Opinione scritta da Anna_Reads

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Settembre, 2018
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Claustrofobico, ma... sì!

Con questo ho fatto fatica, all'inizio.
Un po' devo ammettere che avevo alcuni preconcetti sul "caso editoriale" dell'anno, e poi ero (e sono) un po’ stuccata dai protagonisti simil autistico/asperger che da quando letteratura e cinema li hanno scoperti, pare non ci sia altro; invece poi la storia si dipana bene, pur con qualche escamotage un po’ facile.
Quello che mi è piaciuto è che funziona il personaggio e – soprattutto – funziona la sua evoluzione.
La psicosi di Eleanor è reattiva al “fatto centrale” intorno al quale lei è costretta a ricostruirsi e ri-strutturarsi.
Illustra in modo mirabile la necessità di un bambino di vedere i genitori (qui la madre) in luce positiva e l’evoluzione da un pensiero derivato da quello genitoriale ad uno autonomo ed originale.
In questo senso quanto è bello il passaggio sull’autobus, quando si accorge che il signore malvestito e dall’aspetto bizzarro è il solo ad accorgersi di lei e del suo pianto.
La sua agnizione, la sua scoperta, il suo svincolarsi, finalmente, dal pensiero materno è tutto in quel "Non era pazzo. Non portava i calzini, tutto lì."
Eleanor è molto rigida nella gestione delle relazioni umane ed estremamente (ed eccessivamente) razionale nelle medesime. Quasi leopardiana, dall’inizio: "In ufficio c’era quel senso palpabile di gioia del venerdì, quando tutti sono collusi con la menzogna che il weekend sarà fantastico e che la settimana seguente il lavoro sarà diverso e migliore. Sono incorreggibili."
È scarsamente empatica e legge con logica matematica le relazioni sociali:
“Però, attraverso l’attenta osservazione dai margini, avevo scoperto che spesso il successo sociale si basa su un minimo di finzione. A volte le persone popolari devono ridere di cose che non trovano molto divertenti, devono fare cose cui non tengono particolarmente, con gente di cui non apprezzano particolarmente la compagnia. Io no. Anni prima avevo deciso che se la scelta fosse stata tra fare così o volare in solitaria, allora avrei volato in solitaria. Era più sicuro. Il dolore è il prezzo che paghiamo per l’amore, dicono. E questo prezzo è troppo alto."
Ha più di qualcosa del nostro amatissimo Spock, n’est-pas? Ma avverte il bisogno di qualcosa che manca, che non sa definire, che le è stato portato via: "Inoltre è sempre bello sentire il mio nome scandito da una voce umana".
Lo avverte in modo nebuloso all’inizio e poi sempre più chiaramente.
Ok, è una specie di favola con tanto di simil happy end.
Ma la storia funziona e pur facendo un po’ male, scorre in modo razionale ed apre ad una cauta speranza. Alla fine Eleanor trova un compromesso accettabile fra l’essere sé stessa, essere parte di una comunità e, soprattutto, liberarsi dai fantasmi.
E – altro punto interessante - l’autrice giuda la storia in modo intelligente, non indulgendo mai nel patetico, nel macchiettismo, nell’effetto facile.
Bon.
Claustrofobia a parte, son lieta di averlo letto e lo consiglio affettuosamente.
Ad Maiora.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Settembre, 2018
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Ma per favore!

Il Collezionista – James Patterson, 1995.

Hai la febbre. Leggiti un bel thriller. Dicono.
Ti passa il tempo velocemente, è easy e ti diverti. Dicono. Come no.
La trama. DUE serial-killer (mica uno, eh! Siamo in America. Dodici apostoli? Almeno 25!), tanto simili, tanto amici, tanto depravati, si trastullano con le donne. Ovviamente giovanissime. Ovviamente bellissime. Meno ovviamente intelligentissime (anche se avrei qualcosa da eccepire, non so se con Patterson o con il suo traduttore).
Il primo (Visitatore Gentile) le violenta e le uccide (anche qui il premio “Come sei bravo con i nomi” non so se va a Patterson o al suo traduttore), il secondo (Casanova) le violenta e le “colleziona” cioè le rinchiude in luoghi vari e continua a disporne come meglio crede, fino a che le sventurate non infrangono qualcuno delle sue regole. Al che le (ri)violenta e le uccide.
Indagano l’ineffabile psicologo/poliziotto Alex Cross (questa non è la sua prima avventura, ma inspiegabilmente non mi è venuta voglia di saperne di più sul suo conto) e il fidato amico Sampson. E per mettere un po’ di tensione, fra le ragazze scomparse c’è pure Naomi, la nipote di Alex.
Ora.
Non voglio fare Alice nel paese delle meraviglie. Se scrivi una storia con un po’ di sesso (meglio se violento e depravato) il libro probabilmente vende. Se, di buon peso, ci metti un po’ di tensione sessuale fra l’investigatore e un altro personaggio (qui una vittima riuscita a sfuggire al diabolico stupratore, dopo… sì. La sospensione dell’incredulità è la protagonista assoluta della storia) probabilmente vende anche di più.
MA.
No. Trust me. NO.
Tutta la storia, le descrizioni, i personaggi sono talmente “tirati via” che davvero, l’unica cosa che resta è l’irritazione.
L’autore dichiara cose.
Che alcuni personaggi sono intelligenti. Poi si comportano da mentecatti, ma va be’.
Le donne sono bellissime (capelli di grano, seni scultorei, pelle di marmo, cosce d’oro o di ebano, a seconda), gli uomini atletici e/o eleganti. E di ogni personaggio, dal protagonista al dispensatore di panini, ci viene minuziosamente descritto come è vestito e acconciato, accessori compresi.
Tipo così: bussarono alla porta, entrò X. Indossava un pantalone nero, con camicia beige di seta, calzini scuri e mocassini neri, con fibbia dorata. I capelli biondi pettinati all’indietro, in onde composte, occhiali da sole – marca – orologio, profumo; aveva fatto peggio solo un altro che ho rimosso, che aggiungeva la marca del make-up delle signore. Il tutto ovviamente REITERATO per ogni entrata in scena di ogni personaggio, che mica son dei puzzoni che fanno i funghi dentro i vestiti. Questi si cambiano! Altrimenti il libro contava 50 pagine in meno. Manco i peggiori fanficciari di Caracas.
Infine, la trama “crime” e l’action.
Per conferire pathos, l’autore aggiunge punti esclamativi a fine frase. Che raffinatezza. Qualche compagno di classe di quelli bravi ci riusciva in seconda elementare. In quarta però la Maestra già diceva di evitarlo che era stucchevole.
E infine, la logica. O meglio la sua assenza, co-protagonista con la sospensione dell’incredulità.
In effetti. A chi affidiamo la sorveglianza della vittima sfuggita al carnefice dopo averlo visto in faccia? Allo psicologo.
Abbiamo trovato il nascondiglio segreto dei serial-killer. Chiamiamo la polizia? No andiamo io e te.
Mancavano giusto il cimitero indiano e “separiamoci”!
Ma mi faccia il piacere!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Settembre, 2018
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"Imparai che non s'impara quasi mai niente."

Duca Lamberti, figlio di poliziotto, fratello di “ragazza madre” (siamo negli anni ’60 e gli omosessuali sono definiti “invertiti”; politically correct non qui, sorry), medico, radiato per aver aiutato a morire un’anziana paziente malata di cancro, viene riciclato da un amico e collega del padre per qualche incarico particolare e si ritrova a collaborare con la polizia.
Quattro casi, per lui. Nel primo Scerba mette giù le carte e delinea i personaggi.
Nel secondo e nel terzo ci fa vedere quello di cui è capace in scioltezza e nel quarto tira fuori un capolavoro che davvero dovrebbe far decidere di dedicarsi ad altro alla stragrande maggioranza degli autori di gialli/neri italici e no (nomi a caso. A iosa).
Cosa c’è di così grandioso in Scerbanenco e in Duca Lamberti? Presto detto.
Le storie. I personaggi. La scrittura.
Non sono “gialli” canonici, al centro c’è l’indagine, sì, ma Duca quasi mai si dà la pena di far entrare il lettore in competizione. E sono belle storie. Terribili, disperate, assurde. Storie che funzionano.
La seconda parte che sembra un episodio del tenente Colombo: dall’assassino e dall’assassinio (geniale, peraltro), la terza è un misto fra Kubryck e Ketchum e la quarta e ultima ti tira fuori un archetipo di padre e vendicatore che non so… Balzac che filtra con Dumas.
Nel crimine c’è la stupidità, Lamberti non ha dubbi: “Perché i criminali non sono mai intelligenti. La delinquenza è una forma di sordida e pericolosa idiozia, nessuna persona, appena appena intelligente fa il ladro, il rapinatore, l'assassino. E così i tre idioti decisero di ucciderla, la ragazza che non rendeva più. In questo modo, alla fine, sarebbero stati scoperti lo stesso, ma incolpati oltre che di ratto e sfruttamento, anche di omicidio premeditato. Belle intelligenze.”
C’è un male stupido ed agghiacciante nelle storie di Lamberti, peraltro quasi sempre veicolato da personaggi femminili: la tremenda “partigiana” che lavora a maglia dei Traditori, la “madre” dei Ragazzi e la prostituta dei Milanesi… sono personaggi che sono a tanto così da diventare cliché o fumettoni, a raccontarli. Come Duca. Come Fulvia.
E invece no. Sono veri. Perché la scrittura li rende tali. Tanto che ti viene in mente quella volta che sei entrato in quella tabaccheria all’ora di chiusura o in quel bar all’alba e hai pensato a vite eterne consumate fra quatto mura scrostate e tavoli di formica e hai anche pensato che poteva uscirne chiunque. Anche la “partigiana”, la “madre” e la prostituta.
Scerbanenco non ha bisogno della mia apologia (ma semmai delle mie apologies) però tutto questo lo rende con una scrittura che sembra asciutta, ma asciutta non è. È piena di incisi, di immagini, di anacoluti, di dislocazioni… ed è piena di Milano. Proprio quella che io ho visto quarant’anni fa a mano della nonna. E di inflessione milanese gentile, come quella del papà dei Milanesi con la quale prendo congedo.
"Insomma, ecco," spiegò il cespuglioso vecchio nel suo cupo e dolce dialetto milanese, "se quella lettera me la mettevano sotto la porta il martedì sera, per esempio, io il mercoledì dovevo andare a lavorare alla Gondrand perché era giorno feriale e sarei andato a lavorare, perché io a bottega, se non sono morto, ci vado sempre, invece di andare da quella donna, e avrei avvertito voi della polizia, ma siccome il sabato ho la giornata libera, allora mi è venuta l'idea di andarla a vedere, questa che mi aveva portato via la mia bambina e che insieme con gli altri due me l'aveva ammazzata. Se non fosse stato sabato non l'avrei fatto, tutto questo disastro."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Settembre, 2018
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"Per una volta ancora amami, Atena, il più possibi

…e fu anche l’impresa più alta del regno di Zeus: costringere la necessità a generare la bellezza.
Questo libro (o meglio, la sua copia cartacea) staziona – ehm ehm – nel più piccolo de miei bagni, mensola strategica, da circa tre anni. Ci appoggio sopra l’asciugamano prima di entrare nella doccia e il reader dopo aver parlato con dio. So di attirarmi copiosi strali (o forse anche no. Sono così selettiva nelle mie amicizie virtuali) ma non mi piacciono i cartacei in genere e gli Adelphi in particolare. Parlo solo dell’aspetto e della veste grafica, ma li trovo bruttarelli e tristanzuoli. Questo non fa eccezione. Mai neanche sfogliato. Poi lo vedo ad un collega a scuola, me ne faccio leggere due pagine. La storia di Alfeo e Aretusa. “Così Eros, la perenne, spietata giovinezza del mondo” mi ha colpito e fine dei giochi. Appena tornata dalla Perfida Albione mi sono immersa nel mito greco.
È stata veramente la necessità (la temutissima Anànke) a generare la bellezza? Probabilmente sì. Ma sicuramente ha generato l’amore, nelle sue declinazioni di Philia, Eros e Agape.
E come nel meraviglioso arazzo che metto in copertina, punto dopo punto, l’autore racconta storie, analizza simboli, racconta la differenza fra Eros, Philia e Agape. Così apprendiamo che “Quando Teseo si distrae, qualcuno è perduto" ed allo stesso modo che è solo Piritoo, l’amico vero, quello delle avventure balorde, del compagnonnage, ad essere davvero nel cuore di Teseo e non le sue varie donne. Philia appunto.
Quella philia che, dice Platone, in genere non è roba da donne. Tranne… tranne Alcesti che ti riduce Orfeo e le sue lagne ad un “animo molle, da citaredo che era”… come dire uno sfigato che strimpella la chitarra sulla spiaggia e che scende negli inferi solo perché spera di tornare con una ricompensa.
Ed apprendiamo anche che nonostante abbia di molto aumentato il catalogo botanico del mondo, a causa delle povere ninfe che si trasformavano in piante, piuttosto che cedere alla sua corte, Apollo abbia amato davvero soltanto Admeto, tanto da ubriacare le Moire, le figlie di Ananke, per allontanarne la morte.
"Per amore di Admeto, Apollo ubriacò le Moire: fu quella forse la festa più folle di cui sia rimasta notizia, e di cui nulla possiamo dire, salvo che avvenne. Le Moire, fanciulle dalle belle braccia che filano la vita di ogni singolo essere, appaiono nella visione plutarchea come «figlie di Ananke», la Necessità. E la Necessità, ricorda Euripide per averla conosciuta «attraversando le Muse e le cime», senza mai «trovare niente di più forte», è l’unica potenza che non ha altari e non ha statue. Ananke è l’unica divinità che non ascolta i sacrifici. Le sue figlie possono essere ingannate soltanto dall’ebbrezza. Ma è molto raro che l’ebbrezza le colpisca. Apollo riuscì a tanto, e solo per amore di Admeto, perché voleva procrastinare la sua morte."
Eros, Philia, Agape.
Alfeo e Aretusa. Cadmo e Armonia. Atena e Ulisse… ma Atena non era? Sì che lo era. Ma è anche la dea che più di ogni altra ha dimestichezza con gli uomini, quella che Odisseo sa di dover invocare, sempre, per tornare a casa: “Per una volta ancora amami, Atena, il più possibile”. La dea che accompagna e sostiene, guida; onnipresente perché “simile a tutti”.
“Per Odisseo, la presenza di Atena è quella di un colloquio segreto e incessante: con lo strido di un airone, con il timbro bronzeo di una voce, con le ali di una rondine appollaiata su una trave o con qualsiasi altra figura - perché, come Odisseo ricorda una volta alla dea, «ti fai simile a tutti» e l’eroe sa che potrà riconoscerla ovunque. Sa che non deve aspettarsi ogni volta lo splendore abbagliante dell’epifania. Atena può essere un mendicante o un vecchio amico. E’ la presenza protettrice." Amore si diceva.
Da quello tutto “di testa” con Penelope, a quelli più canonici e Aretusa e Alfeo e Cadmo e Armonia.
E se quello del cacciatore che si fa acqua per essere eternamente unito all’amata è senz’altro quello che ho amato di più “Alfeo non era un elemento della natura che ambisce a diventare un bonario personaggio allegorico, come un vecchio attore recuperabile un giorno nelle lunette di una villa rinascimentale. No, Alfeo era quel giovane dai capelli corti e dal dorso nervoso, raffigurato dal Maestro di Olimpia, che un giorno «si trasformò in fiume per amore». Era un cacciatore che un giorno decise di farsi natura. Fu l’unico amante che, al divenire acqua dell’amata, accettò di essere acqua lui stesso, senza lasciarsi arginare dai contorni di una identità. Così raggiunse una unione quale nessun uomo e nessuna donna avevano conosciuto, l’unione di due acque dolci che presto si gettano insieme nel mare.”
Di certo è a quello di Cadmo e Armonia quello a cui tutti dobbiamo essere grati:
“Cadmo aveva portato alla Grecia «doni provvisti di mente»: vocali e consonanti aggiogate in segni minuscoli, «modello inciso di un silenzio che non tace»: l’alfabeto. Con l’alfabeto, i Greci si sarebbero educati a vivere gli dèi nel silenzio della mente, non più nella presenza piena e normale, come ancora a lui era toccato, il giorno delle sue nozze. Pensò al suo regno disfatto: figlie e nipoti sbranati, sbrananti, piagati dall’acqua bollente, trafitti, sprofondati nel mare. Anche Tebe era un cumulo di rovi. Ma nessuno ormai avrebbe potuto cancellare quelle piccole lettere, quelle zampe di mosca che Cadmo il fenicio aveva sparpagliato sulla terra greca, dove i venti lo avevano spinto alla ricerca di Europa rapita da un toro emerso dal mare."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    31 Agosto, 2018
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Una ghostwriter darkettona, misantropa e spara-bat

L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome Alice Basso, 2015

Sono indietro di una vita sulle recensioni dell’anno (questo è il precedente), vado un po’ random, da qualcosa devo cominciare e parto quindi da una “minicondivisa all female” che mi ha permesso di fare la conoscenza di Alice Basso e della sua “creatura” Vani Sarca.
Cominciamo con il dire che la lettura è stata piacevole e veloce. Vani (Silvana Cassandra) fa la ghostwriter, vale a dire che scrive i libri di personaggi che hanno sì una storia interessante da raccontare, ma non le qualità letterarie per farlo.
Come fa?
Li studia, osserva come parlano, come si muovono, che tipi sono, che lessico usano… si documenta sulle loro abilità (dalla neurochirurgia alla cucina, dalla papirologia agli… angeli) et voilà! Riesce ad assorbirne le caratteristiche e a creare libri che non solo “vendono”, ma sono anche “simili” (in meglio) ai loro autori. Insomma, lei ha questo “dono” qui.
Intorno all’idea della gosthwriter, l’autrice costruisce un personaggio bizzarro di ex giovane, darkettona, misantropa, spara-battute-a-raffica (in genere nell’intimo della sua scatola cranica e ad esclusivo beneficio di noi lettori), un’ambientazione simpatica (il mondo dell’editoria torinese), situazioni godibili e un paio di ben riusciti ammiccamenti a chi ama i libri e la scrittura.
Perché funziona?
Perché Alice Basso/Vani Sarca riempie le pagine di battute agili e veloci ("L’adolescenza è una fottuta malattia cronica, e più sei grande più le recidive sono devastanti, fino a che non si muore schiantati dal senso del ridicolo"), di crescendo piccoli (“Associazione al delinquere morale? Favoreggiamento di bastardo? Spaccio di senso di colpa?”) di crescendo grandi ("Cristo santo, tanto varrebbe mettersi con un orso bruno. (…) Quindi capisco che possa sembrare che Riccardo abbia puntato a qualcosa di più serio. Però ci stiamo dimenticando che io ho anche un gran bel carattere di merda. Lo so io, lo sa Riccardo, lo sanno tutti. Probabilmente, se c’è vita su Marte, lo sanno anche lì: nel bacino di Hellas, il giorno che impareranno a decifrare la scrittura dei marziani, vedranno inciso a chiare lettere: Vani Sarca ha un carattere di merda.") e tout court si fa volere bene, anche perché, forse sfruttando le camaleontiche doti della sua personaggia, riesce a raccontarti pure qualcosa di te, manco fosse stata lì a vedere (di me? Questo:
“Tu sei grande e matura. Col cervello che hai, dovresti capire che da te si pretende qualcosa di più. E degnaci di un sorrisino, magari, qualche volta, che non muore nessuno».
Che palle.") Poteva tranquillamente essere il salotto dei miei.

Poi ci sono i due bei tenebrosi della storia, Riccardo e soprattutto il commissario Berganza, che inanellano, rispettivamente, il meglio della letteratura americana e il meglio della letteratura giallo/noir internazionale e nazionale (Tanto per. Berganza pare Marlowe e cita il Lamberti di Scerbanenco. Che gli vuoi dire?). Aggiungiamo una trama blandamente crime, qualche personaggio di contorno che faccia risaltare la bizzarria di Vani (Enrico) e il suo essere – sotto sotto – un cuor d’oro (Morgana) e gli ingredienti ci sono tutti.
Come si diceva, chi ama lettura e scrittura ci compra con poco.
La citazione, la battuta, la situazione.
La scrittura fluida. L’ammicco e la risata intelligente.
L’autrice riesce nel non facile compito di non far degenerare il tutto in macchiettismo e assurdità. Perché la storia non è verosimile, Vani ogni tanto sembra il mix arguto di Holmes, House e Poirot, però è anche goffa da far paura, prende delle tramvate mica da ridere e quindi bilancia.
Ecco.
Un lavoro ben equilibrato e godibile. Della durata giusta.
So cosa ho letto e sono contenta di averlo fatto.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    19 Mag, 2018
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"Qui ci siete voi".

"I circoli Arci sono come le vignette di un rebus. Chi ha familiarità con questi passatempi e vi si dedica abitualmente non dirà mai di provare fastidio nel trovarsi di fronte a donne che sfoggiano permanenti anni Cinquanta e costumi da bagno interi, né avrà problemi a riconoscere il lattaio in un uomo in berretto e divisa bianca, anche se nessuno si combina più a quel modo. Perché non si è mai pensato di svecchiare quelle immagini, di renderle attuali."
Ho cominciato ad entrare davvero nella storia qui, circa a pagina trenta.
Ho trovato la similitudine geniale e così sono arrivata anch’io a Badiascarna. Borgo immaginario della Toscana interna, lontano ben più di quanto si possa immaginare dal “la mi porti un bascione a Firenze”, dal Chiantishire, da cartoline e souvenir.
Un paesone tutto raccolto intorno alla “Ditta” che lo ha fatto (ri)nascere, sfruttando il calore del sottosuolo, scaldano gratis le case del borgo e – soprattutto – dando lavoro a tutti quanti. Ma…
Ovviamente c’è sempre un ma. E il “ma” in questa storia si chiama “amianto” o, a causa delle curiosa malattia che affligge chi si improvvisa nomenclatore di cose fallimentari (si veda anche alla voce “Invincibile Armada”, “Inaffondabile” etc), “Eternit”.
L’Eternit è un killer lento, metodico e del tutto privo di fretta, che tesse la sua ragnatela nei polmoni dei lavoratori, ma può mettere anche vent’anni, a farlo. Quando il nostro protagonista, Sauro, ha quattordici anni, il padre, Rino, viene prepensionato perché l’amianto ha cominciato a lavorare su di lui.
Ci metterà più di vent’anni a portare a termine il lavoro – lento e metodico, si diceva – e non lo farà da solo.
Questa la cornice, perché il romanzo, in realtà, è incentrato sulla storia di Sauro, narrata dallo stesso protagonista, adulto, che alterna il racconto dei suoi quattordici anni e dei giorni attuali, quando torna a Badiascarna, dopo essere stato cacciato via dal padre vent’anni prima.
Il paese lo accoglie come la vignetta di un rebus. Immobile. Immutabile. Eterno. Eternit.
E Sauro va indietro. All’adolescenza, all’estate incandescente in cui tutto si fermò, al gruppo di amici, Momo, il Trifo, il Dottore, Bea, e all’idea di formare una band punk. E di coinvolgere anche Luca, lo “strano” del paese, anche se la mamma aveva fatto giurare che mai in nessun caso avrebbero fraternizzato con lui. Questa mamma devota a Raffaella Carrà (come il figlio lo è a David Bowie, con tanto di altarino), che ha cresciuto Sauro e suo fratello “nella convinzione che non esistesse problema o discussione che non si potesse risolvere con una porzione di lasagne o due involtini di carne” e questo fratello che Sauro odia “come si odiano i fratelli, in maniera schietta, violenta, traboccante di sensi di colpa.” E su tutti Rino, che non trova una collocazione dopo la (pre)pensione e comincia a dare i numeri. Ma solo un po’.
Però intanto veglia sul figlio e sugli amici. Tanto che quando il male, un male non meno pervasivo dell’amianto, ma decisamente più rapido nell’agire, si scatena, è proprio Rino a fare “tana per tutti” e salvare la situazione. Ma il salvataggio è solo apparente e, vent’anni dopo, Sauro torna a casa a fare i conti con le vite spezzate da quell’estate, con la sua, non meno abbozzolata su sé stessa.
E con il padre.
Che non è morto, ma semplicemente scomparso.
C’è un po’ di Derry, forse, in Badiascarna e c’è una storia di formazione/distruzione/trasformazione che non sempre è stata nelle mie corde. Non di meno è una storia scritta bene e, come ho detto in qualche altra (rara) occasione, ogni tanto è davvero bello leggere una storia e sapere che la si legge nello stesso modo (e nella stessa lingua) in cui l’autore l’ha pensata. Io la consiglio senza esitazione alcuna.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Aprile, 2018
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Un’inarrestabile forza di alienazione

Dicono i saggi che alla fine di una vita dignitosa ed onorevole menata innanzi per circa settant’anni, non siano moltissime le cose di cui andare fieri. Le cose da mettere a curriculum (vitae), per così dire. Certamente io aggiungerò, alle mie pochissime, l’aver proposto questo libro nel mio gruppino di lettura.
Difficile raccontare la trama, e non lo farò.
Dirò solo questo. Ci sono uomini e donne che si trincerano nei loro settori di appartenenza e vi si arroccano: umanisti e scienziati (disprezzandosi anche un poco gli uni con gli altri) ed altri (quelli che, secondo me, sono VERI umanisti e scienziati) che gettano ponti fra gli ambiti del sapere.
Come si faceva nel 1500 quando gli uomini di cultura, per essere tali, dovevano essere scienziati. E saper scrivere un sonetto. O una pagina di prosa mirabile. Magari suonare uno strumento. Tempi in cui non era un vanto dire “non ci capisco niente di matematica” e via dicendo.
Uomini come Galileo Galilei, per dirne uno.
Carl Sagan, per dirne un altro. James Gould. Stephen Hawking. Piero Angela. Liu Cixin.

