspetti controversi, che certo non elimina la causalità degli eventi, alla maniera dei sopra citati scettici, ma che descrive il cosmo in cui viviamo in modo estremamente più complicato di quanto pensiamo; le scienze, dunque, ci ingannano, il mondo non è sempre più prevedibile, e ciò che pur prevedono non è ciò che invece incide profondamente sulle nostre vite, ovvero l’accidente, l’evento inaspettato, il Cigno Nero. Anzi il mondo sta divenendo sempre più imprevedibile: pensate, ad esempio, a quante catastrofiche e quasi inimaginabili ripercussioni può avere una guerra oggi, rispetto le guerre del passato. Taleb si scaglia in particolar modo contro gli economisti, i trader, i professoroni in giacca e cravatta esperti di rischio, i quali cercano di convincerci, idolatrando il loro dio, la curva a campana di Gauss, che il mondo in cui viviamo è il Mediocristan, un posto grigio dove tutto è regolare e uniforme, e non il pericolosissimo (ma affascinante) Estremistan, pur di fronte all’evidenza dell’impotenza dei loro mezzi predittivi (si pensi alle tante crisi economiche e ai tanti successi aziendali mai previsti).
Ma gli economisti, alla fine, non fanno che adeguarsi a un modo di affrontare la vita che è insito nella nostra psicologia e a cui nemmeno Taleb a volte riesce a sottrarsi: viviamo e ci muoviamo nel mondo utilizzando pregiudizi, bias, in termini tecnici, che Taleb è abilissimo a descrivere, quali la fallacia narrativa, la tendenza a narrativizzare gli eventi, disponendoli in modo consequenziale e casuale proprio allo stesso modo in cui riordiniamo i frammenti onirici dopo un sogno, la maggior presa che hanno su di noi gli aneddoti rispetto alle statistiche, la tendenza a trascurare le prove silenziose, cosa che porta, per esempio, gli storici a dare ai fenici degli illetterati solo perché non si sono trovate opere letterarie, la diminuzione della percezione dei rischi corsi in passato, la fallacia ludica, la tendenza a trattare eventi governati dal caso attraverso schemi intellettuali.
Perfino le grandi scoperte scientifiche, per Taleb, devono molto alla cosiddetta “serendipità”, ovvero alla fortuna di trovarsi dinnanzi a Cigni Neri positivi: Fleming stava pulendo il suo laboratorio quando per caso scoprì la penicillina, i due radioastronomi dei Bell Labs che scoprirono la radiazione cosmica, erano dapprima convinti che l’antenna che monitoravano fosse disturbata dagli escrementi di uccelli. Come poi tutti ringraziano i grandi scienziati che fanno scoperte e nessuno i poveracci che, invece, intraprendono vie sbagliate e che così facendo impediscono ad altri di intraprenderle nuovamente.
Qual è a questo punto la “ricetta di vita” che Taleb propone al lettore? Si tratta di una ricetta forse troppo filosofica, ma non per questo meno incisiva: innanzitutto lasciar perdere i secchioni che pensano che tutto sia definibile con esattezza, studiare e andare avanti avendo come proprio presupposto non la conoscenza di cui si dispone ma l’ignoranza, rendendo in questo modo i Cigni Neri dei Cigni Grigi, essere sempre preparati agli accidenti, senza dimenticare che ne esistono anche di positivi, fluttuare senza mai affondare, privarsi di radici e scorrere su un mondo di possibilità, che ora naufragano ora si concretizzano, senza mai dimenticarsi che in quanto umani siamo un Cigno Nero, sopravvissuto al nulla, all'immobilità, all’incoscienza. Perché buttarsi giù per un incidente o un licenziamento, se abbiamo la fortuna di essere creature così rare e così vive? Siamo miracolo; siamo, in quanto vita, per dirla con le parole di Alfred North Whitead, “un’offensiva diretta contro il meccanismo ripetitivo dell’universo”.

Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Martin Opinione inserita da Martin    20 Luglio, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

