Opinione scritta da lapis
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Perdere e ritrovare
Thriller, romanzo fantapolitico, ucronia, non so quale sia la definizione più calzante, sicuramente Fatherland è un’opera che non lascia indifferenti e stimola riflessioni sulla società attuale. Poco importa che parli di un mondo che non esiste, è proprio la cecità di quel mondo a imporre al lettore di interrogarsi sul proprio.
"- Cosa si può fare se si dedica tutta la vita a smascherare i criminali e a poco a poco ci si accorge che i veri criminali sono quelli per cui si lavora? […]
- Immagino che si perda la ragione.
- Oppure può succedere di peggio. La si può ritrovare".
L'autore parte da uno scenario già sperimentato in letteratura: un corso alternativo della storia. La Germania ha vinto il secondo conflitto mondiale e, nel 1965, si appresta a festeggiare il 75mo compleanno di Hitler. Berlino si è ridisegnata ergendo colossali monumenti a testimonianza della propria supremazia. Il resto del mondo si è piegato: l’Europa pullula di paesi fantoccio filonazisti, la Russia cerca di resistere con gli ultimi fuochi di ribellione e persino gli Stati Uniti sono ormai pronti a un accordo.
Nel potente e prospero Terzo Reich non si può parlare, tantomeno dissentire, perché le SS hanno orecchie ovunque e non perdonano. Eppure qualche voce sussurrata sfugge al silenzio. Cosa succede davvero a est? Dove sono finiti milioni di ebrei? Nel corso dell’indagine per omicidio di un gerarca nazista, l’integerrimo poliziotto Xavier March si imbatterà in indizi e sospetti che allargheranno la prospettiva verso interrogativi scomodi e pericolosissimi. March non potrà fare altro che lanciarsi all’inseguimento di una verità terrificante capace di sconvolgere tutto ciò in cui credeva.
"Parlano di fosse comuni, di esperimenti medici, di campi dove la gente entrava e non usciva più. Parlano di milioni di morti. Ma poi arriva l'ambasciatore tedesco tutto elegante e racconta che si tratta soltanto di propaganda comunista. E così nessuno sa cosa è vero e cosa non lo è. E posso aggiungere che alla maggior parte della gente non importa nulla".
Lo storico Robert Harris compone un romanzo in cui fatti documentati e veri personaggi storici si miscelano in modo davvero convincente alla fantasia dell’autore riuscendo, grazie all’espediente del giallo, a bilanciare il gusto per il dettaglio storico e la precisione descrittiva a una narrazione dal ritmo incalzante. Quello che sconvolge il lettore è rendersi conto di non trovarsi al cospetto di un’inconcepibile allucinazione ma di un mondo dalle sembianze credibili, di un potere che si insinua nella mente, di persone normali, concentrate sul proprio benessere, che vivono la propria quotidianità senza farsi troppe domande. Tutto ciò lo rende un romanzo interessantissimo, ieri come oggi.
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Intrighi d’amore e scambi d’identità
P.G. Wodehouse è uno dei più celebri e prolifici interpreti della commedia umoristica inglese, capace di giocare con le atmosfere patinate dell’aristocrazia britannica condendole con ironia, arguzia e una serie di improbabili peripezie tra cui i suoi personaggi devono destreggiarsi. Molti di essi, tra l’altro, ricorrono in diverse delle sue numerosissime opere dando vita a vere e proprie serie narrative.
Questo romanzo, in particolare, fa parte del filone che vede protagonisti Bertie Wooster, ricco ed eccentrico perdigiorno, e il suo maggiordomo Jeeves, in grado con le sue ingegnose trovate di trarlo sempre in salvo da ogni impiccio. La trama è tutta qui: intricati scambi di identità, divertenti errori e problemi banali, che a Bertie e ai suoi altrettanto sciocchi e sfaccendati amici, vagamente sganciati e sconnessi dalla realtà, appaiono determinanti e insormontabili, e che Jeeves prontamente risolverà.
La rappresentazione è satirica, sì, ma una satira deliziosamente fresca, che non corrode ma sbeffeggia con garbo. Non si tratta a mio avviso di una lettura che lascia traccia nel cuore, forse mi aspettavo le battute geniali delle commedie di Oscar Wilde o una trama coinvolgente a cui potermi appassionare, ma si tratta comunque di pagine gradevoli, spensierate e stilisticamente di qualità, che consentono di lasciarsi alle spalle per qualche ora i problemi della quotidianità.
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Un commissario normale
Nessun detective dall’aria consunta e tormentata. Nessun investigatore dal fiuto infallibile che sa sempre cosa fare e cosa dire in ogni situazione. Nessuno scienziato in grado di risolvere qualunque mistero con l’aiuto del proprio fido microscopio. Sarà perché questo giallo è datato 1995, un’epoca preistorica dal punto di vista tecnologico, o semplicemente perché l’ambientazione greca non risulta in fondo così lontana dal nostro vissuto, ma la prima sensazione che si avverte leggendo questo romanzo è proprio una piacevole normalità.
È prima di tutto un uomo, il commissario Kostas Charitos. Potresti ritrovartelo accanto al bar a prendere un caffè o in fila alle poste per pagare una bolletta. Ha un matrimonio ormai stanco, fatica a far tornare i conti a fine mese e sul lavoro si barcamena tra un capo molto ambizioso e un collaboratore molto svogliato. Vorrebbe essere più cinico e menefreghista - in fondo il mondo va così - invece alla fine prevalgono curiosità, integrità e senso di giustizia, che lo inducono a scavare tra i fatti alla ricerca della verità.
L’uccisione di una coppia di albanesi è il punto di partenza per un intreccio piuttosto elaborato che si snoda su diversi piani investigativi. Da un lato, il mondo del giornalismo televisivo con i suoi meccanismi malati e la sua ricerca spasmodica di scoop. Dall’altro il mondo della corruzione politica e dei suoi traffici illeciti. La trama tiene fino alla fine, sviluppandosi in maniera fluida, intrigante e complessivamente verosimile, sebbene i molteplici fili non appaiano sempre ben annodati.
Ho letto che qualcuno lo ha definito “il Maigret greco”, un paragone fin troppo lusinghiero forse. Ma se, a mio avviso, all’opera di Markaris manca quello spessore psicologico che Simenon sapeva infondere ai suoi scritti, si può invece riconoscere la stessa umanità e la stessa volontà di proporre interessanti ambientazioni. Markaris ci racconta Atene, i quartieri popolari, l’immigrazione, le difficoltà economiche, l’eredità del passato dittatoriale. Una lettura sicuramente interessante.
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Non il miglior Dicker
Joel Dicker ha un innegabile talento nel maneggiare suspense e colpi di scena con furbesca abilità e questa è forse la dote più importante che un autore di thriller deve possedere per invogliare il lettore a proseguire, soprattutto se tra le mani ha un corposo volume da più di seicento pagine. Nonostante la mole, infatti, “Il caso Alaska Sanders” offre una lettura scorrevole e avvincente, in cui non viene mai a mancare la tensione narrativa tesa alla scoperta del colpevole.
La trama ruota intorno ad un errore giudiziario di 11 anni prima: la morte della giovane Alaska Sanders, l'arresto di due presunti colpevoli, un apparente suicidio nella sala interrogatori e un poliziotto morto. Ma forse la storia è tutta di riscrivere. Per evitare cali di ritmo e noia, l’autore innesta continui ribaltamenti e variazioni: salti temporali che portano al contesto e ai fatti delittuosi del passato oltre che molteplici digressioni nella vita e nelle altre opere del protagonista e autore. Nella finzione, infatti, il famoso scrittore, ed io narrante, Marcus Goldman, vive e scrive questo romanzo dopo i fatti narrati nel best-seller “La verità sul caso Harry Quebert”, con le sue cicatrici non ancora sanate, e prima di elaborare “Il libro dei Baltimore”, di cui comincia a gettare le future fondamenta (nella realtà entrambi i romanzi sono precedenti a questo). L’intento è di dare compimento ad una trilogia, ma, alla lunga, questi continui richiami alle altre opere vengono percepiti quasi come un fastidioso invito pubblicitario a recuperare gli altri volumi. Almeno nel mio caso è stato così.
Nonostante le non sempre riuscite divagazioni, la trama regge comunque fino alla fine, arrampicandosi con originalità su diversi piani narrativi e arricchendosi di volta in volta di nuovi indizi, intrighi e cambi di fronte. Forse, rispetto ad altri scritti dello stesso autore, ho trovato meno riuscito l’elemento imprevedibilità. Paradossalmente, è proprio la regola aurea di Joel Dicker di ricordarci sempre che niente è ciò che appare e che tra i personaggi si possono nascondere inafferrabili legami, a guidarci nell’intuire prematuramente la svolta finale.
Forse non un capolavoro del genere e nemmeno il miglior Dicker, ma comunque un romanzo godibile e coinvolgente, per chi nei mystery cerca più complessità d’intreccio che approfondimento psicologico.
“Il problema di certi segreti è che finisci tu stesso per dimenticarli. Finché un bel giorno non risalgono in superficie, come fogne che traboccano”.
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Oggi è…
“Oggi è solo un altro giorno in cui essere una donna vale meno dell’essere un uomo”.
Sono le lapidarie parole di Marie Curie di fronte all’ennesima ingiustizia subita, di fronte all’ennesima prova che il mondo agli inizi del Novecento non è pronto ad accettare che una donna possa essere geniale, intuitiva, capace nelle scienze come o anche più di un uomo.
Marie può avere messo la carriera davanti a tutto, lavorare strenuamente in laboratorio giorno dopo giorno nel tentativo di isolare i nuovi elementi di cui ipotizza l’esistenza, inseguire con tenacia le proprie intuizioni, ma per il mondo accademico lei rimane solo la moglie e aiutante di Pierre Curie, al punto da metterne in discussione l’assegnazione del premio Nobel. Come se in quel laboratorio lei si occupasse di preparare caffè e rassettare l’attrezzatura, non di scoprire la radioattività naturale.
Eppure di fronte a tutte queste ingiustizie Marie non si è mai arresa. Non lo ha fatto da ragazza, in una Polonia occupata dai russi che impediva alle donne di proseguire gli studi, trovando il coraggio prima di seguire un’Università itinerante e segreta e poi di emigrare a Parigi. Non lo ha fatto da moglie, madre e poi vedova, non rinunciando mai alla propria emancipazione, anche a costo di sfidare pregiudizi e moralismi. Non lo ha fatto soprattutto come scienziata, combattendo sempre per affermare il valore del proprio lavoro.
“Io sono Marie Curie e io ho scoperto la radioattività! Questa è la mia scienza e questa sono io”.
Sara Rattaro confeziona un racconto intimo e avvolgente in cui prova a dare voce e sentimenti a questa figura straordinaria, provando a immaginarne la sfera privata ed emotiva. Aneddoti reali e fatti biografici si intrecciano così ad elementi più romanzati, quale la storia d’amore con il marito Pierre e le difficoltà di una vedova lavoratrice che non vuole rinunciare alla propria indipendenza, per arricchire quel ritratto austero in bianco e nero di passione, perseveranza, umanità, coraggio. Non si tratta certo di un racconto esaustivo, ma di pagine vivide e coinvolgenti, che si leggono con piacere pur nella loro semplicità e brevità, e che lasciano un prezioso invito a credere in noi stessi.
“La vita non è facile per nessuno. Ma che importa? Dobbiamo avere perseveranza e fiducia in noi stesse. Dobbiamo credere di essere dotate per qualcosa e questo qualcosa dobbiamo scovarlo”.
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Aggiustare la verità
Una borsa piena di piccole pietre bianche.
Da dove viene la pietra?
Dalla borsa.
Attenzione, la verità non è quasi mai la più ovvia, tantomeno la più giusta e se sembra soddisfare il palato, probabilmente la si sta aggiustando.
Ad ogni fatto criminoso prende sempre il via una caccia alla verità che coinvolge tutti, forze dell’ordine, media, opinione pubblica. Ognuno si costruisce le proprie convinzioni, in un’aula di giustizia così come al bar sotto casa, ed è facile spazzare via i particolari che non collimano, piegare gli elementi al proprio pensiero.
Per più di vent’anni il giornalista Dario Corbo ha cercato di dimenticare quell’estate del 1993 in cui una giovane ragazza è stata ritrovata violentemente uccisa in un bosco della Versilia. Non ha mai ripensato a quel delitto con cui ha mosso i primi passi nell’ambiente della cronaca nera. Non si è mai più interrogato sulla verità che aveva scritto e sostenuto tenacemente dalle colonne del proprio giornale. A distanza di vent’anni, però, complice una serie di sfortunate vicende professionali e personali che lo hanno fatto finire a terra, disoccupato e solo, Dario è costretto ad accettare la proposta di scrivere un libro su quel caso, riaprendo il cassetto in cui erano stati stipati appunti, domande e dubbi e costringendosi a chiedersi infine se la memoria a volte non ci inganni, per farci pensare di non aver mai avuto davvero torto.
“La ragazza sbagliata è un romanzo complesso in cui Giampaolo Simi affida alle pagine una serie di interrogativi sul rapporto tra verità, memoria, giustizia. Rispetto ad altri lavori che ho letto dello stesso autore, si percepisce qui la ricerca di una certa tortuosità d’intreccio facendo prevalere la componente di indagine quasi poliziesca rispetto alle atmosfere noir e all’approfondimento psicologico in cui, a mio parere, dà il proprio meglio. Non manca però la qualità di penna e la sensibilità di tocco, nel far rivivere la storia italiana del 1993 così come del tratteggiare personaggi profondi e credibili. Senza risparmiare domande scomode travestite da giallo.
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“Non è finita finché non è finita…”
Quarto romanzo della fortunata serie di gialli storici di Alice Basso che vede protagonisti l’esuberante dattilografa Anita Bo e il traduttore-scrittore Sebastiano Satta Ascona, ancora una volta alle prese con l’oppressione del regime fascista, una rivista di racconti gialli da confezionare, qualche fatto delittuoso e il sentimento impossibile che provano l’uno per l’altra.
Rispetto ai precedenti episodi, “Le aquile della notte” ha sicuramente il pregio di introdurre alcuni elementi di novità, sfuggendo così al rischio di annoiare il lettore affezionato ma ormai un po’ stanco del ripetersi delle consuete dinamiche. La storia infatti questa volta si sposta sulle Langhe per una curiosa trasferta di lavoro, traendo notevole giovamento dal cambio d’ambientazione, non solo perché il rosso e l’oro dell’autunno sulle colline sostituiscono il grigiore torinese, ma soprattutto perché viene inevitabilmente offerto meno spazio ai personaggi secondari già conosciuti ed esplorati, introducendo figure e scenari nuovi. Si scopre così che il dissenso al regime non è affatto sopito, ma si può nascondere persino nella campagna langarola sotto le vesti più improbabili.
A fare da filo conduttore a tutta la serie c’è infatti sempre il tentativo di ribellarsi, in silenzio e sottotraccia, a un mondo che non consente libertà. Non si può essere un uomo sensibile, che dubita e si interroga, come Sebastiano. Non si può essere una donna indipendente, che vorrebbe per sé una vita diversa, come Anita. Ma in queste pagine non si deve cercare approfondimento storico o psicologico e, in fondo, nemmeno la suspense tipica del mystery, quanto una lettura d’intrattenimento, fresca e briosa, il cui punto di forza sono la personalità vivida e il percorso di crescita dei protagonisti, oltre che la curiosità suscitata dall’evoluzione del loro legame.
Penna frizzante e divertente, a volte persino un po’ sopra le righe, Alice Basso impreziosisce le pagine di curiosità, riferimenti alla narrativa hard-boiled, citazioni e chicche nascoste tra le righe, che testimoniano l’accurato e minuzioso lavoro di ricerca che si cela anche dietro un romanzo all’apparenza così leggero. Una buona compagnia per passare qualche ora lieta ma non banale.
