Opinione scritta da Giordana

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Giordana Opinione inserita da Giordana    30 Marzo, 2017
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L'inizio alla fine

Veronika decide di morire, scritto da Paulo Coelho e pubblicato nel 1998, si propone come un romanzo psicologico e di formazione. Perché?
La protagonista, Veronika, una ragazza slovena di ventiquattro anni, stanca della monotonia della sua vita, "l'undici novembre 1997 decise che era finalmente giunto il momento di uccidersi".
Ma la presenza di una storia oltre l'incipit lascia intendere che nulla finisce e tutto, anzi, inizia.
Dopo il suo tentativo di suicidarsi, si risveglia in una clinica psichiatrica. Naturalmente, come spiegato dai medici, il suo organismo ha solo da attendere perché il cuore che ospita smetta di battere.
Ma una clinica non è un parco giochi e il tempo sembra non passare mai.
Nella clinica, comunque, paradossalmente, conosce la vita. La vita è in Zedka, in Mari, in Eduard, i "pazzi" senza peli sulla lingua, ciascuno dei quali ha qualcosa da offrire, qualcosa che forse avrebbe potuto trovare solo in un posto come quello, qualcosa che la denuda e la mette davanti a uno specchio.

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Giordana Opinione inserita da Giordana    21 Marzo, 2017
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Riscoprirsi

"We should all be feminists" è il titolo originale di questo breve quanto utile saggio che, al di là del concetto stesso di femminismo, con una sorprendente capacità di sintesi, lungi da qualsiasi pretesa di superiorità intellettuale o morale, tenta (riuscendovi non senza qualche sforzo) di riassumere tutti i perché del pensiero femminista.
Perché, ancora oggi, è così importante combattere contro l'ineguaglianza? Perché lottare per la parità dei sessi? Non era un argomento chiuso, superato? E che tipo di parità? In che contesto? Perché l'uso del termine "femminismo"? In cosa ci danneggiano (uomini e donne) gli stereotipi di genere? Che vuol dire femminilità e che vuol dire virilità? Sono così importanti?
A questi interrogativi, l'autrice nigeriana risponde con una lucidità mentale e una semplicità di linguaggio che difficilmente lasciano spazio a equivoci o fraintendimenti.
E' il risultato di una profonda riflessione su di sé e sulla realtà quotidiana, un discorso che si sviluppa in sole 41 pagine permeate di nient'altro che sincerità, ognuna delle quali nasconde un invito silenzioso.

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Scienze umane
 
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Giordana Opinione inserita da Giordana    04 Dicembre, 2015
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Liberarsi