CON GLI OCCHI DELL'IMPERATORE

‘Memorie di Adriano’ di Marguerite Yourcenar, pubblicato per la prima volta nel 1951, vanta una prosa carica di bellezza, ora dolce e molle, ora fredda e crepuscolare, ma sempre capace di descrivere con accuratezza quel profluvio di pensieri e soprattutto di desideri che costituisce il soggetto dell’opera, l’imperatore Adriano, che governò Roma e le sue vaste province dal 117 al 138 d.C. L’opera si configura come una lunga lettera, il cui destinatario è il futuro imperatore Marco Aurelio, in cui il padrone del mondo stilla, senza alcuna remora, la sua autobiografia. La giovinezza, le letture, l’educazione, gli incarichi presso la corte di Traiano, gli amori tanto roventi quanto frivoli, i combattimenti, il matrimonio, la successione al trono, i nemici, le riforme, i viaggi, numerosissimi, il fascino di Atene, i riti esoterici, l’efebo Antinoo, le rivolte di Giudea, la malattia, la scelta dell’erede si succedono a comporre la materia della lettera, che la scrittrice, come nei panni di una potente negromante, fa riemergere dalle profondità del tartaro, tanto è cesellata la sua ricostruzione storica. Ad essere sinceri mi aspettavo una vita ben più interessante di quella che prende corpo fra le spire dell’incantatrice Yourcenar, una vita ancor più ricolma di fasti, sregolatezze, intrighi, sangue (sarà l’effetto malefico di Games of Thrones), una vita veramente degna della sua divinizzazione. Avrei forse dovuto optare per libri su Tiberio, Nerone o Domiziano, ma non penso esistano libri sull’argomento equiparabili a questo per grandezza.
Deludente è poi il modo, a tratti sbrigativo e poco introspettivo, con cui la Yourcenar ha dato voce alla storia d’amore, certo discutibile, almeno per i nostri standard morali, ma non priva di un fascino ammaliante, fra l’imperatore e Antinoo: sembra quasi che Antinoo sia soltanto un gioiello prezioso nelle mani d’un capriccioso. Immagine che, in realtà, si frantuma nelle pagine che seguono la morte del ragazzo, suicida nelle acque del Nilo: Marguerite, forse spinta dall’idea che è nell’assenza che gli affetti si mostrano per quello che veramente sono, ci offre ora un uomo completamente spezzato, in preda alla disperazione, che il ricordo cambia in modo capovolgente. Sembra quasi che Adriano abbia lasciato un tetro fantasma a continuare la stesura delle sue memorie. E sono proprio le ultime pagine quelle che maggiormente trasudano di melanconia, emozione e di riflessioni in grado di scuoterci e turbarci: Adriano si prepara all’ultimo passo; la sua “animula vagula” è pronta per l’ultimo viaggio. “Ma tutte le teorie sull’immortalità m’ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà di giudizio. D’altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d’Epicuro” sono le parole che Marguerite mette in bocca ad Adriano. La morte, il grande limite attraverso cui gli uomini progettano le proprie caduche vite, diventa oggetto di una meticolosa anatomia. Le ultime pagine sono d’una bellezza incredibile, sculture fatte d’alfabeto, e che, nonostante la melanconia e l’arrendevolezza con cui l’imperatore s’offre alla morte, non cessano di lodare la luminosità di questo fondatore di biblioteche, di granai contro l’inverno dello spirito, che anticipa la storia (facile, direte voi, fare gli indovini con eventi già successi): “Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il pontefice massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d’essere il capo di una cerchia di affiliati o d’una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità”. Non bisogna temere i cambiamenti, il caos che imperversa, la decomposizione inesorabile, la bellezza, la giustizia lasciano segni eterni che, anche se frutto d’una sola individualità, sono simboli con cui leggere le pieghe del mondo: “mi sentivo responsabile della bellezza del mondo” scrive Adriano.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    05 Giugno, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

IL SONNO DELLA RAGIONE

“L’uomo è un’invenzione recente” è la frase provocatoria con cui il filosofo Michel Foucault introduce le sue riflessioni ne ‘Le parole e le cose’. Nell’opera speculare ’Storia della follia nell’età classica’ si indaga il retroterra di questa strabiliante invenzione, i suoi collaudi, gli esperimenti che l’hanno anticipata: a farne da cavia i folli. Numerose sono le etichette che ad essi furono attaccate durante le varie epoche: privilegiati di Dio, insetti, smascheratori di commedie, sibille deliranti, reietti, meccanismi inceppati, animi erranti e malati. Certamente essi costituiscono qualcosa di fondamentale per la comprensione, “l’archeologia”, in termini foucaultiani, di una storia dell’umanità che mai si configura come un progresso asintotico ma sempre come una stratificazione di esperienze “incommensurabili”.
L’antropologia nasce, come fu per la teologia, primariamente come antropologia negativa: cos’è che l’uomo non è? La ricerca della risposta non può che iniziare da quegli individui che sono a metà fra l’umano e l’inumano, quegli individui in cui risplende un’animalità che rende possibile, per confronto, delimitare i contorni di un nuovo oggetto di studio: l’uomo.
Ma questa stessa animalità che ribolle sui visi contorti dei matti fa rabbrividire e la ragione, nel corso di tutta l’età classica, che per Foucault va dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento, si è impegnata in modo sistematico nel tentativo di stemperarla, di ridurla al silenzio, attraverso l’internamento. I folli diventano così i “nuovi lebbrosi” e assieme al resto della feccia della società (poveri, mendicanti, libertini, criminali, bestemmiatori) vengono confinati in abissi istituzionalizzati.
Le scienze umane nascono dal fallimento di questo colossale tentativo di esclusione, che si presenta simbolicamente come una lotta cartesiana della ragione contro i fantasmi dell’irrazionale e dello scetticismo, quando il folle viene nuovamente auscultato nei moti del suo linguaggio, quando si scopre che anche il suo farfugliare ha una sua logica, che risponde a un elemento primigenio che è ben più radicato della ragione stessa, quello che Nietzsche chiamerà spirito dionisiaco e Freud, scientificamente, inconscio. Presto questa nuova scoperta verrà rivestita in superficie della sicurezza tutta positivista della medicina, che affronterà i folli quali malati (poco importa se del cervello o della mente), quali eccezioni di un ideale di normalità umana, tanto importante in medicina quanto astratto e che fra l’altro deve alla follia stessa la sua esistenza: il folle non viene più combattuto dalla ragione ma convinto a combattere contro se stesso, attraverso uno slancio medico e allo stesso tempo morale. Foucault è l’anti-cristo della psichiatria, una figura diametralmente opposta a quella di Kraepelin, padre della psichiatria moderna.
Ma l’opera di Foucault è molto più complessa di quanto detto e intreccia più temi che trasversalmente attraversano più epoche (e non solo l’età classica): la follia come Giano bifronte, ora notturna e mostruosa (Bosch) ora unica raison d’etre del mondo (Erasmo), le nosografie seicentesche e settecentesche delle “specie” di folli (il demente, il malinconico, il maniaco, l’ipocondriaco), il continuo riferirsi della follia a un piano morale e in particolare al significato di “colpa”, l’evoluzione della medicina (o meglio le sue trasformazioni) il problema dell’irresponsabilità giuridica del folle, le concezioni filosofiche di Pinet e di Tucke (coloro che liberano i folli dalle catene), l’antinomia psichiatrica costituita da psicologismo e organicismo, il rapporto fra opera e psicologia autoriale (Van Gogh, Nietzsche, Artaud). Lettura molto impegnativa, ma fondamentale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    06 Febbraio, 2017
Top 500 Opinionisti  -  