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Narciso fin de siècle
Quando il giovane e innocente Dorian Gray vede per la prima volta il suo magnifico ritratto impara ad amare la propria bellezza.
Ma non basta uno specchio lucido in cui rimirarsi, il Narciso fin de siècle vuole di più, vuole che la propria vita diventi essa stessa arte, consacrata all’inseguimento del bello, del piacere, della sensazione intensa o rara. Regole sociali e morali sono catene di cui farsi beffe in nome di un superiore ideale estetico che fa di gioia, godimento, passione i propri comandamenti. Sono le insinuanti teorie del maturo Lord Henry, dandy cinico, intelligente e raffinato a cui Wilde affida i più sferzanti aforismi e squisiti nonsense. Il ragazzo si lascia così avvelenare da queste teorie edonistiche, spingendo la sua esistenza al limite, sulla strada del vizio e della dissolutezza.
Ma mentre l’uomo conquista il mondo e il piacere, cosa accade alla sua anima? È sulla scia di questa domanda che si innesta l’invenzione geniale di Wilde: la vita diventa arte, immagine perfetta e immutabile di giovinezza, mentre l’arte diventa vita, portando il segno degli anni e il peso dei peccati. E così mentre Dorian continua a essere ammirato in società per il suo aspetto innocente e delicato, la tela si fa specchio della coscienza, deformandosi giorno dopo giorno: gli occhi si gonfiano, le rughe solcano la pelle e le labbra si incurvano in un ghigno crudele e spaventoso. Dorian nasconde il quadro in soffitta, chiudendo a chiave la porta per fingere che non esista, ma non basta tutto l’oppio del mondo per dimenticare davvero quel volto che lo osserva da lontano e sogghigna nel buio, diventando sempre più maligno e ripugnante.
Quel dipinto che gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza, gli insegnerà anche ad avere orrore della propria anima?
La penna di Oscar Wilde è sublime e inimitabile, capace di fondere l’ironia spietata di battute paradossali e irriverenti alla pura poesia con cui si abbandona alla descrizione dei profumi di un giardino o delle note di un notturno di Chopin per ricreare le atmosfere languide che avvolgono queste pagine. Un romanzo tutto giocato su ambiguità e contraddizioni, in grado di sedurre anche i lettori di oggi con il suo fascino straordinario.
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Tuo affezionatissimo, Vincent
In soli dieci anni di attività artistica, Vincent Van Gogh ha prodotto opere miliari scolpite nell'immaginario collettivo. Anche chi non è appassionato di pittura conosce questo nome, associato spesso all'idea di un autodidatta, folle, il cui gesto artistico scaturisce da puro istinto ed emozione, privo di studio. Leggendo queste lettere si scopre che Van Gogh era tutt’altro che un analfabeta della cultura, al contrario si è nutrito per anni di innumerevoli letture, di arte, di lavoro, ammirando i maestri e riproducendone le opere con modestia. C'è tanto studio, oltre che genialità e sentimento, dietro quel giallo squillante, quelle pennellate vorticose o quei volti di lavoratori, oltre che l'umiltà di un uomo alla ricerca della propria strada artistica.
"Perché io sono assolutamente certo che come pittore non rappresenterò mai nulla di importante".
Quel che fa più tenerezza in queste pagine è infatti scoprire la solitudine di un uomo che ha sempre inseguito invano il proprio posto nel mondo, vittima di una psiche fragile ma anche di una società che l'ha sempre emarginato come diverso, anticonvenzionale, fallito. Unica presenza costante, che ha sempre creduto nel suo talento sostenendolo anche economicamente, è il fratello Theo, capace di una comprensione e un affetto tutt’altro che scontati.
Vincent era indubbiamente un uomo dal carattere difficile, che ha lottato e sofferto per tutta la vita, ma a Theo parla sempre con affetto, liberamente, senza trattenere sentimenti e pensieri, confidandogli le proprie pene della mente e del cuore. Preziosissime allora sono queste lettere per comprendere davvero Van Gogh, come artista e come uomo. Non si tratta dell'opera di un narratore pensata per la pubblicazione e non si può certo negare che, trattandosi di scritti privati, ci siano anche molte pagine di scarso valore letterario, dedicate a eventi quotidiani, noiose liste delle spese o continue richieste di denaro per carta e colori. È quindi un'opera da centellinare, per evitare di subire la stanchezza di lettura di alcuni passi, ma sapendo che tra essi si nascondono vere e proprie perle, come le parole con cui Vincent racconta i propri quadri più famosi, dando indicazioni su ricerche, colori, ispirazioni, così come difficoltà e fallimenti incontrati. Il lettore soffre insieme a lui la povertà e l'insuccesso, apprezzandone l'animo sensibile e sempre attento agli umili.
"Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole, l'infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c'è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno".
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Esercito di Liberazione del Pianeta
Galline e maiali liberati sulle autostrade. Mucche lasciate a pascolare in piazza delle Erbe. Folle di giovani che manifestano pacificamente per la salvaguardia del pianeta.
Persino un nuovo saluto, con quattro dita davanti al viso a simboleggiare i quattro elementi e dimostrare la propria simpatia al movimento.
In Italia sono sempre più numerosi i sostenitori dell'ELP - Esercito di Liberazione del Pianeta - che portano avanti una politica anche violenta, sicuramente illegale, ma senza danni alle persone, con il solo scopo di muovere istituzioni e coscienze verso la propria causa.
Una causa, in fondo, giusta.
Ma un poliziotto è chiamato a far rispettare la legge sempre, senza poterla filtrare attraverso il proprio concetto di giusto e sbagliato. Non si può picchiare un uomo, anche se maltratta sua moglie ogni giorno. Non si può rubare, anche se prendere soldi a dei trafficanti di droga per darli a un poveraccio sembra un'azione degna di Robin Hood. Non si può proteggere l'ELP, anche se forse qualcuno sta utilizzando il movimento ecologista per nascondere i propri biechi intrighi.
E se quel poliziotto è Rocco Schiavone, uno sbirro che da sempre si muove ai limiti della legalità, anzi a volte proprio nell'illegalità?
Allora la storia potrebbe avere risvolti inattesi.
Il romanzo offre una narrazione assai complessa dove numerosi episodi criminali si muovono proprio sulla linea di confine tra giusto e sbagliato, proponendoci interessanti spunti di riflessione ma, soprattutto, regalandoci un racconto di ampio respiro. Con tocco leggero e tagliente ironia, punteggiando le pagine di battute irriverenti e momenti tragicomici, Antonio Manzini disegna sulle pagine i cambiamenti e le contraddizioni della società di oggi, dando vita a personaggi veri, alle prese con le paure, le solitudini e le domande di tutti noi. Quando lo specchio restituisce rughe e capelli diradati, è inevitabile interrogarsi sul tempo che passa, sulla vita che ci si è limitati a guardare, sulle barriere che si sono costruite, sulle battaglie perse, chiedendosi infine se si abbia ancora la voglia di ritentare. ELP è sicuramente un libro di bilanci, malinconie e inganni, capace di parlare davvero a tutti, e per questo è, a mio parere, uno dei romanzi più riusciti di questi dieci anni di una serie "di genere" che ha saputo nel tempo rinnovarsi ed elevarsi.
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Caccia al tesoro. O all’omicidio?
Fenomeno editoriale inglese, "A cena con l'assassino" deve probabilmente il suo successo alla capacità di innovare con qualche elemento di originalità una formula più che mai consolidata e amata dal pubblico, quella della serie omicida in uno spazio chiuso e inaccessibile, in questo caso l’antica magione di famiglia “Endgame House”, isolata a causa di una tempesta di neve.
Endgame, un nome che è già un programma. In questa casa, infatti, tanti anni fa, prima che terribili tragedie distruggessero la famiglia, a Natale si organizzavano tradizionali giochi rompicapo a base di anagrammi e indovinelli. Zia Liliana, prima di morire, decide di organizzare l’ultima sfida per i suoi familiari: chi riuscirà a resistere per dodici giorni, risolvendo dodici enigmi e trovando così altrettante chiavi, otterrà in premio non solo l’eredità della casa ma anche la verità, portando alla luce i più oscuri segreti di famiglia. Finalmente, per la protagonista Lily, è l’occasione per scoprire cosa è accaduto a sua madre ventuno anni prima.
Sicuramente Alexandra Benedict attinge a piene mani alla tradizione del genere, confezionando un’opera che vuole, per ambientazione e toni, richiamare i gialli logici, misurati ed eleganti di cui Agatha Christie era maestra. L’elemento innovativo è invece la dimensione del gioco, non solo il fatto che lo scheletro della storia sia proprio la risoluzione dei rompicapi, ma che il lettore venga allettato con la stuzzicante speranza di poter partecipare al gioco, risolvendoli in prima persona. Speranza del tutto disattesa, purtroppo. Non so se la fruizione in lingua originale possa condurre a risultati diversi, ma nella mia esperienza personale di lettrice italiana, pur amante di enigmistica, i giochi di parole e i collegamenti proposti sono risultati del tutto inaccessibili. A peggiorare la situazione, pur non avendo capito nulla degli indizi forniti, l’individuazione del colpevole è risultata invece piuttosto intuibile già da metà libro. Mancando i meccanismi ingegnosi e imprevedibili che hanno fatto la grandezza di tanti gialli, ci si sarebbe potuti appellare almeno ai personaggi. Invece debole, se non del tutto assente, è l’approfondimento dei caratteri, tant’è che persino la protagonista risulta a mio avviso distante e inespressiva.
In conclusione, un romanzo in cui l’originalità dell’idea è indubbiamente superiore all’esito della realizzazione. Peccato, rimane la delusione di un’occasione sprecata.
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- sì
- no
Classismo british
Questo romanzo del 2004 rappresenta l’esordio alla scrittura per Julian Fellowes, già attore e sceneggiatore di successo, il quale propone in questo lavoro le stesse tematiche che hanno reso celebri le sue produzioni televisive: curate ed eleganti rappresentazioni dell'aristocrazia britannica di cui mettere in luce vizi e virtù. A sorprendere tutti coloro che, come me, hanno sempre associato titoli nobiliari, stagioni londinesi e battute di caccia a un passato ormai lontano, è invece l'ambientazione. Siamo infatti a fine Novecento, solo pochi decenni fa, ma al centro della storia c’è ancora una volta, come nel più classico romanzo ottocentesco, la caccia a un buon matrimonio.
Edith, giovane alto-borghese di bell’aspetto e buone maniere, è convinta che per assicurarsi una vita facile e soddisfacente l’unico modo sia ricercare un marito adatto, possibilmente nobile. Edith trova così il suo conte da sposare e la voce narrante, un attento amico di famiglia, la seguirà negli alti e bassi della sua vita di coppia punteggiando gli accadimenti con argute e ironiche osservazioni sulla società, commentando vezzi, stravaganze e comportamenti dell’antica aristocrazia inglese.
Per quanto siano proprio queste sagaci e incisive digressioni a caratterizzare il romanzo, i conseguenti cali di ritmo finiscono per rendere la narrazione un po’ farraginosa e poco avvincente. La trama ci appare fin da subito come un pretesto per addentrarsi nelle alte sfere del sistema di classe tutto british. Punto di forza del romanzo è invece la profondità di sguardo degna di un sociologo, capace di tratteggiare considerazioni universali e di donare umanità ai personaggi, eludendo il rischio di trasformarli in meri stereotipi.
Una lettura interessante, che si fa però fatica a classificare; forse più uno studio romanzato che un vero e proprio romanzo, che difficilmente potrà soddisfare chi cerca azione o romanticismo. Da leggere con le giuste aspettative.
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Formicaio post-apocalittico
L’aria è tossica e irrespirabile. La vegetazione è scomparsa, ridottasi ad arida sterpaglia. In lontananza, il profilo di costruzioni abbandonate e fatiscenti, triste ricordo di un passato che non c’è più. Questo è ciò che si osserva dal tetto del Silo, centoquarantaquattro piani che si estendono nelle viscere della terra e che costituiscono l’unico luogo ove la vita è ancora possibile: il mondo.
Mi ha sempre incuriosito l’idea del formicaio o dell’alveare, efficienti società chiuse in cui ognuno svolge i propri compiti per il bene della comunità secondo un’organizzazione immutabile. Una struttura simile a quella del Silo, quest’ultimo baluardo di umanità regolato da rigide leggi, lavoro e obbedienza assoluta. Ma le formiche sono formiche e gli uomini sono uomini. Non possono solo eseguire; si interrogano, hanno bisogno di capire, vogliono la verità mentre l’ordine del Silo è garantito da una cortina di disinformazione, diffidenza e domande proibite. Chi ha creato il Silo e perché? E se là fuori ci fosse ancora un mondo vivibile o addirittura altri esseri umani? Se tutto ciò che vedono fosse solo finzione?
In questo romanzo non mancano ingredienti che possono soddisfare palati molto diversi: un affascinante e inspiegabile mistero, una serie di omicidi senza soluzione, una ribellione contro il potere che è anche lotta per la verità e persino un timido amore che nasce attraverso le barricate. Eppure, si ha la sensazione che alcune di queste idee non siano state elaborate completamente e che l’autore si sia a tratti perso tra le diverse possibilità di sviluppo offerte dalla trama. Dopo aver ultimato la lettura, ho scoperto che ciascuna delle cinque sezioni di cui si compone il romanzo costituiva inizialmente un libro a sé e probabilmente è proprio questa mancanza di unitarietà e omogeneità che viene percepita come un limite. Nonostante gli evidenti cali di ritmo e la mancanza di approfondimento di alcune vicende e personaggi, la narrazione procede in modo complessivamente scorrevole, trainata dalla curiosità destata dall’originale e claustrofobica ambientazione e dai mille punti di domanda che continuano a inseguirsi tra le pagine, reclamando una risposta.
Tutto sommato, una discreta lettura d’intrattenimento, sorretta da un’idea di base originale, che offre anche qualche interessante spunto di riflessione circa le dinamiche tra libertà personale e assoggettamento, informazione e pacifica ignoranza, bugie e verità che si instaurano in ciascuna comunità chiusa. A maggior ragione nell’inquietante e angusto mondo sotterraneo di “Wool”.
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Ago e filo
Ago e filo per cucire la vita, per salvarsi, per emanciparsi.
A cucire sono mani femminili, le mani delle prime donne chirurgo nell’Inghilterra di inizio Novecento. Guardate con diffidenza, se non ostilità, esercitano fuori dagli ospedali tradizionali, operando solo povera gente che non può permettersi i “dottori veri”. Ma al fronte anche quelle mani di serie B potrebbero servire. La Grande Guerra rappresenta allora per loro l’occasione di dare vita a un primo ospedale militare tutto femminile, di dimostrare il proprio valore, di fare qualcosa per cambiare la società.
A cucire sono anche mani maschili, le mani dei soldati tornati invalidi dal fronte. Sono uomini smarriti, incapaci di immaginare il proprio futuro, di riconoscersi in quei corpi, straziati e mutilati, che non possono più tornare al fronte a combattere. È in questo contesto di dolore e disillusione che qualche volontario ha l’idea di proporre tra le corsie d’ospedale l’arte del ricamo, per provare a ricucire anime ferite.
“Non c'era poi molta differenza tra cucire un corpo e ricamare per salvare ciò che di umano era sopravvissuto dentro.”
Ago e filo, per Ilaria Tuti, diventano fantasia e parole. Con questi strumenti di ricamo, l’autrice friulana va a confezionare una bellissima storia in cui si intessono in un unico ordito due filoni narrativi, entrambi ispirati a fatti realmente accaduti. Non si tratta però di un romanzo storico, le lotte per l’emancipazione femminile e la Prima Guerra Mondiale vengono ben raccontate ma sono solo lo sfondo alla vita, alle scelte e ai sentimenti dei personaggi. Fluida, coinvolgente ed espressiva, la scrittura arricchisce le pagine di emozioni. Il coraggio di donne spaventate ma risolute che hanno deciso di rischiare tutto per inseguire un sogno. La forza e il dolore di uomini a pezzi, convinti di non avere più nulla e che invece in quello strano mondo femminile riescono a ritrovare una speranza. Ci si accorge allora che, al di là dell’ambientazione storica, il romanzo parla della difficoltà, universale e attualissima, di affrancarsi da pregiudizi e catene sociali, di accettare la diversità e i cambiamenti che il destino ci mette di fronte, di trovare il proprio posto nel mondo. Vivere è cucire.