Liu Cixin fa emozionare per la multidimensionalità. Per le conseguenze di un codice binario. Per un’antenna che amplifica un segnale. Ed è in grado di spiegarlo mirabilmente:
“Le storie della scienza sono più maestose, coinvolgenti, profonde, eccitanti, strane, terrificanti, misteriose e persino più commoventi delle storie della letteratura. Ma queste splendide storie sono incatenate a equazioni matematiche che molti non sanno interpretare (…) Attraverso la fantascienza, cerco solo di creare i miei mondi usando il potere dell’immaginazione e di rendere manifesta la poesia della Natura in quei mondi, per narrare le leggende romantiche dell’uomo in relazione con l’universo.”
E con questo si supera tutto. Che i nomi cinesi sembrino tutti uguali, che uno dei protagonisti si chiami “Miao”, che l’autore, qui e là, per descrivere meraviglia e stupore non trovi di meglio che inserire un punto esclamativo.
Perché ci sarà un punto molto preciso in cui, anche con le ammuffite nozioni di fisica/scienze che ci portiamo dietro dalla scuola media, esclameremo – sul tram, nel salotto di casa o ovunque siamo:
– “Oh mamma mia, i due protoni!”
E non solo perché la storia è ganza oltre ogni dire: una storia che comincia in Cina durante la Rivoluzione Culturale. Ma perché sono ganzi i nanomateriali, la multidimensionalità, le onde radio, il codice binario. I computer “viventi”. I videogiochi di ruolo. Gli scienziati che sviluppano sistemi. Quelli che li fanno inceppare. E perché Da Shi è un mito. E non è uno scienziato. Ma è la sintesi di Jason Staham e di un filosofo e chiude mirabilmente questo primo capitolo della Trilogia dei Tre Corpi:
“Gli insetti non sono stati mai davvero sconfitti.”

PS. Occorre fare ogni pressione possibile per velocizzare la traduzione degli altri due volumi!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Aprile, 2018
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Qualcuno almeno saprà che sono qui?

"Spose in fotografia": donne giapponesi venute negli Stati Uniti all’inizio del ‘900, per sposare i connazionali emigrati in precedenza. Questo libro narra di loro.
Come un grande coro di piccole voci, racconta l’abbandono dei villaggi, il viaggio in nave, l’arrivo e la conoscenza dei mariti, il duro lavoro, il nuovo paese. La perdita di identità.
E poi la guerra, Pearl Harbour e la decisione di Roosevelt di considerare “potenziali nemici” i cittadini americani di origine giapponese. Gli avvisi, l’abbandono coatto delle proprie case (e non solo), l’internamento.
La perdita della memoria di sé e nella mente degli altri.
Fatti noti, ma quello che mi ha convinto davvero, in questo libro, è stata la scrittura.
Una voce narrante in prima persona plurale. Un “noi” che sono le ragazze giapponesi sulla nave, prima. E poi le novelle spose, più o meno infelici. Le donne che si sfiancano di lavoro fino a perdere identità e memoria. Le madri che vedono i figli “disimparare” i nomi dei fiori e dei colori in giapponese e vivere “le loro giornate nella nuova lingua” e pronunciare perfettamente la “r” e la “l”.
Le stesse donne che per anni lavorano per e con i nuovi vicini: contadine, governanti, cameriere, lavandaie, negozianti, ma che a un certo punto sono guardate con sospetto, come i loro mariti. Che nascondano armi? Che siano spie?
Costrette ad abbandonare le loro case, i loro negozi, animali, oggetti… a cederli per pochi soldi a rigattieri veri o improvvisati:
“Vicini con cui non avevamo mai scambiato una parola ci avvicinavano nei campi e ci chiedevano se volevamo sbarazzarci di qualcosa. Quel frangizolle, magari? Quell’erpice? Quel cavallo da tiro? Quell’aratro? Quel cespuglio di rose Regina Anna che ammiravano da anni nel nostro giardino? (…) Un altro uomo disse che viveva da solo un una roulotte vicino al cantiere navale e sarebbe stato felice di prendere un gatto usato. “Sa, è dura star soli.” A volte vendevamo in fretta, e a qualunque prezzo, e altre volte davamo via le nostre teiere e i nostri vasi preferiti cercando di non prendercela, perché le nostre madri ci avevano sempre detto: Non bisogna attaccarsi troppo alle cose di questo mondo.”
Viene in mente quello che è successo solo una manciata di anni prima a una certa famiglia Joad in Oklahoma.
E dopo la partenza, il “noi” non sono più le donne giapponesi, ma gli americani.
“Per qualche settimana alcuni di noi continuano a nutrire la speranza che i giapponesi ritornino, perché nessuno ha detto che sarebbe stato per sempre. (…)
Forse avremmo dovuto presentare una petizione al sindaco. Al governatore. Al Presidente in persona. Per favore, lasciateli qui. O semplicemente bussare alla loro porta e offrire aiuto. Se solo, ci dicevamo, avessimo saputo. Ma l’ultima volta che qualcuno di noi lo aveva visto dietro la sua bancarella di frutta, il signor Mori era stato cordiale come al solito. “Non mi ha mai rivelato che stava per andarsene” dice una donna. Eppure tre giorni dopo non c’era più. (…)

Un coro, appunto, in cui ciascuna voce canta una piccola frase che è la sua storia, mai approfondita. Una pennellata che lascia intuire un quadro che non si vedrà mai, perché si è perso nella routine quotidiana, di chi se ne è andato e di chi ha potuto rimanere. Passa una stagione e la memoria si confonde. Si chiamavano Kato o Sato? Ci sono inquilini nuovi, qualcuno si è occupato dei gatti o dei cani. Qualcuno ha stampe giapponesi in casa, che prima non c’erano. Qualche signora usa le bacchette per fermare i capelli. Qualcuno rimpiange quegli inquilini puliti e tranquilli. Qualcuno pensa che – come sempre – ce ne fossero di buoni e di cattivi. E poi si assomigliavano tutti.
E questa scrittura quasi sempre in “noi” (o “loro”), di frasi brevi con soggetto e verbo e molto ripetuti è proprio convincente per narrare queste vite che – da fuori – sembrano tutte uguali. Come tutti uguali sembrano gli orientali. Che però poi sono uguali ai Joad. E a noi, che al giro saranno i nostri occhi a non essere abbastanza azzurri o abbastanza rotondi.

Vi lascio nel commento un piccolissimo saggio, dal giorno della partenza per l’internamento e… vi consiglio sicuramente di leggerlo.
(Nota dolente. L’edizione italiana è un tantino approssimativa, specie per quanto concerne la punteggiatura).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Marzo, 2018
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Un'aura di inestirpabile fallimento.

Newark estate 1944. Un’epidemia di poliomielite falcia i bambini della città e si accanisce soprattutto sul quartiere ebraico di Weequahic dove lavora, come animatore di un centro sportivo per ragazzi, il protagonista, Bucky Cantor. Ventitreenne, atletico, nipote devoto (la madre è morta nel darlo alla luce e il padre è un delinquente), scartato dal servizio militare per problemi alla vista.
Il breve romanzo di Roth narra la dolorosa parabola di Mr Cantor, un uomo “giusto” spinto dal costante e nobile proposito di fare la cosa giusta, “mille volta la cosa giusta” e che alla fine si trova a fare un bilancio della sua vita che non solo – come da titolo – è pervasa da “un’aura di inestirpabile fallimento”, ma è anche caratterizzata “da una persistente vergogna.”
Che ha combinato di così terribile, Mr Cantor? Niente, in realtà. Forse è stato vettore del contagio? Forse, ma inconsapevolmente (lui stesso è stato gravemente malato). Forse è stato un inerme strumento nelle mani di dio, un dio che “in base alla sua concezione era un essere onnipotente che riuniva in un'unica entità divina non tre persone, come nel cristianesimo, ma due: uno stronzo depravato e un genio del male.” Comunque un personaggio che non trova – e non vuole trovare – pace. Perché una ragione ci deve essere, un motivo ci deve essere e se la colpa non si può dare a dio, bisogna almeno poterla attribuire a sé stessi. O ad entrambi.
Sensazione di deja vu?
Be’, sicuramente qualcosa del vituperato (da me) Seymour Levov di Pastorale Americana sussiste in Bucky Cantor. Anche la struttura di Nemesi riprende quella di Pastorale, ad esempio nella narrazione affidata ad un personaggio marginale che viene dal passato, e lo Svedese un po’ si palesa in questo suo (imperfetto) fratellino.

Come sono contenta di aver letto questo libro (grazie Ross!)
Mi ha permesso di “fare la pace” con Philip Roth, perché se tanto mi era piaciuta “Pastorale” mi aveva anche costretto a starmene per anni lontana dal suo autore. “Colpa”, appunto dello Svedese e del suo essermi completamente odioso e respingente dalle prime righe. Tanto che avevo creduto che fosse una precisa volontà di Roth aver creato IL personaggio odioso. Invece ho scoperto che non è così, che, anzi, lo Svedese è un personaggio in genere amato.
Non da me.
Il punto che ho preferito di “Pastorale” è quando l’“imperfetto” fratello Jerry lo prende e gli dice tutto quello che avrei voluto dirgli io.
Mr Canton, invece, somiglia allo Svedese, ma riesce a farti intravedere il suo dramma e anche la sua anima. Vuole essere giusto, vuole trovare (e trovarsi) delle responsabilità, vuole le risposte e lo vuole non perché “si fa così”, ma perché “è giusto così”. Mr Cantor ha un bisogno di fare quello che è giusto che sconfina nel delirio di onnipotenza: lui (insieme al dio di cui sopra) responsabili di ogni malvagità e nequizia. È magistrale la scrittura di Roth, perché ti lascia empatizzare e solidarizzare con Mr Cantor. Ti fa approvare le sue “titaniche” decisioni, ti fa commuovere insieme a lui per i suoi lutti, ti fa sentire sulla pelle la sensazione di tragedia imminente e, insieme, di pace e beatitudine (la pesca, l’alba dopo il temporale). Finché Mr Cantor è l’unico personaggio in scena si è tutt’uno con lui.
Ma è quando entra in scena Arnie Mesnikoff che Roth scopre le carte. Arnie il personaggio positivo. Ernie che si è trovato una dimensione e una felicità, nonostante la polio, il dolore, il lutto. Eroe, lui, eroe davvero. Lui che non ha nessun bisogno di sfidare dio perché ne ha compreso l’inesistenza.
E Mr Cantor sbiadisce sul fondo, con suo titanismo, il suo delirio, la sua finta hybris. Grande, grande Roth.
Detto questo… be’.
Possono anche darglielo il Nobel.
Certamente a Stoccolma avranno già preso nota del mio fondamentale consiglio.

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Narrativa per ragazzi
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Febbraio, 2018
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Proviamo con Fraternité?

L’Onda – Todd Strasser, 1981

Ispirato (e anche di più) ad una storia realmente accaduta nel 1969, l’Onda di Todd Strasser racconta dell’“esperimento” condotto da un professore di storia in una delle sue classi. Di fronte alle perplessità dei suoi studenti circa il reale coinvolgimento del popolo tedesco nei crimini nazisti, il docente decide di far nascere un movimento “simil-nazista” e di vedere “di nascosto l’effetto che fa”.
Un’eco sinistra ha la parola “esperimento” in certi contesti: Zimbardo e Milgram sono i più sinistri (esperimenti, libri e film relativi) e non dimenticherei neanche Jack Ketchum con il suo “La Ragazza della Porta Accanto”. Non un esperimento, ma una stora. Vera.

Bisogna innanzitutto dire che questo libro non ha velleità artistiche – almeno lo spero – ma semplicemente documentaristiche: la scrittura è piuttosto piatta (a tratti perfino sciatta) e lo scioglimento finale è decisamente semplicistico, da brutto (bruttobrutto) film Hollywoodiano. Non di meno la lettura è stata coinvolgente.
I ragazzi dell’esperimento hanno le stesse perplessità che hanno i ragazzi di oggi rispetto ai crimini nazisti e che avevo anche io da studente.
Il professore, scrivendo slogan banali sulla lavagna e imponendo, quasi per gioco, una moderata disciplina simil militare (alzarsi in piedi prima di parlare, concludere le frasi con “signore”, ripetere slogan quali “la comunità è forza” etc) ottiene risultati strabilianti: in primo luogo quello di creare veramente una comunità nella sua classe. Riuscendo ad integrare anche quelli da sempre esclusi. Come Robert che da classico studente “sfigato”, non brillante e disordinato diventa in breve un membro effettivo del gruppo.
Curioso notare che il primo passo sia “noi siamo tutti uguali” che innalza il “medio” (e abbassa l’eccellente) e che il successivo sia “chi non vuole essere uguale è diverso e quindi nemico”.
Curioso come sia il linguaggio a giocare strani scherzi, a volte.
Comunità e Uguaglianza sono parole che hanno una risonanza positiva, nelle nostre menti, come negarlo? Una delle chiave evolutive dell’essere umano è stato l’essere in grado di fare gruppo e poi comunità, a partire dalle età più primitive. E non starò qui ad illustrare il Liberté, Egalité, Fraternité. Né come una persona che rifiuti di essere uguale agli altri appaia immediatamente viziata o privilegiata, disonesta, persino. Chi non fa la fila come gli altri, chi cerca di aggirare le regole, chi “lei non sa chi sono io” etc.

Quindi, perché? Che succede? Qual è il momento in cui l’unione non fa più la forza, ma diventa prevaricazione? E – dall’altra parte – quand’è che la legittima aspirazione ad essere sé stessi sconfina nell’individualismo sfrenato e nell’egoismo (e nell’egotismo)?
Pericolo che pare più remoto del nazismo, forse. Ma stiamo anche distruggendo il pianeta dove viviamo e dove vivranno i nostri eredi. Quelli di tutti.
Il libro non fornisce soluzioni (e ripeto, la “chiusura” è davvero tirata via e troppo patinata per essere credibile), ma ha il merito di costringere ad alzare ulteriormente la guardia e di togliere quelle che sembrava isole incontaminate di bontà e giustizia. Niente va bene sempre e in ogni contesto. Neanche comunità ed Egalité. Neanche Liberté ed individuo.
Che l’unica sia provare a puntare su Fraternité?

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Dei più famosi esperimenti di Zimbardo e Milgram.
E "La ragazza della porta accanto" di Jack Ketchum.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Febbraio, 2018
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Mai stato così male come da quando sto bene.

Avevo letto poche pagine di questo libro e siamo entrati in risonanza.
La prova? Sono andata a cercarmi anch’io un font che riproducesse quello della macchina da scrivere. Della MIA macchina da scrivere (non ci ho messo sei mesi. Io no. Però neanche sei minuti). E usavo il Times New Roman praticamente da sempre; mica era brutto. Ma così è meglio.
Il prossimo step sarà la tastiera che fa tik-tik. E magari “dlin” a fine riga.
Ho capito che era un incontro importante non solo per questo, ma per quella sensazione di “mettere a posto” che ho avvertito da subito.
La storia dell’incontro è breve: era fra le proposte di libro del mese nel gruppo di lettura piccolo e aureo, ma – as usual – non ha vinto.
Fra l’altro gli ho votato contro pure io. Per le ben note idiosincrasie. Appena parte la “campagna elettorale” io voto altro. A prescindere. Ha vinto l’ultimo di King e ben mi sta così imparo a non dar retta all’istinto e a farmi condizionare dalle campagne elettorali altrui.
Sleeping Beauties assolutamente dimenticabile, questo di Sclavi decisamente no. E per questo difficile da recensire e commentare. Facile da stravolgere e “macchiettare”.
Mi ha fatto ridere, dell’imbarazzante risata solitaria sul tram, già a pagina 25 con: “L'ANTIFURTO CON LE PALLE GIUSTIFICA GAETANO BRESCI". E mica solo quella volta lì. Che le battute da “segnarsi” si sprecano e – peraltro – dopo un po’ cominciano pure ad autogenerarsi spontaneamente.
Identificazione pressoché immediata con Cohan, con le sue idiosincrasie per la burocrazia, la posta, la mancanza di metodo del disordine altrui, i soldi, i conti, i rapporti umani, i viaggi, i gatti, i lavori in casa, la pigrizia, il risveglio, il fare le cose in anticipo, la famiglia, la Luci.
La Luci che è onestamente insopportabile, ma è anche quella giusta.
L’unica giusta, probabilmente (e il mio corrispettivo di Luci finirà per andarci da solo, a New York, che io manco dipinta, che poi uno non deve provare qualche piccola inquietudine di fronte alle coincidenze di un universo che – come dio – non è certamente pigro, ma è da trovare e da prendere a sberle).
E Tom. Che spezza il cuore di dolcezza e quando “ce la fa” o sembra che… be’ tu sei lì e gioisci per lui e la Vita e la bottiglia le mandi a stendere un po’ anche tu, ‘ste stronze. E Mauro e Mara. Che – come dice Holden – avresti solo voglia di averci il numero e di fargli una telefonata, ogni tanto. Perché sono i compagni, i colleghi, i fratelli che erano così belli e giusti, e chissà dove sono finiti.
E i vari Cesare e Ravasciò che di vice/genitori temo che ne abbiamo bisogno un po’ tutti, qualche volta.
E nascoste fra le righe, ma neanche troppo, pagine che fanno male. Anche troppo profetiche e precise sui malcostumi italici, sulla violenza inflitta, subita ed accettata, sulla dipendenza, sulla famiglia, sulla guerra.
E così, alla fine, capisci da dove son venuti fuori “Johnny Freak” e “Memorie dall’Invisibile”; metti a posto un altro tassellino – al posto giusto, non per brama di ordine, ma perché sia dove serve – e sei stato un adolescente fortunato e un adulto… contento no. Completo neanche. Giusto neppure.
Ma preferibile a molte delle alternative che ci si vede intorno.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Gennaio, 2018
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Anche i Re qualche volta sonnecchiano.

Sleeping Beauties – Stephen & Owen King, 2017

Va detto che, in realtà, i Kings fino a circa metà libro mi son piaciuti. L’idea di fondo è proprio carina. E interessante. Un mondo senza donne, con le suddette che cominciano a non svegliarsi più. Non che muoiano. Si addormentano, sottili filamenti bianchi le ricoprono fino a formare una sorta di bozzolo e loro non si svegliano. Il cuore batte, i parametri vitali sono buoni, ma continuano a dormire.
Ed è molto meglio non provare a svegliarle o, peggio che mai, tagliare il bozzolo.
Alcune si arrendono al sonno, altre si fanno di qualunque cosa per restare sveglie e intanto gli uomini si interrogano. Solo una misteriosa donna pare immune da questa malattia del sonno che viene battezzata “Aurora” (la “Bella Addormentata” do you remember?); e potersi addormentare e svegliare normalmente e solo la più piccola delle bizzarrie di Evie Balck, che parla con gli animali, legge nella mente, trapassa i muri con spacciatori di speed e forse ha un piano. Bello, no?
Cosa non funziona?
Innanzitutto la lunghezza. Al conteggio del mio reader le pagine erano 653. Metà di troppo.
Precisiamo, io mi son invelenita con chi si lamentava della lunghezza – per dire – de “I Lupi del Calla” e ho sfidato i detrattori a togliere una sola pagina dal libro senza perdere qualcosa di bello.
Amo dilungarmi e amo King che si dilunga.
Se c’è un senso.
E qui non l’ho trovato.
Con maestria e mestiere i Kings inventano sottostorie e sottotrame e puntualmente le portano a compimento. Ma delle medesime non sono riuscita ad appassionarmi. Di nessuna.
E questo porta al secondo punto dolente, quello più serio.
I personaggi.
Non ho trovato un solo personaggio che mi abbia convinto né che mi sia piaciuto.
E questo, parlando di King (Stephen), è un fatto grave.
King è fra i pochissimi autori che conosco che tratteggi personali femminili veri e “belli” che non siano macchiette, virago, teneri fiori, tomboy, madri eroiche, femme fatale, massaie rurali o altri cliché vari.
Le donne di King sono persone. Dolores, Lisey, Jesse, Darcy, Tess… pure Annie. E un’altra valanga che adesso non ho voglia di andare a verificare, che la memoria è quello che è.
E non che i maschi siano da meno, basta pensare a Roland, Eddie, Jack, Paul però innegabilmente con le donne è più difficile. E King ci riesce alla grande.
Qui i personaggi sembrano costruiti a tavolino. Funzionali alla trama, ma poco “veri” e infatti non si riesce a provare simpatia per nessuno. Si capisce che dovremmo empatizzare con Lila, ma io non l’ho sopportata. Provare pena e partecipazione per Tiffany e Jeanette, ma manco per niente; poi abbiamo la pazza, la lesbica, la nerboruta, le madri assortite. E taccio sulle ragazzine per carità di patria. Lo stesso dicasi per i vari Clint, Willy, Frank. I cattivi abbastanza macchiette (per tacere di Low e Maynard… ma che, davero?).
Parziale eccezione solo per “l’odiosa” Elaine, che forse è il personaggio che funziona meglio e che fa le riflessioni meno banali, ma poi la chiudiamo malissimo con il sempiterno tema del senso di colpa/materno che tanto è una donna e che altro poteva succedere?
E da qui all’ultimo punto.
Ho trovato questo romanzo furbetto.
Un po’ ruffiano, aggiungerei.
E non vorrei arrivare a politically correct, ma mi sa che ci starebbe.
Ve lo ricordate “Le donne erediteranno la terra” di Cazzullo (e non vorrei infierire, ma a volte è proprio il karma)? Ecco. Una sviolinata su quanto è bello il femminile. Generoso. Accogliente.
In cui però – stringi stringi – le donne che sono quello che vorrebbero essere fanno esattamente quello che hanno sempre fatto. E potrebbero stare senza uomini. Ma “tornano”. E potrebbero creare una società nuova. Ma anche no. Però quanto tornano… fondano un asilo nido per bisognosi. Ah be’, allora.
Però ecco. Se sei riuscito a descrivere bene (qui, ma soprattutto altrove) cosa voglia dire essere cittadini di serie B (o anche C e D ed E altrove) come sono tutte le donne, perché poi, adesso, questo?
Rispondo con l’insopportabile Lila: “Il coraggio era un’ottima dote (…), ma secondo Lila un’innata resistenza alle cretinate era più importante.”