Morte di un ideale

‘Il padiglione d’oro’ (1956) è una delle opere più rappresentative degli scritti del giapponese Yukio Mishima. Si tratta di un’opera di straordinaria levatura, scritta in maniera magistrale e in cui appaiono, come ombre che sgusciano, nascoste da un meraviglioso turbinare di ninfee sul fiume profondo della letteratura, echi della biografia dell’autore, carica di scelte ed eventi significativi.
Il romanzo, la cui trama finisce per essere soltanto pretesto per mettere in risalto un fremere di audaci pensieri, che prende forma immergendosi in metafore e confronti con la filosofia buddista, s’ispira ad un evento realmente accaduto: la distruzione di un celebre santuario di Kyoto, il Kinkakuji, avvenuta per mano di un giovane accolito buddista. Mishima non fa altro che trasformare il piccolo criminale esaltato in un inquieto filosofo (figure che nella storia spesso hanno finito per sovrapporsi e confondersi fra loro).
Mizoguchi è un ragazzino destinato a diventare monaco, brutto, introverso, incapace di penetrare quella membrana costituita dal mondo esterno a causa della balbuzie che lo affligge, ma sempre dedito a coltivare un ideale: ammirare un giorno il padiglione d’oro di Kyoto, di cui sovente gli parla il padre.
E quando ciò avviene, il padiglione non termina di essere la sua ossessione, continuando a slanciarsi con le sue forme imponenti e immortali, simili alle spire dorate di una creatura celeste, nei suoi sogni e nei suoi pensieri. Un’ossessione che in un primo momento pare stemperare gli aspetti più marcescenti e sadici del suo carattere. Esso tuttavia finisce inevitabilmente per schiacciare la sua esistenza, l’esistenza dell’intero mondo transeunte e come un parassita finisce per suggere tutto ciò che di bello punteggia la sua misera vita o, almeno, è in questa prospettiva che ho letto la morte dell’amico Tsurukawa, il quale “emetteva luce per il solo fatto di esistere” o la tragedia cui va incontro la misteriosa e sensuale donna del tokonoma.
L’incontro con il deforme e cinico Kashiwagi acuisce ancora di più nella coscienza del balbuziente la differenza costitutiva che esiste fra il grigio mondo della vita e il mondo delle idee, quasi fosse questo un parassita importato dall’Occidente figlio di Platone, e che nella pragmatica mente d’orientale di Mizoguchi assume le sembianze del padiglione.
È a questo punto che Mizoguchi si trova di fronte a due strade: imboccare il cammino scelto da Kashiwagi, ovvero quello di sprofondare nelle lusinghe della vita mondana, fra le braccia vaporose di ragazze e prostitute, oppiacei che fanno dimenticare l’ideale, o scegliere una via più impervia, ovvero decretare la morte dell’ideale attraverso l’agire fine a se stesso, il privarsi buddista dello sguardo analitico e generatore di differenze, siano esse anche le sublimi differenze (diremo noi platoniche) di idee e mondo, di Essere e Divenire, in virtù di una luce interiore più baluginante e di cui noi occidentali abbiamo perso il ricordo? È forse quest’ultima via quella che simboleggia il rutilante fuoco che inghiotte il tempio?

“Se incontri il budda, uccidilo;
se incontri i genitori, uccidili;
se incontri i parenti, uccidili;
Soltanto così potrai ottenere la salvezza dell’anima tua,
Soltanto così sfuggirai all’intrico della materia e t’affrancherai”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Opere di letteratura e filosofia orientali e/o romanzi dell'estetismo europeo
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
Martin Opinione inserita da Martin    27 Settembre, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

La realtà è la miglior fantasia?