Questo saggio di Virginia Woolf, pubblicato per la prima volta nel 1929, è il risultato di due conferenze tenute a Newnham e Girton l’anno precedente la sua stesura.
“Una stanza tutta per sé” è un grido di battaglia che attraversa il tempo e lo combatte, propagandosi con la voce di mille donne, di quelle donne abbandonate nello sfondo, lasciate ai margini, alle cornici della storia.
Fondamentale nella vita dell’uomo per la sua funzione, la donna ha sempre rappresentato lo specchio che ne accresceva la figura (e dunque la sua autostima e le sue potenzialità) spingendolo alla realizzazione di sé e delle sue grandi opere. Preziosa per l’arte degli uomini, è stata tanto elogiata (e tanto frequentemente oggetto d’interesse) tra le righe, nelle pagine di infinite opere, quanto privata della libertà, della parola, della scelta, della vita, nella realtà. Virginia, donna, scrittrice, protagonista letteraria del primo novecento, è il prodotto di questi secoli (per la donna bui, per la donna-poeta insostenibili) di repressione, di chiusura, di maschilismo; ha in sé la scintilla di una virtù che appare come nuova, ma che eppure è peculiare delle donne, di molte donne, che è la scintilla del coraggio. E’ passione, è determinazione, è consapevolezza della propria condizione e di quella delle sue coetanee in contrapposizione alle condizioni in cui si sarebbero trovate donne come Judith, sorella immaginaria di Shakespeare che vuole, come il fratello, vivere per l’arte, ma che per essa, al contrario, sarà portata a morire.
La Stephen (o la Woolf) è perfettamente consapevole del ruolo marginale della donna nella storia e degli effetti che tale esclusione ha avuto nell’arte delle scrittrici che prende in considerazione durante le sue ricerche volte a dar vita al tema “Le donne e il romanzo” (C. Brontë, E. Brontë, J. Austen) ed è in grado di farne un’analisi che non fa altro che dimostrare tutte le sue affermazioni e teorie. Tra queste ha grande importanza quella dell’”efficienza” e del valore, anche e soprattutto dal punto di vista artistico, dell’androginia, di una mente che sappia accogliere, per natura, i due opposti, che coesistono e creano armonia, equilibrio. La mente dell’artista dovrebbe essere una mente androgina, dunque, e una mente libera da turbamenti. “La mente dell’artista, per poter realizzare il prodigioso sforzo di liberare nella sua totalità l’opera che si trova in lui, deve essere incandescente, come deve essere stata la mente di Shakespeare, congetturavo, guardando le pagine di “Antonio e Cleopatra”. Non ci deve essere in essa alcun ostacolo, alcuna materia estranea che non sia interamente consumata.”
Insomma, si spazia dal discorso sull’arte della scrittura alla questione della condizione femminile per arrivare, infine, a quella che è l’arte delle donne.
Il saggio di Virginia, che inizialmente si interroga sull’”effetto della ricchezza sulla mente” e sull’”effetto della povertà sulla mente”, che pensa “com’è spiacevole rimanere chiusi fuori”, che pensa “alla sicurezza e alla prosperità di uno dei sessi e alla povertà e all’insicurezza dell’altro e all’effetto della tradizione e alla mancanza di tradizione nella mente dello scrittore”, è reso estremamente importante dalla sua forza, che è la forza degli argomenti, delle stesse parole, quella che lei elogia tanto e che troppo a lungo è stata repressa, sepolta nell’anima di troppe creature come una testa schiacciata sotto un cuscino.
“Chiudete a catenaccio le vostre biblioteche se volete; ma non potete mettere alcun cancello, alcun catenaccio, alcun lucchetto alla libertà del mio pensiero.”
Virginia esorta allora a lottare contro questa repressione, a dare speranza a Judith, a rivendicare i diritti e la libertà di donne come lei, a tentare di ottenere “cinquecento sterline l’anno e una stanza propria”, a vedere gli esseri umani “non sempre in relazione l’uno con l’altro bensì in relazione con la realtà”, ad accorgerci che “dobbiamo fare la nostra strada da sole” e che “dobbiamo essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne” finché “finalmente si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ormai ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà la poetessa. […]
Ma io sostengo che ella arriverà, se lavoriamo per lei; e che lavorare così, sia pure nella povertà e nell’oscurità, vale la pena.”

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Giordana Opinione inserita da Giordana    13 Ottobre, 2015
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Conoscersi

Il ritratto che Joyce fa dell'artista da giovane costituisce una semi-autobiografia, un racconto in cui viene descritta la graduale evoluzione di un individuo. Se, infatti, la figura di Stephen Dedalus ci viene inizialmente presentata come quella di un semplice giovane irlandese il cui pensiero appare vincolato dalle intimidazioni del mondo religioso (presentate in modo monotono, tanto da "appesantire" i capitoli centrali), nel corso della lettura appare sempre più evidente una progressiva maturazione del protagonista: la sua personalità emerge solo in seguito a una profonda introspezione e analisi della propria fede, delle proprie paure e di quelle esperienze che andranno ad accumularsi incrementando confusione e speranze di redenzione al tempo stesso. La vera e propria maturazione di Stephen sta in una nuova consapevolezza, nel risveglio intellettuale che lo tramuta finalmente in uomo e lo spinge inevitabilmente a liberarsi di quelle che per l'animo umano sono "reti gettate per impedire che fugga".