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    13 Gennaio, 2018
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Shotgun Lovesongs: titolo bello. Il resto meno.

Shotgun Lovesongs – Nickolas Butler, 2013

Aperitivo per cinema con un'amica lettrice fidata che mi magnifica questo libro. Pare sia quello da cui è tratto il bellissimo film “non ho capito il titolo” con “non ho capito chi” giovane. Ma voce, sguardi e parole son così convincenti che decido di leggerlo immediatamente.
Va da sé che poche ore dopo l’aperitivo (e la visione di un film che sarebbe riduttivo definire dadaista) arriva la correzione: no, in realtà no. Non c’entra niente con il film. Però è bello bello. Almeno così crede la mia amica.
Da devota seguace di Dirk Gently, mi basta molto meno di questo per convincermi a fare qualcosa, qui poi c’è un’altra cosa ganza: il titolo. “Shotgun Lovesongs” mica pizza e fichi. Bello bello.

Peccato la storia del "come" e il titolo siano (quasi) le sole cose belle
Little Wing, Wisconsin. Borgo di poche anime e molta neve dove si snodano ed articolano le vite dei protagonisti: un gruppetto di amici che si conoscono dall’infanzia, crescono insieme e – caso strano – prendono strade diverse: abbiamo Leland (detto Lee, ma nella mia mente stabilmente “La(la)land” e detesto i musical, non dico altro) che dal garage in mezzo alla neve riesce a catalizzare la sua passione per la musica e a diventare una star mondiale, Kip che fa i soldi, ma rimane uno stronzetto, Henry che è quello solido (agricoltore, marito amorevole, padre esemplare, colonna di forza, amico devoto e… noia a vagonate), Ronny che era il campione dei rodeo, ma ha avuto un incidente ed è rimasto “leggermente offeso” (e non a caso è il più normale del gruppo, oltreché il più simpatico e quello che si legge più volentieri), non mancano le donzelle che naturalmente non possono essere che “speciali”, a cominciare dall’insopportabile Beth, moglie del meraviglioso Henry che ama il marito, ovviamente, ma anche un po’ Lalaland sotto sotto (stucchevole resoconto di una toccata e fuga di dieci anni prima, prevedibile come le tasse e avvincente come un paracarro), la psicopatica Felicia che da un certo punto in poi comincia a blaterare sulla maternità riuscendo solo nell’intento di farci provare compassione per suo marito – lo stronzetto Kip (ma che razza di nome è?) – e non era facile. C’è poi Lucy, la fidanzata e poi moglie di Ronny, che probabilmente non è un fenomeno neanche lei, ma sempre meglio delle altre, ed infine Chloe, la superstar del cinema che sposa Lalaland, ma si capisce da subito che è tanto cattiva e lo farà soffrire. Mica come le brave ragazze del paese. Brave ragazze del paese che – va da sé – sono tutte stragnocche, buone e sensibili. A volte un tantino inquiete, magari. Con una certa tendenza a raccontare palle e – soprattutto – a raccontarsele.
Il romanzo si divide in capitoli contrassegnati da una lettera – l’iniziale del nome del personaggio che racconta. Purtroppo, come accennavo la storia è molto ordinaria, il plot non decolla e non ha l’aiuto di una scrittura che possa sostenerlo. Ci sono un paio di trovate che potevano essere interessanti – il vecchietto conosciuto per caso da Kip, le uova in salamoia di Henry e Lalaland – e invece restano un po’ “appese lì”. Qualche descrizione piacevole. Poco altro.
Peccato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Dicembre, 2017
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Ogni scarrafone... è bello a Rosemary sua.

(Lieve Spoiler)

Probabilmente ero rimasta l’unica a non aver letto questo libro (e, di conseguenza, a non aver visto il film), anche se credo che, insieme ad Alien, sia una delle cause remote delle mie viscerali idiosincrasie per la maternità (non so come, ma intendo scoprirlo).
Ho comunque colmato entrambe le lacune.
1966, New York. Rosemary e Guy prendono in affitto un appartamento in un palazzo dallo fama sinistra: sorelle antropofaghe, suicidi, adoratori del maligno, cadaveri di neonati. Ovviamente fanno tanto di spallucce a questi infausti presagi, si trasferiscono e stringono amicizia con una coppia di arzilli vecchietti, i Castevet, loro vicini.
Piano piano gli arzilli creano una solida rete di isolamento intorno alla giovane coppia, composta dalle loro bizzarre, ma apparentemente innocue conoscenze.
E cominciano ad avvenire cose strane: il suicidio di una giovane conoscente di Rosemary, l’improvvisa cecità di un attore “rivale” di Guy, il misterioso coma di vecchio amico che aveva cercato di mettere Rosemary in guardia. Lo stesso Guy, cambia: dapprima molto tiepido sulla questione “genitorialità”, decide improvvisamente di mettere in cantiere un erede.
Per accennare soltanto, gli arzilli sono niente meno che una setta di stregoni che evocano satana, fanno vari e raccapriccianti riti con il sangue e lavorano per far reincarnare il maligno (o qualcuno che lo evochi, non mi è chiarissimo). Ottengono facilmente la complicità di Guy e decidono che sarà Rosemary la madre della loro reincarnazione.
Questa storia si poteva raccontare in molti modi. Forse non è originalissima, ma offre spunti interessanti e – soprattutto nel finale – qualche brivido lo cagiona. Invece la narrazione scorre piuttosto piatta e, nonostante le descrizioni siano minuziose, i dettagli realistici, i dialoghi verosimili, non riesce mai a catturare il lettore (o meglio: a catturare ME lettore).
Difficile provare empatia per i personaggi (a parte qualche sorriso che all’inizio strappa Rosemary, giovanissima sposina, alle prese con ultrasessantenni un po’ noiosi, chiacchieroni e ficcanaso). Analogo difetto anche nel film (e non sorprende, perché Polansky a tratti cita Levin in modo quasi letterale) in cui fa la differenza Mia Farrow con i suoi occhioni blu sgranati e la ninnananna che apre e chiude il film.
E dire che il finale funziona e poteva davvero essere geniale. Sarebbe stato bello entrare in risonanza con questa donna che alla fine di questa scia di sangue e delitti decide di fare la madre di satana (basta che si chiami Andrew e non Adrian), anche se ha gli occhi gialli di un rettile (ma un broncetto tanto carino).
Peccato.
PS non posso fare a meno di chiedermi come avrebbe raccontato questa storia uno che con i personaggi femminili fa grandi cose, uno tipo King, per dire.

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Romanzi
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Dicembre, 2017
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Nebbiosa e vischiosa... noia.

Una scrittura delicata e rarefatta, che non dice, ma suggerisce e allude. Una trama che scorre lieve fra le nebbie reali e quelle che offuscano la memoria dei protagonisti. La narrazione che scivola nel sogno e nel mito, il passato dimenticato che talvolta rivive sfolgorando per un istante e poi svanisce…
Per farla breve.

UNA NOIA PAZZESCA.

Neanche 230 pagine e non ce la facevo più a finirlo. I ragazzi a scuola sbirciavano la mia faccia nell’intervallo e mi dicevano di “non accanirmi” (e alternativamente “Prof, mica ce lo dà da leggere, vero?”).
A pelle(t) mi sentivo che l’autore non fosse nelle mie corde, dopo la sonora barba che mi ero fatta – per colpa del mio compagno – con “Quel che resta del giorno”. Quindi avevo pensato di andare sul sicuro leggendo una “storia arturiana”. Con la materia di Bretagna – credevo – non si può scrivere una storia noiosa – credevo.
Pensavo così di far pace con l’autore e poi provare con “Non Lasciarmi”, in condivisa con il mio gruppo di lettura.
Invece, lasciami proprio, Ishiguro, vade retro!

La notizia è che si può scrivere una storia noiosa sulla materia arturiana.
Ora. È vero che il precedente arturiano era stato Steinbeck e si potrebbe pensare che io si poco obiettiva.
Errore. il contrasto sarebbe stato stridente anche con le riduzioni per bambini del CdP o la Principessa Zaffiro nel regno di Silverland, ai ferri corti col perfido zio.
Comunque abbiamo un’anziana coppia, Beatrice, detta “Principessa” e Axl, che vivono in una piccola comunità e si accorgono, a tratti, ma sempre meglio di tutti gli altri abitanti, che qualcosa sta rubando i loro ricordi. Loro stessi rammentano solo vagamente episodi recenti o fatti molto importanti del loro passato.
Decidono quindi di mettersi in marcia per dirigersi al villaggio dove vive il loro unico figlio (che sta “più o meno” in quella direzione a “più o meno” qualche giorno di cammino, anche se non ci vanno da “più o meno” qualche anno).
Fra eterni dialoghi che vogliono mimare un realismo un tantino insulso, malesseri e acciacchi vari, memorie sfilacciate, incappiamo in qualche vecchia saggia armata di informazioni sibilline, un villaggio in piena rivolta, un ragazzino “segnato”, un cavaliere misterioso, nientepopodimeno che ser Galvano in persona (e qui una confortante certezza: scriva chi vuoi, Galvano è sempre il solito, noioso, intollerabile e pomposo bietolone che ben conosciamo) e il suo cavallo Orazio, una draga cattiva che però forse, arcani barcaioli, visioni, misteriose nebbie ed altrettanto misteriosi fiumi.
Ganzo eh?
Pare difficile farci su una storia noiosa. Sì. Ma il nostro ci riesce. Non c’è un solo singolo istante in cui quello che succede ai personaggi abbia instillato in me il pur minimo scintillio di interesse, durante la lettura. Dettagli su dettagli, descrizioni, dialoghi, monologhi. Niente.
L’unico modo per finire è stato “ricaricare” le informazioni del testo in una forma almeno leggermente narrativa. L’ho fatto per caso per qualche alunno (e collega) che si stupiva per la mia faccia annoiata e chiedeva “ma di che parla?”
Ecco, provare a raccontare e raccontarsi la storia è stato l’unico modo per non desiderare la morte dolorosa dei personaggi (non di tutti, almeno) e superare l’impasse di tedio vischioso in cui la scrittura di Ishiguro mi ha immerso. Che credo che sia davvero una brutta cosa da dire a uno scrittore. E pure premio Nobel. Sorry.
Esame di realtà: son io che non capisco.
Pacifico.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Dicembre, 2017
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Distruggere ciò che non si sa creare.

Il Miglio Verde - Stephen King, 1996

(Lieve Spoiler)
Uscito a puntate come “storia da letto” nel 1996 e poi in volume unico l’anno successivo “Il Miglio Verde” è il romanzo di King – per ora – che mi ha fatto più paura.
Una paura fredda e gelida, molto lontana dal sangue e dai mostri a cui siamo abituati.
Una paura “a freddo”.
C’è l’isolamento, c’è il male stupido, meschino e banale, c’è una figura enorme e quasi muta, goffa e salvifica che nella migliore tradizione umana viene sacrificata e c’è un male “grosso” crudele e quasi demoniaco, che però, alla fine è meno spaventoso di quello piccolo e meschino di cui sopra. Forse perché è associato alla follia, ma i Percy i Brad, le miss Ratched (impossibile non pensare a “Qualcuno volò sul nido del cuculo di Kesey), i “Re della montagna di merda”, fanno più paura dei Billy Wharton, che, in fondo, sono solo folli e turpi assassini e stupratori. Nello stesso modo in cui gli stupidi fanno molta più paura dei cattivi.

Il racconto è portato avanti su due piani temporali da Paul Edgecombe. Anziano vecchietto (ma solo alla fine scopriremo quanto – e perché così – anziano) “ospite” in una casa di riposo che scrive il suo passato e in particolare una storia avvenuta nel 1932, quando era capo delle guardie del braccio della morte - il Blocco E - nel carcere di Cold Mountain.
La vicenda si apre con l’arrivo di John Coffey (“come il caffè, solo che non si scrive alla stessa maniera”) un enorme uomo di colore, taciturno e forse un po’ ritardato, colpevole dello stupro e dell’omicidio di due bambine di nove anni.
Non mancano i casi raccapriccianti nel Blocco E, ma questa storia è davvero terribile. John Coffey, però, appare come un detenuto modello, silenzioso, tranquillo, con un’infantile paura del buio. Nel Braccio, in attesa di “Old Sparky” (“la vecchia scintillante”, ovvero la sedia elettrica), ci sono anche Delacroix, detto Del, “Capo”, “Presidente” e i carcerieri, Paul, il fedele Brute (detto Brutal, probabilmente il mio personaggio preferito, come tutti quelli di poco slancio, ma concreto buonsenso), Harry, Eddie e il nuovo arrivo, Percy.
Con questa copiosa messe di turpi assassini, il personaggio di gran lunga peggiore è Percy.
Per molti aspetti “Il Miglio Verde” è una storia di bullismo e di banalità del male. Di individui meschini e limitati che scaricano la mediocrità di cui sono vagamente consapevoli sui i loro sventurati sottoposti. Percy prova piacere a tormentare i detenuti e si accanirà in particolare su Del e sul topolino che è riuscito ad addomesticare nelle sue ultime giornate. Proprio grazie a questo topino (e complice un’infezione urinaria di Paul) scopriamo lo straordinario potere di John Coffey: l’uomo è in grado di “assorbire” malattie e traumi dagli altri e disperderli, curando i malati.
Paul comincia ad avere dubbi sulla colpevolezza di John, dubbi che poi troveranno conferma nella scoperta del vero colpevole, Billy Wharton, folle e violento assassino appena giunto al Blocco E, condannato per un altro delitto.
Ahimè la scoperta della verità non potrà cambiare le cose e la vita scorrerà in attesa della morte stabilita per tutti.
Raccontare il come questa morte è stata stabilita è la grandezza di King in questo romanzo.
Il freddo e paradossale cerimoniale delle esecuzioni capitali.
De Andrè cantava il “girotondo intorno al letto di un moribondo” qui il girotondo è intorno a qualcuno che verrà messo a morte senza essere moribondo. Con una ritualità precisa – che va “provata” – con una parte specifica per ognuno, con una coreografia che deve muoversi perfettamente e in sincrono. Come un balletto.
Chi ha visto il film (e non stento a crederlo, perché anche le pagine sono sconvolgenti) descrive come particolarmente spaventosa l’esecuzione di Delacroix (Percy, per vendicarsi, manomette la sedia elettrica in modo che il condannato abbia un’agonia lenta e dolorosa e che – di fatto – finisca lentamente e letteralmente cotto vivo). Io però ho avuto davvero paura e orrore per la scena del giorno prima: quando viene “provata” la morte di Del. Mentre alcune guardie distraggono il detenuto ed assistono ai giochi del suo topino ("Un sorriso gli illuminò il volto, così subitaneo e semplice nella sua felicità che provai una piccola fitta al cuore per lui, a dispetto del crimine orrendo di cui era responsabile. Che razza di mondo è quello in cui viviamo, che razza di mondo!") le altre “provano”: la passeggiata, le dichiarazioni, le implorazioni, l’arrivo da Old Sparky, il sistemarsi sulla sedia, bloccare braccia e gambe etc. Con un protagonista ormai specializzato nell’interpretare il condannato "Mai il vecchio Toot era così vivo come quando faceva il morto." Ecco, queste pagine, più di tutte quelle in cui King racconta la vecchiaia, la magia (pericolosa) della scrittura, l’amore, l’amicizia, la follia, la brutalità, sono in assoluto – per ora – le più spaventose, raggelanti e raccapriccianti della mia carriera di lettore. Stanno a pari (a livello visivo) solo con la vecchina con l’orologio senza lancette ne “Il Posto delle Fragole” di Ingmar Bergam.


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Ken Kesey "Qualcuno volò sul nido del cuculo".
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Dicembre, 2017
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All'Overlook le cose continuavano a esistere

Shining – Stephen King 1977

Shining è una bellissima storia padre-figlio.
Centro e perno di tutta la vicenda. Sì, è vero che c’è un bambino di cinque anni che “irradia”, un papà dai mille talenti (alcuni oscuri) tutti da dimostrare, un edificio che certamente è stato costruito con i mattoni della Hill House di Shirley Jackson e che ha poi generato il Demone-Casa di Terre Desolate, un estintore, delle siepi, un… qualcosa in una vasca da bagno e il tutto è scritto da King. Il King del 1977.
Però quello che conta davvero sono Jack e Danny.
Danny che vuole indubbiamente bene alla mamma, ma “era il bambino di suo padre” e Jack che non “irradia” come suo figlio, ma ha certamente un’intelligenza spiccata che diventa una maledizione. Jack si accorge presto della malvagità del luogo e per qualche motivo inizialmente pensa di poterne aver ragione, poi pensa di poterla sfruttare. La forza malvagia dell’Overlook gli permetterà di ottenere la gloria che merita, scriverà di questo, forse è stato scelto per questo. "Forse l'Overlook, da quel grosso e bislacco Samuel Johnson che era, aveva scelto lui perché fosse il suo Boswell." Jack Torrance che diventa il biografo dell’orrore.
E del legame feroce fra orrore e scrittura King ci parlerà ancora fra qualche anno attraverso Paul Sheldon.
Ma poi Jack scopre che non è così. Non è lui ad essere stato scelto. È Danny.
Perché Jack “Era quello vulnerabile, quello che avrebbe potuto essere piegato e distorto fino a quando qualcosa si sarebbe rotto." Ed è quello che succede. L’Overlook si impossessa di Jack, per avere Danny.
E Jack lotta.
Prima per sé e per la sua gloria e per l’Overlook. Poi per il suo bambino.
Non racconto oltre, perché libro e film si sono già allontanati parecchio, a questo punto.
E continueranno a farlo, quindi non spoileriamo.
(Però non è il freddo ad uccidere Jack).
Perché c’è soprattutto da raccontare come King scrive questa storia. In primis non trattando il lettore come un deficiente, ma come un essere senziente, disseminando il testo di piccole contraddizioni, aggiustamenti (l’ha posizionato indietro, il timer? Certo che no. No. Però lo avrei fatto. Oh sì. Ma solo un po’. Per il suo bene.) senza metterci sopra un’insegna a caratteri cubitali che si illumina ad intermittenza, per fartelo notare.
C’è un orrore che sta a pari con IT, certe pagine di Terre Desolate e viene superato solo – scoperto adesso – dal Miglio Verde. È un orrore classico, fatto di siepi che diventano animali mostruosi che si muovono tanto lentamente che tu lo sai che si muovono, ma riesci a dirti che l’hai immaginato, fino a quando non sono troppo vicini, passi vischiosi dietro una porta chiusa, oggetti quotidiani che somigliano proprio… o diventano proprio. Altro.
Sensazioni e impressioni minacciose mescolate con minacce vere e concrete.
Ci sono dialoghi “a piani multipli” mentali, a distanza e reali fra i personaggi e le loro proiezioni. Fra i personaggi e l’Overlook. Attraverso la mente, lo shining, le parole. Uno per tutti quello finale, struggente e bellissimo fra Jack e Danny, con cui prendo congedo.
“Il volto di fronte a lui mutò. Il corpo fu percorso da un lieve tremito; poi le mani insanguinate si aprirono come artigli spezzati. La mazza ne scivolò e cadde con fragore sul tappeto. E fu tutto. Ma a un tratto, davanti a lui c'era il suo papà, e lo guardava col volto atteggiato a un'espressione di sofferenza mortale, e con una pena così profonda che il cuore di Danny se ne sentì come infiammato in un'espressione di commozione intenerita.
"Dottore," disse Jack Torrance. "Scappa. Presto. E ricorda che ti ho voluto tanto bene."
"No," disse Danny.
"Oh, Danny, per l'amor di Dio..."
"No," disse Danny. Prese una delle mani insanguinate di suo padre e la baciò.
"È finita. Quasi."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Settembre, 2017
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Elogio delle Ombre

Ombre – AAVV – 2016

Raccolta di racconti ispirata ai quadri di Edward Hopper e sciaguratamente ho rischiato di perderla. Meno male che c’è qualche arcana divinità anche per il lettori distratti.
Raccolta già suggestiva alla prefazione: ti do un quadro e tu (autore di grido) facci su una storia. Se è un po’ inquietante tanto meglio. Allora, il consiglio è questo.
Leggetelo. Se non volete comprarlo, andate in biblioteca, fatevelo spedire, andate in una libreria di quelle grandi e leggete a sbafo. Son quasi tutti racconti brevi. In due/tre volte ve la cavate.

Quello di King (“La Sala della Musica”) è breve. Poche pagine in cui il Re ricostruisce una delle sue celebri atmosfere straniate e claustrofobiche. È facile e non ci vuole niente. Basta saperlo fare.
“Soir Blu” (Robert O. Butler). Lui dice che è Pierrot. Ma è Pennywise. Nessuno mi persuaderà del contrario. Non poteva dirlo per ovvie ragioni di copyright, lo capisco anche, ma È PENNYWISE. C’è un motivo se detesto i pagliacci e Pierrot e quello con la faccia bianca e il cappello a cono ancora di più. Quindi Occhio.
“La Storia di Caroline” (Jill D. Bloch) e “La verità su quanto è successo” (Lee Child) sono racconti di impianto piuttosto classico. Il primo gioca un po’ scoperto con un’emotività a mio parere un po’ facile, però funzionano. Simili, ma con un brio migliore, sono “Finestre di Notte” (Jonathan Santlofer), “Nighthawks” (Michael Connelly) e “Lo Spogliarello” (Megan Abbott).
“Stanze sul mare” (Nicholas Christopher) tira fuori un mio grande amore (la lingua basca) e gioca un po’ con Marquez e Borges. L’esito è forse un po’ penalizzato dalla forma breve, però merita. “Natura morta” (Kris Nescott) ha un po’ lo stesso problema. Molte idee, molto da dire e qualche difficoltà con la forma breve.
Carol J. Oates (“La donna alla finestra”) non delude, anche se ti lascia proprio lì sul più bello. Che è il bello del racconto, siamo d’accordo, ma lì per lì una piccola imprecazione te la strappa.
Sul finale Joe Lansdale (“Il proiezionista”), che non solo mette sotto il riflettore una figura che evidentemente stuzzica, ma essendo il vecchio Joe, tira fuori una delle sue belle storie che non ti aspetti. E lui è uno che non soffre la forma breve. Grande Joe.
Lawrence Block (“Autunno, tavola calda”) sa come si racconta una storia. Anche se è piccola e un po’ demodé come la sua protagonista.
Infine il mio preferito “L’incidente del 10 novembre” (Jeffrey Deaver). Se non fosse che temo di violare qualche decina di leggi, lo posterei qui sotto perché è GENIALE. Non so dire altro. Idea forse semplice, ma, as usual, basta farsela venire. E anche la scelta formale è azzeccata. Bello bello bello. Non vi dico niente perché è una carta velina, e ad applaudire troppo forte ho paura di romperla.
Ma leggetelo.
(Anche di straforo, sempre nella libreria grande. Vi porta via un quarto d’ora, i commessi non se ne accorgono neanche, basta che non ve ne usciate con esclamazioni di giubilo durante la lettura, come ho fatto io. In treno.)

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Settembre, 2017
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E se non fluisce?