Alice non fu più in grado di far ritorno nel Paese delle Meraviglie, dopo esserne uscita fuori sputata dallo specchio della sua coscienza: ella crebbe, ella dovette fare i conti con la realtà. Eppure qualcosa in lei sfrigolò, si agitò, ribollì come puro magma per tutto il resto della sua vita. Ogni “Alice” di questo mondo (e il mondo ne è pieno o, almeno, si spera) si sente così. È per questo che a volte sembrano così dedite alle regole, alle leggi, al dover essere, al lavoro: soltanto così possono tenere a bada il caos interiore e la continua generazione di sogni, fantasticherie, chimere. Ma che reazione avrebbero le “Alice” del nuovo millennio se si dicesse loro che il Paese delle Meraviglie è lo stesso mondo in cui si sentono incatenate? Che reazione avrebbero se venissero a sapere che è la stessa imperturbabile logica a cui cercano d’affezionarsi, senza successo, ad ammettere di farsi spazio in un mondo molto più vasto, caotico, colorato, bizantino, non-logico? Come si sentirebbero dopo aver letto lo sfolgorante Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, scritto da un vero e proprio Homo Universalis dei tempi moderni, il dottor Douglas Hofstadter? Di certo si sentirebbero rinate, ringiovanite.
Il professore Hofstadter squaderna nel suo capolavoro una nuova visione del mondo, che non può non risultare poetica ed emozionante agli occhi di quella categoria di persone a cui ho dato il nome di “Alice”: un mondo votato alla complessità, un mondo che si struttura in una moltitudine di strati e ripiegamenti auto-referenti, un mondo denso di misteriosi ‘Strani Anelli’. Ma la cosa ancor più sorprendente è che qui non ci troviamo innanzi ad uno scienziato che strizza l’occhio all’olismo(Noble), ad uno scienziato credente (Collins), o ad uno scettico di professione (Latour): siamo di fronte un riduzionista di primo livello, un uomo che ha fatto della tesi di Church-Turing un suo cavallo di battaglia e che è convinto della validità dei progetti di Intelligenza Artificiale.
Possibile che un mondo artistico alla Lewis Carroll sia compatibile con la rappresentazione rigorosamente scientifica con cui Hofstadter ci consegna il mondo e ciò che lo percepisce, la mente? Ma certo che si! L’autore comincia il suo lungo e a dir poco tortuoso cammino letterario introducendo un po’ di storia della logica e mostrandoci che essa non fornisce ‘congegni diabolici’ con cui addomesticare il pensiero ma veri e propri cantieri, progetti in costruzione, nella cui realizzazione il pensiero raggiunge il suo massimo grado di acutezza.
Hofstadter parla del progetto logicista (ovvero il progetto di ridurre la matematica a un sistema formale della logica) che ispirò grandi menti come quelle di Frege e Peano, del completo naufragio del logicismo avvenuto con la formulazione del paradosso di Russell, del tentativo dello stesso Russell e di Whitehead di rielaborare un sistema logicista che tenesse conto del paradosso nei Principia Mathematica e infine presenta Kurt Gödel, il quale ha il gran merito di aver reso ‘introspettiva’ la logica e di aver scoperto con ciò il primo Teorema di Incompletezza.
Gödel, in altre parole, ha tradotto in termini meta-matematici il famoso paradosso di Epimenide , “Questo enunciato dell’aritmetica non ammette alcuna dimostrazione nel sistema formale dell’AT (il sistema formale plasmato dallo stesso Hofstadter sul modello di quello di Russell)”, e da qui, attraverso un cervellotico ragionamento matematico, è giunto alla conclusione che l’enunciato è indimostrabile ma vero. Ogni tentativo di superare questo gap, costruendo un sistema formale maggiore che sia in grado di contenerlo, ovvero AT (sistema formale) + G (numero di Gödel, ovvero proposizione indecidibile) può essere superato riapplicando la ‘gödelizzazione’ e riformando una verità non dimostrabile. Gödel scoperchiò così un vaso di pandora: la matematica e la filosofia non furono più le stesse. Il ragionamento matematico è contenuto in alcuni dei capitoli del libro e devo ammettere di non averne capito granché (ci ritornerò più avanti, una volta acquisite maggiori capacità).
Il ghirigoro matematico con cui Gödel ha rilevato l’indimostrabilità di certe verità matematiche trova corrispettivi artistici, umani e naturalistici: le tortuose fughe di Bach (si provi ad ascoltare l’Offerta musicale), i meravigliosi dipinti ed onirismi di Escher, i grafici ricorsivi di cui usufruisce la fisica, il DNA e i suoi processi, la filosofia zen e soprattutto quel sontuoso tempio dalle colonne spiraleggianti che prende il nome di cervello. Il poliedrico scienziato è abilissimo nell’organare con cura questo oceano di argomenti coll’intenzione di rivelare come l’autoreferenzialità è alla fine una costante del nostro mondo. Ma la magia gödeliana, che spezza la logica, che complica l’esistenza, che rivela inaccessibili certe verità, che rende più artistico il lavoro dello scienziato, sembra svanire quando Hofstadter propone il suo modello per spiegare la coscienza: il cervello è l’hardware di un computer, la mente un software, i neuroni sono il materiale inerte, la coscienza, il mondo virtuale. Se la coscienza si riduce a questo, non sarà difficile, in un futuro indeterminato, progettare macchine non solo pensanti ma perfino capaci di percepire, gioire, soffrire.
“Sono convinto che la spiegazione dei fenomeni ‘emergenti’ nel cervello, per esempio idee, speranze, immagini, analogia, e infine la coscienza e il libero arbitrio, sia basata su un qualche tipo di Strano Anello: un’interazione fra i livelli in cui il livello più alto torna indietro fino a raggiungere il livello più basso e lo influenza, mentre allo stesso tempo viene determinato da esso”.
La coscienza si basa, dunque, sullo stesso gioco di Gödel, ovvero sulla capacità di uscire fuori da sé stessa, dai neuroni che ne costituiscono le sue ‘regole formali’, per costruire un nuovo sistema, quello dei simboli, da poter poi a sua volta cogliere in sfere d’astrazione sempre più complesse. Il Paese delle Meraviglie non è solo intorno a noi, con le sue porte infinite e i suoi dedali intricati, ma anche dentro di noi.
La prospettiva riduzionista di Hofstadter crea ancora molti dubbi e perplessità e in un primo momento sembra togliere peso alle concezioni religiose e all’estetica su cui abbiamo forgiato il nostro senso comune: in verità essa qualora si rivelasse il modo migliore con cui affacciarci alla realtà e a noi stessi,
non sradicherebbe affatto la bellezza del mondo, ma anzi continuerebbe a nutrirsi della stessa per immergere nei meandri più profondi dell’eterna ghirlanda brillante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    22 Giugno, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