“Anche la sutura, come il ricamo, è un atto d’amore. È come l’amore, no? Unisce e risana”.
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Si può essere al tempo stesso vivi e morti?
Sono ormai diverse estati che chiedo a un romanzo di Guillaume Musso di farmi compagnia sotto l’ombrellone. Con questo non intendo sminuire le sue opere, al contrario, sceglierle come letture da spiaggia significa non voler rinunciare, nei momenti di relax, al piacere di incontrare ancora una volta intrecci originali e spesso sorprendenti, ambientazioni estremamente evocative, e una penna sempre fluida, suggestiva ed elegante. Intrattenimento di qualità per chi ama noir e suspense.
“La sconosciuta della Senna” sembra avere tutte le carte in regola per soddisfare le aspettative. La trama prende il via dal ritrovamento di una giovane donna nelle acque del fiume parigino; è ancora viva ma in uno stato di forte shock e vittima di un’amnesia totale. La ragazza riesce a fuggire ma gli esami del DNA rivelano la sua identità: si tratta di una famosa pianista tedesca deceduta un anno prima in un incidente aereo. Come è possibile essere vivi e morti allo stesso tempo, ci chiede la copertina? L’enigma sembra davvero misterioso e intrigante, e ci appassioniamo così alla lettura per inseguire, insieme alla poliziotta Roxane, le orme della sconosciuta e trovare una spiegazione all’inspiegabile.
Narrativa fluente e ritmo avvincente trainano la storia, ma lo slancio iniziale si perde nelle volute di una trama fumosa e confusa, che non riesce mai a convincere pienamente. Molti sono infatti gli elementi rimasti abbozzati, sospesi o velocemente liquidati, senza a mio avviso rendere chiaro al lettore se mettere il cuore in pace e considerare l’ambiguità come il tratto distintivo di questa lettura o sperare (chissà poi se sia davvero auspicabile) in un seguito in grado di dare compiutezza al tutto. Piuttosto deludente, per mio gusto, anche l’ambientazione di una Parigi natalizia fin troppo asettica e ombrosa, e i personaggi, deboli e incolori, incapaci di fatto di infondere emozione ed energia alla storia.
Probabilmente non sono stata in grado di cogliere la chiave di lettura dell’opera o di apprezzare quel senso di oscurità e sospensione che Musso ha scelto di infondere alle pagine, operando volutamente in sottrazione. Di fatto, le mie aspettative si sono liquefatte al sole in una pozza di insoddisfazione.
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Come attraversare la notte?
Una riunione di ex alunni riporta, a distanza di venticinque anni, il famoso scrittore Thomas Degalais nella sua Francia, nella sua Antibes. Non sempre però i ricordi della giovinezza sono custoditi in scatole profumate di tenerezza; ci sono ricordi che fanno male, che ci ostiniamo a nascondere in bauli chiusi a tripla mandata e seppelliti in buie cantine, nella vana speranza di farli tacere per sempre. È in uno di questi bauli oscuri che Thomas conserva la memoria di una gelida notte del 1992. La notte in cui la sua bellissima compagna di liceo Vinca Rockwell sparì per sempre. La notte in cui lui prese parte a un omicidio. La notte che minaccia ora di distruggere la sua esistenza. Per salvarsi, è arrivato il momento di aprire quel baule e andare alla ricerca della verità.
Passo dopo passo, Thomas si accorgerà che l'indagine che sta conducendo non è finalizzata solo a risolvere l'intrigante mistero di Vinca perché quella verità passa attraverso il se stesso di allora e, per arrivare fino in fondo, dovrà ritrovare, sotto strati di sensi di colpa, quel ragazzo solitario dal cuore puro e coraggioso che si è lasciato travolgere dall'illusione di una ragazza che lo aiutasse ad attraversare la notte. Ora per attraversare la notte può contare solo su carta e penna: balsami sulle proprie ferite, argini di protezione della realtà, porte di accesso a mondi immaginari. Ma attenzione Thomas a chiedere troppo ai libri, non possono prenderti tra le braccia quando hai paura.
Guillaume Musso ci ha abituato negli anni a confezionare romanzi capaci di sorprendere con trame imprevedibili e atmosfere patinate. Anche questo è un romanzo di sartoria, una sorta di haute couture del noir in cui detective stropicciati, bicchieri di whisky e vicoli bui lasciano la scena ad artisti che corrono lungo indecifrabili traiettorie della vita, sorseggiano champagne e osservano scorci in cui fa capolino il blu del Mediterraneo. Ma se fluidità narrativa e vividezza descrittiva sono cifre stilistiche dell'autore, questa volta la scelta di ambientare la storia nella natia Costa Azzurra piuttosto che oltreoceano infonde a suoni, colori e profumi un'emozionalità nuova. Le pagine profumano di lavanda e cantano insieme al mistral, mentre ci lasciamo trascinare da efficaci meccanismi ad orologeria e da una penna davvero godibilissima.
Uno dei romanzi dell'autore che più mi è piaciuto, che consiglierei a tutti gli amanti del thriller psicologico e dintorni.
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“Gli spettri, talvolta, siamo noi”
Marzo 1864. È una fredda e piovosa giornata quando Vittorio Fubini prende servizio come maggiordomo a Villa Flores, un’antica magione della campagna piemontese in cui polvere e trascuratezza raccontano una storia di declino e decadenza. Efficiente, serio, rigoroso, Vittorio è un uomo tutto d’un pezzo, che da sempre si è affidato alle regole della propria professione e alla perfezione dei propri gesti come unica via di realizzazione; perché essere maggiordomo non è solo un lavoro, è l’adesione a un ruolo da cui non ci si può mai sgravare. Eppure queste certezze sono destinate a sgretolarsi di fronte alle ambiguità e ai segreti celati nel silenzio e nel buio della tenuta. Vittorio osserva e si interroga, lasciandosi turbare e suggestionare dalle tende che ondeggiano come spettri, dai rumori sinistri che riecheggiano nella notte, dai non detti e dalle tensioni che vibrano tra gli abitanti della casa, nemici o prigionieri delle loro proprietà e delle loro vesti. Le domande apriranno la strada alle emozioni e ai sentimenti, conducendolo lungo un percorso di verità e profondo cambiamento.
“Le stanze buie” è un romanzo di stampo classico, nelle cui pagine risuona l’eco di altre letture e altri tempi, rielaborati però con il sentire e la modernità di una giovane penna. Fin dalle prime righe il lettore è catapultato in un clima di inquietudine, con presenze oscure e vicende inspiegabili, che attingono fortemente all’immaginario gotico e romantico e affiancano la dimensione storica dell’ambientazione e il mistero che fa da filo conduttore allo sviluppo della trama. Villa Flores ricorda sicuramente altre magioni, altri paesaggi innevati, altre tensioni familiari, ma a rendere particolarmente interessante questa storia è la voce narrante di un Vittorio ormai anziano, che regala alle pagine lo struggimento della memoria e la forza della comprensione. Con una scrittura raffinata e fortemente evocativa, Francesca Diotallevi ci narra una vicenda in chiaroscuro, di luci e spettri, che si rivela essere un viaggio nelle stanze buie della nostra esistenza, popolate dai nostri stessi fantasmi.
“Gli spettri, compresi in quel momento, non esisterebbero se non fossimo noi, con i nostri desideri, col nostro amore, col nostro dolore, a trattenerli qua. Gli spettri vivono dentro di noi. Gli spettri, talvolta, siamo noi.”
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"La giustizia è una cosa, la legge è un'altra"
Molti sono gli scrittori che hanno affondato gli artigli nelle pieghe della giustizia, mettendone in luce limiti, errori, ossessioni. La vita appare allora come un susseguirsi di eventi beffardi e cause gratuite che conducono implacabilmente a una giustizia ingiusta, il cui nemico può assumere addirittura le sembianze della legge stessa.
È proprio la terra grigia e melmosa che separa legge e giustizia lo spazio narrativo in cui si muove Ennio Guarneri, protagonista di questo splendido noir. Ex ispettore cinquantenne dalla vita solitaria, Ennio in polizia ha imparato a far rispettare la legge ma anche, qualche volta, ad agire contro di essa. Interventi fuori dai binari, per “sistemare” quei delinquenti rimasti impuniti davanti al tribunale e lasciati liberi di continuare i propri comodi. Interventi a protezione delle vittime, sempre in nome della giustizia. Interventi che qualche anno prima gli sono costati il posto di lavoro.
Di fronte ad alcuni macroscopici esempi di giustizia ingiusta, sarebbe facile pensare che chi interviene faccia addirittura bene, ma se si comincia ad ammettere questo diritto, il passo successivo sarebbe accettare un tribunale segreto capace di condannare a morte, accettare la violenza estrema se accompagnata da buona coscienza, accettare l’omicidio. Questi sono gli interrogativi che si pongono sulla strada di Ennio, innescati da una passeggiata solitaria lungo il Ticino dagli effetti feroci e inarrestabili. Questi sono gli interrogativi a cui ciascun lettore è chiamato a rispondere.
A fare da contraltare alla durezza dei dilemmi etici c’è la penna di Montanari, limpida, fluida e magnetica come sempre. Con il suo stile inconfondibile, capace di trascinare con una facilità disarmante nel cuore della storia e dei personaggi, l’autore ci accompagna in un viaggio dalle tinte noir, dove la dimensione esistenziale ha sempre il sopravvento rispetto a quella investigativa. Eppure, terminata l’ultima riga, mi è rimasta sulla pelle una patina di grigiore e malinconia ed è per questo che, a mio gusto, non considero probabilmente questo romanzo tra i più riusciti dell’autore. In ogni caso è una lettura che consiglierei certamente agli amanti nel noir, e non solo.
“E così ora quella che mi rimane è la mia solitudine da coltivare come se fosse un vizio, una scelta. Cos’altro è, in fondo?”
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Femminile singolare e femminile plurale
Donna. Nome comune, femminile, singolare.
Eh no, maestra, l'esercizio è sbagliato, ribatte la piccola Oliva. Il femminile singolare non può esistere. Le donne possono solo stare insieme, a casa con i figli o in gruppo al mercato; altrimenti deve esserci un uomo ad accompagnarle.
La maestra sospira rassegnata perché nella Sicilia rurale degli anni Sessanta non sembra esserci molto altro da fare. Le regole sono scolpite nella pietra delle case, respirate insieme all'aria, marchiate a fuoco sulla pelle. L'unica possibilità per una ragazza è il matrimonio, spesso combinato dalla famiglia, e chi è priva di denari alla roulette delle nozze può giocarsi solo una reputazione specchiata davanti alla giuria senza appello delle malelingue di paese.
Nascere donna è tutta una sfortuna, pensa Oliva. Lei vorrebbe solo correre a scattafiato con i suoi zoccoletti e raccogliere lumache, come è consentito a suo fratello. Si sente diversa dalle compagne di scuola con gli occhi bassi e dalle vecchie comari bardate di nero, eppure sa che quelle donne sono comunque dentro di lei. Femmine nate in una prigione di regole, che l'indipendenza non la possono nemmeno rimpiangere. E quando il destino la mette di fronte alla prepotenza di un uomo, protetto dal denaro, dai costumi e persino dalla legge, dovrà crescere in fretta e trovare dentro di sé il coraggio e la voce per dire no.
"Un no, da solo, può cambiare una vita, e tanti no messi insieme possono cambiare il mondo"
Il femminile singolare è una ragazzina che avrebbe solo voluto vivere semplicemente la sua vita, studiare, innamorarsi e magari mettersi il rossetto come le dive del cinema. Ma è il plurale che viene in soccorso e riempie le pagine di umanità e commozione. È l'amicizia vera della ribelle Liliana. È l'amore delicato di un padre silenzioso e resiliente, capace di insegnare la libertà di scegliere. È il senso civico della militante comunista Maddalena, che combatte per quel che crede giusto, convinta che insieme si possa fare la differenza.
"Perché abbiamo bisogno di battaglie, di petizioni, di manifestazioni? Che colpa ne ho io, se sono nata femmina?"
Viola Ardone sceglie ancora una volta di portare alla luce una storia del nostro passato italiano, dimostrando straordinaria empatia e delicatezza di sentimento. Il romanzo parla di violenza sulle donne e consenso femminile, certo, ma al centro di queste pagine sono sempre i personaggi, le vicende personali, le emozioni. Ci si commuove, si sorride e si soffre, ma è solo sentendoci addosso i panni e i sentimenti di Oliva che la sua storia singola può tramutarsi in domande e insegnamenti universali.
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Rozzano, il veleno e l’antidoto
È un romanzo scritto con inchiostro di coraggio e ne serve davvero tanto per mettersi a nudo così, senza veli e senza sconti, come ha fatto Jonathan Bazzi. Non solo perché parla di omosessualità e sieropositività, senza paura di prestare il fianco a pregiudizio e stigmatizzazione, ma soprattutto perché affonda nella verità, trascinato da un bisogno quasi viscerale di ribellarsi all’invisibilità, infischiandosene di pudore e perbenismo. Fuori tutto: la malattia, le umiliazioni, lo squallore. E tutto parte inevitabilmente da Rozzano.
Rozzano, Rozzangeles, Bronx del Nord, paese di tossici e delinquenti, di adolescenti truccatissime in tuta aderente e ragazzini ingellati che impennano col motorino. Qui le regole sono chiare: i maschi sono violenti e temerari, menano, parlano di donne, giocano a calcio. E se sei sensibile e balbuziente? Se non sai picchiare e ami i libri? Se a Carnevale sogni di vestirti da Jessica Rabbit? Allora non puoi che sentirti un corpo estraneo, un intruso. Cerchi di nascondere dove vivi con piccoli sotterfugi, per sfuggire al giudizio che ti ingabbia nelle parole degrado e povertà, eppure sai che quelle strade e quei palazzi fanno parte di te e che, per ritrovarti, dovrai farci i conti. Fuori tutto, allora. La famiglia disfunzionale in cui non ti sei mai sentito accolto e protetto. La difficoltà di trovare la tua identità, scrollandoti di dosso i modelli standardizzati che ti venivano imposti. Gli sbandamenti emotivi, i partner occasionali. L’auto-imposizione a primeggiare nello studio, figlia dell’emarginazione, della mancanza di autostima, della fragilità.
La storia di Jonathan si snoda tra i capitoli alternandosi al racconto del suo oggi, alla scoperta della sieropositività. Oggi l’HIV si può tenere sotto controllo, certo, ma ti cambia, è lo spartiacque tra un passato inconsapevole, che immagina di avere davanti tutto il tempo, e un presente in cui la morte non è più solo una remota ipotesi. La malattia diventa però anche un’opportunità, l'occasione di guardarsi davvero dentro, ricostruire la propria identità e, infine, trovare il coraggio di esporsi in prima persona, dando voce a anni di silenzio.
La potenza di questo libro sta proprio nel messaggio che si nasconde dietro la pura narrazione autobiografica. È solo attraverso la conoscenza che si può superare la paura del diverso, e questo lo sa bene un ragazzo che, a Rozzano, ha dovuto imparare fin troppo presto a sopravvivere da escluso. Allora queste pagine rispondono a un bisogno privato di ricomposizione ma anche a una necessità collettiva, di comprensione e accettazione della diversità. Un romanzo quantomai contemporaneo, dunque, per le tematiche affrontate e per lo stile, caratterizzato da frasi brevi che si susseguono a un ritmo sincopato e da un lessico immediato e colloquiale, che attinge spesso all’immaginario pop. Non c’è lievità o morbidezza in questa prosa asciutta, concitata, a tratti feroce. Urgenza e crudezza costituiscono però, a mio gusto, anche i limiti del romanzo, perché fanno intravedere sullo sfondo piaghe ancora aperte e ferite sanguinanti, lasciando un sapore un po’ amaro, di bisogno di riscatto e rabbia non del tutto pacificata.