Occhi Blu Capelli Neri – Marguerite Duras – 1986

Ogni tanto mi capita di leggere libri che mi fanno sentire più scema del consueto.
Questo è uno. Duras è precisa nella prefazione: dice più o meno, non stare a pensare, lascia che la storia fluisca.
Il fatto è che non fluisce.
Ci sono lui e lei. Entrambi amano “l’altro”, quello con gli occhi blu e i capelli neri. Quello bellissimo.
Che stava con lei, ma deve andar via. E lei e l’altro si trovano in un caffè e per qualche motivo fanno conoscenza (e fin qui parrebbe pure avere una “logica”, quindi probabilmente è una mia interpretazione fallace).
Lui (non quello bellissimo, che di fatto è uscito di scena, l’altro) propone a lei un bizzarro accordo: la paga affinché passi le notti con lui. Perché dorma nella sua casa vicino al mare. Chiaro da subito che lui non ha il mio interesse fisico per lei (ama l’altro, quello bellissimo); lei dorme, sulle lenzuola bianche in mezzo alla stanza e tiene un fazzoletto di seta nera sulla faccia, perché lui non la veda. Lui dorme con lei, ma è disturbato dalla sua presenza e dalla sua fisicità (e allora perché… non lo so). Parlano. Qualche volta. Altre no. In genere piangono. Qualche volta si guardano. Qualche volta lei sente di affezionarsi a lui. Qualche volta lui vuole uccidere lei. La mattina lei va via. Quando torna gli racconta di un altro uomo con cui si intrattiene. Piangono. Lei racconta la storia con quello con gli occhi blu e i capelli neri. Piangono. Lui racconta di quando li ha visti nella hall dell’albergo la sera del loro addio. Piangono. Lei racconta che lui (quello bellissimo) la chiama usando per nomignolo il nome di lui, pronunciato da lei storpiato. Piangono.
Quasi anch’io.
Ma di frustrazione.
Non sono una maratoneta della logica astratta, non ci riesco proprio, limite mio.
Può essere che il limite sia la lingua?
Non so. Di certo in francese non mi ci avvicino neanche.
Troppo parlato addosso, troppo rimandato ad altro, troppo “presta attenzione!” che qui c’è l’arcano, la chiave, la svolta. L’essenza della storia di questi due/tre infelici. E io non la capisco mai.
Poi va detto che la scrittura di Duras è davvero vischiosa e quindi a volte ti indispettisce e ti chiedi (e smadonni) “ma dove andrà a parare?”, altre la lasci fare e vai avanti.
Non è un’esperienza del tutto sgradevole, in effetti; decantando per qualche giorno, il ricordo che residua è un insieme di sensazioni vaghe, che non appena ti soffermi, perdi.
Ma a me piacciono le storie e questa decisamente non è il mio genere.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    25 Luglio, 2017
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Prima non mi capitava...

Il Racconto dell’Ancella – Margaret Atwood, 1985

Distopia (?) di più di trent’anni fa che fa scorrere il freddo nelle ossa, perché non solo è orribile, ma è vicina, quotidiana, prossima.
Nella non meglio specificata Galaad, che – forse – evoca il purissimo figlio di Lancillotto, che era talmente insopportabile da essere assunto immediatamente in cielo (e infatti chi lo sopportava, in terra?), è successo “qualcosa” per cui una società abbastanza simile alla nostra è diventata, tout court una teocrazia di stampo cattolico (in realtà la “nostra” società somiglia già abbastanza ad una teocrazia di stampo cattolico, ma la Atwood è canadese).
Come ogni brava dittatura religiosa che si rispetti, uno degli obiettivi che si pone è il controllo del corpo femminile, naturalmente mascherato da cura (di che?), protezione (da chi?), ritorno alla sacralità della natura e simili facezie.
Le donne sono preziose, perché, ovviamente, servono bambini e quindi una donna in età fertile è un prezioso contenitore per futuri sudditi (non suona per niente familiare a nessuno, vero?).

La nostra protagonista senza nome “vero” non era proprio una donna perfetta, prima.
Aveva studiato, lavorava e se non ricordo male aveva pure divorziato.
Aveva un compagno, Luke, e una figlia. Carte di credito. Una madre emancipata ed amiche ancor più impresentabili di lei. Senza figli e dalla condotta libera. Vestite in modo bizzarro. Fumatrici. Tatuate.
Quando la situazione si è fatta difficile (per dire. Quando hanno bloccato tutti i conti delle F, permettendo solo alle M di possedere denaro), con Luke e la bambina, tenta la fuga. Che fallisce.
La famiglia viene separata e di Luke e della bambina non si saprà più nulla.
Il destino della protagonista, però, potrebbe essere peggiore, perché è ancora fertile, quindi le viene assegnato il ruolo di “ancella”. Deve vestire di rosso con un lungo abito senza forma e portare una cuffia bianca che le nasconda il volto (per essere protetta. Da chi?).
A parte una “rieducazione morale” non riceve vessazioni particolari (Rieducazione: “Siete una generazione di transizione, diceva Zia Lydia. Per voi è più difficile. Sappiamo che da voi si attendono dei sacrifici. È duro subire l'oltraggio degli uomini. Per quelle che verranno dopo, sarà più facile, perché accetteranno il loro dovere con cuore volonteroso. Non diceva: perché non avranno ricordi. Diceva: perché non vorranno cose che non possono avere.").
Deve svolgere piccoli incarichi (fare la spesa, passeggiare, mantenersi in ordine e pulita) e ça va sans dire, aprire le gambe per fare in modo che gli uomini meritevoli abbiano figli.
Se poi riuscisse a concepire e, addirittura, a generare un bambino sano, la sua valutazione sociale sarebbe alle stelle.
Non è però il brutale stupro che può sembrare, perché non è “brutale” in senso stretto. È peggio. Gli uomini “meritevoli” ovviamente sono sposati, ma disgraziatamente hanno mogli non fertili (gli uomini non possono non essere fertili, ovviamente), ma la Bibbia, bontà sua, ha una soluzione anche per questo, con l’edificante storia di Rachele:
“Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe (…) Allora ella disse: «Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch'io potrò avere figli per suo mezzo».”
Qui non è solo il parto ad avvenire sulle ginocchia della moglie, ma anche il concepimento, giusto per togliere ogni lubricità al tutto.
L’ancella fa il bagno, si sdraia sul letto, appoggia la testa in grembo alla moglie, solleva leggermente (non troppo) il vestito e il marito compie il suo dovere coniugale.
D’altronde “non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a dio!” (Teocrazie cattoliche, si diceva).
Qui si rispettano le donne! E si proteggono.

Ovviamente nel libro succede altro, perché – stranamente – ci sono donne che amano avere un corpo, uomini a cui piace essere baciati, giocare a scarabeo (!) e simili bizzarrie.
Rimane addosso, però, a fine lettura, una sensazione strana.
Da una parte lo straniamento della protagonista che va a fare la spesa e passa accanto al muro dove si impiccano (incappucciati) i dissidenti e lei li scruta temendo/cercando qualcosa di Luke, di cui non sa più nulla. Sa che probabilmente, essendo un uomo, non è stato “fortunato” come lei o la loro bambina, non di meno spera: “Lo sa che mi trovo qui, viva, e che penso a lui? Devo credere che sia così. Quando le possibilità sono così ridotte devi credere ad ogni sorta di cose. Adesso credo nella trasmissione del pensiero, nelle vibrazioni nell'etere, in queste sciocchezze. Prima non mi capitava.”
“Vorrei tanto che Luke fosse qui. Vorrei essere abbracciata e chiamata per nome. Vorrei essere valutata in un modo diverso, vorrei essere superiore a ogni valutazione. Ripeto il mio nome di un tempo, mi ricordo di ciò che una volta potevo fare, di come gli altri mi vedevano.”
E tutto sembra lontano.
Poi però certi discorsi (“Noi non abbiamo fatto altro che ripristinare la legge della Natura”) certe dinamiche (donne che controllano e vigilano la moralità di altre donne per un supposto bene “superiore” - di chi?), la protezione, l’incontrare e santificare il proprio destino (!) biologico (!), la gloria della maternità, la perdita di diritti che sembravano acquisiti, la protezione che diventa controllo e reclusione, la distinzione fra chi può stare seduto, chi in piedi, chi in ginocchio, chi regge l’ombrello, chi si bagna o resta sotto il sole…
Questo è vicino, quotidiano, prossimo.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    22 Luglio, 2017
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Ho il permesso.

Questo è difficile.
(Si tratta di una storia vera, di cui racconto diversi dettagli e parte dell’epilogo. Essendo reale, il termine “spoiler” mi pare fuor luogo).
Viene banalmente definito “romanzo horror” e vorrei anche vedere. Quello che non sempre viene chiarito è che si basa (purtroppo) su una storia vera che l’autore rimaneggia al minimo.
Anni ’60, stato dell’Indiana. Comincia una lunga estate senza scuola per il solito gruppo di ragazzini che abbiamo imparato ad amare con “The Body” di King (da cui il film “Stand by me”).
Ore larghe e vuote, amici, festicciole, fuochi d’artificio, qualche avventura e qualche trasgressione. Proprio all’inizio di questa estate piena di promesse, pronte ad essere deluse, David, il nostro protagonista incontra Meg. Che è “nuova”, carina, simpatica ed anche abile a fare cose “da maschi”, come catturare gamberi con una lattina.
David apprende poco dopo che Meg e la sorellina minore Susan sono ospiti di Ruth, sua vicina di casa e madre di due dei suoi più cari amici. I genitori delle ragazze, lontani parenti di Ruth, sono morti in un incidente stradale e la donna accoglie le due sorelle. Ruth è una sorta di “mito” per David perché non è una madre assillante ed apprensiva e “copre” i piccoli segreti dei ragazzi, permettendo persino loro di bere qualche birra a casa sua.
Ruth, invece, è una donna pericolosa, una sociopatica silente, mai ripresasi completamente dall’abbandono del marito e che, per qualche motivo, inizia a sviluppare un odio viscerale per le ragazze e in particolare per Meg. Comincia con piccole punizioni, castighi e vessazioni, che velocemente diventano torture. Ma non basta. Ruth “dà il permesso” ai suoi figli e ai loro amici di partecipare alle punizioni di Meg e successivamente, di impartirne a loro volta. Arriva a permetterne lo stupro e pone come unica condizione che i due figli non procedano “uno dopo l’altro” perché sarebbe incestuoso. Non sarà la cosa peggiore.
La storia finisce male, malissimo esattamente come è finita malissimo la storia vera.
La lettura è disturbante, non c’è bisogno di dirlo.

Spesso Ketchum viene considerato morboso o “compiaciuto” di quello che (de)scrive.
In realtà, secondo me, quello che fa Ketchum è semplicemente negarti il minimo “sconto”, sia pure una boccata d’ossigeno o uno spiraglio di luce. Né si capisce perché dovrebbe, in fondo.
Mentre leggevo non ho potuto fare a meno di ripensare all’”Esperimento di Stanford” di Zimbardo (giovani universitari di ottima estrazione, ingaggiati per un “esperimento” in cui vengono divisi arbitrariamente in “carcerati” e “carcerieri”. Esperimento sospeso dopo cinque giorni dagli stessi organizzatori per l’aggressività e la violenza, assolutamente fuori controllo, che erano scaturite).
Ketchum dice questo.
Che se un’autorità qualunque (in questo caso un adulto) “dà il permesso” dei normali ragazzini, tanto come dei normali universitari, si trasformeranno in animali (per brevità, molto peggio, in realtà).
E per tutto il tempo che leggi tu stai lì e speri che qualcuno li fermi. Che qualcuno SI fermi.
Però non lo fa. E non lo fa neanche chi vorrebbe, perché “c’è un permesso”, un’autorità ha dato un benestare, ci sarà un motivo, qualcosa succederà. Come non lo faresti neanche tu?
Il “disturbo” e il “morboso” di Ketchum è proprio questo.
Ti dice com’è stato in quel preciso, orribile caso e anche com’è in genere, di solito, spesso, gli esempi non mancano.
È un libro che fa piacere mettere giù e cercare di ricondurre ai canoni di “storia horror” per non pensarci. Ma anche qui l’autore non è che te lo permetta più di tanto.

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È una terribile storia vera (con poche "licenze") che passa tranquillamente per un'invenzione horror.
Inutile dire che l'effetto è assolutament disturbante.
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Romanzi
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    16 Luglio, 2017
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Quizas Quizas Quizas

Io (mi) scampi e liberi da questi libri.
È il secondo che leggo di Carrère ed è la seconda e ULTIMA falsa partenza. Il primo è stato l’insopportabile “Facciamo un gioco” che con La casa nel bosco dei Carifigli si colloca fra i peggiori marchettoni della mia carriera di lettrice. Qui sembrava impossibile sbagliare.
Carrère racconta una storia vera: un efferatissimo fatto di cronaca della Francia di quasi vent’anni fa. Jean-Claude Romand uccise la moglie, i tre figli, i genitori e tentò il suicidio, senza successo.
L’autore per un po’ si immagina il punto di vista di un amico dell’assassino e descrive la sua esistenza. Poi passa ad essere lo scrittore che racconta la tragica vicenda. Senza riuscire a destare il ben che minimo interesse nel povero lettore. Che poi…
È una storia tosta e non la sai raccontare. Non te l’ha mica scritto il medico. Scrivi qualcos’altro. FAI qualcos’altro.
Che dire di positivo? Lasciami pensare…
È abbastanza breve.
Ma come insegna Maestro Yoda “non breve abbastanza è stato”.
Non si può fare a meno di pensare a Truman Capote e a “Sangue Freddo”, ma onestamente non mi aspettavo tanto. Quello è un unicum ritengo difficilmente ripetibile. Però non riuscire a dire NIENTE su una storia come questa pare impossibile.
L’apporto di Carrère è scaricare sul lettore una serie di quesiti inutili e stucchevoli, che si rimediavano facilmente sul tram, spegnendo il lettore mP3: chissà come è possibile che nessuno abbia capito, chissà cosa è successo nella sua mente, chissà come mai nessuno si è accorto, chissà perché nessuno ha potuto supporre...
Quizas quizas quizas.
Ma per favore!

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Avventura
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Giugno, 2017
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Montecristo in salsa western.

1822. Hugh Glass partecipa ad una spedizione di cacciatori di pellicce intorno al Missouri. È taciturno, pacato, affidabile. Sa orientarsi, trovare il cibo, riconoscere gli Indiani e parlare con loro. E ucciderli, alla bisogna. Un uomo prezioso, per il capitano Henry, in un’accozzaglia di tipi non sempre raccomandabili, il suo braccio destro. L’uomo a cui chiedere consiglio e anche con cui, qualche volta, confidarsi.
Ma Hugh viene attaccato da un’orsa (e leggere questa descrizione non può far che sorridere della scialba resa filmica del tutto) e nonostante il suo coraggio rimane a terra peggio che morto, con orrende ferite al volto, alle spalle e la gola squarciata.
Ma vivo.
Questione di tempo, e anche poco, secondo l’opinione di tutti.
Il Capitano Henry fa tutto quello che può per il suo uomo: cerca di curarlo, fa costruire una piccola barella e lo porta con sé.
Finché può. Perché ad un certo punto il cammino è troppo impervio per una barella. Perché sono in un territorio di Indiani ostili e attardarsi per un uomo può significare la morte di tutti.
“I fieri individui che componevano la sua comunità di frontiera erano legati dal ferreo vincolo della responsabilità collettiva. Sebbene non ci fossero leggi scritte, esisteva una sorta di diritto naturale, un patto da rispettare che trascendeva gli interessi egoistici. Era di una profondità biblica, e la sua importanza andava aumentando man mano che ci si inoltrava nella natura selvaggia: in caso di bisogno, dovevi tendere una mano sollecita ad amici, compagni e finanche estranei. Perché un giorno anche la tua sopravvivenza poteva dipendere dalla mano tesa di qualcun altro.”
Infine Henry decide. Promette un grosso premio in denaro ai due uomini che sceglieranno di rimanere con Glass nelle sue ultime ore; lui proseguirà con il resto della squadra.
Si offre Black Harris, amico di Hugh Glass, ma le sue abilità sono troppo preziose per il gruppo. Alla fine accettano Bridger, un ragazzo alla sua prima caccia, timido e gentile e Fitzgerald, che già in poche righe ha fatto capire di essere spregevole ed abbietto.
Bridger si prodiga per Glass, che continua a peggiorare. Dal canto suo Fitzgerald spera che si spicci a tirare gli ultimi.
Ma la situazione peggiora ancora. Bridger e Fitzgerald sono costretti ad abbandonare Glass.
Non solo.
Ma si portano via il suo fucile e il suo coltello.
E se Glass l’abbandono avrebbe potuto comprenderlo, il furto no.
Infatti Glass non comprende.
Ma sopravvive e cerca la sua vendetta.
Questa la trama del libro.
Che dalla sua ha una trama tosta e senza fronzoli (quelli ce li ha messi tutti Inarritu nel film) e delle descrizioni che, in una parola, sono stupende. Quella dell’attacco dell’orsa, all’inizio, ti inchioda immobile dove ti trovi (e nel mio caso mi ha pure costretto a ripararmi il collo per tutto il tempo), ma anche l’attacco dei lupi, la lotta di Glass contro il fuoco che non “prende” durante la bufera di neve, la discesa del fiume con i Francesi… pezzi davvero stupendi (e l’ultima volta che mi sono commossa per una descrizione… vediamo… era Hemingway). Di contro il resto non sempre è all’altezza. I personaggi, secondo me, non vengono sempre bene “fuori dalle pagine” e soprattutto Glass, alla fine, appare un po’ una citazione, più che un personaggio.
Non di meno la forza del plot fa superare allegramente questo “difetto” e il libro è perfettamente godibile.

[Se fossi costretta a dire due parole sul film, direi che ho piantato lì dopo un quarto d’ora e mi sono messa a fare l’inventario delle foto della Sicilia.
Per ragioni che non capisco la trama lineare – che è la forza del libro – viene sbrodolata in un complicato rimando di vendette incrociate costellato dall’insopportabile moglie indiana morta di Glass che di tanto in tanto se ne viene fuori con le sue tirate in elfico. Per tacere del figlio morto.
Il Glass del libro ha il cuore abbondantemente spezzato da prima e non ci pensa neanche a vendicare qualcun altro. Vendica sé stesso.
Non per essere stato abbandonato moribondo, ma per essere stato privato di qualunque possibilità di difesa.
Era perfetto così, cosa sbrodoli?
Per il resto. Di Caprio non lo sopporto e si sa. La scena dell’orsa è così bella nel libro che l’unico modo di renderla degnamente è fare a mo’ di tragedia greca: la fai descrivere a parole dal primo che arriva sul posto e poi fai trovare Glass ferito e agonizzante.
Non voglio cosi male a LdC da volergli far girare una scena realistica.
E quella realizzata, fra l’infelice stuntman a fare l’orsa e la CGI sarà anche stata il meglio che si potesse fare. E Inarritu si sarà anche studiato tutto il National Geographic sui grizzly, buon per lui.
Però veramente veramente veramente NO.
Ed è la cosa migliore.]

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    19 Mag, 2017
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Le gesta di Artù e di Steinbeck.

“And I pray you all that redyth this tale to pray for him that this wrt te that God sende hyrn good delyverance and sone and hastel Amen". E prego voi tutti lettori del presente racconto di augurare a colui il quale lo scrisse che Dio lo liberi bene e presto e in fretta. Amen."

Steinbeck che scrive della “materia di Bretagna”.
Penso che difficilmente possa esistere una frase che, nella mia mente lettrice, evochi scenari più allettanti.
Lessi il libro la prima volta quando ero alle prime classi del liceo, non so se un adattamento o l’originale. Mi piacque l’idea che Steinbeck (che allora appena sapevo chi fosse) avesse deciso di rendere “potabile” una storia che lo avevo rapito da ragazzino. Ma il tempo passa e mi son ricordata di non ricordarlo bene. Così dopo la visione dell’onesto, ma non allettante film di Ricthie, ho pensato di consolarmi con un po’ di “roba (di Bretagna) buona”.
La mia edizione parla di 333 pagine. Quando (stanotte/stamane) mi sono accorta che, in realtà, il racconto finisce, incompiuto, a pagina 269 mi è venuto un magone mica da ridere. Poi mi però mi sono accorta che l’appendice sono lettere che Steinbeck scrisse intorno a questo libro.

La storia è quella ben nota raccontata da Malory e scritta, appunto, da Steinbeck. Che non rinuncia al suo stile asciutto, alla sua ironia pungente. Il primo capitolo scorre un po’ lento, ma poi è un crescendo fantastico. Al solito Merlino svetta come personaggio di dolente saggezza, Galvano è il solito noiosissimo idiota (sì lo so, non lo è sempre, ma il mio livore nasce da qui e qui rimane), Lancillotto diventa simbolo di una solitudine talmente invincibile che lo fa amare e persino Ginevra è meno intollerabile del solito. Ma quello che veramente strappa il cuore sono alcune storie “piccole” e meno note. In particolare, a questa rilettura, ho amato la storia di Ser Balin, eroe tragico senza colpa, se mai ve ne furono (profluvio di lacrime sul tram) e il delizioso capitolo con la triplice avventura di Ser Galvano, Ser Marhalt e Ser Ewain con, rispettivamente, la bellissima damigella di quindici anni, la formosa e matura dama di trent’anni e la dama di “tre volte vent’anni”.
Al di là dell’idiozia di Galvano che ha esattamente quello che si merita (e giustamente finisce i suoi giorni a cercare un catino senza manco trovarlo), le storie di Marhalt e Ewain sono stupende.
In particolare la dama di tre volte vent’anni infila una perla di saggezza ed ironia dietro l’altra e si avvia a diventare un mio perpetuo modello. La dama di trent’anni e Marhalt, invece, hanno, per dirla in breve, una delle storie d’amore più belle e più vere di cui abbia memoria. A quindici anni non l’avevo colta, chissà che avevo in testa (Tristano e Isotta avevo in testa, e ce l’ho in testa ancora, peraltro) ma adesso che sono arrivata anch’io, come la dama, ai trent’anni (+12) posso dirlo a ragion veduta. Immensamente belli, lei e Marhalt impossibile non volergli bene, non capirli, non identificarsi e non… capire.
Insomma.
Steinbeck si centellina sempre, perché non è bello starei in un mondo senza più Steinbeck da leggere, però questo si può riandare in perpetuo.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    14 Mag, 2017
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“Ho fatto un bel sogno, signori.”