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Giordana Opinione inserita da Giordana    27 Settembre, 2015
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Ricordarsi

Nel terzo romanzo della Mazzantini, la storia narrata ruota attorno a un incidente, da cui tutto rinasce e muore. L'incidente è quello di una ragazzina su un motore, ed è quello della vita che ti attraversa in un lampo: è la vita in stand-by di Angela ed è quella di Timoteo, un padre che si ritrova, nel proprio ospedale, a ridare vita alla figlia e nel contempo a una parte di sé di cui silenziosamente si libera, dando sfogo al dolore passato e voce ai suoi fantasmi.
Tutta la storia è un tuffo nel passato, un bagno di ricordi in cui si raccontano le debolezze di un uomo, la tentazione che sembra abbandonarlo quando si crede abbastanza forte da riuscire a non cedervi.
In questo inevitabile scorrere dei ricordi, presente e passato vengono ben scanditi e il linguaggio con cui vengono presentati eventi e colpi di scena, nello stile unico della Mazzantini, è volto ad alternare dolci carezze (dolci quanto illusorie) a veri e propri pugni nello stomaco.
"Non ti muovere" è una sorta di preghiera, un grido muto che riaffiora dal passato risuonando come un eco, una speranza che si ripresenta come un ricordo rimasto vivo e intatto nella memoria.

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Giordana Opinione inserita da Giordana    13 Settembre, 2015
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Viversi

L'evoluzione di un vivente, lo stupore della crescita; l'inevitabile percezione della decadenza, degli anni che passano; la novità delle sensazioni che penetrano nella carne, che strisciano addosso, soffermandosi sulle fragilità, sui ricordi, sulla coscienza. Pennac racconta tutto questo in un diario. Tenuto dal dodicesimo all'ottantottesimo e ultimo anno, "non è un resoconto giorno per giorno, semmai sorpresa per sorpresa, scandito da lunghi silenzi in quei momenti della vita in cui il nostro corpo si fa dimenticare".
La vita, semplicemente. L'esperienza della vita addosso, quella vita tanto attesa dal basso di un corpo di dodici anni che si guarda allo specchio e decide di crescere; ma, soprattutto, di vedersi crescere, di combattere la paura di esistere a dispetto di una madre per la quale rappresenta nient'altro che il "fantasma" di un uomo.
E' un corpo che alla fine si lascia abbandonare, lasciando i suoi spettatori in balia di emozioni contrastanti di fronte alla mancanza di un finale. Non esiste un finale perché le stesse energie necessarie per la sua stesura vengono a mancare.

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Giordana Opinione inserita da Giordana    07 Settembre, 2015
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Contagio fatale

Bianconi, nel suo secondo libro, come in alcuni dei suoi testi musicali, ci offre una sua visione della morte, presentandocela, in una "Milano da mangiare", come verrebbe presentato un piatto all'Expo 2015, evento a cui viene fatto spesso riferimento tanto nel libro quanto nella reale società, per rispecchiarla quanto per criticarne le tendenze. Cibo e morte, infatti, sono i temi centrali della storia, del percorso che fa di un uomo un morto vivente. Questo "morto vivente" è Ivan, aspirante poeta che deve la sua fama alla scrittura di una serie tv sugli zombi; solo dopo un evento tragico e imprevisto coglierà il senso della sua creazione, e allora sarà immediatamente e inevitabilmente trasformato e agirà in automatico, come un uomo che venga morso dai resuscitati, "per il raggiungimento di un unico osceno obiettivo".

Adatto a chi cerca un assaggio, a chi sa gustare ma anche criticare.
Il mio voto è 3 sia per stile che per contenuto che, infine, per piacevolezza, perché, nonostante l'originalità di alcuni aspetti della trama (per cui consiglio la lettura), non mi ha colpita né emozionata abbastanza da meritare un 4.

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Giordana Opinione inserita da Giordana    02 Settembre, 2015
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Flussi

(E' la prima recensione che scrivo, non credo nemmeno si possa definire tale, ma voglio provarci. Cogliere spoiler qui non è difficile.)

Una storia intrisa di sentimenti e passioni, un invito silenzioso a un viaggio che si consuma nell'attesa di quello più sofferto, della meta finale. Il destino di alcuni prevede, anticipandola, un'altra destinazione, la più ovvia, la più naturale. La vita scivola tra le dita, sia che scrivano o che dipingano, o che semplicemente si muovano, così che continuino a fare di essa l'arte di un poeta, di una pittrice, di una semplice donna che, seduta accanto al figlio, alla finestra, lavora a maglia.
Questa vita si concentra dopo 10 anni alla meta, ormai raggiunta, che è il Faro, dove si mostra per quel che è: una continua resistenza al tempo che scorre così come scorrono le dita su una tela o su un foglio bianco, una sfida ad accettare ogni epilogo, un quadro da finire.

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