“Davanti al pregiudizio reagire alzando la posta: meglio tacere? Lo sapranno anche i muri”.
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Celluline grigie all’opera
Se esistono romanzi che possono essere definiti intramontabili, capaci di attraversare gli anni senza farsi corrodere dalla ruggine del tempo, “Assassinio sull’Orient Express” non può non essere annoverato tra essi. Linearità di intreccio, limpidezza di penna e fascino d’ambientazione ne fanno uno dei più pregevoli classici del genere giallo, in grado di solleticare le menti di ieri e di oggi con i suoi meccanismi dall’incastro perfetto. Il risultato? Puro, intelligente, matematico intrattenimento.
"È così pazzesco, amico mio, che talvolta sono perseguitato dalla sensazione che in realtà debba essere molto semplice. Ma è solo una delle mie piccole idee."
La cifra stilistica di Agatha Christie è la chiarezza che contraddistingue trama, stile e atmosfere. La storia ruota invariabilmente intorno a un’indagine dalla logica rigorosa, dove nulla è mai nascosto all’investigatore dilettante che, dalla comodità della sua poltrona, affianca Monsieur Poirot nel raccogliere indizi e dichiarazioni. In virtù di un tacito patto di trasparenza, il lettore non si sente mai ingannato e, in fondo, nemmeno sfidato alla soluzione, ma accompagnato per mano da una prosa brillante e squisitamente descrittiva, che dispone ogni elemento sulla scacchiera con geometrica meticolosità. In fondo, l’assassino non può che nascondersi tra i dodici passeggeri intrappolati con noi nel vagone Istanbul-Calais, fermo in mezzo al nulla a causa di una tempesta di neve, ma quale? Si può stare comunque tranquilli, se anche non si riuscisse a risolvere lo stuzzicante enigma, arrivati all’ultima pagina, ci penserà il buffo ometto dalla testa a uovo e i baffi impomatati a fornire tutte le spiegazioni.
Il passo è svelto, scandito da capitoli brevi e frequenti dialoghi, ma non ci si aspetti adrenalina, batticuore o sospiri mozzati. Persino in un’ambientazione ristretta e isolata come quella qui proposta, il fascino del lussuoso convoglio prevale sulle note cupe e claustrofobiche. Il crimine, in fondo, con Agatha Christie, appare grazioso, sereno e ordinato.
"Dobbiamo basarci solo sulla deduzione, e questo rende per me le indagini di gran lunga più interessanti. Non si tratta di seguire una procedura, si tratta di far lavorare il cervello."
“Assassinio sull’Orient Express” si iscrive nella classica tradizione del giallo inglese di cui la Christie è maestra eppure, come sempre, ogni romanzo della scrittrice apporta qualche elemento nuovo. Qui è il ruolo della giustizia, che si intravede attraverso le maglie dell’indagine, e la dolorosa riflessione sul fatto che, a volte, possa essere più giusto lasciare la verità nell’ombra.
“L’impossibile non può essere accaduto; quindi l’impossibile deve essere possibile, nonostante le apparenze.”
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I sentieri della storia
È il 1946, l’esperienza della guerra si agita ancora viva nella memoria di tutti, quando un Italo Calvino poco più che ventenne sceglie di scrivere un componimento sulla Resistenza, il suo primo romanzo. La strada maestra della storia brulica di materiale da raccontare: la lotta partigiana, la vita di clandestinità, le imboscate, gli schieramenti sociopolitici; come affrontare tutto questo senza farsi schiacciare dalla solennità dell’argomento e senza nulla concedere a retorica e facili sentimentalismi? Incamminandosi per un sentiero laterale, con gli occhi di un bambino allegro, spavaldo e dispettoso.
Pin ha dieci anni, è orfano, cresciuto con una sorella prostituta, vagabondando tra osterie e carruggi, sempre circondato da adulti. Sfacciato e impertinente, non sa fare altro che canzonare i grandi, ripetendo le loro storie di letti e di morte, cantando le loro canzoni da galera, scimmiottandone gesti e parole, senza nemmeno comprenderne il senso. In fondo, vorrebbe solo un amico con cui trotterellare per sentieri e a cui rivelare il prezioso segreto dei nidi di ragno, e invece si ritrova sempre solo, ai margini di piccoli e grandi.
Rubare una pistola tedesca e diventare partigiano non è per lui una scelta ideologica ma qualcosa che gli capita, per essere accettato in osteria e magari avere un giocattolo tutto suo da custodire. È così, attraverso una lente innocente e scanzonata che deforma la spietatezza della guerra, che ci viene restituito un racconto di Resistenza, di vita ma, soprattutto, di uomini. Uomini che, grazie all’immediatezza visiva e alla fantasia monella di Pin, assumono tratti quasi grotteschi, perché sono adulti che Pin non riesce davvero a capire, come impossibile è capire la guerra. I fascisti sono neri figuri con baffi da topo e berretti con teste da morto. I partigiani uomini barbuti e colorati con elmi, sombreri e le divise più disparate. La brigata del Dritto è un gruppo di tipi bislacchi e scalcagnati, uniti, ancorché confusamente, dal desiderio di un futuro migliore che li riscatti da un mondo di miseria e umiliazione. È solo il serio commissario Kim, nell’unico capitolo diverso per toni e contenuto, a farsi portatore di riflessioni ideologiche, nel tentativo di rispondere a quesiti senza tempo: cosa spinge l’uomo ad uccidere, chi sta combattendo e cosa si difende? Ma c’è un altro quesito in sospeso, per Pin e per ogni lettore, ci sarà infine qualcuno da poter chiamare amico, meritevole di custodire il segreto dei nidi di ragno?
“Domani sarà una grande battaglia. Kim è sereno. “A, bi, ci”, dirà. Continua a pensare: ti amo, Adriana. Questo, nient’altro che questo, è la storia”.
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Troppa polenta
I generi letterari, sempre che esistano ancora, sono spesso associati ai colori: giallo, rosa, nero. Ma qual è il colore dei romanzi di Alice Basso dedicati alla graziosa e apparentemente frivola dattilografa Anita Bo? Servirebbe coniare un nuovo genere a tinte pastello che possa rappresentare queste pagine leggere e frizzantine, in grado di mescolare sentimento, storia e un pizzico di mistero allo scopo di intrattenere con garbo, senza prendersi troppo sul serio.
Siamo nella Torino del 1935 e la cura con cui viene tratteggiato il contesto testimonia un approfondito lavoro di ricerca, eppure la storia rimane sempre sullo sfondo, solo intravista attraverso gli elementi di costume, i personaggi e i piccoli dettagli d’epoca con cui l’autrice si diverte a giocare. Scopriamo così la meravigliosa Petronilla, che dalle pagine del Corriere dispensa ricette per cucinare ottime creme all’uovo senza uovo o salse di lepre senza lepre. Facciamo la conoscenza di tanti protagonisti, e protagoniste, della letteratura hard-boiled del tempo, a cui, proprio come Anita, finiamo per affezionarci. Impariamo a muoverci tra l’atletismo dei sabati fascisti, la carità ipocrita dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia e la tristezza delle case di tolleranza.
Uno sguardo speciale è riservato infatti alle donne. A ben guardare, fatto salvo Sebastiano Satta Ascona, anima letteraria della rivista Saturnalia, che affianca passo passo Anita nel suo percorso di crescita personale, civile e sentimentale, tutto ruota intorno a figure femminili. La solida amica Clara e la professoressa controcorrente Candida, coinvolte ancora una volta in avventate scorribande investigative. Le ragazze madri Gioia e Diana, con le loro storie di sopruso e dolore. E ovviamente Anita, sempre più appassionata e consapevole nel suo desiderio di giustizia, nel suo bisogno di alzare la voce in un mondo che impone il silenzio.
La scrittura briosa e ironica di Alice Basso è garanzia di piacevolezza, eppure devo ammettere di avere avvertito una certa stanchezza nella lettura. Una sensazione già presente negli ultimi due episodi dedicati alla ghostwriter Vani Sarca, che avevo in quel caso attribuito alla trama, e nello specifico al dilungarsi di una serie che per mio gusto avrebbe potuto chiudersi prima, e che qui invece si rivela chiaramente frutto dello stile più che dell’intreccio. Similitudini quantomai bizzarre, interiezioni piemontesi e il gioco dell’italianizzazione delle parole sono una sorta di marchio di fabbrica, e mi hanno strappato ancora un sorriso, ma all’ennesima “Santa polenta!”, fritta o coi funghi che fosse, questa volta ho davvero sentito il bisogno di chiudere per un po’ il libro, come per prendere fiato da un'afa di patinato entusiasmo. Giudizio in sospeso, aspettando la prossima avventura.
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Una ragazza normale. Una ragazza fascista
Leggere la storia dalla prospettiva di oggi, avendo in mano le carte già scritte del futuro, facilita l’analisi e il giudizio, ma viverla in prima persona, la storia, è tutta un’altra faccenda. Se fossimo nati un secolo prima saremmo stati in grado di comprendere con chiarezza ciò che stava accadendo intorno a noi? Ritanna Armeni ci chiede proprio questo, di osservare il regime a partire dal 1933 non con gli occhi del XXI secolo, ma indossando i panni di una tredicenne romana di allora, cresciuta in una famiglia per bene, una ragazza normale. Una ragazza fascista.
“Il Duce ha dimostrato ancora una volta di meritare la nostra fiducia e il nostro amore. Sì proprio l'amore. Non si può non avere trasporto e un sentimento intenso di devozione per chi ci protegge, ci guida e ha così a cuore il nostro benessere e la nostra felicità.”
Mara si affida con entusiasmo a Mussolini, corre ad acclamarlo sotto il balcone di Piazza Venezia, si fa portavoce delle sue idee non perché comprenda la scacchiera del potere, ma con l’ingenua speranza che il regime possa garantire a tutti sicurezza, protezione e nuove opportunità. Non riesce a vedere le storture che si nascondono dietro la propaganda e la retorica pubblica e, paradossalmente, crede che proprio il regime possa darle libertà. In fondo, per la prima volta, le ragazze partecipano al sabato fascista, escono di casa da sole per gareggiare in calzoncini e lo stato le considera, sebbene vincolate al ruolo di mogli e madri. Saranno la guerra, le privazioni, le paure a insinuare i primi dubbi e a incrinare via via le convinzioni e le illusioni di Mara, conducendola lungo un percorso di maturazione interiore e politica che la porterà verso la democrazia.
Il grande pregio di questo romanzo è proprio di abbandonare i luoghi comuni e i pregiudizi, proponendo un punto di osservazione non convenzionale sulla storia e, in particolare, su una generazione intera di donne italiane. Mara è una giovane e convinta fascista, eppure non sogna maternità e famiglia, ma vorrebbe studiare all’Università, diventare indipendente, scrivere romanzi. Fantastica sulle vittorie olimpiche di Ondina Valla e prende come modello la colta zia Luisa, senza rinunciare a interrogarsi, a comprendere, a impegnarsi per le cose importanti. La sua, come quella di tante altre, è una sorta di resistenza silenziosa e inconsapevole agli stereotipi e agli imperativi del regime, che ha gettato un primo germe di libertà.
“Anche nei primi anni del fascismo c'è, quindi, chi rivendica l'autonomia femminile. Donne che vogliono partecipare alla vita pubblica e politica e non si vogliono limitare alla beneficenza e all'assistenza.”
Per comprendere meglio la voce di Mara, la scrittrice fa sentire chiara la propria voce, inframezzando la narrazione con molti inserti di storia, di curiosità e di costume che permettono di contestualizzare gli eventi e approfondire il filone tematico legato alla figura femminile del Novecento fascista. Stilisticamente il lavoro è di qualità, vi si trova armonia e omogeneità tra una narrazione in prima persona di grande forza empatica e un controcanto che ci offre interessanti spunti di riflessione.
“Sbaglia, non vede lucidamente quel che accade. Eppure penso che abbia fatto bene a seguire il suo sogno. È possibile che chi sbaglia abbia anche ragione?”
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Chi sei, Julien?
In letteratura si possono incontrare eroi e cattivi, monoliticamente definiti da ideali, pulsioni e desideri, grandiosi e immutabili. E poi ci sono personaggi come Julien Sorel, protagonista di questo straordinario romanzo di Stendhal, che, pagina dopo pagina, si arricchiscono e si trasformano, attraverso passioni che li cambiano da dentro, sfuggendo a ogni possibile definizione e lasciandoci brancolare tra le righe, affascinati, nell’inutile tentativo di afferrarli. Ultimata la lettura, io sono ancora qui a interrogarmi: chi sei, davvero, Julien? Un eroe romantico, fiero e audace, o un avido e cinico calcolatore? Probabilmente, entrambi. Sicuramente, un infelice.
Infelicità è qui manifestazione di dissidio interiore e conflitto sociale. Julien è un giovanotto di umili origini, cresciuto nella provincia francese cibandosi di ideali napoleonici e ambizioni militari, che si ritrova all’alba dell’età adulta nel pieno della Restaurazione, immerso in una palude di grigiore, corruzione e vecchi privilegi. Per tentare la scalata sociale che il suo animo orgoglioso e famelico brama non rimane altra possibilità che abbandonare i sogni romantici e piegarsi all’ipocrisia, intraprendendo una carriera religiosa priva di vocazione e un’esistenza di doppiogioco. Costretto a vivere una realtà così lontana dai propri desideri e a dissimulare se stesso per opportunismo, Julien finisce per muoversi sempre su un terreno scivoloso, in cui persino i sentimenti più profondi, come l’amore e l’amicizia, stanno in bilico sul filo invisibile che separa passione autentica da freddo calcolo. Si innamora di due donne ma i suoi corteggiamenti, almeno all’inizio, sembrano più atti pianificati di conquista che non slanci del cuore, ed è questo continuo conflitto che gli impedisce, in fondo, di godere appieno anche di sentimenti sinceri. Una lotta lacerante e distruttiva, dal fallimento predestinato, che forse solo alla fine, in un ultimo gesto di protesta e coerenza, trova il suo riscatto e la sua verità.
Partendo da un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1830, Stendhal costruisce una storia estremamente complessa, ricca di contenuti politici, storici e psicologici. Delinea con spietata lucidità il quadro sociale della Francia a lui contemporanea. Racconta con sagace ironia le dinamiche di intrighi di potere e tresche amorose. Ma soprattutto si immerge vorticosamente nelle passioni, frustrazioni e vanità di un uomo vittima dei suoi desideri e della sua epoca, dando vita a un personaggio universale e attualissimo ancora oggi.
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Il destino si scrive al contrario
Lungi da me, semplice lettrice dilettante, pretendere di conoscere le ragioni e i processi mentali di un abilissimo narratore quale Maurizio De Giovanni, ma non posso fare a meno di pensare che, dopo un certo numero di personaggi amatissimi dal pubblico e incredibili successi editoriali, l’autore partenopeo abbia voluto rinnovarsi, cimentandosi in una vera e propria sfida letteraria: creare un protagonista per sottrazione, rimuovendo tutto ciò che permette di instaurare un legame immediato con il lettore.
Ecco così Sara Morozzi, agente dei Servizi Segreti in pensione, che, per natura e professione, è diventata maestra nell’arte di scomparire sullo sfondo, di rendersi invisibile, per essere libera di osservare e comprendere ciò che la circonda. Il suo colore è il grigio, simboleggiato dai capelli che non tinge per amor di sincerità. La sua voce è un impenetrabile silenzio. Le sue emozioni sono abilmente celate dietro una cortina di sicurezza e infrangibilità, e non vengono svelate mai, nemmeno al lettore, che è chiamato sempre a intuire tra i non detti.