Cos’è questo romanzo? Un Boa.
Cominci a leggerlo e ti si avvolge morbido morbido intorno, un cachemire.
Caldo, avvolgente, coinvolgente.
L’ho letto al sole in Sicilia, sulla spiaggia a Selinunte e davanti al tempio di Segesta.
E l’ho letto di notte, perché mi capita di svegliarmi e di non riaddormentarmi subito, ma di mettermi a leggere un’oretta o due. Credo che siano le mie ore di lettura preferite, queste “tra parentesi”, sapendo di poter dormire un altro po’, dopo.
Poi il boa rivela la sua natura variegata. Non è una sciarpa, ma un serpente.
Ti avvolge e non ti molla.
Poi ti stringe e non ti molla.
Ma al momento di soffocarti diventa tutt’uno con te.
O meglio, diventa te.
E liberi tutti, tu e il boa.
Liberi, ma consapevoli e sorprendentemente ben orientati dopo tanta tempesta, perché il boa è diventato “la” boa, cioè un “oggetto galleggiante, ancorato sul fondo, con funzione di segnalazione/ormeggio”. Magari non un’ancora e neanche un faro, però mica male.
Cosa c’è in questo romanzo? Tutto.
Adesso so cosa rispondere ai noiosi che ogni tanto si svegliano con “che libro porteresti sull’isola deserta?”
(Menzogna. Non rispondo mai, portatevi un po’ quello che vi pare e non rompete le balle).
Com’è questo romanzo?
È l’ultimo di Dostoevskij, per alcuni la “summa” della sua produzione, 900 pagine pubblicate a puntate, un paio di anni prima della morte. Tolstoj non riuscì a finirlo (e mal gliene incolse). CHIUNQUE ci ha scritto sopra, da Freud a Proust. Verrebbe da dire che è perfetto, ma non lo è. In alcuni punti si intuisce la necessità delle “puntate”, in altre Dostoevskij gigioneggia… ci sono tutti i suoi grandi temi, molti dei topos delle sue opere, a pensarci tutti i grandi temi e i topos dell’umanità.
“Ho fatto un bel sogno, signori.”
Dice Mitja, il fratello maggiore. E leggere questo romanzo lo è proprio stato.
Tre fratelli, Dmitrij, Ivàn, Aleksej, più forse un quarto illegittimo, Smerdjakov, un padre orrendo, Fëdor, che qualcuno, non so come, ha paragonato ad Edipo, un altro padre, tenerissimo, quello del piccolo Iljušeèka (rispetto ai diciotto anni, leggermente meno fatica con i nomi – e i nomignoli – russi), donne soprattutto due, di cui una veramente veramente veramente terrificante (Katerina Ivanovna) e l’altra Grušenka che un collega mi ha detto che Marylin Monroe avrebbe voluto a tutti i costi interpretare. Non è un’attrice che amo particolarmente, ma sarebbe stata perfetta (anche se Maria Schell, nella foto con il mio gemello Yul Brynner, non è da meno). Per tacere della signora Chochlakòva che strappa risate solitarie a scena aperta.
“Cosa leggi di così divertente?”
“I Fratelli Karamazov.”
Ebbene sì.
E poi i bambini. Uno dei perni della riflessione di Dostoevskij, attraverso Ivàn. Su tutti Iljušeèka e Kolja.
E poi i religiosi, i due “Jurodivye”, la Smerdjaskaja , soprattutto, lo Starec Zosima.
Solo a fare l’elenco e ricordando pochi tratti di ciascun personaggio salta agli occhi che Dostoevskij avrebbe potuto scrivere tranquillamente cinque romanzi, con questo materiale.
E invece mette tutto qui. La colpa, il pentimento, il libero arbitrio, l’innocenza, il pentimento, la redenzione, il vizio, l’amore, l’ossessione, la passione…
Occhio, però.
Mi è capitato spesso di leggere che “I Fratelli Karamazov” sia un “romanzo filosofico”.
No.
È una fregatura! È come “Memorie di Adriano” che uno legge “filosofico”, pensa “ganzo” e non lo tocca manco con le pinze. Tanto Adriano quanto i Karamazov sono ROMANZI e grandi romanzi.
Con storie che funzionano, con personaggi che funzionano e che non sono lì per farti lo spiegone e dire quanto è profondo Dostoevskij/Yourcenar, come è capace a descrivere l’animo umano!
Personaggi che “riconosci” non appena entrano in scena. Sono un’umanità nota, quel compagno di scuola, quel collega, persino un po’ tu, ogni tanto. Mitja in perenne equilibrio precario fra la depravazione e la grandezza, a un passo dalla redenzione… eterno paradosso di Zenone vivente. La tremenda e vischiosa Katerina, che deve far scontare il suo amore, il suo sacrificio, la sua abnegazione… senza che nessuno glielo abbia chiesto. Davvero un’inutile titana malefica. Ricorda anche un po’ la sua quasi omonima di “Jules e Jim”.
(Apro parentesi. Tanto Katerina tanto Agrafena son due personaggi femminili “veri” non le insopportabili caricature che si leggono spesso, come non lo è la Chochlakòva, che pure si presterebbe a diventare un cliché. Non sono madri eroiche o devote amanti, non sono virago o sante e manco puttane, né tomboy o teneri fiori . Visto? Si può. Ho capito che è Dostoevskij, però… c’è speranza sulla terra e nei libri).
Poi c’è Ivàn che porta sulle spalle alcune delle parti che ho amato di più: il suo poema “immaginato”, cioè “Il Grande Inquisitore” e i suoi discorsi con un diavolo che assomiglia non poco al Pastore di Saramago.
E poi Alëša. Da solo e con i fratelli, con lo Starec. Con Kolja (e questo bambino che sembra uscito da un libro di King… quanto è stato bello trovarlo lì, con il Iljušeèka a fare da contrappeso sereno – forse, che a me la storia del cane mi persuade fino a un certo punto – alla tragica vicenda degli adulti).
Iljušeèka con il pane ai passerottini, Zosima che esorta ad amare le creature felici (animale e bambini) e ad essere allegri. E Alëša che chiude con la gioia del ricordo.
Bon, sarà anche vero, come dice Smerdjakov che “anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti”, ma fanno anche commuovere e gioire di averlo incontrato (e ritrovato).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    27 Marzo, 2017
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È così. Punto. Semplice.

Passione Semplice – Annie Ernaux, 1991

Prima opera che leggo della Ernaux e devo dire, son proprio contenta di averlo fatto.
La storia è molto semplice, come da titolo.
Una relazione clandestina fra una donna – ne sappiamo poco, ma possiamo dedurre che sia piacevola, intelligente, colta, benestante, con un buon lavoro – e un uomo impegnato, affascinante, carismatico, con un lavoro particolare.
Pare un Harmony? Storia già vista mille volte? Ma anche mille e uno, potrei dire, ma mai così.
Intanto è raccontata in prima persona dal personaggio femminile.
Ho un problema atavico, io, con i personaggi femminili. Pochissimi/e autori riescono a creare dei bei personaggi femminili, almeno secondo me. King ne ha infilato qualcuno grandioso, Philipp Meyer anche. Di recente ne ho apprezzati alcuni in Dubois, ma in genere i personaggi femminili non mi conquistano. Trovo spesso – in scrittori sia uomini che donne – la tendenza a creare personaggi “titanici” nel bene e nel male, che stonano, stancano, stuccano.
Stereotipi, uno dietro l’altro dalla madre eroica, alla virago, tomboy, povera ma bella, svampita, femme fatale, donna per amico, tenero fiore (con anima d’acciaio)… che noia!
E poi le donne amano. Ci avete fatto caso? Sempre.
E così giustificano tutti: lui lei, l’altro etc.
Perché accade questo? Non lo so. È come se ci fosse la volontà di rovesciare la nostra realtà sociale: le donne sono ben lungi dall’ottenere – almeno nel nostro paese – una minima parità e una certa considerazione in quanto esseri umani? Benissimo. E noi riempiamo i libri di personaggi assurdi.
Incommensurabilmente… Belli. Cazzuti. Decisi. Determinati. Buoni. Cattivi. Perfidi. Sadici. Calcolatori. Idioti.
Ad ogni modo incommensurabilmente (come il vicolo “notoriamente”. Di De Caro/Smorfia).
Il mantra pare questo.
I maschi dei libri spesso sembrano respirare la nostra stessa aria, le donne, invece, respirano aria cosmica e son miracoli di elettronica, come Goldrake.
Qui no.
Qui abbiamo una donna che non solo è normale, ma racconta in modo estremamente lucido quello che le succede. E ci riflette su.
E – bontà sua – non si (e ci) racconta mai storie.
Vive questa passione e neanche per un istante si sogna di spacciarla per un grande amore. Neanche piccolo.
In nessun momento ci tiene a farci sapere che è forte, vincente e che ha in mano la situazione.
Ma neppure che è disperata e fragile e si comporta come una povera sciocchina perché è innamorata.
Ci racconta, invece, di vivere per sentire la voce di quest’uomo (A.), di sapere che è una cosa illogica e stupida, e di continuare a farla. Ci racconta che non vorrebbe fare niente altro che attenderlo. E che quando finalmente la telefonata arriva, l’incontro arriva, si rende conto di quanto sia stupido passare la vita in attesa di quello.
Ma non può fare a meno di farlo.
Non perché è buona e cara, non perché è innamorata, non perché ha qualche bel trauma pregresso.
Non perché lui è straordinario, perseguitato da una moglie virago, bel tenebroso, eroe, stronzo bastardo o altro.
Ma perché… passione appunto.
Passione che le fa provare indifferenza per i figli (impensabile questo libro scritto in Italia), il lavoro, tutto il resto. Senza una briciola di senso di colpa, di rimorso. Solo la strazio della privazione quando lui non c’è. Con la consapevolezza che poi “lui” sia in fondo uno “straniero”, mai davvero conosciuto, che per qualche motivo ha scatenato tutta questa tempesta.
Questa storia potrebbe essere una lagna senza fine, a pensarci.
Ma qui sta la differenza fra i personaggi veri e le sconosciute che scrivono lettere incarnando i peggiori cliché femminili. Riesce a non essere una lagna proprio per la straordinaria penna dell’autrice che si guarda con lucidità e distacco e comprende che, alla fine, quella fortunata è lei.
«Talvolta mi dicevo che passava forse un’intera giornata senza pensare un secondo a me. Lo vedevo alzarsi, prendere il caffè, parlare, ridere, come se io non esistessi. Questa indifferenza con la mia propria ossessione mi riempiva di stupore. Com’era possibile? Ma lui stesso si sarebbe meravigliato di sapere che non lasciava la mia mente dal mattino alla sera. Non v’erano ragioni per trovare più giusto il mio atteggiamento o il suo. In un certo senso io avevo più fortuna di lui».
Lei che vive un’esperienza così totale che non ha alcun bisogno di giustificarsi, sentirsi in colpa, esaltar sé stessa o l’altro.
È così. Punto. Semplice.
E anche quando poi – con lentezza – il tutto comincia a sfumare, resta il ricordo mai venato da alcuna “vergogna” per essere stati sciocchi, stupidi, ridicoli. O dubbiosi se abbiamo amato più/meno dell’altro.
«Che lui l’abbia “meritato” o meno non ha evidentemente alcun senso. E che tutto ciò cominci ad essermi estraneo, come se si trattasse di un’altra donna non cambia nulla: grazie a lui mi sono avvicinata al limite che mi separa dall’altro, al punto di immaginare talora di superarlo.
Ho misurato il tempo in modo diverso, con tutto il mio corpo.
Ho scoperto di cosa si può essere capaci, cioè di tutto. Desideri sublimi o mortali, assenza di dignità, credenze e comportamenti che trovavo insensati negli altri, finché io stessa non ho fatto a essi ricorso. A sua insaputa egli mi ha unito ancor di più al mondo».
Che mi ha singolarmente ricordato di un altro che «Accettava l'amore come un fatto della vita (…): quella era una delle certezze che albergavano nella cavità segreta al centro della sua natura divisa. La capacità di elevarsi al di sopra di entrambe e accogliere di buon grado la follia dell'amore era un dono ereditato dalla madre. Tutto il resto in lui era razionalità lucida... e, forse più importante ancora, priva di metafore».
Dice King del buon Roland.
Bello vederlo in un personaggio femminile.
E va bene così. Senza menate.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    27 Marzo, 2017
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Troppo lineari, i sogni incrociati.

SPOILER

Ebbene. Breve è breve, scorre scorre. E ci sono il mare, i paesaggi che amo (alcuni, mica tutti), la libertà e un paio di personaggi gradevoli.
Di contro ce ne sono altri insopportabili, in particolare i due femminili, seppur con netta affermazione di Rosa Moreno che, la dimenticherò presto, ma al momento è uno dei peggiori stereotipi femminili in cui mi son imbattuta nel recente passato, caso emblematico – a mio parere – di quello che succede quando si cerca di creare il personaggio perfetto per un uomo che fingesse di essere una donna e volesse far colpo su un uomo (libera parafrasi di Harrison Ford in "Working Girl").
Dunque abbiamo Marcel, capitano di un cargo che snuotazza per i mari e trasporta non si sa bene cosa. Naturalmente Marcel è bellissimo; riuscitissimo miscuglio etnico, amante della libertà, incuriosito, a breve termine, dagli altri esseri umani. Naturalmente è un capitano bravissimo, in grado di parcheggiare la nave in retro e in salita con un’unica manovra. E con il mare in tempesta. E con una mano sola. Che non l’altra smessaggia con la bella di turno o con il circolo dei filosofi neoplatonici o con Tony Stark, per dargli ripetizioni di fisica. Altrettanto naturalmente i suoi marinai lo venerano e chi abbia la ventura di essere momentaneamente irradiato dalla sua luce lo adora. Rosa Moreno, anonima ed insopportabile barista spagnola (ma ovviamente bellissima), per non smentirsi, lo idolatra. Ed approfitta per farsi ingravidare.
Dopo questa originalissima avventura, Marcel riparte ed ammalia altre persone: la deprimentissima Mama (bretone, con una storia impensabile persino per una bretone, ma, tanto per cambiare, bellissima), un esperto di gemme irlandese e un hacker danese. Tutti con le loro belle tare mentali e le loro infelicità. Dei due maschietti non sappiamo, però, se sono figuerrimi. Ma penso di no, che già c’abbiamo Marcel.
I quattro personaggi, irradiati momentaneamente dalla luce di Marcel, decidono in autonomia, di ritrovarlo. Ognuno per motivi diversi (in realtà il motivo delle due donne è lo stesso, indovinate quale).
Abbiamo quindi un triste siparietto che fa venire in mente Hugh Grant in “Quattro Matrimoni e un Funerale” che si trova sistemato, ad un pranzo di nozze, ad un tavolo con tutte le sue (rancorose) ex fidanzate.
Più che neoplatonico, qui Marcel fa il neosocratico e si mette di buzzo buono a usare la maieutica con i suoi ospiti: che ognuno trovi dentro di sé la risposta (in genere sbagliata) di cui ha bisogno.
L’unica che troverebbe davvero la risposta giusta è Rosa Moreno, che decide di buttarsi a mare e porre fine alle nostre sofferenze. Disgraziatamente l’inutile Marcel pensa bene di salvarla.
Quindi l’improbabile finale: Marcel che ci racconta il perché della sua anima randagia e della sua sete di libertà (ergo: chi ha sete di libertà c’ha un bel trauma pregresso, sicut erat in principio ora et semper et in saecula saeculorum) e i quattro infelici che, uno nell’altro, trovano una ragione di vita e un progetto da portare avanti. E Marcel?
Marcel li pianta lì sulla nave e – su una barchetta acquistata alla bisogna – veleggia solo e statuario, verso il tramonto.
Ora, pare impossibile che una trama di fondo, sotto sotto non troppo dissimile a quella di “La Vera Storia del Pirata Long John Silver” abbia un esito così infausto. Anche qui abbiamo personaggi in cerca di loro stessi e, uno, in cerca della sua libertà. Ma Long John funzionava tanto quanto Marcel è finto.
E Larsson mica scrive male.
Son proprio i personaggi che non girano.
Soprattutto Marcel, Mama e Rosa.
Ci sono dei punti molto acuti, persino, quando non ci sono questi personaggi in scena.
Ci sono i vecchi marinai: "Col tempo i vecchi erano arrivati a considerarlo un compagno, uno che li ascoltava e li prendeva sul serio. Jacob Nielsen non era uno di quelli che ridevano di loro perché si mettevano le vecchie uniformi blu per scendere al porto e sedersi con una birra in mano, come se fosse un lavoro, come se in quel modo trovassero una ragione per vivere. No, Jacob Nielsen non era uno di quelli che sorridevano a fior di labbra quando i vecchi spiegavano che l’unica cosa che conta nella vita è avere qualcosa da fare. “Perché senza far niente”, dicevano concordi, “la vita non ha senso”."
C’è l’amante (?) di Mama che si trasferisce sempre più ad Ovest per sfuggire all’umanità e che pensa di finire a Ouessant (dritta per te, mon ami: secondo me ci toccherà arrivare in Portogallo).
C’è qualche riflessione sulla memoria e sui luoghi che sa un po’ di Modiano, se non fosse soffocata in una trama troppo lineare.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    20 Febbraio, 2017
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Antigone in salsa Western.

Dunque.
Pacatamente, misuratamente e sobriamente.
Warlock, di Oakley Hall, è un libro PAZZESCO.
Sarò breve.
Siamo nel 1881, a Warlock, paese di “quella che chiamano la Frontiera, termine che suona romantico alle orecchie di chi non ci vive.”
Questa storia – come molte, moltissime storie Western – è una rivisitazione dell’eterno tema dell’Antigone:ci sono le leggi degli uomini (la giustizia, la fedeltà, la responsabilità, la comunità e tutte le cose belle che finiscono in –tà) e quelle divine o del “cuore” (amicizia, famiglia, legami, vincoli non scritti e non detti); ogni tanto, e anche molto spesso, queste leggi scozzano e nascono le Tragedie.
Ma se Sofocle mette in scena un rigido tiranno ad incarnare le leggi umane, e una coraggiosa fanciulla si batte per quelle divine, nel West le cose vanno diversamente.
Il Creonte della frontiera è Johnny Gannon, un ex cowboy con più di qualche macchia sulla reputazione e un rimorso particolarmente brutale che di fatto lo spinge a cambiare vita. Un personaggio dalla determinazione e dalla fierezza adamantina ed insieme di rara e tenera goffaggine.
È a lungo malvisto per il suo passato e poi lo sarà per essere diventato inflessibile e aver “rotto” i vincoli tradizionali.
Insomma, un oggetto inamovibile e in perenne “fuori sincrono”.
Invece la dolce e temeraria Antigone è, Tom Morgan, un losco che più losco non si può; che non si fa scrupolo di uccidere innocenti, umiliare oppressi, offendere angeli della bontà… e voler bene all’unico amico che la sorte gli abbia concesso, Clay Blaisedell, che, del tutto incidentalmente, è il pistolero più veloce del West e diventa il marshal di Warlock.
Forse Morgan ama anche un po’ una donna, cosa che non gli impedisce di ucciderne DUE potenziali mariti quando diventano una minaccia per Clay.
Non manca neppure Tiresia, per l’occasione interpretato dal giudice Holloway, relitto sciancato, rissoso e dedito al whisky più che a qualsiasi altra cosa.
Ma sorprendentemente lucido.
A volte.
Diversamente da quanto mi accade di solito, ho amato fino alla fine sia Creonte che Antigone.
Si certo, alla fine più Creonte, as usual, però questa malvagissima Antigone lascia il segno. Proprio perché “cattiva”.
Come lo lascia anche Johnny Gannon che è protagonista di una delle dichiarazioni d’amore (anche questa piuttosto incidentale) in assoluto più “goffe” e convincenti che abbia letto (e subito dopo fa un gesto d’amore fra i più inutili e commoventi di cui abbia memoria… che non si dica che ci vuol poco a farsi amare da me).

Ma in “Warlock” i personaggi maiuscoli si susseguono senza posa, anche se restano in secondo piano rispetto alla trama portante: Blaisedell è un “buono” straordinario, Abe McQuown un personaggio su cui scrivere un libro “a parte”, Jack Cade un cattivo appena abbozzato, ma… (non spoilero), Curley Burne mi ha fatto piangere e Carl Schroeder quasi. Per tacere del terrificante Fitzsimmons, del rivoltante McDonald e di tutti gli improperi che ho lanciato all’angelo di Warlock, miss Jessie Marlow (e quanto mi son esaltata quando Morgan le ha detto quanto fosse ipocrita e str***a); c’è un altro personaggio femminile a cui ho voluto piuttosto bene, Kate, che ho immediatamente immaginato con le fattezze di Katy Jurado (mentre nel film dedicato è un’attrice incomprensibilmente bionda e con occhio ceruleo. Mah!).
Infine c’è come è scritto questo libro.
Ho letto alcuni commenti in cui l’accento è posto su “come essere lì” ed è proprio così. Alternando la cronaca asciutta ed oggettiva, ma di rara potenza evocativa (quando Gannon cammina verso Blaisedell siamo veramente dentro i suoi stivali stretti) con le pagine del diario di uno dei cittadini di Warlock; in questo modo viviamo l’azione “in diretta” e la sua conclusione in differita.
Ed è perfetto.
Come sono assolutamente perfetti gli “incipit” dei capitoli.
Insomma, ribadisco.
Da leggere. Ora. Subito. Adesso.

(Che pare sia una trilogia e ne hanno tradotto solo uno. Facciamo pressione!)

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    19 Febbraio, 2017
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La vita: un’interminabile successione di piramidi.

Il Faraone Cheope, dinnanzi al suo consiglio ristretto, annuncia che, forse, non si farà costruire nessuna piramide.
Comincia così questo romanzo breve di Ismail Kadare. Autore albanese pluri-candidato al Nobel, di cui io ignoravo colposamente (o dolosamente, forse) l’esistenza, prima che un mio allievo non me ne suggerisse la lettura.
Lo sgomento suscitato dall’annuncio del faraone è enorme. La piramide, con il suo enorme tributo di sangue e denaro è necessaria per la sopravvivenza dell’Egitto. Cheope abbozza qualche tentativo di replica (le cose vanno bene, i raccolti sono abbondanti, non si sono guerre…), ma alla fine si lascia persuadere a costruire “qualcosa di sfibrante, di distruttivo per il corpo e per lo spirito, e di assolutamente inutile.”
Seguiamo il calendario dei lavori e, per poche pagine, tanti personaggi, artigiani, muratori, cavatori di pietre, geometri architetti, funzionari e profanatori di tombe. Qua e là ci viene fornita un po’ di “contabilità” in termini di morti (incidenti sul lavoro pressoché continui), arrestati (mille complotti intorno alla piramide), imprigionati, torturati, uccisi. E si diffonde un certo senso di inquietudine, perché…sì, stiamo parlando della piramide di Cheope, dell’antico Egitto, però ogni tanto il linguaggio si fa moderno.
Molto moderno. Troppo. Contemporaneo quasi.
E infine la piramide è finita. Pronta, conclusa.
Migliaia di Egizi sono morti per costruire una tomba.
Ma sono già dimenticati, perché il tempo passa. Altre piramidi, una sfinge.
La piramide di Cheope ha già qualche segno di usura. Passano i secoli. Ma le piramidi non solo restano, ma si moltiplicano. Qui e là, dove non le aspetteresti.
Compresa quella di Timur lo Zoppo, la più raccapricciante: una piramide di teschi. Ma i teschi non sono pietre squadrate che si allineano e si impilano per bene, quindi, per mantenere la sua piramide, Huleg Kara, l’ingegnoso architetto di Timur pensa di legarli tutti insieme, forandoli e facendo passare attraverso i buchi una sbarra si ferro, e questo dimostra che “il vecchio sogno di collegare tutti i cervelli per mezzo di una sola idea poteva realizzarsi concretamente soltanto attraverso quel ferro che, trapassando i teschi, li univa”.
E se funzionasse anche con le teste?

Suggestivo (proprio in senso etimologico: suggerisce. Senza dire).
Leggerò sicuramente altro.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Febbraio, 2017
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Illusioni Stabili.

L'Arte di Essere Fragili - Alessandro D'Avenia, 2016

L’ho preso male, inutile girarci intorno.
E anche peggio quando mi sono accorta che le sottolineature che ho fatto erano (quasi) tutte citazioni fatte dallo stesso D’Avenia.
Soprattutto l’ho trovato decisamente fanfarone, un po’ ad esaltare Leopardi, un po’ad ammiccare e a dire “guarda che comunque io…”.
Poi ho fatto una bella (?) riflessione personale e mi sono accorta che anch’io ho la tendenza a parlare spesso dei miei studenti e di quello che mi succede a scuola. Esattamente come prima parlavo dei “miei” pazienti. Poco da dire, lavorare con l’umanità è sfiancante, ma riempie la vita (SE è qualcosa che vuoi fare e ti piace. Ho conosciuto logopedisti e insegnanti che avrebbe fatto del bene, a sé stessi e a tutti gli altri, facendo qualsiasi altra cosa), e capisco che si abbia voglia di condividere.
Non di meno il nostro mi ricorda un po’ i neogenitori che magnificano le doti dei loro neofigli (comprensibile) e postano su fb foto di vasini pieni e commenti di giubilanti. Facilitando enormemente il mio obiettivo del contenimento delle “amicizie” in un numero a due cifre.