IL FILOSOFO E LO SMOKING: LA PRIGIONE DELLA FORMA

Jean Paul Sartre, almeno stando alle sardoniche parole di André Maurois, non accettò il premio Nobel per la Letteratura “perché incapace di indossare uno smoking”: una personalità magmatica e controcorrente come quella del filosofo avrebbe potuto soffocare in un elegante abito da sera. Sartre, in effetti, temeva di poter diventare un simbolo, temeva che la sua vita potesse essere sublimata in un puro concentrato di forma e convenzione: “Non voglio essere letto perché Nobel, ma solo se il mio lavoro lo merita” dichiarerà.
Il viluppo di forme, immagini e schemi con cui gli uomini imbrigliano l’esistenza per trarne conforto, da cui il filosofo ha sempre cercato di sfuggire, è la grande maschera che viene a cadere nella sua opera letteraria; è ne La Nausea (1938) che, in particolare, Sartre proietta sulla figura dello storico Antoine Roquentin le sue inquietudini, le sue turbe e le sensazioni provate che scaturiscono direttamente dall’estraneità della forma e dalla rivelazione dell’esistenza, crudo e grigio sostrato, che come la gobba di un mostro marino emerge silenziosa e indistinta dalle acque serene dell’illusione a indicare qualcosa di terribile, ma vero.
L’esistenza si rivela gradatamente, come un timido fiore marcescente che diffonde pian piano, schiudendo la corolla, il suo disgustoso olezzo: Roquentin ne fa esperienza soltanto dopo essere riuscito a capire in profondità la Nausea che lo affligge sin dalla prima pagina dell'opera, che si configura come un diario, o meglio come un auto-referto di una malattia dell’animo.
La Nausea è un metafisico senso di disgusto che accompagna Roquentin ogni volta che concentra la sua attenzione su un oggetto (si tratti di un sasso, di un foglio di carta o di una forchetta): egli si accorge che sempre più spesso la trappola dei sensi e delle idee con cui cerca di catturare gli oggetti, la coscienza, va in tilt, fallisce nel suo slancio di conoscenza, o meglio di “falsificazione”, e gli oggetti non fanno altro che approfittarsene trasfigurandosi a loro piacimento, ammantandosi di forme disgustose e viscide.
“È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto” scrive Roquentin.
Nel romanzo sembra innescarsi un processo simile a quello che coinvolge il protagonista de La Metamorfosi di Kafka: ma se lì era il protagonista a far emergere fuori da sé una forma inaccettabile per i suoi familiari, simbolicamente espressa dal suo esoscheletro, qui è l’altro, il mondo (quello che in Kafka è rappresentato dalla famiglia) che assume forme inaccettabili per la trascendente coscienza del protagonista, che s’arrende allo sfilacciarsi del senso.
Ma presto anche Roquentin si trasforma kafkianamente: “Guardano la mia schiena con sorpresa e disgusto; credevano ch’io fossi come loro, che fossi un uomo ed io li ho ingannati. D’un tratto, ho perduto la mia apparenza d’uomo ed hanno visto un granchio che fuggiva a ritroso da quella sala così umana”.
Roquentin si è spogliato dello smoking della forma, si scopre egli stesso Nausea. Il sicuro contorno che delimita gli oggetti si spezza, tutto è assurdo e contingente, Roquentin affronta la visione dell’esistenza, che sguscia fuori gli involucri della forma: “La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie […]; la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenze, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle macchie mostruose e molli in disordine, nude, d’una spaventosa e oscena nudità. Eravamo un mucchio di esistenze impacciati, imbarazzati di noi stessi, non avevamo la minima ragione di essere lì, né gli uni né gli altri, ciascuno esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto che io potessi stabilire tra gli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Kierkegaard, De Beauvoir, Kafka, Dostoevskij
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Martin Opinione inserita da Martin    28 Marzo, 2016
Top 500 Opinionisti  -  