In questo quarto episodio della serie a lei dedicata, Maurizio De Giovanni mette la sua protagonista di fronte a un immenso dolore, la malattia dell’amato nipotino, colpito da un tumore incurabile. Mentre la mamma Viola si consuma dalla disperazione e l’amico Pardo si rifiuta di accettare la realtà, Sara si trincera nel suo silenzio di osservatrice. Ancora una volta, però, sarà una sua intuizione ad accendere un bagliore di speranza, conducendoli alla ricerca di un medico russo che potrebbe salvare il piccolo Massimiliano. Sarà una strada da percorrere al contrario, verso il passato, e che ci catapulterà nel clima sociopolitico del 1990 per riportare alla luce una verità che continua a sanguinare, ieri come oggi.
“È il futuro che è scritto e pianificato dagli eventi del passato. Il destino esiste, ma all'indietro”.
La trama si sviluppa dunque su più piani narrativi, raccontando un presente che cerca nel passato e un passato che torna con i suoi effetti sul presente, senza perdere mai ritmo e attrattiva. È però davvero difficile affezionarsi a questa protagonista dura, capace di abbandonare un figlio per inseguire la verità di un grande amore, e riconoscersi nella sua glaciale imperturbabilità. Sarebbe proprio questa la sfida, farcela amare. Nel mio caso, non è stato così e quest’assenza di empatia ha sicuramente influito sulla mia soddisfazione complessiva. Purtroppo, mi è parso che anche altri elementi narrativi siano stati vittima dello stesso processo di sottrazione: l’ambientazione, l’approfondimento emotivo dei personaggi a contorno, l’originalità dello sviluppo della storia che prende invece sempre la via più prevedibile.
Troppi meno, almeno per me.
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Più di testa che di cuore
Tre piani di un condominio in un quartiere residenziale vicino a Tel Aviv. Tre storie separate, che si sfiorano appena. Tre personaggi che, raccontandosi in prima persona a un interlocutore invisibile, si sfogliano, come gli strati di una cipolla, lasciando trapelare la parte più profonda e nascosta dell’anima: il segreto della propria vulnerabilità.
A suggerire l’originale idea narrativa alla base di questo romanzo è la teoria topografica di Freud sull’anima. “Al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e gli istinti, l'Es. Al piano di mezzo abita l'Io, che cerca di conciliare i nostri desideri con la realtà. E al piano più alto, il terzo, abita sua altezza il Super-Io, che ci richiama all'ordine con severità e ci impone di tenere conto dell'effetto delle nostre azioni sulla società”.
Questa lotta tra pulsioni, realtà, etica è messa in scena attraverso le dinamiche familiari e affettive che attraversano un condominio, da un lato, e le diverse fasi della vita, dall’altro.
Al primo piano troviamo quindi il giovane padre Arnon, con il suo bisogno di proteggere la propria figlioletta e la sua incontenibile urgenza di verità, che può diventare agitazione, furia, ossessione. Al secondo c’è Hani, donna matura con un marito sempre in viaggio e senza un lavoro, che incarna la difficoltà di trovare un equilibrio tra i propri sogni inconfessabili e un’esistenza solitaria e insoddisfacente. E in ultimo Dvora, vedova e giudice in pensione, che ha sempre vissuto secondo gli integerrimi schemi e principi imposti dalla propria professione e dal proprio ruolo familiare, anche a costo di scelte strazianti, e che ora deve fare i conti con nuove possibilità e interrogativi.
Con una narrazione limpida, dotata di grande fluidità e arricchita da un tocco di ironia, Eshkol Nevo ci racconta i fallimenti, le fissazioni e le paure che affliggono una società moderna sempre più fragile e smarrita. Non c’è una ricetta da fornire o una tesi da dimostrare, non a caso tutte le storie rimangono di fatto aperte, lasciandoci immaginare il finale e scegliere così la nostra verità. Nonostante la qualità di scrittura e la validità dell’idea, però, il racconto non riesce, a mio avviso, ad animarsi e a coinvolgere completamente dal punto di vista emotivo. La sensazione è che, dietro al racconto, sia sempre visibile in trasparenza una griglia di scelte autorali che tolgono autenticità e sentimento alla narrazione. Rimane un interessante viaggio nella psiche, più di testa che di cuore.
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Al banco di prova dell’umanità
Tutto ha inizio con un sogno, il sogno di un mondo migliore. È questa l’eredità che un anziano e saggio verro lascia agli altri animali. L’idea che possa esistere una fattoria senza uomini, gestita da loro stessi, finalmente liberi, padroni del proprio lavoro, delle proprie uova, del proprio latte. Una nuova visione della vita, senza servitù e tirannia, ma animata da solidarietà e fratellanza.
Sette comandamenti. Ne basta uno: “Tutti gli animali sono eguali”.
Si accende la scintilla della rivoluzione animalista.
Ma i sogni sono perfetti solo quando sono protetti dall’oscurità della notte, diventando realtà devono scontrarsi con la natura umana. Nel momento in cui i maiali si assumono il compito di organizzare la nuova fattoria, di gestire il frutto del lavoro comune e di scrivere i comandamenti sulla lavagna, è già in atto una gerarchia e sulla scena compaiono tutte le debolezze umane travestite da animali. La brama di potere e di ricchezza. La tentazione di avere più degli altri. L’ingenuità di coloro a cui basta imparare una formula da ripetere, qualunque essa sia, prestando il fianco alla manipolazione e alla propaganda. Il bisogno di continuare passivamente a credere, nonostante tutto, nella propria idea e nel proprio lavoro, forse perché aprire gli occhi farebbe troppo male.
Tante le nuove postille ai vecchi comandamenti. Ne basta una: “Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali di altri”.
La scintilla si spegne nel solito fumo soffocante di tirannia e coercizione.
La geniale allegoria ideata da George Orwell racconta il fallimento della rivoluzione bolscevica e, più in generale, di qualsiasi rivoluzione, quando l’ideale per cui si è combattuto prende le vesti di regime. Un sogno è fatto di idee, di desideri, di speranze. La realtà è fatta di organizzazione, di giochi di forza, di uomini. E al banco di prova dell’umanità e dell’egoismo è difficile che i sogni rimangano integri.
Amaro, anzi amarissimo, e, proprio per questo, lettura imperdibile perché le riflessioni che innesca sono quantomai vere e attuali.
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Sotto l'acqua battente
Acqua che colpisce il parabrezza e si intrufola - morbida e viva - nell'automobile, iniziando a lambire i piedi e riempire gli occhi di paura.
Acqua di una brocca di vetro che si infrange, lasciando a terra schegge taglienti di speranze disilluse, dolore e colpe mai perdonate.
Acqua che si riversa nel salotto, raccontando una storia di gas dimenticato aperto, di smarrimento lungo la strada, di incapacità di orientarsi.
Acqua di una piscina dove provare a imparare ad addomesticare il terrore con la tecnica, e la vita con l'amore.
In questo suo ultimo lavoro, Sara Rattaro vuole rendere in qualche modo omaggio alla sua città, Genova, e ai suoi abitanti, e lo fa portando in scena l'alluvione del 4 Novembre 2011, una delle tragedie che ha segnato la recente storia del capoluogo ligure.
Le prove eccezionali che la vita ci mette di fronte sono capaci di travolgere le nostre esistenze in un attimo, spazzando via ogni certezza e costringendoci ad affrontare emozioni devastanti come il dolore della morte, il rimbombo della paura, la consapevolezza della fragilità. È quel che accade ai protagonisti di questo romanzo corale e circolare, composto appunto da otto diverse voci e storie, che si intrecciano e si congiungono a formare un'unica narrazione collettiva. L'invisibile filo conduttore è proprio l'esperienza dell'alluvione, le sue ripercussioni, l'acqua.
Da sempre emblema di vita e rinascita, l'acqua assume in questo romanzo un ruolo ambiguo. La pioggia travolge, sommerge e uccide, pericolosa e traditrice. Ma l'acqua è capace anche di salvare, di spezzare una quotidianità opprimente, di portare nuova vita, di far nascere un amore. Al centro di queste pagine vi sono dunque i sentimenti, che la scrittrice cerca di raccontare con sensibilità di tocco e fluidità di penna. E, in particolare, i buoni sentimenti, perché in fondo la vera protagonista di questa storia è la capacità di resistere, di rinascere, di avere speranza.
E allora ben venga questo romanzo, sicuramente più adatto a un pubblico femminile, sebbene devo ammettere che la brevità delle storie narrate sia in questo caso un limite, non consentendo un vero e proprio approfondimento di caratteri e animi. La sensazione finale è che molti elementi siano rimasti solo abbozzati, lasciando al palato qualche punta di insoddisfazione. Interessante, invece, risulta essere lo spunto narrativo così come la buona capacità empatica dell'autrice.
Ho letto tra l'altro che il romanzo fa parte di un progetto di quattro libri sugli elementi della natura - terra, acqua, fuoco e aria - affidati ciascuno a uno scrittore diverso; non nascondo che mi è rimasta la curiosità di scoprire qualcosa in più circa gli altri contributi e il modo in cui ogni autore ne darà la propria interpretazione.
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Trilogia di egoismi
“Valentino”, “La madre” e “Sagittario” sono tre racconti appartenenti alla produzione giovanile di Natalia Ginzburg, scritti a cavallo degli anni Cinquanta e raccolti insieme in quest’edizione Einaudi. Tre racconti dal contenuto semplice, frammenti di esistenze che non hanno nulla di eccezionale o eroico, ma si muovono nella naturalezza del vivere quotidiano, spinte inesorabilmente verso un destino familiare di miseria. Il tessuto dei legami e degli affetti familiari è, ancora una volta, lo scenario eletto dalla Ginzburg per raccontare rapporti irrisolti e irrisolvibili, che fanno i conti con l’egoismo.
Da un lato, l’egoismo indolente di un giovane vanesio, chiuso in un cieco e totalizzante amore per se stesso. Un giovane incapace di guardare alla vita se non nelle sue superficiali manifestazioni - un bel corpo, vestiti eleganti, illusori passatempi -, senza riuscire a vedere il dolore e la solitudine delle persone che lo circondano. Quelle stesse persone che gli hanno dato tutto, a piene mani, sostenendo interamente il peso del vivere comune.
"Valentino è felice, perché l'amore per se stessi non delude mai" [Valentino]
Dall’altro, l’egoismo febbrile di una donna irrequieta e instancabile nell’inutile tentativo di sottrarsi al grigiore e alla banalità della vita di ogni giorno. Una donna che ha cercato stimoli e felicità sempre lontano, nella città, in nuove amicizie o iperbolici progetti, e non è stata in grado di leggere e aiutare la malinconia che le viveva accanto, cristallizzata in un muto sorriso.
"Adesso mia madre capiva il senso di quel sorriso. Era il sorriso di chi vuole essere lasciato in disparte, per ritornare a poco a poco nell'ombra" [Sagittario]
Manca una vera e propria dimensione descrittiva: Torino si dissolve in una città uguale a tante altre e anche i personaggi, in fondo, non sono indagati, ma scoperti piano piano attraverso piccoli gesti e dettagli apparentemente inutili: i baffi, il vestito di panno blu marin, la zazzeretta color fieno. Manca un vero e proprio intreccio, in questo susseguirsi quasi cronachistico di piccoli accadimenti. Eppure, una volta chiusa l’ultima pagina, ti accorgi che qualcosa di prezioso ti è rimasto incollato sulla pelle. La tenerezza di uno sguardo sensibile e non giudicante. La semplicità di una scrittura fluida e leggera, che predilige la comunicazione agli ornamenti. Il delicato rispetto che accarezza ogni uomo, ogni miseria. E ogni lettore.
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“L’avvenire è dei furbi”
Se un classico è un romanzo che, a distanza di tempo, è in grado di parlarci tornando attuale come un fantasma, allora indubbiamente siamo al cospetto di un grande classico. Il mondo di Bel Ami è la Parigi della Terza Repubblica, eppure i caratteri che Maupassant coglie e ritrae con verità sono in fondo gli stessi che possiamo osservare nella società che ci circonda, ed è proprio questa straordinaria attualità, che sa quasi di preveggenza, a rendere interessante, e amarissima, questa lettura.
Ignorante, furbo, superficiale, Georges Duroy non è che un cialtrone animato da un unico, bruciante desiderio: affermarsi, a qualunque costo. Fa carriera nel giornalismo, senza sapere scrivere. Colleziona una sfilza di amanti, senza sapere amare nessuno. Si arrampica sulla scala sociale, senza possedere alcun talento. Eppure, non c’è mai soddisfazione in quel suo animo insaziabile ed egoista, perché l’ambizione si mescola all’invidia e ogni conquista ottenuta non è mai abbastanza per placare la fame di successo, quando si vuole - e si crede di meritare - la vetta del mondo. Privo di scrupoli o sentimenti, Georges tira sempre dritto per la sua strada, sfruttando la stessa mediocrità che lo circonda perché, in fondo, in queste pagine, non si salva proprio nessuno. Né le donne, che si lasciano calpestare in nome di qualche illusorio attimo di passione. Né gli uomini, avidi, corrotti e intriganti. Poche le figure che si sottraggono a questa sostanziale vacuità, forse solo una, il vecchio Norbert de Varenne, poeta solo e fallito, a ricordarci che, alla fine del nostro cammino, l’euforia di glorie e denari si sbriciolerà davanti ai nostri occhi, rivelandosi in tutta la propria pochezza.
Maupassant fa parlare la realtà così come la osserva, con spirito arguto e ironico, in cui disprezzo si mescola a bonario divertimento. Inutile quindi cercare in queste pagine consolazione o redenzione, perché, allora come oggi, "l'avvenire è dei furbi". Ciò nonostante, sono proprio le parole del disilluso poeta a dispiegare un velo di morte sulle sfavillanti luci di fama e ricchezza, lasciandone percepire tutti i limiti. Quel che sconforta maggiormente è allora constatare come, ai nostri giorni, questo superficiale e meschino cannibalismo sociale si sia invece trasformato in una sorta di filosofia del successo, accettato con indifferenza, se non addirittura perseguito come ideale.
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Indesiderato
Negli anni ’70 in Svizzera una legge stabiliva che i figli dei migranti non potessero attraversare la frontiera. Se gli italiani erano accettati per il pesante lavoro stagionale nel traforo del San Gottardo, i bambini no, non potevano entrare. Erano indesiderati.
Il romanzo di Nicoletta Bortolotti parla di Michele, indesiderato a soli nove anni, costretto a vivere sottovoce, nascosto in una soffitta, e delle cicatrici che l’esperienza dell’esclusione gli ha lasciato sulla pelle. E parla di Nicole, della loro amicizia segreta, vissuta come un sogno o una fiaba, e di come questo legame clandestino, spezzatosi prematuramente, ne abbia segnato l’intera esistenza. È una storia di rinunce, attese e sensi di colpa, ma ora Nicole, ormai adulta, sente di dover tornare indietro, a quella casa in Svizzera dove ogni cosa sembrava possibile, per rispondere finalmente a domande rimaste in sospeso da trent’anni. Ad alta voce.
"Ma poi cos'è una casa. La stanza dove sono nato? La soffitta di Delia? La dimora azzurra? L'appartamento lussuoso in cui abito adesso? Oppure lo sguardo di Nicole. L'odore di Delia. Un giardino di rose dove posare l'infanzia. Forse una casa non è dove tu sei, ma dove sei tu. C'è una differenza".