Dicevo.
Il Lisander che esalta Leopardi e intanto ci racconta di come cura la scrofolosi imponendo le mani, mi ha un tantino stuccato. E le parafrasi, i commenti le “lezioni” su Leopardi mi hanno annoiato. Devo anche ammettere che probabilmente ho un cattivo rapporto con la seconda persona, perché non mi ha convinto neanche in “Stupro, una storia d’amore” della Oates.
Amo Leopardi visceralmente e ammetto anche che non mi piaccia vederlo maneggiare senza guanti di velluto ed abiti curiali. Poi ho pensato che mentre ero al liceo mi sarebbe piaciuto leggere questo libro. Leggerlo mentre leggevo Leopardi per la prima volta.
E così mi sono riletta Leopardi. Le mie amatissime Operette Morali e anche le liriche.
(Le Operette le ho riprese diverse volte negli anni, le poesie… insomma, non è molto il mio genere).
Soprattutto la Ginestra che all’epoca avevo trovato ostica e che invece… caspita!
Diciamo che ha raggiunto Le Ricordanze. Lo Zibaldone è rimasto dov’era, cioè a portata di mano, che ogni tanto aprirlo a caso fa un gran bene. Soprattutto non conoscevo la lettera al padre ed è stata illuminante.
E poi gli altri che il nostro cita.
Eliot, Ungaretti, Brodski (ci imposterò la lezione introduttiva sulla poesia ai bimbi), Grossman (Vasilij, non l’altro) che leggerò quanto prima, perché il pezzo sull’amicizia è bello (e vero) da morire, non quelle menate da adolescenti ;) e sto facendo un pensierino (che probabilmente resterà tale) sul leggere un po’ di poesie.
E insomma non è proprio da buttar via, come risultato.

Penso che non fosse l’obiettivo del nostro professore, ma insomma, qualcosa lo porto a casa.
E un po’ di merito bisogna (pur) attribuirglielo.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Febbraio, 2017
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Ci sono cose peggiori che amarsi.

Voci Dalla Luna – Andre Dubus, 1984

Letta una recensione ispirata non ho avuto pace e ho dovuto prenderlo subito.
Così mi è toccato il cartaceo e pure della biblioteca. Impossibile sottolineare, ne è risultata un’accozzaglia improbabile di post it costellati da punti esclamativi e stelline.
Ho passato l’ora precedente a “sbobinare” tutto quello che avevo “post-ittato” sul libro, trascrivendolo. Non potevo aspettare? No.
E meno male che non l’ho fatto. Sarà che il 2017 è un anno (già si è capito) di letture grandiose, ma Dubus, mai visto, né sentito prima, splende fra le stelle di prima grandezza (con la Yourcenar, Saramago e Dostoevskij, tanto per dire).
Poco più di un centinaio di pagine, una manciata di personaggi, una storia “piccola”: una coppia di mezza età, Greg e Joan, separata da un po’, il padre che vive con il figlio più piccolo, Richie. Altri due figli, grandi, già fuori casa. E proprio di Brenda, la ex moglie del figlio maggiore Larry, si innamora Greg. Che non solo la frequenta, ma vuole sposarla. E andrà a farlo altrove, dal momento che, nello stato in cui vivono, è un reato che l’ex suocero sposi la ex nuora.

“Sarà molto difficile rimanere cattolici a casa nostra.” Commenta Richie, dopo aver assistito, non visto, al colloquio rivelatore fra il padre e il fratello maggiore.
Poche pagine su ogni personaggio. Richie, Greg, Brenda, Larry, Carol (l’altra figlia di Greg) e, infine Joan. Una storia che si dipana in frasi brevi (virgola, punto. Virgola, punto e virgola, punto) che ricordano un po’ Steinbeck, nella forma e nell’asciuttezza, ma che evocano un mondo di sfumature attente e precise, di sensazioni chiare, di riflessioni che a vederle scritte suonano familiari, ma quando le facciamo, probabilmente, non ci soffermiamo abbastanza per coglierle davvero. Andiamo troppo di fretta.
Così, in pochi tocchi e poche pagine, i personaggi appaiono sul palco e il riflettore della scrittura li rivela: i loro punti di forza e di debolezza, Greg che è un’inconsapevole colonna di forza e di energia, Larry che ha un talento che è una maledizione, perché non ha un grammo della forza del padre, Brenda, con il suo occhio lucido e razionale che accetta e si accetta, senza drammi inutili, ma con comprensione infinita, Carol che ama il padre, anche di più da quando ha scoperto che non è il mito che vedevano i suoi occhi di bambina (perché sì, qualche volta può anche essere semplice e non è affatto male) e Richie che ha «imparato a rendere fisica la propria solitudine spirituale e, attraverso il proprio corpo, a farlo in comunione con la neve e i sempreverdi, con gli alberi nudi che gli mostravano il cielo luminoso e con il corpo di una cavalla e la terra che i suoi zoccoli pestavano, l’aria che fendeva e questo bosco e gli scorci di cielo blu e caldo tra le foglie».
E infine c’è Joan, che ha il bellissimo compito di abbracciare con lo sguardo tutti i personaggi, avendo scelto di essere altro da loro e ancora e comunque, parte di tutti. Joan che descrive con precisione chirurgica quello che succede quando un amore finisce e che passa il resto della sua vita a riprendersene. Senza rimpianti e acrimonie. Riprendendosi sé stessa ed accogliendo gli altri.
E chiudo qui.
Da leggere, davvero, da leggere.

(Per dire, tre personaggi femminili e mi son piaciuti tutti e tre. E quello che mi è piaciuto più di tutti è una madre. Si diceva Steinbeck. Giusto a lui era riuscito).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    31 Gennaio, 2017
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...qualcosa resta con noi fino alla fine.

"Temevo i commenti altrui. Passi la vita a preoccuparti di quello che penserà la gente, quando, in realtà, gli altri perlopiù non pensano a niente. Nelle rare occasioni in cui accade, è vero, di solito è qualcosa di brutto, ma almeno bisogna apprezzare che abbiano fatto lo sforzo di pensare."

Non è il libro che ci si potrebbe immaginare pensando all'ultimo viaggio insieme, dopo una vita condivisa, di un'anziana coppia. Non è un libro tenero, quasi mai.
Ella e John sono descritti come sono: due anziani dal corpo e dalla mente in disfacimento. In viaggio, ma quasi in fuga, alle prese con amnesie, malesseri, medicine, dolori e paura.
È un libro che non fa sconti e – per fortuna – non tiene ad essere "politically correct".
Ella, alle prese con le sue sofferenze, si arrabbia con il marito demente.
"Dio come lo odio quando fa così. Si litiga, ci urliamo addosso, e cinque minuti dopo è come se niente fosse. È tutto amore e coccole. Come la metti con uno che si dimentica di essere arrabbiato? Puoi farci qualcosa? Non puoi farci niente. Stai zitta e ti metti il cuore in pace.
Imbecille! ... sapere quel che dovresti fare è una cosa, tutt'altro paio di maniche farlo davvero."
Qualche volta lo prende a male parole. Però è sempre pronta a cogliere i piccoli sprazzi di lucidità che di tanto in tanto la malattia regala a John e a lei stessa. È un libro con molte macchie e patacche sui vestiti, capelli non ravvivati, cibi unti e quant'altro.
Ma quello che salta all'occhio, ed è il filo conduttore del romanzo, è la dignità che dovrebbe essere accordata alle persone e che – in questo caso, ma sempre più spesso – si è costretti a prendersi con la forza e contro tutti. Contro chi ti ama (i figli, in questo caso), contro chi si è arrogato il diritto di dirti non solo come devi vivere, ma anche come devi morire.
Viviamo, purtroppo, in Italia e qui la situazione è anche peggiore.
La morte non si può neppure nominare, figurarsi decidere le condizioni in cui arrivarci, e quant'altro. Perché non sarebbe dignitoso. Non so di quale dignità parlino quelli che si riempiono la bocca delle "non dignitose" scelte altrui e non lo voglio sapere.
Penso che la dignità sia attribuire agli altri il libero arbitrio che desideriamo per noi.
Decidere per sé stessi.
In qualità di esseri umani senzienti.
Mi ritrovo in John che, di fronte all'amico di una vita che si spegne, completamente demente, in una casa di riposo, si procura una pistola.
Ahimè il destino si burlerà delle precauzioni di John e costringerà Ella a fare il lavoro sporco.
Sporco, ma anche giusto. Vero e necessario.
Ed Ella lo fa come un novello Cirano, che, al momento fatale, non omaggia Rossana, ma la sua libertà, il suo pennacchio.
Ella omaggia la sua vita con John e la ripercorre. Senza farsi abbagliare da facili consolazioni, o conversioni finali ["John (…) è perfettamente in grado di collegare l'elettricità. Lo osservo con attenzione, prima o poi potrei doverlo fare io. Se peggiora nel corso del viaggio, toccherà a me. Sempre che io non accolga Gesù come mio salvatore, nel qual caso potrebbe farlo lui."].
La ripercorre con i fantasmi del passato, (amici morti, bambini piccoli), con piccole meteore del presente (i motociclisti tatuati, la giovane coppia con la bambina piccola), con John. Che ogni tanto torna in scena ed altrettanto frequentemente ne sparisce. Però insieme. In qualche modo.
La ripercorre fino a prenderne congedo, quello sì, in modo tenero.
Perché la dignità e la razionalità possono anche essere tenere. Oltre che giuste.

“Lo so che niente dura, ma anche quando ti rendi conto che qualcosa sta per finire, puoi sempre voltarti indietro e prendertene ancora un po' senza che nessuno se ne accorga.”

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    20 Gennaio, 2017
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Uomini, perdonatelo, non sa quello che ha fatto.

Il Vangelo Secondo Gesù – José Saramago, 1991

E allora il Diavolo disse, Bisogna proprio essere dio per amare tanto il sangue.

L’evangelista (apocrifo) Saramago si prende l’indubbio vantaggio sui suoi colleghi di 2000 anni fa di sapere com’è andata a finire (?) la storia. Tratteggia un dio avido, geloso, assetato di sangue e potere. Un dio che – se non altro – non si dà la pena di spacciarsi per quello che non è.
Con una prosa che rifiuta i normali marcatori di dialogo e buona parte della punteggiatura e nella quale – nelle prime pagine – può essere un po’ complesso orientarsi, Saramago ci racconta la storia di Gesù. Quella che conosciamo tutti, in parte. Aggiunge l’incubo che perseguita Giuseppe che ha salvato – dalla strage degli innocenti – suo figlio, ma non gli altri bambini di Betlemme. Incubo che poi sarà ereditato da Gesù, alla morte del padre. Morte per crocifissione, fra l’altro, per aver deciso, quella volta, di fare la cosa giusta. Dopo la morte di Giuseppe, Gesù va via da casa e passa quattro anni con un misterioso Pastore ad accudire un enorme gregge di pecore; pecore che non vengono mai né uccise né vendute.
A questo sterminato gregge Gesù aggiunge una sua pecorella, che ha salvato dall’altare del sacrificio.
Un bel (?) giorno, però, dio decide di manifestarsi al figlio per rivelargli la sua origine e parte del suo glorioso (?) avvenire; per chiedergli, inoltre, di sacrificare la sua pecorella.
Tormentato ed indeciso Gesù lo fa.
“Quando Gesù tornò, Pastore lo guardò fissamente e domandò, La pecora, e lui rispose, Ho incontrato Dio, Non ti ho chiesto se hai incontrato Dio, ti ho domandato se hai trovato la pecora, L’ho sacrificata, Perché, Dio era là, è stato necessario. Con la punta del bastone, Pastore tracciò un segno per terra, profondo come il solco di un aratro, insormontabile come un fossato di fuoco, poi disse, Non hai imparato niente, vattene.”
E poi c’è Maria di Magdala.
E in genere io non amo particolarmente le storie d’amore, ma questa è veramente una bella storia e questa Maria è davvero un bel personaggio; devota, lucida ed appassionata fino all’ultima goccia di sangue.
“Dio aveva detto a Gesù, Da oggi appartieni a me, col sangue, e il Demonio, ammesso che lo fosse, lo aveva spregiato, Non hai imparato niente, vattene, e Maria di Magdala, coi seni imperlati di sudore, i capelli sciolti che paiono fumanti, la bocca turgida, occhi come acqua scura, Non ti legherai di certo a me per ciò che ti ho insegnato, ma resta qui stanotte. E Gesù, sopra di lei, rispose, Ciò che insegni non è prigione, ma libertà.”
Maria di Magdala che sa che per conoscere davvero il disprezzo di dio devi essere donna e che fa una delle dichiarazioni d’amore più semplici e belle che abbia mai sentito (“Benedetto sia chi ti ha messo su questo mondo mentre c’ero ancora io.”), Maria di Magdala che ferma Gesù che vorrebbe resuscitare il fratello Lazzaro, perché nessuno si merita lo strazio di morire per due volte. Maria di Magdala che assiste, dalle rive del lago di Tiberiade, al “triello” fra dio, Gesù e il Diavolo, in cui Gesù vede l’infinita scia di sangue che porterà la sua venuta sull’umanità e il Diavolo cerca di “tentare” dio, invocandone il perdono ed eliminando il male dal mondo.
Invece no.
“Padre, allontana da me questo calice, Che tu lo beva è la condizione per il mio potere e la tua gloria, Non desidero questa gloria, Ma io voglio questo potere.
Allora il Diavolo disse, Bisogna proprio essere dio per amare tanto il sangue.”
Qui la narrazione di Saramago è meravigliosa. Pagine di dialogo serrato, elenco di martiri e morti ed infine la consapevolezza, da parte di Gesù, dell’inutilità di ogni suo tentativo di ribellione.
Forse.
"Non puoi andare contro la volontà di Dio, No, ma è mio dovere tentare."
(E Giuda Iscaiota proverà ad aiutarlo).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    14 Gennaio, 2017
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Un Morrell un po' datato...

Oggetto di una rapida microcondivisa folgorante, un horror scritto bene (è pur sempre il “mio” Morrell), ma decisamente datato e non invecchiato al meglio. Probabilmente leggerlo nel ‘79 avrà cagionato i suoi bei “brividi”, ma quasi quarant’anni dopo molti “colpi di scena” sono davvero prevedibili (e previsti).
Non di meno è Morrell che scrive e quindi sarebbe interessante riuscire a “smontare” la sua scrittura per riuscire a capire come fa a creare, in poche righe, tensione e pathos, ad imbroccare (quasi sempre) i personaggi giusti e ad attaccartisi alla gola e a non mollarti fino alla fine della storia.

Siamo a Potter’s Field, Wyoming (attenzione ai nomi), il capo della polizia, Nathan Slaughter, è alla prese con un autostoppista travolto da un auto ed abbandonato sul bordo della strada.
Un “banale” pirata della strada.
Sembra.
Ma l’autostoppista presenta delle orrende ferite, il medico legale che si occupa della sua autopsia muore di infarto (e forse di paura) e il cadavere sparisce dall’obitorio.
Ed è solo l’inizio.
Morrell moltiplica i punti di vista, e ci porta al finale in un crescendo di paura, funestato solo – appunto – dall’età non tenera del libro.
Al solito l’autore è maestro nel creare tensione, nel ritmo incalzante e nel delineare alcune relazioni e “tipi” umani.
Devo ammettere che la scena del cieco e del suo cane mi ha colpito abbastanza da farmi sobbalzare incontrando i miei gatti durante perigliosa sortita notturna (dal piumone) in cerca di un bicchiere d’acqua.
Il finale, invece, è un po’ troppo frettoloso e lascia qualche “buco” nella trama.
Infine il personaggio femminile – diversamente che in “La Perfezione del Male” – è davvero inutile!
Anyway, probabilmente Morrell creerebbe tensione e incollerebbe alle pagine anche se dovesse narrare del mistero del calzino scomparso in lavatrice (esattamente come il suo amico Stephen King), quindi lettura piacevole, nonostante i difetti.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    10 Gennaio, 2017
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Giuliano, i barbari sono arrivati.

Arriveranno i barbari.
I cristiani trionferanno.
Le tenebre caleranno sul mondo.

Nonostante sia stata una liceale scrupolosa (almeno per quanto concerne alcune materie), il mio primo incontro con l’Imperatore Giuliano è stato all’Università.
Esame di Storia e Storiografia romana (che ricordo singolarmente, dal momento che ogni sezione del programma era connotata da un numero e per stabilire su quale argomento avrebbe interrogato, il docente portava da casa un sacchettino con i gettoni della tombola e l’esaminando doveva estrarre da sé il suo destino. E va be’).
Giuliano, nipote di Costantino (sì, quello dell’editto di Milano), educato da vescovi e precettori esclusivamente cristiani… decide di ripristinare il paganesimo e di “scoraggiare” quanto più possibile il diffondersi di quella che reputa una piaga per l’umanità, l’uomo, la scienza, l’arte e la bellezza etc, cioè il cristianesimo.
Diventa imperatore in modo più o meno fortuito e… ci prova davvero.
E questo non è quello che racconta Gore Vidal.
Questo è ciò che si trova sui libri di storia.
Mentre mi preparavo per l’esame mi domandavo perché non vi fossero libri e film e fumetti e – che so – album di figurine, canzoni, poesie, serie tv su una figura tanto singolare. Storie d’altri tempi, di prima di wikipedia.
Non appena seppi dell’esistenza dell’opera di Gore Vidal mi lanciai ai leggerla e l’amore divampò, come sempre avviene per tutte le cause perse, quando sono proprio perse.
E in questo momento in cui mi diletto con le Memorie di Adriano e converso con me stessa, Marc’Aurelio e lui stesso, ho pensato (complice il “solito” gruppo di lettura) di rileggere il “Giuliano” di Gore Vidal.
L’autore immagina che alla fine della breve parentesi del regno di Giuliano, due amici, Libanio e Prisco, che lo hanno ben conosciuto, decidano di pubblicarne una sorta di biografia/elogio.
Uno dei due possiede copia dei diari e degli appunti dell’imperatore e il carteggio immaginario fra i due amici e le pagine dei commentari di Giuliano costituiscono il libro di Vidal.
Ne emerge un Giuliano bambino e poi adolescente vivace e intelligente, molto annoiato e sensibile.
A cui segue un giovane appassionato di cultura e filosofia, impetuoso e perfino caotico e bohemien, a tratti, che ogni tanto infila le sue lunghe e condivisibilissime (almeno per me) tirate contro i cristiani e il loro culto per la morte e tutti i suoi orpelli più o meno macabri o francamente schifosi.
Molto esilarante a descrizione del giovane principe che passa un pomeriggio intero costretto ad adorare non so quale tibia miracolosa, mentre il vescovo precettore cerca di convincere lui e il fratello a costruire addirittura un “ossario” (ossia una chiesa) per conservare i preziosi resti.
La – documentatissima a quello che sembra – storia di Giuliano raccontata da Vidal, scorre via veloce e senza una sbadiglio, fra i motti dell’imperatore, i battibecchi dei due amici filosofi e il senso di immane tragedia che pervade le pagine che descrivono il mirabile tramonto della grandezza di una civiltà che aveva saputo creare cittadini che per prima cosa erano “romani” (e che poi potevano dedicarsi pure a venerare il dio che preferivano); dove “Roma” non era un “campanile” ma neppure una città, una regione o una nazione, ma un concetto che nasceva sulla pragmatica di strade, terme, acquedotti, mezzi di trasporto e di comunicazione, e su scuole, arte, scienza.
E dove potevi essere imperatore anche se nascevi in Spagna o in Africa o a Costantinopoli, come Giuliano.

Mala tempora currunt.

Prendo congedo con le parole di Prisco (in assoluto il mio personaggio preferito, un acidulo, ironico e bilioso vecchio filosofo).
“Mentre scrivo queste righe, lo stoppino della lampada sfrigola: è arrivato alla fine, e la chiazza di luce in cui siedo si restringe. Fra poco la stanza sarà buia. Abbiamo sempre temuto che la morte fosse così. Ma c'è altro? Con Giuliano la luce si è spenta e dopo di lui non ci resta nulla, solo lasciare che le tenebre avanzino, sperando in un nuovo sole, in un giorno nuovo, nato dal mistero del tempo e dall'amore dell'uomo per la luce.”

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    10 Gennaio, 2017
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Un senso di precarietà randagia.

"…finché una notte ho guardato i miei rispettabili pantaloni pur sempre Woolworth e ho capito che i treni merci non si fermavano più a Rock Camp."
Dodici racconti di uno scrittore che non avevo mai sentito, morto suicida, a 26 anni, nel 1979.
Se non frequentassi assai ben frequentati gruppi di lettura non sarei qui adesso e non avrei potuto leggere la postfazione di Percival Everett, scoperto anche lui di recente (e per fortuna vivo e vegeto, così posso leggere ancora, almeno di lui).
Premessa.
Quando sento parlare di racconti “minimalisti”, a me, viene un po’ l’orticaria.
Un po’ perché non ho simpatia per le “etichette”, in questo caso in particolare, perché mi sono arenata senza nessuna gloria dopo alcune pagine di Carver (certamente per scarsa sensibilità mia e riproverò). Forse era il titolo sbagliato con cui cominciare, però dopo pagine con personaggi anonimi, in cui non succede niente e l’autore non racconta/descrive niente…
Insomma, il mio genere di racconto, per capirsi è “The Duel” di Matheson!
Leggendo Pancake, invece, mi sono davvero appassionata.
È vero che – tecnicamente – succede abbastanza “poco”, ma l’autore ti “caccia” con poche parole dentro una storia, una comunità, un paesaggio; è pur è vero che non hai coordinate, punti di riferimento, e spesso neanche una logica a cui appigliarti, ma vengono raccontati (quasi sempre senza farlo davvero) personaggi e situazioni complessi, in poche pagine, lasciandoti un senso di precarietà randagia che poi è difficile scrollarsi di dosso.

"Sullo scaffale dell’armadio c’è una scatola di vecchie fotografie di remoti parenti dei Gerlock, gente che proviene da un passato talmente lontano che i nomi sono stati dimenticati. Anni prima, gli inverni umidi lo obbligavano a rimanere in casa e lui disponeva in bell’ordine le foto, inventava vite per queste persone, e ne faceva la propria famiglia e storia. Si sentiva parte di ogni viso, di ogni persona, e con l’immaginazione cercava di raggiungere i loro giorni. Adesso sembrano soltanto fotografie, e lui trasporta la scatola al piano di sotto, nel portico."
(…)
"Camminando per il campo, Ottie capisce che la fattoria appartiene a Bus e che lui l’ha bloccata in un tempo dove riesce a vivere ogni giorno. E Ottie li vede insieme per l’ultima volta: un cane che muore e due bambini inutili, fantasmi per sempre, che non possono nemmeno gridare o giocare; anche da morti, combattono per le ossa."
Com’è facile notare, non è agevole recensire questa raccolta.
Ho cercato di lasciarlo fare a Pancake; suggerirei, inoltre, umilmente, di leggere questo autore.
E prendo congedo con una descrizione, che di certo non è minimalista (qualsiasi cosa voglia dire), però vale la pena!

"Nel mattino sbiadito la terra sembrava segnata da cicatrici. Le prime nevi erano già cadute, si erano sciolte e avevano sigillato le colline in una brina pesante che il sole non riusciva ad addolcire. Venti freddi avevano staccato le ultime foglie rimaste sulle querce, avevano lasciato sulle colline una pace grigiobruna che scendeva nella valle da ogni parte."
Ad maiora!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Gennaio, 2017
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Ricordati di Adriano.

Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar, 1951.

“Non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano.”