IL DESERTO DEL DESIDERIO

André Gide, premio Nobel, si iscrive nel novero dei grandi romanzieri di fine Ottocento e inizio Novecento: quei romanzieri a metà fra la tradizione realista ottocentesca (Stendhal, De Balzac, Gogol) e il terremoto del Modernismo (Joyce, Svevo, Kafka), quei romanzieri cioè capaci di uno slancio di originalità, che, tuttavia, ancora sublimano in una forma cristallizzata ampiamente collaudata. La prosa di Gide è elegante, raffinata, sensuale, quasi sembra intridersi dello stesso profumo degli ambienti che descrive e scandaglia, ma allo stesso tempo cerca di essere veicolo di contenuti nuovi e vicende mai raccontate che insieme si assemblano in un itinerario simbolico.
La novità di Gide risiede proprio nelle intelaiature simboliche dei suoi racconti, nonché nelle prime maldestre incursioni nei fondali della coscienza e nell’essere testimone di una crisi culturale senza precedenti.
La storia di Michel, ora decantata, ora lamentata, ne L’immoralista, forse l’opera principale dello scrittore francese, appare come una foresta di simboli da decriptare; una foresta di simboli che risulta, però, coperta da una particolare bruma di vaghezza.
Michel, dietro cui non pochi hanno scorto l’ombra della biografia di Gide, effettuando vere e proprie sovrapposizioni fra l’autore e la sua creatura, vive sulla sua pelle il risveglio dei sensi, un risveglio che lo porta a trasmutarsi in un esteta, un narciso, un godurioso, un sensibile ganglio che s’aggrappa a qualunque brandello di vita per sfuggire ad una terribile malattia.
La prorompente vitalità acquisita da Michel trova, però, un suo contraltare nella debolezza della giovane moglie, Marceline, che costituisce l’unico vero ostacolo alla sua piena esaltazione.
I due poli opposti, Michel e Marceline, che presto si ammala, finiscono per scontrarsi e i vari viaggi che costellano la loro esistenza ne diventano l’arena; arena in cui trova drammaticamente la morte Marceline.
Nonostante l’originalità, i nuclei tematici squadernati, la trama avvincente, la elegante scrittura, non ho trovato il libro piacevole ed è proprio su questo punto che si innesta una delle mie solite riflessioni: Perché non ho trovato gradevole L’Immoralista? Dopo lunghe elucubrazioni, sono giunto all’idea per cui sia per lo stesso motivo per cui non ho amato Il Ritratto di Dorian Gray di Wilde e Lo Strano caso del Dottor Jekyll e di Mr Hide di Stevenson. Gide, così come i due letterati da me citati, non si concentra sui dettagli delle azioni peccaminose compiute dal protagonista (che dal titolo si sarebbe detto materia del romanzo), anzi sembra unicamente alludervi, allusioni difficili da cogliere e che, probabilmente, possono essere di più facile individuazione conoscendo la biografia dell’autore. Durante la lettura non ho fatto altro che chiedermi come mai Gide non indugi sulla condotta dell’immoralista: Michel è un pedofilo, dato che preferisce farsi accompagnare da dei bambini piuttosto che dalla moglie, durante le sue scampagnate in Africa? Si intrattiene col giovane Charles e con il suo maestro decadente Ménalaque? Michel si lascia andare a relazioni omosessuali nella città di Kairouan, ove dorme con degli arabi, invece che assistere la moglie malata? Michel fa del sesso a tre con Moktir e la sua ragazza? Di quanto è responsabile della morte di Marceline?
Le mie domande circa gli iati temporali che si aprono nella trama de L’Immoralista, sono riflesso della mia delusione, della mia curiosità non soddisfatta. Io avrei scritto di più.
Ma non è forse la vaghezza una precisa scelta dell’autore? Gide evita di sporcarsi le mani per lasciare che sia la fantasia del lettore ad avvicinarsi alla sfera privata di Michel!
L’Immoralista è, da questo punto di vista, profondamente inattuale: come può L’Immoralista essere apprezzato in un mondo ove penosi romanzi sul sadomasochismo (fossero almeno libri di De Sade!) hanno come target ragazzine e casalinghe? Come può sopravvivere il suo messaggio in una società pornografica, ove il desiderio, lasciato libero di infilarsi ovunque, si dibatte e langue, e ove ogni suo componente (mi si permetta la particolare metafora) è un pene flaccido e avvizzito.
Non potremo mai capire la scoperta del desiderio e l’epifania del corpo né tanto meno il lacerante contrasto fra desiderio e morale vissuto dalle profonde anime del tardo Ottocento.
“Ah! Michel, ogni gioia è simile alla manna del deserto che dopo un giorno si guasta; è simile all’acqua del fiume dell’Averno Ameles che, come racconta Platone, non si poteva raccogliere in nessun vaso”.

Indicazioni utili

Consigliato a chi ha letto...
Wilde, Proust, Stevenson
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
4.4
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    28 Dicembre, 2015
Top 500 Opinionisti  -  