“Chiamami sottovoce” corre su un doppio binario temporale, in un’alternanza di voci narranti. Ieri e oggi. Michele e Nicole. E sullo sfondo dei loro ricordi prendono forma le vite dei lavoratori italiani in Svizzera e, soprattutto, la storia dei bambini invisibili, vittime delle scelte e dei doveri degli adulti. Se interessante risulta essere lo spunto narrativo, al romanzo manca un affondo più incisivo nella rappresentazione dell’ambientazione e dei personaggi. La montagna sbiadisce sullo sfondo, senza odori, colori, sapori. I protagonisti evaporano senza che emozioni o sensazioni persistenti si incollino alla pelle del lettore. Non basta una voce pulita e sicura, capace a tratti di toccare note fiabesche e poetiche, per appassionare davvero il lettore e il tutto finisce per essere un minestrone un po’ confuso di ingredienti di per sé pregevolissimi.
Una buona compagnia, non priva di spunti interessanti e di una certa dose di grazia ma non posso fare a meno di pensare che ci sarebbero state tutte le premesse per un lavoro di maggior profondità.
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Chi l’ha detto che non puoi essere così?
Sei a Parigi. Da sola. E questo già di per sé è un evento sconvolgente, perché tu non sei una ragazza che salta su un treno e attraversa da sola la Manica verso un paese di cui non conosce nemmeno la lingua. Sei una ragazza che ha paura di ciò che non sa, che si sente in imbarazzo a stare da sola persino quando mangia al ristorante, che stila lunghissime liste di pro e contro per trovare sempre la scelta più prudente e sicura. Così, quando il tuo fidanzato ti comunica con uno sterile messaggio telefonico che il vostro weekend da sogno è saltato e non ti raggiungerà nella città più romantica del mondo, la prima idea è quella di rinchiuderti in una stanza d’albergo a piangere sulle delusioni, senza nessuno a osservare e giudicare la tua solitudine.
Ma se sei la protagonista di un dolcissimo racconto romantico, allora il destino verrà a darti una mano e, complice una mostra d’arte e un bicchiere di vino rovesciato su un bel cameriere aspirante scrittore, ti potresti ritrovare a vivere una notte speciale, scorrazzando per la città in sella a uno scooter, con uno svolazzante e coloratissimo vestitino e un sorriso che non ricordavi neanche più di avere.
Quella che ci racconta Jojo Moyes in questa manciata di pagine è una storia semplice e spensierata, che non ha sicuramente la pretesa di approfondire le sfaccettature dei personaggi o offrire un vero e proprio intreccio. Sono pochi e semplici scorci di vita e di Parigi, destinati a un pubblico femminile che potrà riconoscersi nelle insicurezze e nelle paure della protagonista e ricordarsi, almeno per qualche ora, che a volte per sognare si deve rischiare un po’ e cercare tra la naftalina coraggio e istinto. E chi l’ha detto che non puoi essere anche così?
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Quel che è perso è perso
Ci avvertono subito Remo, Gaspar ed Enric, personaggi e voci narranti de “La pista di ghiaccio”: in questa storia troveremo un delitto, uno scandalo comunale e un triste segreto. Se prendessimo però la mappa di un giallo, da utilizzare come guida per affrontare la lettura, basterebbero poche pagine per capire di essere al cospetto di un percorso assai diverso, che non segue alcuna delle direzioni attese e si fa beffe di indizi, indagini, colpevoli. E, forse, persino della verità.
Qual è il cuore del romanzo, allora? Difficile a dirsi, con Roberto Bolano, ma il bello sta probabilmente proprio nel lasciarsi trasportare, senza rotta e senza meta, da queste tre voci così diverse, seppur sfumate dalle stesse ombre di malinconia. Un ex-scrittore cileno convertitosi in commerciante catalano. Un poeta messicano dall’animo vagabondo. Un pingue spagnolo in bilico tra potere e frustrazione. Sembrerebbero lontani anni luce, invece le loro voci parlano della stessa città, degli stessi personaggi, della stessa solitudine, offrendoci la loro porzione di verità. Non la verità della vittima e del colpevole, che rimane quasi un affresco sullo sfondo, ma una verità fatta di desideri inconfessati, di passioni impossibili, di impulsi improvvisi e inquietudini silenziose, che ruotano intorno a una pista di ghiaccio abusiva, costruita nel maestoso e ormai decadente Palazzo Benvingut.
Nell’afa di una torrida estate catalana, in cui l’aria è tanto densa da sembrare solida e il pulviscolo danza senza sosta nella luce abbagliante, il gelido spazio di una pista di pattinaggio, con la sua innaturale e fredda immobilità, si fa così simbolo di un’umanità ammaccata, tormentata, smarrita nel mondo, che si muove fuori dal tempo, come sospesa in un labirintico sogno.
“Siamo tutti così abituati a morire di tanto in tanto e piano piano che in realtà siamo ogni giorno più vivi. Infinitamente vecchi e infinitamente vivi”.
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Femminicidio a Barcellona
È una Barcellona piena di solitudine quella che fa da sfondo a quest’avventura dell’ispettrice Petra Delicado e del suo inseparabile vice Fermín Garzón, splendida coppia investigativa nata dalla penna di Alicia Giménez Bartlett. Una storia che si snoda attorno al tema quanto mai attuale del femminicidio e che si addentra nell’oscura ragnatela dei siti d’incontri e delle agenzie matrimoniali.
Volti di donne. Fotografie che immortalano pose e sorrisi con cui catturare l’attenzione: la birichina, la pudica, la provocante, l'enigmatica. Fotografie in cui palpita tutta la speranza di trovare finalmente qualcuno con cui dividere la propria giornata, in una città che sa farti sentire davvero solo, avvolgendoti con il suo assordante silenzio.
Volti di donne. Fotografie di cadaveri sfigurati e coperti di tagli profondi, su cui un misterioso assassino seriale si è accanito con singolare violenza. Fotografie di donne che hanno pagato con la morte il bisogno di un po’ di calore, l’ultima illusione di felicità.
Le indagini di Petra e Fermín partono lentamente. Non è una corsa al fulmicotone quanto più un moto ondulatorio, tra errori e false piste, intervallato da esilaranti battibecchi, burrascose sfuriate e immancabili soste al bar. Perché anche di fronte alle più intollerabili brutture, i nostri detective spagnoli rimangono aggrappati all’umorismo, all’amicizia e alla fiducia nel potere ristoratore di tapas e birre.
Come sempre, i gialli della Giménez Bartlett trovano il proprio spunto narrativo nel desiderio di raccontare la complessità delle relazioni più che un’avventura investigativa. I personaggi si interrogano spesso sul senso della vita, sui comportamenti sociali, sulla responsabilità individuale dei colpevoli. Le mostruosità del femminicidio nascono dalla malattia mentale oppure rivelano una crudeltà insita nella natura umana, che vede nell’anonimato del mondo virtuale il terreno ideale in cui operare? Il punto di forza della storia sta dunque non tanto nel risultato o nel colpo di scena, quanto nel cammino e nelle riflessioni che porta con sé.
Per questo, una lettura da consigliare, sebbene non esente da qualche pecca. Il maggior difetto è a mio avviso una certa ripetitività e prolissità, che ne inficiano la piacevolezza complessiva. Devo inoltre ammettere di non riuscire ad apprezzare, per mio gusto personale, l’evoluzione che l’autrice ha disegnato per la propria protagonista negli ultimi lavori. Non riesco proprio a farmi piacere questa Petra più convenzionale, più borghese, più ordinaria, e continuo a rimpiangerne l’esplosiva carica anticonformista dei primi tempi.
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Lacrime
Gocce trattenute d’acqua salata si staccano lente dai bordi delle palpebre e rigano le guance paffute di “Boule de suif”, lasciando un sentiero di rabbia e di dolore. È la stessa scia di scoramento che rimane impressa nell’animo del lettore, il quale, chiusa l’ultima pagina, si sente furioso e impotente verso l’untuosa ipocrisia e il falso moralismo di chi cura solo i propri interessi, condendoli per di più con melliflue parole e impeccabili maniere mascherate da gentilezza e filantropia. Allora come oggi.
Siamo nel 1870, nella campagna normanna di Rouen occupata dai tedeschi durante la guerra franco-prussiana. E proprio da Rouen parte una diligenza in fuga con dieci personaggi: integri aristocratici e ricchi borghesi, due pie suore, un celebre democratico e una prostituta, soprannominata “Boule de suif”, palla di sego, per la sua floridezza. Bastano poche pennellate, ironiche e incisive, alla superba penna di Guy de Maupassant per far prendere vita ai sentimenti che animano la carrozza. Attraverso sguardi, gesti e parole percepiamo disprezzo e sdegno, generosità e patriottismo, solidità morale e arroganza, e veniamo messi di fronte alle ingiustizie della vita, che tradisce le speranze e gli ideali di un cuore buono in nome di ipocrisie e meschinità senza tempo.
Impossibile dunque non definire questo racconto un capolavoro, capace di coniugare finezza psicologica, altissima qualità letteraria e un’attenta riflessione sulle miserie e le debolezze umane. Nonostante il secolo che si porta sulle spalle, “Boule de suif” non ha a mio avviso perso smalto, freschezza e forza espressiva, restando un’opera capace di conquistare il lettore moderno così come fece con Zola e Flaubert.
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Attimi di vita
Vivere a Bjornstad non è affatto semplice. Una città sperduta in mezzo ai boschi, senza turismo, né miniere, né industrie di alta tecnologia. Ci sono solo buio, freddo e disoccupazione. E poi c’è l’hockey, ovviamente, lo sport nazionale. Solo che a Bjornstad l’hockey non è solo uno sport. È semplicemente tutto.
Rifugio, per i giovani. Fuori la realtà può essere complicata e spaventosa, ma dentro il palazzetto è dritta e comprensibile, governata da poche, semplici regole: la maglia ripaga sempre i sacrifici e il bene del gruppo viene sempre prima del singolo.
Sopravvivenza, per gli adulti. La vittoria del campionato da parte della squadra juniores significherebbe capitale per investimenti, un nuovo liceo, nuovi posti di lavoro. Significherebbe un futuro.
Speranza, per tutti. L’illusione di poter vincere qualcosa, di essere ancora grandi, di un unico, splendido istante di immortalità.
“L'unica cosa che ci regala lo sport sono attimi. Ma che cos'è la vita, se non attimi?”
All’alba della partita decisiva, tutti si aggrappano alla squadra juniores. Chiedono solo una cosa ai giovanissimi talenti: vincere, vincere per tutti. Ma fino a che punto si è disposti ad arrivare pur di difendere il proprio universo?
Un evento doloroso e drammatico farà salire sul banco degli imputati proprio la stella del club, costringendo tutti, ma proprio tutti, a porsi questa domanda. Si può ignorare lo spettro della verità, chiudere gli occhi e fingere che niente sia accaduto, affidandosi al caldo bozzolo della comunità per preservare la propria speranza. Oppure si può scegliere di aprire gli occhi sul dolore altrui, di rendere veri gli insegnamenti dello sport, di non giudicare una colpa monetizzando il valore delle persone coinvolte. E così, scoprire chi siamo davvero al di là del gruppo, e qual è il prezzo da pagare.
Tante sono le storie e i personaggi che Fredrik Backman utilizza per comporre il mosaico di questa piccola città scandinava. La narrazione discontinua e stratificata potrebbe sembrare il difetto di questa intensa storia corale, ma, superata la fatica iniziale del primo centinaio di pagine - in cui prevale la dimensione descrittiva - ci si ritrova completamente immersi in un’appassionante ricchezza di umanità. Backman sa muoversi come un equilibrista tra molteplici punti di vista, paure e sentimenti senza rinunciare a una penna seduttiva e a un ritmo sempre più incalzante. Alla fine, a ciascun lettore rimane tra le mani la cenere di quegli stessi interrogativi a cui cercare di dare una propria risposta: fino a che punto si è disposti ad arrivare pur di difendere il proprio universo?
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Tartaruga senza più corazza
Le prime forze che si incontrano sul proprio cammino di vita, capaci di travolgere ogni cosa, all’improvviso, come un vento impetuoso, sono la morte e l’amore. Così accade alla giovane Lennie.
È un giorno qualunque quello in cui sua sorella Bailey esce di casa per andare a una recita scolastica, col sorriso sulle labbra, immaginando di essere Giulietta. Invece Bailey non farà più ritorno. Inutile, di notte, cercare la sua mano calda da stringere. Inutile aprire la porta della stanza per farsi illuminare dalla sua energia frizzante e dai suoi mille sogni. Inutile chiudere gli occhi annusando il profumo di rosa e lozione al cocco che ancora aleggia nell’armadio. Bailey non può tornare.
Come affrontare allora un nuovo giorno sapendo che sarà privo della sua luce, del suo profumo, del suo calore? Come affrontare la vita senza più un modello da imitare, una corazza dentro cui rifugiarsi, un albero tra le cui fronde ripararsi?
“Non so più chi sono. Adesso che lei non c'è, non posso più essere quella di un tempo e la persona che sto diventando è un macello”.
Non è facile capire e capirsi. Allora Lennie si fa trasportare, come una foglia, dal vento impetuoso dei sentimenti. La sofferenza della perdita. Ma anche l’amore, che si affaccia nella sua vita come un sollievo e una distrazione. Un amore che ha due volti. Quello di Toby, il fidanzato di Bailey, l’unico che sembra capire e condividere la stessa disperazione. E quello di Joe, appena arrivato in città, che invece brilla di gioia, speranza e novità. Ma la gioia odora di senso di colpa e la novità di ingiustizia, perché il dolore sembra l’unica cosa che può tenerci legati a chi non c’è più.
“La mia doppiezza, la mia falsità, la confusione, il dolore, gli errori che ho commesso e l'infinita, impetuosa sofferenza che mi ha travolto”.
Jandy Nelson ci propone la storia di una ragazza alla ricerca di un modo per comprendere le proprie emozioni e per affrontare un grande dolore. Alla ricerca, soprattutto, di se stessa, di una nuova se stessa in un mondo che ha perso tutte le vecchie coordinate. È una storia per ragazzi che, nella sua drammaticità, sa raccontare i sentimenti in maniera delicata, profonda, sincera. Le parole non vogliono ferire, affondando come lame nella carne del dolore, ma, anzi, lenire con il balsamo dell’affetto e della speranza. Per ricordare a tutti, soprattutto ai giovani, che la vita è fatta di emozioni, di sofferenze, di confusione. E di tanti errori, che non ci rendono sbagliati, ma solo umani.
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Una traccia nell’aria
Questo brevissimo romanzo è valso a Gianrico Carofiglio il premio Scerbanenco 2014. Come si intuisce dall’esiguo numero di pagine, la trama è piuttosto semplice e non potrà certo soddisfare un lettore in cerca di un poliziesco canonico. Bastano due dita per contare i sospetti, la suspense risulta di fatto assente e la soluzione facilmente intuibile. Sembra quasi che lo scrittore pugliese abbia scarnificato un ricco poliziesco, riducendolo alle sue linee essenziali. Il che potrebbe anche funzionare, se ci si sa accontentare.
La vicenda parte con un omicidio, il caso ideale per qualunque poliziotto, quello con un testimone oculare provvisto di carta e penna, che appunta il numero di targa dell’assassino e indica dove ritrovare l’arma del delitto, corredata persino di impronte digitali. Sarebbe facile lasciarsi tentare da una soluzione già confezionata, ma per il malinconico e integerrimo maresciallo Fenoglio la verità non è solo un insieme di dati, è una storia che si nasconde subdolamente nelle note dissonanti e fuori fuoco, tra le pieghe dei non detti, in uno sguardo che sfugge o troppo indugia. La verità non è altro che la storia con cui cucire tutti gli elementi, anche quelli apparentemente mancanti.
Ho letto che questo scritto è stato realizzato in collaborazione con l’Ente editoriale dei Carabinieri nell’anno dei festeggiamenti del Bicentenario. La sensazione alla lettura è proprio che con questo romanzo Carofiglio abbia voluto rendere omaggio all’Arma, creando un personaggio davvero affascinante, un maresciallo che conquista per umanità e compassione. E conquista anche la penna dell’autore, sempre elegante e talentuosa nel cogliere tratti e atmosfere. Allora è proprio la storia, così esile e prevedibile, a risultare l’elemento disarmonico. Se fossi un investigatore, su questa nota dissonante potrei forse cucire una verità di fretta o scadenze editoriali, chissà, ma sono solo una semplice lettrice e mi limito ad attestare la mia non completa soddisfazione. Ho visto che l’autore ha ripreso il personaggio in altri libri successivi, recensiti con buone valutazioni. Probabilmente, quindi, da rimandare ad altri testi.