Ci racconta Erodoto che Re Dario, sovrano dell’impero più esteso del mondo, fino a quel momento, dopo essere stato sconfitto dalla piccola confederazione di polis greche guidata da Atene, ordinasse ad uno schiavo di ripetergli, ogni volta che gli veniva servito il pasto: “O padrone, ricordati degli Ateniesi”.
Io non ho schiavi e son singolarmente poco incline alla riflessione, quando sono affamata, non di meno, voglio anch’io un motto da ripetermi con solerzia, almeno due/tre volte al giorno e anche di più, casomai indulgessi in pensieri del tipo “le mie capacità di giudizio sono indipendenti.”
Il motto è “Accidenti a me e a chi non me lo dice” in sintesi: “Ricordati di Adriano.”
La (lunga) spiegazione a questa bizzarria, in coda alla recensione.

Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar, 1951

“Vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo: non è male che esse si alternino.”
Le Memorie di Adriano è uno dei libri più belli che abbia mai letto.
Uno di quelli scritti meglio. Non riesco ad immaginare – nonostante i preziosi taccuini allegati – come Yourcenar abbia potuto farlo/pensarlo/volerlo/esserlo, forse, alla fine.
Non è una raccolta di motti, di massime filosofiche, di pensieri in cui tuffarsi, dentro uno scafandro, per trovare il bandolo o sondarne le profondità.
No.
È una storia.
La storia di Adriano, raccontata in prima persona. La storia della sua vita, dall’infanzia fino alla morte. È una storia da cui è difficile prendere congedo, un testo (che sia sempre benedetto l’e-reader che ho potuto riempire di note, sottolineature, commenti in modo che un cartaceo non avrebbe mai potuto sopportare) che vorrei trascrivere per paura che i pensieri che ha creato possano venir meno. Da cui – in effetti – fatico a separarmi e non credo che lo farò, alla fine.
Una storia che ti accompagna tanto che ogni tanto ti sorprendi – scioccamente – a chiederti “che cosa penserebbe Adriano?”, bypassando d’un balzo l’autrice e circa duemila anni.
Accompagniamo Adriano prima come studente, poi soldato, imperatore, amante, maturo, vecchio, malato.
Facciamo affidamento sul suo sguardo lucido e schietto, ma mai tagliente. Affettuoso e fiero, ma mai compiaciuto. La grandezza dell’autrice è innanzitutto nella sua capacità di “sparire” dal testo (e infatti faccio un certo sforzo a non scrivere “Adriano pensa/dice/scrive”) e nel condurti per mano attraverso un racconto che ti costringe a interrogarti, domandarti, PENSARE.
Tutti i libri fanno pensare e non solo i libri, per fortuna.
Questo però di costringe un po’ di più a pensare e ad argomentare.
Su di te e in prima persona. E va anche detto che non permette scorciatoie facili e consolatorie.
Però ecco.
Fa stare bene.
Per l’equilibrio che crea e regala al lettore. Per un argomentare che non “sbava”, ma che non diventa mai cinico. E per un’austerità che non diventa mai grettezza (anzi) e una generosità che non diventa “volemose bene”.

“Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più…
Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti.”

Spiegazione (?)
Possiedo questo libro dal 15 marzo del 1994 (come da epigrafe), dono di una preziosa zia, l’anno della maturità. Finivo Germinale ed arrivò lui.
Sperduta al paesello, non potevo essere più lontana dai fasti di Roma Imperiale. Non di meno lo assaggiai.
Ricordo come singolarmente bello – e faticoso – immergersi in quella scrittura “densa”e ricca. Fermarsi ad assaporare le parole. A pensarle.
Poi cominciarono i “complimenti”.
Brava che leggi ‘sto libro, hai proprio voglia di metterti a leggere di filosofia prima di dormire, bello, ma pesante e – in ultimo, il peggiore – ti ammiro, piacerebbe anche a me leggerlo, ma mi mancano le basi.
Ora ‘sta cosa delle basi.
Come tutti gli studenti privilegiati che hanno potuto studiare filosofia alle superiori…( inciso. Io penso che in tutte le superiori si dovrebbe studiare filosofia. Per una marea di ragioni, la più stupida è per imparare ad argomentare e a sostenere una posizione qualunque in modo razionale. La seconda è per acquisire un linguaggio con cui articolare il pensiero. Ci si riesce anche da autodidatti, certo e anche senza filosofia, sicuramente. Però non a quell’età. E acquisirlo a quell’età serve immensamente. Per tutelarsi e per formarsi. Ma diventa troppo lunga…)
Dicevo.
Come tutti gli studenti privilegiati che hanno potuto studiare filosofia alle superiori ho avuto un amore potente e coinvolgente per la filosofia classica.
Perché è la prima, perché è coinvolgente perché – santa pace – SI CAPISCE. Mi sono soverchiamente frantumata le gonadi con la scolastica (tiè, manco la maiuscola ti ci metto), ho avuto un importante ritorno di fiamma per i medievali non baciapile come Abelardo ed Ockham, fino ad Erasmo e poi all’Illuminismo e ai vari Hume e Locke.
Va poi detto che dopo Carl Marx, ho smesso di capire di che cosa parlava la filosofia.
Ricordo lo sconforto mentre studiavo Kant ed Hegel. Non tanto per la complessità, ma proprio per il non capire di che cosa si stava parlando. Mentre studiavo lo schematismo trascendentale, mi ricordo che ho provato a leggere il paragrafo del manuale dall’ultima parola alla prima.
…e ho capito allo stesso modo.
Cioè niente.
E Adriano arrivò più o meno in questo periodo.
E io le basi non le avevo.
E neanche le altezze.
Messo da parte.
All’università di furono altri incontri con la filosofia, in cui me la sono più o meno cavata (anche barando un po’) e pensavo che fosse finita. Mai più mi sarei spaccata la testa con qualcosa che non capivo in modo così viscerale.
Ma come disse forse Talete, l’acqua che non si beve annega.
Non mi ero estasiata traducendo Seneca? Non mi ero inorgoglita della definizione di “Stoica calvinista” che mi affibbiò un professore?
Togliendo i matti forse potevo trovare qualcosa di buono & bello?
Ho tergiversato per anni, perché il trauma delle pagine e pagine lette senza capire di che si parla mi è rimasto vivido (e livido). Finché alla fine, dopo aver ribazzicato un vecchio amore, che era pure un imperatore filosofo, cioè Giuliano l’Apostata, ho deciso di riprendere le Memorie di Adriano.
Senza basi e senza altezze.
Be’.
Accidenti a me e a chi non me lo dice perché non l’ho fatto prima e perché mi son fatta intortare dalle recensioni/commenti che dicono che senza basi non puoi capire, se non hai fatto filosofia non puoi capire, se non hai quarti di romanità o altre scemenze non puoi capire.
Onta e disonore su di me per aver prestato orecchio – a causa del vecchio trauma – a queste scempiaggini.
Come re Dario, voglio qualcuno che, ogni volta che mi glorio per la mia imparzialità di giudizio, mi dica “ricordati di Adriano”.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Dicembre, 2016
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Brutto era brutto, corto era corto.

Bella era bella, morta era morta – Rosa Mogliasso, 2015

Lettura condivisa del mese di novembre e discreta delusione per me.
Avevo in mente di assaggiare questa autrice – quasi mia compaesana, attualmente – ed avevo già in canna alcuni titoli, invece sono partita con questo giallo (?).
Che dire?
Breve è breve e per scorrere scorre. Però è passata una settimana e l’unica cosa positiva che posso dire è che l’irritazione si sia un po’ attenuata.
Ho trovato la storia singolarmente non appassionante, i personaggi stereotipati oltre ogni decenza, la scrittura poco curata, insomma, da dimenticare.
Dunque.
Apriamo con il cadavere di una donna (bella donna, da cui il titolo), abbandonato in un sentiero poco frequentato, accanto al fiume, in un’anonima città del nord Italia. Una serie di personaggi (i nostri protagonisti) lo vedono e per motivi vari non chiamano le autorità come dovrebbero.
Una commessa insopportabile, una coppia di ragazzi (intollerabili, sia lui, piccolo spacciatore, sia lei madonnina infilzata con velleità “ribelli”), il matto del paese, il new ager (pessimo neologismo mio). Dal momento in cui decidono di non segnalare il cadavere, seguiamo, per alcune ore, le loro vite.
Viene in mente “La Congiura degli Innocenti” di Hitchcock? No, manco parente.
La commessa tenta il “salto sociale” con il fidanzato altolocato (e inciampa), la coppietta scoppia, ma per lei che è quella “sana” si apre una rinascita, il matto resta matto e il new ager riesce a liberarsi di una situazione vischiosa e non franiamo nella sconcertante banalità facendolo fidanzare con la ragazza semplicemente perché è gay, bontà sua.
Tutti questi fieri bellimbusti (e bellimbuste), quando non trovano traccia del cadavere che hanno visto, sui giornali del giorno dopo, decidono di tornare sul posto e poi - tardivamente – chiamare le autorità, ma…
Colpo di scena!
Il cadavere non c’è più.
Qualche tempo fa ho letto un libro molto carino che esplora (assai meglio) una tematica non diversa da questa.
Si tratta di “Black Out” di Gianluca Morozzi.
Quello me lo ricordo bene, questo mi sa che avrà un destino diverso.
E meno male.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Dicembre, 2016
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Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis.

Annibale, un viaggio – Paolo Rumiz, 2008

Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis.
(Sai vincere, Annibale, ma non sai sfruttare la vittoria)
Premessa.

Libro approcciato per questioni di “lavoro” cercando di appassionare i virgulti più o meno giovani alla Storia.
Approcciato quasi di malavoglia perché sia alle elementari che alle medie era per Scipione che il mio cuore batteva. Per i Romani in genere e per Scipione in particolare. Ricordo di aver saccheggiato la biblioteca del paesello sulle tracce del mio eroe e di aver scovato un tomo dal poetico titolo “Con le Legioni di Scipione”. Ci ho passato su l’estate della terza elementare, se non ricordo male, la bibliotecaria mi ha pure scritto perché lo restituissi dopo tre rinnovi (giusto per dimostrare che son sempre demente uguale, l’ho appena comprato su ebay, giusto per vedere se lo so ancora a memoria).
Comunque il mio amore per la civiltà Romana è continuato al liceo ed aumentato studiando il latino (allo scientifico), ho amato l’idea di civiltà dei Romani che passava attraverso strade, ponti e acquedotti, attraverso una meravigliosa lingua comune, attraverso la cittadinanza come privilegio, attraverso imperatori di Roma nati in Spagna e in Africa.
Traiano, Settimio Severo… fino all’ultimo grande fuoco di Giuliano.
(E poi ci ha pensato il cristianesimo a mandare tutto in vacca. Ma questa è un’altra storia).
Una civiltà pragmatica, ma che amava l’otium (il tempo libero utilmente impiegato) e detestava il negotium (il dovere che – appunto – negava l’otium).
Alle medie avevamo letto un libello – che ovviamente ho rimosso – su Annibale in Italia, ma adesso che gli ardori di son sopiti, ho pensato di riavvicinarmi al cartaginese e provare a conoscerlo un po’ meglio e non solo come l’avversario di Scipione.
Rumiz fa un gran lavoro, con il suo protagonista. Lo segue da Cartagine, alla Spagna, attraverso le Alpi, lungo la “mia” Val di Susa, sull’Appennino, Trebbia, Trasimeno, Canne, Capua… e poi via, Zama, Turchia…
Annibale si nasconde, ma si rivela sorprendentemente in una quantità spropositata di toponimi, ovunque sia passato, diversamente dall’Africano. Si palesa in un nugolo di personaggi che si sono dedicati a lui e alla sua parabola e che l’autore incontra per fare un pezzo di strada assieme. Si mostra in Livio e Polibio in brevi ritratti, aneddoti, guizzi.
Insomma, la storia la conosciamo tutti, ma letta così fa davvero palpitare e costringe ad inchinarsi all’ingegno del generale e anche alla grandezza di Roma.
Restano impresse la traversata delle Alpi, la Via Emilia e il pantano che era la Pianura Padana, la della carneficina di Canne ("Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l'epifania di una morte sconcia, deturpante.
Una morte "moderna"; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l'epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all'eternità. La battaglia di Cheronea fu un trauma per i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è l'inferno").
Così come restano le descrizioni dei popoli italici dell’appennino, di solito liquidati in poche righe, sui libri di storia.
Ed alla fine persino io mi sono affezionata a questo personaggio sfuggente ed alla fine sfuggito, ma sempre lì, pronto a saltar fuori nel nome di un passo di montagna, di una fonte, di un ponte.
O in città che portano il suo cognome (Barcellona, per dire. Ok, non è certo, ma importa?).
Suicida per la ruffianeria di uno sciocco, non fu più fortunato Scipione, morto in disgrazia e dimenticato.
Ataturk ha fatto costruire un monumento funebre per celebrare il cartaginese.
A Scipione non resta che essere strombazzato (e storpiato) allo stadio quando si suona il tremendo inno nazionale italico (pare che sia suo l’elmo di cui l’italia s’è cinta la testa).

Mi sa che alla fine, essere il mio eroe porta veramente male.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Dicembre, 2016
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Va' dove ti porta il treno.

La Ragazza del Treno – Paula Hawkins, 2015

Si sa che quando sono gli allievi a proporre dei titoli… gli insegnanti leggono, non fosse che per la gioia che provano.
Così ho fatto anch’io.
Che dire?
“La ragazza del treno” è un libro onesto, quasi ignavo da quanto è senza infamia e senza lode.
Parte da uno spunto potenzialmente interessante, cioè le vite degli altri che più o meno regolarmente incrociamo senza sapere nulla di loro e lo allunga decisamente un po’ troppo, a mio parere.
A narrare la vicenda si alternano diverse voci narranti femminili: Rachel, Anna e Megan.
Dal dipanarsi della storia ed “incrociando” i dati (senza grande fatica e richiesta di intuizione, va detto) scopriamo le loro storie, le loro interazioni il loro passato.
La voce “dominante” è quella di Rachel, alcolista, con un divorzio traumatico alle spalle ed aggrappata alle sole pallide vestigia si normalità che è riuscita a non mandare in frantumi.
È un personaggio poco riuscito, secondo me, perché va bene tutto, l’alcol, il dolore, il delirio etc; è anche tenera quando immagina le belle vite delle persone che coglie dal finestrino del treno.
Va bene, però dopo un po’ basta.
Che un personaggio stia a fantasticare per pagine e pagine e pagine e pagine va bene se è Anna dai Capelli Rossi e se abbiamo nove anni. Se è una trentenne e il libro è per un pubblico adulto, anche no.
Oltre alle fantasticherie di Rachel abbiamo l’assoluta superficialità di Anna (che si legge molto poco, per fortuna) e che si concede giusto un timido riscatto finale e la pretestuosità di Megan che viene inserita – a forza – giusto per portare avanti la trama gialla, a mio parere. Poco credibili le storie delle protagoniste e anche meno i personaggi di contorno.
Per quanto concerne la trama gialla…
Be’, diciamo che nessuna delle tre protagoniste ha brillato di particolare acume.
Per carità, so che spesso non si conoscono proprio le persone che sono più vicine, però qui i segni di squilibrio si vedevano tutti e i “cattivi” non erano affatto geni del male!
Di positivo c’è una scrittura scorrevole che – al di là della pochezza della trama – non tedia il lettore e porta a compimento il suo obiettivo in tempi relativamente brevi (fantasticherie di Rachel a parte).
Da leggere la mattina presto, in un treno o in un tram affollato di pendolari, magari aggrappate ad una precaria maniglia. O alla sera, in condizioni analoghe e un po’ sbadiglianti.
Non fa male, ma neppure lascia nulla dietro di sé.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Dicembre, 2016
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Un uomo buono va alla guerra

Romanzo che si candida ad essere una delle mie letture migliori del 2016.
Evocativo, appassionante e, in un certo senso, “classico”, (molta Antigone in questa storia).
Storia di John Hunt, cowboy di mezza età nel maestoso e solitario Wyoming. Scorbutico, disincantato, profondamente ironico e…nero.
[LIEVE SPOILER
Chi mi ha suggerito questo libro, mi ha detto di un enorme “colpo di scena nelle prime pagine”… arrivata alla 70° senza traccia del medesimo chiedo lumi.
“Ma come! John Hunt è nero! Avresti mai pensato ad un cowboy nero?”
Ovviamente mentre ancora parlava a me è apparso Woody Strode (Cavalcarono Insieme, L’uomo che Uccise Liberty Valance, C’era una volta il West…) e quindi per me il colore della pelle di John Hunt non è stato affatto un “colpo di scena”; l’effetto “Il momento di uccidere” non l’ho avuto, ma ciò non ha inficiato per niente la bellezza di questo romanzo].
Jonh è vedovo (con più di un senso di colpa per la morte della moglie) e vive con un vecchio zio, Gus. Alleva cavalli, ma in realtà è più un etologo, vista la profonda conoscenza che ha degli animali e del loro comportamento. Ha un giovane lavorante, Wallace Castelbury, che, dopo poche settimane che è al suo servizio, viene accusato dell’orribile omicidio, a sfondo sessuale, di un giovane gay.
Il lavorante di John, un tipo semplice e piuttosto sprovveduto, appare subito estraneo al delitto, confesserà addirittura di essere stato innamorato della vittima. Non di meno la sua posizione si fa così critica che il ragazzo si suicida.
Gli eventi precipitano velocemente e John e Gus assistono al riemergere e al riacutizzasi di tensioni mai sopite: sessuali, razziali, sociali in una comunità che – tutto sommato – dimostra comunque un certo sensibile nucleo di umanità.
Perché questo romanzo è così bello?
Per come è scritto e per come sono i protagonisti. Perché è “western” in un certo senso.
Facile, con un tema così “spesso” scivolare nel politically correct, nel sentimentalismo o, peggio, nel machismo da giustiziere della notte.
Invece no.
C’è una presa di posizione molto forte e precisa dei protagonisti contro la violenza insensata (ovvero quasi tutta) che li porta tuttavia al dilemma di essere loro stessi violenti. A violare leggi umane per rispettarne, forse, di superiori (o inferiori, chissà).
Antigone, si diceva.
Ma non c’è machismo, non c’è politically correct, non c’è un filo di retorica.
Ma umanità a palate e non sempre bella, anzi, quasi mai. Ma qualche volta sì.
E il tutto è sorretto da una scrittura mirabile che si snoda passo passo e pagina dopo pagina in modo così asciutto e pulito da far pensare un po’ a Steinbeck (e sapete che io non pronuncio mai questo nome invano). E pure molto a Morrell (neppure questo). E c’è una natura incomparabile e tremenda che non resta sullo sfondo. E ci sono cavalli spaventati, cani fedeli e cuccioli di coyote a tre zampe.
E uomini buoni che vanno alla guerra.

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Steinbeck, Morrell, McCarthy, Elmore Leonard...
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    20 Novembre, 2016
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L'Ufficio delle Vite Perdute.

Esiste un ufficio delle vite perdute?

Convinta da un paio di recensioni folgoranti mi sono lanciata su questo romanzo giallo piena di aspettative. Che non sono andate deluse.
Va detto che il mio rapporto con il genere è ambiguo.
O meglio. Mi piacciono i gialli, ma non mi piacciono la maggior parte dei gialli che leggo; a mio avviso semplici pretesti per narrarci le gesta di “detective” belli & dannati/fatti & strafatti/tormentati & tormentanti, denunciare turpi realtà, ammannire ricette, metterci una bella (?) scena talamica, descrivere paesaggi e dialetti della nostra bella italia (e non solo) et similia.
Tutte cose carine, graziose e lecite, per carità.
Ma perché SEMPRE il pretesto del giallo che poi la gonza ci crede e si aspetta gli indizi, l’indagine, la trama che si dipana e poi ci rimane male?

Qui abbiamo un giallo ambientato a Giverny, Normandia, il buen retiro di Claude Monet.
Uno stimato medico del posto, appassionato di arte ed impenitente dongiovanni, viene ucciso brutalmente, a pochi metri dallo stagno delle ninfee.
Indaga il fascinoso (e a tratti un po’ troppo convinto del suddetto fascino) ispettore Laurenç Sérénac, occitano, finito in Normandia – pare – per mettere abbastanza chilometri fra sé e la sua famiglia. Al suo fianco l’immancabile ligio gregario, Sylvio Bénavides.
La storia viene narrata attraverso gli occhi di tre personaggi: una scorbutica vecchia signora (“La portinaia del paese. Un riccio senza eleganza”), una maestra bellissima ed inquieta ed una bambina piena di talento (ovviamente per la pittura).
Non sembra uno dei succitati stucchevoli cliché dei suddetti finti gialli?
Per dire Laurenç c’ha pure il giubbotto di pelle e gira in moto e diciamo che fa qualcosa più di un pensiero poco casto sulla maestra che, da parte sua, non sembra schifata dalla cosa.
Invece no.
Va detto che come giallo non è completamente “onesto”, ma ha quello che ai miei occhi è un merito straordinario: che ad un certo punto hai l’impressione di aver capito tutto (e ti senti anche intelligente per questo, ma sbuffi annoiato "un ecco lo sapevo!").
E Invece no.
Ma proprio no.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Novembre, 2016
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La vita non è giusta

Una - apparente - fiaba sul "vero amore" che viaggia su piani diversi.
L’autore la racconta, immaginando di riadattare una storia che gli venne letta dal padre quando aveva dieci anni ed era costretto a letto da una polmonite. L’adattamento è fatto ad uso del figlio che, ricevuto in dono per il decimo compleanno lo stesso libro, si arena al secondo capitolo. Goldman ci racconta in che modo “adatta” il testo di tal Morgerstern (che in realtà non esiste, ci tiene a precisare wikipedia), cosa contengono le parti omesse, inserisce spezzoni della lettura del padre, commenta, torna indietro, riprende…
Insomma metalettura e metanarrazione (o metà quello che volete). La storia funziona e, come dicevo, è apparentemente una fiaba sul “vero amore” che tanto per cambiare trionfa sempre. Ma anche no. O almeno solo apparentemente. Perché con una buona dose di umorismo bello ebraico, l’autore mette molto e molto di più, in scena. Spesso in modo dimesso (e folgorante) c’è cattiveria pura (e non dai personaggi da cui l’aspetteresti – tipo la protagonista bella&buona, ma non solo e non sempre), ironia, satira, disperazione, paura, amicizia e lealtà, ma anche meschinità e tradimento. In parecchi punti ridi, sorridi e qualche volta ti commuovi anche.
E soprattutto scopri (o ti ricordi) chi diavolo sia Inigo Montoya. Forse la parte che mi è piaciuta di più è la sua amicizia con il gigante turco Fezzik. Entrambi soli, spaventati, pieni di talenti e fondamentalmente incapaci.
«Non hai capito nulla, ma non importa visto che quello che in realtà significa è che sei contento di vedermi quanto io sono contento di vederti perché così non siamo più soli.»
Ma pure Buttercup che sì è bella e amorosa, ma ignorante come un tacco di scarpa, pragmatica, attaccata alla vita e disposta a lasciarsi dietro “una scia di cadaveri” e non è male neppure il principe cattivo e a guardar bene neppure Westley (aperta parentesi. Fra il duello fra l’Uomo in Nero e Vizzini e Westley stesso… ho idea che Moffat tenesse questo libro sul comodino quando pensava a Sherlock. Chiusa parentesi).
In conclusione la fiaba è assolutamente godibile, ma c’è molto molto di più in questa storia.
Soprattutto c’è che la vita non è giusta «che lo sia lo diciamo ai nostri figli, ed è una cosa terribile: non solo è una bugia, ma una bugia crudele. La vita non è giusta, non lo è mai stata e non lo sarà mai (…) è appena un filino più decente della morte, tutto qui.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Settembre, 2016
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Senza Filtro.