PER UNA STORIOGRAFIA DELLA MENTE

“La psicologia non è scienza!” Qui in Italia, questo è il parere di molti studiosi incanalati nell’alveo delle cosiddette “scienze dure”, che si sentono sempre in dovere di sottolineare la propria “superiorità epistemologica” e il proprio disprezzo per una disciplina che, a loro giudizio, ancora vaga fra vacue speculazioni filosofiche. Julian Jaynes, in vita stimato psicologo e professore dell’Università di Princeton, probabilmente avrebbe guardato questi “sapienti d’Italia”, arroccati nelle proprie torri d’avorio, come si guardano oggi degli animali buffi allo zoo. Lui che peraltro attingeva informazioni, senza alcun fare pregiudiziale, da un caleidoscopio di numerosissime discipline (neuro-scienze, biologia, archeologia, chimica, etologia, storia dell’arte, critica letteraria, storia delle religioni, filosofia analitica). La psicologia, difatti, rispetta a pieno titolo i paradigmi del metodo scientifico, constando non solo di un approccio speculativo, ma anche di uno osservativo-sperimentale volto all’accumulazione di dati empirici, reso rigoroso dall’utilizzo della statistica psicometrica. Naturalmente, essendo ai suoi inizi, la psicologia deve ancora affinare i propri strumenti di ricerca: ma ciò non fa di lei una “pseudo-scienza”. Del resto anche la biologia manca del rigore delle scienze fisiche (la teoria dell’evoluzione, per esempio, non è fondata su una formalizzazione matematica), ma non per questo è considerata una disciplina al margine del quadro della scientificità.
Questa difesa della psicologia mi è necessaria per introdurre il pensiero di Jaynes: leggendo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, infatti, potrebbe venir meno la sicurezza e l’autorevolezza con cui di solito vengono presentate le teorie scientifiche; e questo è dovuto al fatto che Jaynes, con questo splendido testo, non si è posto l’obiettivo di fornire una rappresentazione scientifica supportata da solide basi, ma quello di spogliare il lettore di alcuni dei suoi pregiudizi che concernono la coscienza, la storia, la religione e la scienza, proponendo una mera speculazione, non suffragata da prove granitiche, in grado di legare più eventi e fenomeni in uno schema, un’economia, un pensiero, coerente e privo di evidenti discontinuità.
Il nocciolo del libro di Jaynes, che vanta uno stile incredibilmente seducente, con vette sia di approfondimento scientifico che di poeticità in prosa, è che la coscienza, quel “teatro segreto fatto di monologhi senza parole e consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri”, non nasce con l’uomo e si è costruita, nel corso della storia, sulle ceneri di una precedente “impostazione” della psiche umana: la mente bicamerale.
Per Jaynes, ai tempi dei primi insediamenti umani e delle antiche civiltà mediterranee, ma più avanti anche asiatiche e americane, l'emisfero destro del cervello, oggi privo di una specifica funzione neurologica, possedeva un'area, corrispondente all'area di Wernicke nel sinistro, in cui venivano organizzate esperienze ammonitorie, codificate poi in "voci" che venivano "ascoltate" mediante la commisura anteriore dell'emisfero sinistro o dominante. Queste allucinazioni uditive, che si manifestavano sotto forma di comandi perentori, era utilissime agli uomini privi di coscienza (incapaci di “narrativizzare” eventi in un proprio spazio mentale) per condurre la propria esistenza e per svolgere semplici compiti necessari alla sopravvivenza e alla civiltà: l’origine delle allucinazioni viene ascritta all’evoluzione del linguaggio, alla necessità da parte dei primi Homo Sapiens in grado di parlare di tener salda nella memoria comandi provenienti da altri individui del proprio clan, al ricordo delle voci dei capo-clan o re morti, rivissute interiormente.
Nel libro secondo è a partire da queste premesse, poste nel primo libro, che viene condotta una brillante storiografia della mente, che si assimila a un compito non lontano dalla “chimica delle idee” di Nietzsche: innanzitutto l’autore analizza l’evolversi delle civiltà, sempre imperniate intorno a gerarchie teocratiche e al culto di idoli e tombe, tenendo sempre presente la considerazione per cui le voci allucinatorie postulate prima sono scaturigine del fenomeno religioso, che si manifesta in tutte le antiche civiltà secondo precise configurazioni e modalità; successivamente fa coincidere il crollo della mente bicamerale con il periodo di sconvolgimenti ambientali e sociali del II millennio a.C.; e ancora segue la nascita e lo sviluppo della coscienza fino ai giorni odierni.
Ma il mondo contemporaneo della coscienza, come rivela il libro terzo, è ancora intaccato dalle vestigia della mente bicamerale: la trascendenza degli dei, che abbandonano la terra per raggiungere il cielo, il persistere della religione, gli oracoli, i profeti, le possessioni demoniache, l’ipnosi, la schizofrenia, la poesia, la musica e persino la scienza sono tutti fenomeni che vengono collegati a questa antica struttura della mente umana.
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza è un libro di inaudito fascino e contiene un’analisi della mente e del suo prodotto, la civiltà, originale, audace, a tratti cruda e controversa. Naturalmente Jaynes, pur cercando di razionalizzare ogni aspetto religioso-spirituale della storia, non colma del tutto le motivazioni che si celano dietro l’aspirazione religiosa: come mai la religione è sopravvissuta alla mente bicamerale? Può davvero la religione essere soltanto il rimpianto di un eden perduto, di una civiltà diversa dalla nostra che ci liberava dal peso asfissiante della responsabilità individuale? “Ai posteri l’ardua sentenza”, sperando, naturalmente, che non perdano la coscienza!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Ai frequentatori dei vari Dennett, Dawkins, Onfray (pur essendo Jaynes una spanna sopra questi per tolleranza e classe).
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    30 Agosto, 2015
Top 500 Opinionisti  -  

Una giovinezza da scrivere su foglie d'oro

"Non ebbi, forse, una volta una giovinezza amabile, eroica, favolosa, da scrivere su foglie d'oro?" si domandava Arthur Rimbaud, il poeta veggente. E passata la fase dell'adolescenza e della "post-adolescenza" credo siano in molti a domandarselo e a contemplare il passato con occhi diversi, con dolente nostalgia, con amara malinconia. Ma chissà cosa direbbe Holden Caulfield, protagonista de Il Giovane Holden (The Catcher in the Rye, 1951) di J. D. Salinger, all'età di quarant’anni, cinquanta o perché no sessant’anni, a proposito della sua giovinezza e delle sue esperienze. L'adolescenza che trasuda dal suo racconto, che peraltro attinge a piene mani dalla biografia dello stesso autore, non pare brillare per bellezza: il personaggio che viene tratteggiato è, infatti, un ragazzo problematico, solitario, scapestrato (è stato appena espulso per l’ennesima volta), bugiardo, snob, superbo, particolarmente incline a scovare negli atteggiamenti di chi lo circonda il segno evidente della “ipocrisia”, la parola che forse più si ripete all’interno del romanzo.
Ammetto di aver provato un’antipatia non indifferente nei suoi riguardi, soprattutto leggendo i primi capitoli, ma non posso nascondere il fascino che la sua figura ha esercitato su di me.
La sua storia è la storia di un vagabondare senza senso nei locali notturni e nelle vie della città di New York, un moderno Inferno dantesco; la storia errabonda di un ragazzo che non ha punti di riferimento, che soggiace a un nichilismo esasperato che distrugge ideali e valori e che riduce il mondo a un nauseante coro di personaggi evanescenti, noiosi, ipocriti, meschini.
Ragazzi subdoli e sporchi, bulli presuntuosi, professori saccenti, madri che non conoscono i propri figli, oche giulive, tassisti nervosi, filosofi improvvisati, prostitute, papponi, erotomani annoiati, ragazze scontate e false, insegnanti pederasti. Una bella fauna, insomma.
“Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela?” è la “domanda esistenziale” che affligge Holden, dietro la cui semplicità si annida in realtà il senso di disorientamento del ragazzo: il lago gelato rappresenta, almeno secondo mio modesto parere, la situazione stagnante del presente in cui Holden versa, che gli impedisce di provare esperienze spontanee e autentiche e che lo porta, invece, a degradarsi (consumando soprattutto alcolici), mentre il luogo sconosciuto dove sono dirette le anatre è metafora del futuro annebbiato e incerto che si profila ai suoi occhi.
Ed è proprio il nichilismo giovanile, “l’ospite inquietante” per citare Galimberti che rielabora Nietzsche, il nucleo concettuale attorno al quale s’impernia la storia di Holden e l’elemento che ha fatto del capolavoro di Salinger non solo un classico della letteratura americana ma anche un libro generazionale, in cui i giovani di tutto il mondo possono specchiarsi lucidamente. Me compreso.
Ma lo spaccato apparentemente oscuro proposto da Salinger, fatto di un ribollente mare di angoscia e vanità, che riesce a fagocitare la stessa volontà di vivere (Holden, seppur giovanissimo, sfiora anche l’idea del suicidio), sembra evidenziare un’unica ancora di salvezza: la famiglia.
Ad incarnare quest’ultimo grande ideale, quest’ultima chimera del decaduto umanismo, è la sorellina di Holden, Phoebe, intelligente e sensibile.
“Io mi immagino sempre tutti questi bambini che giocano a qualcosa in un grande campo di segale e via dicendo. Migliaia di bambini e in giro non c’è nessun altro - nessuno di grande, intendo - tranne me che me ne sto fermo sull’orlo di un precipizio pazzesco. Il mio compito è acchiapparli al volo se si avvicinano troppo, nel senso che se loro si mettono a correre senza guardare dove vanno, io a un certo punto devo saltar fuori e acchiapparli”.
È questa la risposta di Holden al “cosa vuoi fare da grande?” della sorellina. E dietro l’immagine dello “acchiappabambini nel campo di segale” non può che nascondersi il bisogno di Holden di maturare, di trovare una via maestra e di consentire agli inesperti di affrontare e superare la foresta oscura dell’adolescenza e le turbe annichilanti che covano al suo interno.
Holden, tutto sommato, è un bravo ragazzo. Holden trae la famiglia a proprio ideale.
Rimane, tuttavia, l’interrogativo posto all’inizio della recensione: Holden ha vissuto una “giovinezza da scrivere sulle foglie d’oro?” Io ritengo di si. E la bellezza della sua vita risiede negli alti e nei bassi, nelle tensioni, nei conflitti interiori che fanno pensare e crescere, nelle conquiste sudate.
(P.s. il mio due per quanto concerne lo stile dell’opera è inficiato dal fatto che sono abituato a leggere romanzi ottocenteschi e che sono un’appassionato di descrizioni, parole auliche e momenti poetici).