Indicazioni utili
- sì
- no
La forza della distruzione
“L'uomo è in grado di capire tutto, come vibra l'etere e che cosa avviene sul sole, ma non capirà mai che un altro uomo possa soffiarsi il naso in un modo diverso dal suo”.
Si parla, si discute, si litiga, ma a volte è proprio difficile comprendersi davvero. Soprattutto quando l’età e l’esperienza ti fanno guardare il mondo da prospettive così diverse. Soprattutto tra padri e figli.
Nella Russia del 1859, in un momento di grande fermento politico e intellettuale, queste divergenze si fanno ancora più nette.
I padri sono uomini di una certa età, ancorati ai valori tradizionali e alle convenzioni sociali, uomini buoni e onesti, magari, ma in fondo incapaci di pensare e mettere in atto veri e propri cambiamenti.
Il compito di guardare le cose in modo nuovo e tentare di rinnovare il mondo è, in fondo, da sempre, appannaggio dei figli. A loro la spavalderia e l’energia della giovinezza. A loro il pragmatismo di chi si fa beffe di ideali e sentimentalismi. A loro il rifiuto di dogmi e antichi princìpi: il nichilismo. Ma questa forza distruttrice sarà adatta per costruire qualcosa di nuovo e rispondere alle istanze di riforma della società russa?
Quello che Turgenev mette in scena e fa vibrare attraverso dialoghi mirabili è proprio il conflitto tra figure emblematiche che rappresentano due generazioni, due modi di pensare, due pezzi di storia russa. E se, da un lato, i padri vengono quasi ridicolizzati per la loro inettitudine, i loro vezzi d’altri tempi, i rigidi simulacri in cui ingabbiano la realtà, sarà proprio il loro amore semplice e incondizionato a riempire di tenerezza le pagine, rivelandosi l’unico mezzo capace di cucire la distanza, anche nell’incomprensione. E ai figli, con tutta la loro superiorità intellettuale e il loro scetticismo beffardo, non rimane che piegarsi ai princìpi innegabili della vita, lasciando che quei tanto negati sentimenti corrodano l’armatura ideologica, scoprendo la carne di ragazzi che, in fondo, stanno solo cercando il proprio posto nel mondo.
“Il posto che occupo è infinitamente piccolo se si paragona a tutto lo spazio dove io non sono e non sarò mai... E la porzione di tempo in cui mi è dato di vivere è così insignificante rispetto all'eternità in cui non ho vissuto e non vivrò mai. E in questo atomo, in questo punto matematico, circola il sangue, lavora il cervello, nascono i desideri... Che orrore! Che assurdità!”
L'autore riesce a tenere salde le redini di un romanzo in cui tematiche storico-sociali si intrecciano ad altre più psicologiche, legate all’osservazione e all’indagine dell’animo umano, tratteggiato attraverso una serie di personaggi vivi ed affascinanti, colti con le loro imperfezioni, le loro contraddizioni irrisolte, i loro segreti. E forse la grandezza di questa lettura sta proprio in questo, in una complessità che non si lascia del tutto svelare.
Indicazioni utili
Alla corte della coscienza
Autore spesso dimenticato, Anthony Trollope, nonostante la sua ampissima produzione letteraria. Ingiustamente dimenticato, si potrebbe dire, perché, quanto a capacità di coniugare leggerezza di tono, qualità di stile e lucida rappresentazione della società, in fondo la sua penna non ha nulla da invidiare ad altre ben più celebri.
Ma è possibile, nel 2020, trovare piacevolezza e spunti di riflessione in una storia imperniata su una disputa legale di età vittoriana? Assolutamente sì.
Il segreto sta nella vivace e misurata ironia, così tipicamente inglese, che permea l’osservazione e la narrazione dei caratteri umani e delle dinamiche di potere. Si legge con gusto, dunque, e si scopre infine che - sostituita magari la vecchia stampa con i nuovi media e le sinecure clericali con altre cariche nominali - resta la natura dell’uomo: i dubbi, le debolezze, l’ostinazione. E quella in fondo non è così cambiata.
Il nocciolo della questione è la legittimità di una rendita ecclesiastica di cui beneficia il gentile e amabile reverendo Harding in qualità di amministratore di un ricovero per anziani. L’istituto di carità era sorto più di quattro secoli prima con l’intento di ospitare dodici indigenti, ma nel tempo la proprietà è diventata assai più prospera.
È giusto che tali rendite vadano interamente all’amministratore, come sostiene fermamente la Chiesa? O non sarebbe più in linea con il mandato originale, e con lo spirito cristiano, una equa suddivisione con i cari vecchietti, come suggeriscono i riformatori? A complicare ulteriormente le cose ci si mettono la coscienza e l’amore, perché i due fronti sono rappresentati nientemeno che dagli innamorati delle figlie di Harding, il severo arcidiacono e il medico idealista.
Frizzante e venata di umorismo è la voce del narratore onnisciente, che interagisce spesso con il lettore per commentare i suoi personaggi, svelandoci magari qualche dettaglio curioso - come quello scandaloso volume di Rabelais nascosto nel cassetto segreto dell’irreprensibile arcidiacono -, o per lanciare ironiche frecciatine al mondo della stampa o dei romanzi d’appendice, nella figura di un Charles Dickens camuffato dietro l’eloquente nome di “Popular Sentiment”.
In conclusione, un delizioso viaggio nella campagna inglese e nella natura umana, che lascia la curiosità di scoprire cosa riservano i successivi cinque volumi che compongono “Il ciclo del Barset”.
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O SOLE MIA
Una musica da ballare. Un aereo su cui salire. Un sentimento da rivelare. Per qualcuno sono piccoli gesti di vita, non bisogna nemmeno ricorrere al coraggio per compierli ogni giorno. Ma per altri, come la fragile e timida Sole, sono ostacoli insormontabili. Le gambe pesano tonnellate al suono della musica e le mani cominciano a tremare al solo pensiero di intraprendere da sola un viaggio. È paura.
Senza nemmeno rendercene conto, consentiamo alla paura di impadronirsi della nostra vita, di tentarci con la sua promessa di serenità e sicurezza, di confortarci con il calore dell’abitudine. Paura di cosa? Di inciampare ed essere derisi. Di risultare goffi e inadeguati. Che solo la perfezione meriti interesse, attenzione, affetto.
"Credo non ci sia niente di più lontano dalla felicità che cercarla nella testa degli altri invece che in noi stessi".
Un evento imprevisto e doloroso, la morte della sua più cara amica, porterà Sole a guardare diversamente al tempo e alla vita. Scoprirà così che dentro di sé ci sono forze e possibilità e sogni, ma per ascoltarne la voce è necessario oltrepassare quella coltre di paure che ovatta ogni suono. Come? Con un percorso di coraggio: affrontare una paura al giorno per cento giorni.
“Non so cosa voglio, e la paura è una coltre di nebbia che mi ha sempre impedito di vedere l'orizzonte”.
Merito a Chiara Parenti di aver proposto un tema così importante, arricchendo ogni pagina di introspezione e delicatezza. Nell’insicurezza e nei timori della protagonista ogni lettore (o meglio lettrice) potrà ritrovare frammenti di sé e regalarsi un sorriso di speranza attraverso le sue piccole e grandi conquiste. Ma se vere sono le emozioni di cui è pervaso il personaggio, la storia si incammina a mio avviso su una strada piuttosto artefatta e prevedibilmente rosa. Sole comincerà a buttarsi all’improvviso nelle peripezie più impensate, incontrerà una serie di compagni di avventura che le infonderanno forza con enfatiche frasi a effetto e, ovviamente, vivrà l’amore.
Portatrice sana di un messaggio di positività ed entusiasmo, la storia sa farsi comunque apprezzare, pur non brillando per originalità. L’eccessiva numerosità e il carattere eccezionale delle esperienze messe in campo, però, hanno in qualche modo tolto autenticità al racconto. Si sarebbe ottenuto, a mio modesto parere, un risultato più sincero scegliendo una dimensione più semplice e quotidiana, concentrandosi sulle sfumature emotive piuttosto che scomodare tarantole velenose e api inferocite. Affrontare le proprie barriere emotive e abbassare gli argini di protezione è un processo complesso e difficile; la sensazione è che qui purtroppo sia stato a tratti banalizzato.
Autopsia di un amore
Questo romanzo è un tavolo autoptico su cui giace un amore finito da più di dieci anni. Le parole, affilate e taglienti come un bisturi, non esitano ad aprire, spietate e implacabili, ma da quella ferita non sgorga più il sangue caldo della passione, della rabbia, della sofferenza. Quell’amore oramai è un corpo inanimato, da osservare e analizzare, non per riviverne le emozioni o per lasciarsi trasportare dalla nostalgia, ma per rispondere a un bisogno freddo e cerebrale, quello di capire cosa si cela dietro la distruzione di un rapporto, e perché distruggere a volte sia l’unica strada per trovare quel porto tranquillo tanto cercato.
Filo conduttore di questo viaggio introspettivo è l’idea che una coppia non sia una bolla abitata da due persone, ma una costruzione che deve fare i conti con tutti coloro che le rispettive storie si portano dietro. Le passioni brucianti, i trascorsi famigliari, il peso degli errori e delle fughe.
Elena, voce narrante, è una giovane contabile innamorata del suo ex professore di economia, Pietro, di trent’anni più vecchio. Lui ha un matrimonio alle spalle, tre figli ormai adulti, un passato complesso e stratificato, ma ad Elena non importa, è qualcosa di lontano, esterno al bozzolo di felicità che hanno costruito, calzando le maschere di giovani e spensierati sposini. Così quando l’ex-moglie Maria la avvicina con uno stratagemma, Elena percepisce per la prima volta che esiste un’altra prospettiva con cui guardare le cose. Chi è la protagonista e chi l’altra donna? Si può davvero costruire senza sapere la storia di quel matrimonio andato in pezzi, senza guardare in faccia le ragioni di quel fallimento, senza fare i conti con i non-detti? Conoscere significa però attraversare una barriera da cui non si torna più indietro, perché nella verità si nascondono debolezze, illusioni, paure, ed è difficile conviverci e accettarle. Ma indispensabile, perché per salvarsi bisogna prima assolvere, gli altri e se stessi.
“Era scesa tra noi l’illusione che tutto si potesse rifare sempre da capo, senza tracce di quello che era accaduto, come fossimo lavagne pronte a essere cancellate, riscritte, cancellate di nuovo”.
Cristina Comencini dà vita a uno scritto psicologico, introspettivo, riflessivo, in cui si percepisce l’urgenza di volere capire, addentrandosi nelle pieghe di stati d’animo e sensazioni, senza sconti e senza abbellimenti. Ottima la capacità dell'autrice di scavare negli angoli bui della famiglia e dell’animo umano, mettendo in scena un confronto femminile e generazionale che molto ha da comunicare. Lo stile asciutto, incalzante e aspro diventa un elemento cardine della narrazione, invogliando a proseguire nonostante una trama scarna, sfumata, che rimane quasi in secondo piano. Una lettura che costringe a riflettere e meditare, da cui mi sarei però aspettata maggiore intensità e trasporto emotivo e che mi ha invece lasciato la sensazione di una potenza inespressa e di un fuoco spento, di cui ho percepito solo qualche scintilla.
“Siamo una catena di storie d’amore, una dentro l’altra, e i fallimenti appartengono a tutti. Ero figlia di una serie di donne che venivano prima di me, come lui lo era degli uomini. Non ci si salva da soli”.
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Fantasmi del passato
Speranza, illusione, tenerezza, dolore: quante vesti può avere la parola amore? Per Sara, l'amore per il suo capo ha preso le sembianze di una lama, affilatissima, con cui recidere di netto la propria esistenza. Da una parte è rimasto un passato, un marito e un figlio, da abbandonare. Dall'altra un sentimento, intenso e totalizzante, a cui abbandonarsi. E adesso, a distanza di trent'anni da quella scelta, ora che la morte le ha portato via il suo compagno, non le rimangono che i ricordi, a cui aggrapparsi. Cosa succederebbe allora se proprio un ricordo minacciasse di gettare ombre su quel che è stato?
"Tu ignori il pozzo che scoperchieresti, Mora. Non immagini quanti morti verrebbero a visitare le tue notti".
Sara però non è donna capace di tirarsi indietro. Ex-agente dei Servizi, ormai in pensione, dall'abilità quasi sovrumana di capire le persone, leggendo parole mute e interpretando impercettibili segnali del corpo, Sara comincerà a muovere invisibili fili per orchestrare un'indagine capace di dare una risposta a questa domanda: c'era davvero un segreto nella vita di Massimiliano, l'amore della sua vita, colui di cui credeva di conoscere ogni piega, ogni istante?
È questo il perno attorno cui Maurizio De Giovanni fa ruotare tante storie e tanti personaggi. Un uomo a cui rimane poco tempo da vivere e una donna a cui rimane poco tempo per non morire, uniti dal desiderio di aiutare un giovane ragazzo sfortunato. Un poliziotto in pensione in cerca di una verità che metta fine a quell’incertezza che gli ha sbriciolato l'anima. Una ragazza che si è trovata semplicemente nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
La trama è sicuramente ben costruita, ennesima prova della straordinaria abilità di questo scrittore, capace di far danzare molteplici fili narrativi senza indurre mai nel lettore una sensazione di smarrimento, anzi, alimentando sempre la curiosità di scoprire come essi si congiungeranno. Vicende corpose e ben amalgamate, intreccio inusuale e ben strutturato, scrittura scorrevole ed efficace, allora perché questa sensazione di insoddisfazione, cosa manca? Napoli, innanzitutto, che pare sbiadire in un'ambientazione alquanto incolore, lontana dai vividi scenari cui l'autore ci ha abituato. E le emozioni. Non è certo facile arrivare al cuore del lettore con una protagonista che ha nella granitica sicurezza e nell'invisibilità le sue note principali, è vero, De Giovanni ha alzato l'asticella, ma, questa volta, il salto non mi è parso del tutto riuscito. Sara rimane distante, avvolta in una nebbia che ostacola comprensione e immedesimazione, una nebbia fatta di capacità al limite del credibile e di giudizi apparentemente privi di dubbi, persino quando devono confrontarsi con i fantasmi del passato.
"Del resto, i fantasmi ingannano il tempo così: raccontandosi storie, in attesa di ritornare in vita. Stai attenta: tu hai ricordi che non puoi permetterti di perdere. E nemmeno di sporcare".
Sarà che i dubbi e le incertezze sono i protagonisti indiscussi del mio quotidiano, ma non sono riuscita a trovare una chiave per entrare in sintonia con lei, e ciò ha sicuramente influito sul mio gradimento complessivo. Eppure. Eppure, avverto in sottofondo che questa nebbia è forse anche uno scudo, con cui Sara si protegge dai propri errori, dalle conseguenze delle proprie scelte, dalla paura di sporcare i propri ricordi, e forse la sua storia avrà molto da raccontare e da comunicare, se vorrà scuotere quest'impalcatura rocciosa con le scosse telluriche delle fragilità umane.
Allora ti aspetto, Sara.
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Ai confini della poesia
Cercando le parole per descrivere l’effetto finale che questi racconti di Turgenev hanno lasciato su di me, trovo nella mente l’immagine di un pizzo finemente lavorato, con la sua delicata perfezione, o di un variopinto arazzo, con i suoi fili meticolosamente intessuti. Si avverte una scrittura levigata, curata e armoniosa, in cui ogni vocabolo è stato finemente cesellato per trasmettere una precisa sfumatura emotiva.