L’Estate del Cane Bambino – Mario Pistacchio, Laura Toffanello, 2014

Affine alle atmosfere di “The Body” di King (da cui il film – altrettanto bello – Stand by Me), ma con un retrogusto diverso e particolare.
Difficile da spiegare, ma…
Ogni tanto mi piace leggere nella stessa lingua in cui è pensata un’opera. Non per sminuire il lavoro dei traduttori, ci mancherebbe, ma proprio per vivere un’esperienza “senza filtro”.
Questo romanzo si è prestato particolarmente bene, perché complice l’adolescenza dei protagonisti, l’ambientazione in un piccolo paesino alle porte di Venezia (e qui ci sta anche un minimo di autobiografismo, ammettiamolo), i temi e gli eventi che trovano facili appigli nelle esperienze di ognuno, il sapore schietto e sincero me lo sono proprio gustato alla grande.
Senza filtro, appunto.
La storia racconta l’ultima estate spensierata di un gruppo di ragazzini di Brondolo. Scuola finita, piccole incombenze (compiti, lavori nei campi, fratellini rompiscatole a cui badare) e smania di avventure, di cose nuove, di storie paurose e della fantasia che trasforma uno spiazzo sassoso e cinque bambini con un pallone scalcagnato nello stadio di San Siro, nell’Inter di Mariolino – Mandrake – Corso con tanto di telecronaca di Sandro Ciotti.
Alle spalle di Vittorio, Michele, Ercole, Stalino e Menego le loro famiglie e il paese.
Una piccola comunità apparentemente tranquilla, dove ognuno ha un soprannome e una lunga storia di famiglia, ma – come sempre – anche qualcosa di non detto. O che non si può dire.
Diffidenze, ostilità, sottili ipocrisie.
Fino a che la vita non sterza, e bruscamente.
Un bambino scompare. Si tratta di Narciso, il fratellino rompiscatole e spione di Ercole.
Nello stesso momento appare un cane, Huodini.
La vita sterza, si diceva. E con essa sterzano i “cattivi” e anche i “buoni”.
La famiglia e la comunità si sfaldano e – inaspettatamente – si rompe anche il gruppo dei (ormai nostri) ragazzini; per usare un termine caro al King della Torre Nera, si spezza il ka-tet.
Solo molti anni dopo un foglio a quadretti riporta a casa chi era andato via e prova – in parte – a sistemare le cose.
Ma più di questo, ciò che mi è rimasto nel cuore, è stato il compleanno di Staino, il nonno Cestilio e Ercole. A San Servolo, da solo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    20 Settembre, 2016
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Claustrofobico? No, troppo facile.

Blackout – Gianluca Morozzi, 2004.

Dire “claustrofobico” è decisamente troppo facile, dal momento che si tratta di un thriller quasi interamente ambientato in un ascensore. Molto molto “meno” della classica “camera chiusa”.
Tre personaggi principali, alcuni comprimari, piccoli interludi per cercare di riprendere fiato (giusto per piombare in un orrore in differita) e la triade di protagoniste assolute: Bologna, Afa e Domenica di Ferragosto.
Una buona idea di fondo regge la storia del mio (quasi) coetaneo Gianluca Morozzi – che ovviamente non spoilero – e permette una lettura rapida ed appassionante (anche se – maledizione! – il triplice dettaglio del transit, a me un po’ m’aveva messo sull’avviso, ma fa niente, temo che sia l’eccessiva frequentazione con loschi figuri tipo S. Moffat).
Qualche piccola perplessità sulla caratterizzazione di alcuni personaggi (Ferro, secondo me, è molto “abbozzato” e Wilmo e Walter li ho trovati un po’ “appesi lì” funzionali, ma non troppo funzionati, nella storia), mentre mi è piaciuto Tomas e una grossa sorpresa e piacevole inquietudine intorno alla figura di Claudia.
E poi dominante, aleggiante, stagnante su tutto, il terribile caldo di Bologna a Ferragosto, che si insinua ovunque, soffoca e rallenta i protagonisti – prima – per poi portarne fuori gli istinti peggiori (ma anche salvarli).
Quindi, una prova buona ed intelligente, forse da “raffinare”un pochino; dal mio punto di vista – perdonatemi – una vera boccata d’aria in un certo tipo di italica letteratura ove imperversano eterni detective/magistrati, che figheggiano, spignattano, si dannano e soprattutto si tormentano (ma lavorare ad un caso degno di questo nome? No, vero?).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    13 Settembre, 2016
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Il codardo abbandona sempre sè stesso

John Grady Cole, il cugino Rawlins e per un po' il piccolo e disperato Blevins viaggiano dal Texas al Messico. Metà del secolo scorso.
A cavallo.
Da soli.
Hanno dai 13 ai 17 anni.
In compagnia dei cavalli, numi tutelari del libro e del non-focolare dei ragazzi.
Succederanno loro molto cose che McCarthy descriverà con prova asciutta e pulita a tratti puntigliosa (unica sbavatura nel pre-finale la preparazione del viaggio con il capitano messicano, ma potrebbe essere colpa della traduzione).

Da buon western, pochi dialoghi, ma in assoluto fra le parti migliori, e grandi "vecchi" in particolare la Zia e il giudice finale. Non è facile descrivere la malia di questo libro, quindi lascerò la parola all'autore per qualche assaggio.
Il primo è una descrizione, si trova a pagina 82 (ed. ET Einaudi, 1996), asciutta e visiva come poche:
"Blevins, in mutande, sul grande baio e inseguito dappresso da una muta di cani ringhiosi, esplose in strada attraverso una pioggia di schegge sfondando un recinto di ocotillo."
Il secondo è un pezzo del monologo della Zia (pag 235), che ha il merito di dare la (mia) definizione esatta di coraggio:
"Molto prima dell'alba compresi che stavo cercando di mettere a fuoco una cosa che sapevo da sempre, ossia che il coraggio è una forma di costanza e che per prima cosa il codardo abbandona sempre sé stesso."
Il terzo è un frammento del passo d'addio di John Grady Cole e Rawlins (pag 297)
- Penso che me ne andrò via
- Questo è ancora un buon posto per viverci
- Sì, lo so. Ma non è il mio.
Epico.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Settembre, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

"Sembravano versi d'amore"

Lettura condivisa (e pure proposta da me) a cui mi sono avvicinata con una certa apprensione.
Adoro il film “scimmiottato” (anzi “cinghialato”) nel titolo ed ero a metà fra la curiosità e il timore della “lesa maestà”. Un paio di recensioni ispirate mi hanno fatto superare i timori.
E meno male.
Il libro è particolare, a tratti verboso, denso di citazioni. E se ti riempi di orgoglio quando ne cogli qualcuna, hai altrettanto netta la percezione delle molteplici che ti sfuggono (però a quella di Tekkaman mi son commossa, lo devo confessare, tanto che la riporto:
“A Durante, d’istinto, era venuto di fare sì con la testa. Poi la corazza di inadeguatezza gli s’era vestita addosso, lamiera e filo spinato e scariche elettriche come l’armatura di Tekkaman.” L’altra che mi ha fatto gioire è quella in cui – velatamente – irride Pascoli, la “grande proletaria” che si è mossa, e i suoi rapporti ambigui, ma soprassiedo, va’).
Il progetto dell’autore è ambizioso: linguistico, letterario, filosofico, etico.
Viene narrata la vita di un immaginario – ma piuttosto realistico – borgo fra Toscana e Umbria.
La vita della comunità degli esseri umani – poco di nuovo sotto il sole – amori, tradimenti, fughe, truffe, inganni, suicidi, vizi, motti e lazzi e quella della comunità dei cinghiali.
Uno di essi in particolare, Appenbohr, per motivi che ignoriamo riceve in dono… come dirlo? La conoscenza? La consapevolezza?
Il fatto è che il cinghiale diventa improvvisamente consapevole di sé e degli altri.
Della bellezza. Della musica. Dell’amore. Della morte. Della memoria.
E – sono le parti più struggenti – della necessità di trovare un linguaggio per esprimere – prima a sé stesso e poi agli altri – quello che adesso sente e vive e di cercare una condivisione con gli altri compagni del branco.
Appenbohr scopre la musica, L’uomo che uccise Liberty Valance, l’amore (cioè l’essere “quasi-te”) e la morte. E cerca di comunicarla agli altri rvrrn (cioè “cinghiali” nella lingua che l’autore immagina che parlino i cinghiali, con tanto di glossario e capitolo in “lingua”). Queste pagine riecheggiano un po’ Faulkner (L’urlo e il Furore), un po’ il Peter Fortune di McEwan e un po’ Fiori per Algernoon di Keyes, pagine in cui, attraverso il linguaggio, si descrive il linguaggio, la mente, la conoscenza e la consapevolezza.
È un’operazione ardita, se mai ve ne furono.
Però mi ha convinto.
Il resto della storia “umana” conta personaggi che restano nel cuore: da Raniero Vannuccini che manda a stendere prima il Duce, dalla gremita e festante piazza del paese (con un memorabile: “A ’mme nun mi ci contare!” Pausa. “Coglione!”...» ) e poi il papa – in persona – sollevando condivisibili perplessità sulla sua “lucidità di giudizio”:
(« “Santità” (…) Voi credete che un òmo nato da madre vergine è morto appeso a una croce e dopo tre giorni è risuscitato in carne e ossa... ... capirète se non mi fido proprio proprio della Vostra lucidità di giudizio”...»), a Durante Salvani che ha in sé tutta la dolcezza e la rabbia di un Arturo Bandini adolescente (quello della Strada per Los Angeles, il “re dei granchi” che ricorda anche Albinati; eccolo qui: “Eccheccàzzo, tutti geni, in questo stramaledettissimo, noiosissimo, merdosissimo, inutile paesino del cazzo che nemmeno il cristomorto potrebbe redimerlo, si limiterebbe ad appoggiare la croce ai muriccioli, ficcherebbe la corona di spine nel rettangolo truciolato del braccio orizzontale, poi via, la scesa esterna verso le Fonti: e ancora, fino alla provinciale, prenderebbe giù giù, al bivio, per l’Arlecchino, e «vaffanculo a voi, a Corsignano, a tutti ’sti geni e alle stracazzo di pustole che m’hanno rovinato la faccia, vaffanculo»— ché nelle sue derive cristologico-kazantzakisiane la sagoma di Durante lui si sostituiva alla figura vagamente defoeforme che appoggiava la croce ai muriccioli: e si trasformava nell’archetipo dolorante di un diciassettenne sovrappeso che santiàva contro Corsignano e le sue manchevolezze. Ché poi le manchevolezze non erano di Corsignano; o non soltanto. Erano le sue, soprattutto. Per questo poi – dopo aver augurato alle persone più care e vicine la morte per affogamento, tisi, paralisi, sfiancamento del miocardio, consunzione da cancro ematico, schioppo, impalamento, dilatazione e devastazione sanguinolenta (e reiterata) dello sfintere, lebbra, pellagra, gotta fulminante, sindrome di Matusalemme con rigurgito e via e via in tourettismo funzionale – Durante veniva preso da un senso di colpa da competizione che lo avviliva, letteralmente; lo abbatteva per ore. Mostrandogli a maggior ragione la pochezza del suo essere in vita a fronte della schiumante bellezza dei giorni di tutti gli altri”).
E poi c’è l’Antonia che, piantata dal fidanzato la mattina del matrimonio, ricava tende e centrini dal suo abito da sposa, Alvaro (e la sua alvarità) ed Adriano, l’unico, alla fine, che allaccia un sottilissimo legame con il mondo dei “cinghiali sapienti” che, tuttavia, sono destinati a venir meno con la morte di Appenborh.
[“Llhjoo-wrahh (la “cinghiala” compagna di Appenborh) grida quello che non sa; come fanno tutti i mhrhttrhrsh del pianeta: quando s’incontrano loro malgrado con il dolore, e con la morte. E con l’irreale, inaccettabile verità di essere finiti. Che almeno non lo diméntichi, grida Llhjoo-wrahh controvento: sta già patteggiando il futuro che non possiede con chiunque – bestia o mhrhttrhrsh – possa esaudirla. Che almeno non dimentichi Apperbohr, grugnisce, ma il grido si riempie di nuovo dolore, perché Apperbohr, ormai, è poco più di un nome. E presto, lei lo sa, Llhjoo-wrahh lo sta gridando al mondo perché qualcuno, qualcosa lo aiuti a restare, non c’è tempo, non c’è più tempo, il nome di Apperbohr diventa parte del grido, e del grugnito e presto, troppo presto, nemmeno più quello.
Adriano allarga le braccia, come se non riuscisse a trovare le parole. Come se le parole per spiegare a sua moglie Bruna, dopo cinquant’anni di matrimonio, dopo due figlie; dopo le fughe in Guzzi e i funerali degli amici, le corse al Nardile di quand’erano ragazzi, e la notte in cui il vecchio Antonio morì— Come se le parole per spiegarle quello che aveva davvero provato sentendo quel grido, in realtà, non esistessero. «E la cignàla sgrufolava, faceva aghéin, aghéin... ... E’ sembravano versi d’amore».]

Come si nota anche dagli estratti, le lingue usate da Meacci sono tre: italiano, “cinghialese” e toscano (trascritto con tutti i suoi fastidiosissimi – al mio orecchio – raddoppiamenti fonosintattici icche e così via). Allo stesso modo ci sono pezzi teatrali, tragedie greche (!), accenni di giallo e gotico. È un’opera estremamente “parlata” ricorda l’arte di Massimo Troisi, cambiando solo il dialetto. Si tratta di una parola ribadita, ricercata, analizzata, scelta, messa lì, sempre con un motivo e (quasi) sempre con un rimando ad altro.
Quando il gioco riesce, l’effetto è davvero sorprendente e particolare.
Quando stenta (e devo ammettere che i primi capitoli – fino a quello dell’Antonia – ero un po’ perplessa) suona un po’ verboso.
Comunque son contenta di aver letto questo romanzo.
Devo confessare che alcuni autori italici, fra indagini finte e seriali e ricette, mi avevano un po’ allontanato dal piacere di leggere nella mia lingua madre. Be’ adesso sto leggendo Albinati e Fois.
Un po’ di merito a Meacci – che mi ha restituito fiducia – devo riconoscerlo.
Prendo congedo con un pezzo che forse è quello che ho amato di più.
Parla Appenbohr (di musica e memoria e morte).
“Se solo potesse richiamarli in vita per un momento, tutti loro, forse, grazie al ragazzo, riuscirebbe a fargli capire quello che ha sentito lui. Ché vivere senza poterlo spiegare alle ossa e alle pelli dure e ai peli e alla carne della tua vita non è uguale, manca la condivisione, e la gratitudine, e l’abbraccio agitato che Apperbohr cerca in ogni wrgckhee: alle volte, come in questo momento, riesce difficile anche a lui trovare la parola giusta, alle volte gli sembra che qualcuno abbia cambiato le etichette delle parole. Alle volte gli sembra che esistano parole giuste dai significati sbagliati (la parola è significati) — e che è vero anche il contrario. (…) Tutti i rvrrn passati, e anonimi, che hanno corso i boschi tra Budo, e Corsignano, e Torracchio, e Taverne di San Biagio, quando ancora non esistevano i nomi per chiamarli, e tutto era Bosco, e ancora gli Alti sulle Zampe non sapevano dare nomi, confondevano anche loro le etichette delle parole come le confonde ora Apperbohr, adesso che la magia è finita e che le lacrime continuano a scendere, il loro nome orribile per testimoniare una cosa così bella— pensa maledizione, Apperbohr: e per la prima volta ne coglie il senso con tutta la forza che quel senso prevede.” (…) Apperbohr ha capito che quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare: e se al dio delle parole non va bene allora che si perda, che mi perda, grugnisce Apperbohr, ora che mi ha lasciato qui, da solo; e non riesco a convincere Chraww-nisst a svegliarsi.”

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    06 Settembre, 2016
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"Quale prossima volta? (ah-ah)"

Lieve Spoiler.

E alla fine Roland alla Torre Nera giunse.
Settimo (oppure ottavo se consideriamo La Leggenda del Vento, inserito a posteriori da King fra il quarto e il quinto volume) e ultimo capitolo.
Mi sono accostata con il consueto misto di aspettative (come andrà a finire?), timori (perderò qualcuno di amato? Cosa farò “dopo”?) e angosce (non mi manderà tutto in malora all’ultimo libro, vero?).
King ci fa soffrire (molto), inventa un altro buon numero di personaggi geniali, mette su carta idee strepitose e scrive – forse – l’unico finale possibile (?).
Joe Collins, Irene Tassenbaum, i Frangitori, Patrick Danville. Mordred.
La "fine” di Walter e del Re Rosso.
Jake e Roland che vanno a salvare Stephen King.
Stephen King che ricambia il favore con un post-it contro il vampiro psichico che permette a Susannah di salvare Roland dalla più risibile morte che un pistolero può fare.
Un bambino che disegna la realtà. Letteralmente.
Una Torre che alla fine è qualcosa più che familiare.
E con un Roland che – se possibile, e sembrerebbe di no – ne esce più solo e disperato di quando è entrato.
E un piccolo (ma piccolo) palpito di speranza finale.
Non so dire di più senza spoilerare ulteriormente.

Fra l’altro King questo finale non lo voleva scrivere. O meglio, non voleva farcelo leggere. In effetti aveva messo insieme una sorta di “happy end” per gli altri personaggi e aveva lasciato il pistolero ai piedi della Torre dicendo “va bene, per me finisce qui… se proprio vuoi gira pagina per il finale.”
Tutte le riflessioni sui finali di King sono buone e giuste:
“I finali sono senza cuore.
Un finale è una porta chiusa che nessun uomo può aprire.
Io ne ho scritti molti, ma soprattutto solo per la stessa ragione per cui la mattina prima di uscire dalla camera da letto, mi infilo i calzoni: perché è il costume del paese. (…)
Quella cosa che chiamiamo lieto fine non esiste.
Non ne ho mai trovato uno che fosse alla pari di «c’era una volta».
I finali sono senza cuore.
Finale è solo un sinonimo di addio.”

Tutto vero, buono e giusto, ma io non ci ho neppure pensato a non leggerlo.
So che questo finale ha “spaccato” i fans, io sono del gruppo che lo ha apprezzato.
E molto.
Non solo per il finale in sé, ma perché mette a posto anche quelle due o tre note stonate di Roland che ancora non mi suonavano nonostante il lungo flashback della Sfera del Buio.
Adesso sì.
Ora suona proprio bene, il pistolero.
Non c’è Conan Doyle, non è Sherlock Holmes, non siamo in pieno positivismo, d’accordo. Ma c’è una logica, una coerenza, una speranza.
Davvero un’esperienza grandiosa.

[PS Le note sono sette, i sentimenti umani una manciata etc etc.
Però. Ultima stagione di Doctor Who, 11° episodio – Heaven Sent (Mandato dal Cielo) – forse che il buon Moffat un occhio alla Torre lo aveva per caso buttato?
Per altro ha fatto pure bene, mica è un caso che il Dodicesimo sia il mio Dottore preferito].

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    06 Settembre, 2016
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Nel paese della memoria il tempo è sempre ora.

Devo dire che fino a questo libro non avevo particolarmente amato Susannah. Come accennavo nei Lupi, complici la figaggine, la bravura subita ed immediata in tutto e qualche stucchevole vezzo linguistico (peggiorato dalla traduzione italiana).
È vero che aver creato una pistolera senza gambe, costretta a muoversi su una sedia a rotelle era stato un colpo niente male, ma il personaggio era un po’ “né carne né pesce” secondo me (oltre al fatto che si sposava con Eddie e questa era dura da digerire).
Sapendo che qui avremmo avuto persino Susannah madre, avevo foschissime aspettative. Ma è King.
Nel libro che poteva essere il trionfo dello stucco e del politically correct (?) ti fa amare un personaggio forte che finalmente si caratterizza. Un personaggio in perenne conflitto con sé stesso e non solo a causa delle altre “anime” che vivono in lei, ma forte e razionale e – soprattutto – allergico a raccontarsi storie.
“Già da bambina raramente era stata tanto felice come quando fingeva di essere qualcun altro. La qual cosa probabilmente spiega tutto quello che vale la pena di sapere su di te, dolcezza, pensò.”
Quindi Susannah, alle prese con una Mia ben più pericolosa di Detta, madre nel modo più bizzarro che si possa immaginare si afferma e conferma pistolera.
Un istante dopo aver partorito, spara al figlio.

Ahimè riesce solo a staccargli una zampa.
E ci avviamo al finale.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    31 Agosto, 2016
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Strade per ogni dove.

La prima riga di questo libro è una citazione da I Magnifici Sette (“Mister, noi trattiamo il piombo.”), abbiamo poi la nostra amata Shirley Jackson, Harry Potter (!) e nientepopodimenoche John Steinbeck e Sherlock Holmes.
Ottime premesse, almeno per me.
Dopo i due libri “decameron” un altro western, questa volta in tempo reale e non in flashback. Una piccola comunità chiede aiuto al ka-tet di Roland per essere dispensata da antico quanto sanguinario tributo.
I Magnifici Sette, si diceva, (il Minotauro etc etc…).
Troviamo una vecchia conoscenza Kinghiana: niente meno che Padre Callahan, direttamente dalle Notti di Salem.
Il prete, per qualche motivo, è in possesso di un oggetto molto pericoloso, ma estremamente utile alla complicata missione del gruppo del pistolero.
Missione resa ancora più difficile dalla gravidanza di Susannah, che – come avevamo intuito – tutto è, ma non “normale”.
Non voglio raccontare di più perché la storia è da leggere e se King si prende 600 pagine per raccontarla, un motivo c’è.
[E per inciso, per i lamentosi, che il libro è troppo lungo e i “Lupi” arrivano solo alla fine… Ma che fretta avete? Dovete prendere il treno? Se riuscite a togliere una pagina senza perdere qualcosa di bello, provateci.
Tanti auguri.]
In questo libro non abbiamo “solo” la storia dei Lupi, della comunità del Calla e di Padre Callahan, ma abbiamo tutti i personaggi del ka-tet che evolvono e in un certo senso cambiano.
Nessuno escluso.
A partire da Roland che scopre che il suo tempo è – ulteriormente – contato, riscopre il piacere di essere l’uomo di una donna e – forse – ha qualcosa più di un’intuizione del futuro che li attende. Susannah deve fare i conti con una nuova Detta, ma ben più pericolosa (e le parti in cui Mia/Susannah va a nutrirsi… son spettacolari). Devo ammettere che fin qui non ho nutrito un grande affetto per Susannah; temo che sia una questione linguistica, forse aggravata dalla traduzione, ma quel suo vezzo di aggiungere “zuccherino” e “dolcezza” in qualunque frase, a chiunque la rivolgesse mi ha indisposto non poco.
Qui invece, e ancor più nel libro successivo, senza zuccherini e dolcezze si è fatta apprezzare. E molto. Ma ne riparliamo.
Jake impara ad affinare il suo “tocco” ed affronta una gioia adolescenziale ed un enorme dolore che lo lascia molto indurito.
Eddie – un po’ in ombra, forse, o sarà che mi piace tanto e lo vorrei di più? – rimane sempre l’anima narrante ed osservante del gruppo, ma trova un inaspettato specchio in padre Callahan.
E infine cambia il gruppo stesso, che deve fare i conti con la paura, le bugie, il tempo che scorre in modo irrazionale…
Al solito King è uomo di intuizioni geniali, di quei piccoli “scarti” della realtà in cui apre brecce e crea mondi, magari con l’aiuto di un piatto affilato lanciato a dovere.
Al termine del sesto libro è venuta (un po’) meno la sorpresa e lo stordimento emotivo che avevano caratterizzato la Chiamata e le Terre Desolate. Ma solo perché quasi si comincia a farci l’abitudine. Sua Maestà tiene botta egregiamente e per me i Lupi stanno nel gruppetto dei preferiti.

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