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Martin Opinione inserita da Martin    24 Agosto, 2015
Top 500 Opinionisti  -  

Riflessione sul potere



William Golding deve la sua fama al Signore delle Mosche, un romanzo, da lui scritto e poi pubblicato nel 1954, che è ben ascrivibile alla gloriosa lista dei classici della letteratura di tutti i tempi. La trama si dipana a partire da un evento particolare: un gremito gruppo di ragazzi e bambini sopravvive a un incidente aereo e si scopre “gettato” su un’isola disabitata, lontana dal mondo degli adulti e delle regole. Sono due i ragazzi, l’avveduto Ralph e il temibile Jack, che si sfidano per detenere il potere, necessario per dar forma a una nuova civiltà, a nuove regole. A vincere la sfida è Ralph, eletto democraticamente, ma ben presto la sua “pedocrazia” si dimostra fallimentare e minata nelle fondamenta da paure che serpeggiano, viscide, fra i ragazzi, spaventati da una misteriosa Bestia che dimora sulla montagna, nel cuore della foresta. Crollato il tentativo di costruire una società, Jack e i suoi fedelissimi si allontanano da Ralph e regrediscono allo stadio di meri selvaggi, cominciando a compiere barbarie e delitti. Ralph diventa un avversario, un pericolo, un fuorilegge.
La storia, che procede a tinte sempre più fosche, si conclude con il salvataggio dei ragazzi “sopravvissuti”.
“Avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi… Siete tutti inglesi, no?… Sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio…” sono le parole amareggiate del militare che salva Ralph dalla furia di Jack e dei suoi cacciatori nell’ultimo capitolo.
La narrazione è ostruita qua e là da un descrittivismo naturalistico che toglie spazio alla caratterizzazione dei personaggi, che si rivelano solo abbozzati, ma in fin dei conti è scorrevole, icastica, piacevole, densa di significati degni d’analisi.
Il tema portante dell’opera è il male, che riesce a insinuarsi anche nelle menti di giovanissimi, ma trovo interessantissime le riflessioni circa il potere e i suoi meccanismi cui il libro conduce.
Il potere che sembra trovare suo punto d’origine nella paura più nera e ancestrale, come del resto formulò Thomas Hobbes: entrambi i leader, infatti, puntano la loro “campagna politica” su due paure, quella di rimanere per sempre sull’isola (Ralph è ossessionato dalla necessità di creare segnali di fumo) e quello irrazionale della Bestia, che Jack esorcizza e utilizza per manipolare i suoi uomini. Il potere che fa uso dei simboli (la conchiglia bianca di Ralph e il bastone con la testa di maiale di Jack), dell’efficacia delle immagini per trasmettere sensazioni e stimoli. Il potere che s’innerva in gerarchie marcate con la violenza. Il potere che ha bisogno di capri espiatori per spostare l’attenzione dalle proprie debolezze (il visionario Simone che sa la verità sulla Bestia viene scambiato per la Bestia stessa).
Il potere che è proiezione degli egoismi umani, cui non sono da escludersi neppure i fanciulli.

Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
17 risultati - visualizzati 1 - 17

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

L'antico amore
La famiglia
Fatal intrusion
Degna sepoltura
Il grande Bob
Orbital
La catastrofica visita allo zoo
Poveri cristi
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Noi due ci apparteniamo
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
Corteo