È un racconto di sfumature e suggestioni, in fondo, “Primo amore”. Pochi sono infatti gli accadimenti e la bellezza di questa lettura risiede nella poetica evocazione dell’animo del protagonista, colto in due momenti fondamentali nella vita di un sedicenne: la dolce scoperta di un innocente sentimento amoroso e la dolorosa delusione della presa di coscienza della realtà. Vedere la bella e capricciosa Zinaida ed innamorarsene, per il giovane Vladimir, è la stessa cosa. Perché l’amore a sedici anni è così: ogni sensazione è amplificata, ogni parola ha il peso di una verità divina e, senza calcoli o astuzie, egli può solo abbandonarsi con ingenuità alla tenerezza e alla crudeltà di queste nuove emozioni.
Al giovanile e innocente sentimento di Vladimir si intrecciano poi altri amori e altri personaggi. L’amore come gioco, capriccio e seduzione di Zinaida. L’amore della gelosia, della distruzione o dell’irrazionalità, negli altri corteggiatori. L’amore peccaminoso e inevitabile. L’amore tradito e sottomesso. E, infine, l’amore che da un lato affascina e attrae, e dall’altro respinge e allontana, come quello così complesso tra Vladimir e suo padre, in bilico tra venerazione e rivalità.
Alla fine, resta sulle labbra la malinconia dolceamara del ricordo di un tempo ormai perduto.
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Anin, andiamo
Guerra è uomo. I soldati al fronte nel primo conflitto mondiale. Giovanissimi ragazzi con un copricapo di feltro piumato in testa e un fucile tra le braccia, che scivolano tra le trincee, nel tentativo di difendere un minuscolo lembo di montagna.
Ma guerra è anche donna. Le portatrici carniche. Anziane, madri, ragazze poco più che bambine che hanno risposto a una chiamata di aiuto, scalando ogni giorno i loro monti per portare cibo, medicine, munizioni, lettere a quei soldati, nel tentativo di tenerli in vita.
"Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan" (Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame). Maria Plozner Mentil (18884-1916), Medaglia d'Oro al Valor Militare
Nel paese, ai piedi di quelle vette in cui il silenzio ha dovuto cedere il posto al fragore delle bombe e il profumo del muschio all'afrore dei corpi infranti, sono rimaste solo loro, le donne, a occuparsi dei campi, a curare chi è restato, a lottare quotidianamente contro la fame e la sopravvivenza. Hanno piedi minuti, avvolti in scarpine di velluto, e pelle dura, ispessita dalla fatica. Ma nonostante tutto, non si tirano indietro di fronte all'appello dell'esercito italiano, rendendosi protagoniste di un gesto che, per coraggio e generosità, merita qualunque tipo di medaglia. In spalla le pesantissime gerle riempite fino all'orlo e ai piedi i leggeri "scarpetz", si arrampicano su quel gigante di roccia che può tradirle a ogni passo, aggrappandosi con tenacia alle pareti come un fiore alpino, per portare un po' di sollievo al fronte.
Con questo romanzo, Ilaria Tuti riporta alla memoria collettiva un indimenticabile pezzo della nostra storia, purtroppo poco noto. E lo fa nell'unico modo che ha la letteratura per rendere davvero omaggio alla vita: rievocandone tutte le emozioni, con sensibilità e immedesimazione. I fatti sono dunque rispettati, ma riproposti all'interno di una storia, quella della giovane portatrice Agata, che attraverso la sua voce in prima persona ci accompagna lungo sentieri di pietra e sentimenti. Con i suoi occhi osserviamo la paura negli sguardi bui dei soldati. Con le sue orecchie ascoltiamo i pianti e i lamenti. Con il suo cuore avvertiamo il coraggio, l'abnegazione, la tenacia. E capiamo anche cosa abbia significato, per ciascuna portatrice, quest'esperienza. Essere guardate per la prima volta con rispetto dai militari. Scoprire di essere capaci di qualcosa di cui non si sarebbero mai immaginate. Ritrovarsi, in un luogo ormai abitato solo dalla signora con la falce, a vestire i panni di signore della speranza, di un ultimo flebile brandello di speranza.
"Amo le parole, ma l'istinto è di custodirle. Ho imparato a maneggiare la loro arte, ma dentro di me è ancora salda la convinzione che alcuni, pochissimi, sentimenti non abbiano bisogno di suoni e non richiedano dialettica. Si espandono nei gesti, cantano nei sensi".
Il merito di questo romanzo è di aver saputo trovare le parole per raccontare qualcosa di così grande e complesso da sfuggire, come dice Agata, alle regole dell'alfabeto, da aver bisogno della vita. Affrontare queste pagine è davvero come incamminarsi su quei rocciosi pendii, lasciando che il vento ci accarezzi il viso, la durezza ci spezzi il fiato, le emozioni ci riempiano il cuore.
E allora anin, andiamo.
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Puparo e pupi
Da anni ormai le pagine dedicate al commissario Montalbano lasciavano risuonare in sottofondo le note malinconiche che ha sempre la parola fine. E quante voci si sono rincorse nel frattempo su quel chiacchierato ultimo episodio, che Camilleri avrebbe consegnato nel 2005 nelle mani di Elvira Sellerio, per chiudere la serie che tanta fortuna gli aveva regalato: morirà per violenta sparatina, sposerà l'eterna fidanzata Livia, darà definitivamente le dimissioni?
Ecco, alla parola fine ora siamo purtroppo giunti davvero e, pur non potendo commentare la veridicità di queste ipotesi senza magari svelare troppo, mi è impossibile non dire almeno questo: che immaginare banalità o piattezza per il suo ultimo saluto a Montalbano significa fare un torto alla grandezza di questo straordinario scrittore. Bisogna immaginare uno spettacolo pirotecnico, geniale e colorato.
Come al solito, c'è un'indagine, quella sulla morte di Riccardo Lopresti, il Riccardino che dà il titolo al volume. Non mancano inoltre le intuizioni del commissario e gli interrogatori che valgono come scene di teatro; né la solida comprensione di Fazio e i siparietti comici di Catarella. Ma c'è anche qualcosa in più, a rendere questo romanzo diverso e originale: in omaggio alla tradizione pirandelliana, sulla trama gialla si innesta infatti un discorso metaletterario tra personaggio e autore.
"-Montalbano è
- Cu? Montalbanu? Chiddru di la tilevisioni?
- No, chiddro veru".
Troviamo così un Montalbano vero, che vive la storia e talvolta osserva se stesso agire, sentendosi spettatore di sé. E un Montalbano personaggio, quello dei romanzi, e persino quello della televisione, verso cui provare l'insofferenza e il disagio della vita che si confronta con la finzione. E infine troviamo lui, l'Autore, il puparo che muove i fili e si diverte a giocare con loro e con noi.
"Salvo, la facenna sta completamenti arriversa. Sono io che informo te, e non capisco perché ti ostini a credere che sei tu a informare me. Questa storia di Riccardino io la sto scrivendo mentre tu la stai vivendo, tutto qua”.
Camilleri si diverte a dichiararsi vittima delle intemperanze del personaggio, che impone finali o monologhi interiori insceneggiabili, per fregare tutti gli altri. Sorride fingendosi insofferente alle sue continue imposizioni narrative, che piegano sempre la storia gialla arricchendola di osservazioni sociali, spirito civico, denuncia su politica e mafia. E coglie così l'occasione per dirci davvero cosa ha voluto essere questa serie, per lui e per tutti noi. Ci ha regalato una lingua inventata che piano piano è entrata nel nostro vocabolario. Ci ha raccontato l'Italia che cambiava, le magagne del nostro presente e l'umanità di un personaggio indimenticabile. Sempre con leggerezza e umorismo, senza intellettualismi, in fondo - come ci dice con la consueta ironia: "Io non posso sfoggiare molta cultura, sono considerato uno scrittore di genere. Anzi, di genere di consumo. Tant’è vero che i miei libri si vendono macari nei supermercati".
E allora non rimane che una parola da dire. Grazie, per tutto questo.
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Le catene della vita
Venerdì 31 Dicembre 1976. È il giorno della tragedia, che finirà sul giornale di Denver insieme a dettagli di cronaca, date e alle foto dei fratelli Edith e Lyman Goodnough. Ma quella non è la storia, è solo un fatto, argomento di chiacchiere da bar e facili giudizi. E il come? E il perché? Per provare a capire bisogna allora tornare indietro, e indietro, a quasi cent'anni prima, quando i genitori di Edith e Lyman arrivarono in Colorado, e percorrere insieme a loro una lunga strada fatta di speranze deluse, fatica e attese infinite.
Iniziamo allora questo cammino, lentamente, incamerando nei polmoni l'aria afosa della provincia rurale americana, sollevando la polvere di quella terra arida, con la consapevolezza che, pur andando avanti, la felicità sarà sempre dieci passi più in là, irraggiungibile.
Ad attendere i coniugi Goodnough nel 1896 è una terra brulla e inospitale, così diversa dai campi verdi e fertili che avevano immaginato. Ada vorrebbe scappare, ma la dispotica determinazione del marito Roy, che non ammette repliche né sentimenti, la vincolerà per sempre a un'esistenza di rassegnata fatica e grigio dolore. A liberarla, la morte. Allora è la volta dei figli. Saranno loro a dover prendersi carico del raccolto e della mungitura, della fattoria e della casa, e soprattutto di Roy, con la sua personalità soverchiante, le sue imposizioni, la sua crudeltà. A volte, la vita è capace di diventare davvero una prigione. C'è chi muore nel tentativo di liberarsi, chi si abbandona alla rabbia, chi si trasfigura nella follia. Invece Edith rimane in piedi, solida, gentile e premurosa, rassegnandosi a quelle catene indissolubili, fatte di legami famigliari e sensi del dovere. Inutile combattere, inutile credere in quell'amore che per un istante è sembrato un miraggio di salvezza, inutile immaginarsi un futuro diverso. Solo lavoro e sopportazione, senza però dimenticarsi di una crostata per il figlio dei vicini, o un sorriso. E poi, a quasi ottant’anni, quel fatto, a cambiare il corso della storia, a offrire una prospettiva diversa con cui osservare ciò che è stato e immaginare le emozioni di questa donna indimenticabile, che non ha mai saputo varcare i confini di casa.
In un mondo come quello che ci circonda che pare misurare la vita solo in termini di successo e soddisfazione, potrebbe sembrare di poco valore un'esistenza come quella di Edith, segnata dalla monotonia e dalla privazione. Invece quest'esistenza ha tanto da raccontare, ha tanto da regalare al lettore. La grandezza di queste pagine sta proprio nella capacità di farci immedesimare nel dolore, di farci comprendere il coraggio del sacrificio, di farci percepire il nostro stesso corpo legato da quelle corde che hanno imprigionato Edith un giorno dopo l'altro. Per farlo, Haruf non ha bisogno di ricorrere a virtuosismi stilistici o metafore ardite, perché la forza della sua voce sta nell'immediatezza con cui arriva al cuore, nella semplicità, nella dolce comprensione che avvolge quest'umanità così genuina e reale.
Duro e malinconico, poetico e delicato, crudele e balsamico, in altre parole, imperdibile.
"Certo che non è giusto. Niente in questa faccenda è giusto. La vita non lo è. E tutti i nostri pensieri su come dovrebbe essere non servono a un cavolo, a quanto pare. Tanto vale che tu lo sappia subito."
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Follia travestita da normalità
“Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni”.
Pietanze prelibate, fini tovaglie, porcellane decorate: le cene in casa Blackwood sono sempre state sontuose. Anche adesso, Constance ci tiene così tanto, cura personalmente l’orto, prepara barattoli e conserve, cucina torte e pasticci. Ma è stato proprio durante una cena cucinata da Constance, sei anni prima, che sono morti tutti. Zucchero all’arsenico. È una vera fortuna che Constance non usi mai lo zucchero, che Mary Katherine fosse stata mandata a letto senza cena, che zio Julian ne abbia usato poco. Sono gli unici sopravvissuti.
Per la giustizia non c’è stato un colpevole, ma in quella casa così placida e tranquilla, dove ogni giorno scorre nella ritualità di gesti sempre uguali, tra rose e marmellate, è passato il male; e forse vi serpeggia ancora. Oppure la cattiveria non si nasconde dentro, ma all’esterno di quelle mura, che proteggono la memoria e la colpa di chi è restato? Oltre il recinto, in quel paese di sguardi diffidenti, di filastrocche denigratorie, di meschine provocazioni. Oltre la porta, in quel cugino giunto all’improvviso in visita, con intenzioni ambigue.
La genialità di questo breve romanzo sta proprio nell’ambivalenza con cui viene contrapposto bene e male. Avvertiamo la presenza del male, come un sentore o un presagio, lo avvertiamo nell’esasperata solitudine di Constance, nelle stravaganti manie di Mary Katherine, nell’ossessione di Julian, eppure non riusciamo a definirne con precisione i contorni. Sappiamo che l’apparente normalità di casa Blackwood nasconde un pozzo nero, e dovremmo augurarci per tutti loro di riuscire a fuggire e ritrovare il mondo, invece pagina dopo pagina percepiamo sempre più il mondo esterno come una minaccia incombente, una morsa soffocante, un nemico da cui proteggersi. E ovunque si volga lo sguardo, si trova solo ordinaria follia.
Thriller psicologico, horror, mistery - nessuna definizione sembra calzare alla perfezione. Di certo, una lettura fulminante, che è un’impresa abbandonare, perché una volta preso in mano il filo di questa inquietante normalità, non si può fare a meno di seguirlo per scoprire dove ci condurrà.
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Il gioco dell'odio
Al calar della sera, nel vicolo Sébastien-Doise, tutto è ovattato, dolciastro, attutito. Il ticchettio della pioggia, il flebile zampillare della fontana, famiglie a tavola scorte attraverso la calda luce delle finestre. Ma c’è una casa, alla fine della strada, dove l’aria è tesa, gelida e irrespirabile. Perché quella che inscenano ogni giorno Marguerite ed Emile è una ferocissima guerra. Una guerra senza liti o urla, fatta di dialoghi muti, di impercettibili lampi nelle pupille, di epigrafici bigliettini lasciati sul pianoforte, di fremiti spiati di sottecchi. È il gioco dell’odio.
Marguerite ed Emile sono due settantenni, vedovi vicini di casa che hanno deciso qualche anno prima di sposarsi. Un matrimonio di convenienza, figlio della paura della solitudine, che fin dall’inizio ha mostrato incomunicabilità e inconciliabilità. Lui, uomo rozzo e volgare, con i suoi passi pesanti e i suoi sigari puzzolenti. Lei, donna fredda e superba, ancorata alle apparenze e agli antichi fasti della propria famiglia. Nessuno dei due ha fatto un passo verso l’altro, rendendo la loro vita insieme uno sterile allestimento, svuotato di parole, carezze, affetto.
Al calar della vita, i due anziani non possono far altro che tirare le somme, come tutti, e lasciarsi inconsapevolmente travolgere dai ricordi, dai rimpianti, dalla tenerezza di un passato lontano. Cosa rimane allora a cui aggrapparsi, se accanto a sé non è rimasto nemmeno un brandello d’amore ma solo una figura estranea e indifferente? È qui che Simenon ci stupisce con la sua lucida spietatezza, rovesciando schemi e aspettative: c’è ancora l’odio. L’odio, unica fiammella di vitalità in un’esistenza ormai priva di scopo e passione. L’odio, unica ancora di salvezza per dimenticare l’incipiente arrivo della morte.
“Nessuno dei due poteva deporre le armi, era diventata la loro vita”.
La pillola della realtà, come al solito, ci viene servita senza edulcoranti morali o stilistici, travolgendoci con la sua fluidità narrativa e obbligandoci a guardare dentro un male domestico, borghese, normale e, paradossalmente, quasi salvifico. Mai come in questo romanzo, il sapore che rimane sulle labbra è puro fiele.
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