Opinione scritta da Bruno Izzo
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Lectio magistralis
Amare è un verbo che si declina in tutti i modi, in tutti i tempi, con tutti i generi.
Letteralmente ed in ogni senso, non solo in relazione alle regole della grammatica: l’amore nasce, cresce e volge al termine con tutte le declinazioni possibili e immaginabili.
Niente di nuovo sotto il sole, comunque, l’Amore è storia antica, ne hanno già delineate il suo essere ed il suo divenire, e in linee di condotta precise, redatte con cura, i grandi saggi dell’antichità classica: Orazio, Ovidio, per esempio, o Gaio Valerio Catullo, l’autore del celebre “Odi et amo”.
Ti odio e ti amo: di questo scriverà Catullo, prima amerà la sua Claudia, per trent’anni, con gli alti e bassi di un amore totale, fisico e spirituale, poi finirà per partire disperato, e con il cuore definitivamente infranto, per la Bitinia, come dire per la Legione straniera dei tempi suoi.
Per dire, l’amore è storia antica, ieri come oggi sempre attuale, splendida, ammaliante.
“L’antico amore”, l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni, è una lectio magistralis, una deliziosa, incantevole ed elegante dissertazione sul sentimento principe dell’esistenza di tutti noi, descrive alla perfezione quella struggente sensazione di affetto intenso basato sull'attrazione, l’innamoramento, e conseguente intenso desiderio di unione fisica ed affettiva verso un’altra persona.
Un libro diverso da quelli con il quale l’autore ha raggiunto la meritata notorietà, si dirà allora, ma questo, a mio parere, non corrisponde esattamente al vero.
Maurizio de Giovanni non è uno scrittore di genere, è uno scrittore. Un signor scrittore.
Ci presenta qui una storia davvero bella, antica e sempre nuova, resa anche molto bene, un racconto che inizia in sordina, accelera gradualmente, termina rapido in modo sorprendente, spiazzante.
Un romanzo intelligente, originale, interessante. Una gran bella prova d’autore.
Un romanzo che talora ci confonde, perché passa da un’epoca all’altra, da un personaggio all’altro, a capitoli alterni, fin quando all’improvviso manco te ne accorgi, spinge sull’acceleratore del congruo verificarsi di tante ipotesi e coincidenze, ti travolge in un turbine con la malia del suo raccontare.
Il lettore comprende appieno allora che l’autore sta parlando del sentimento che predilige, quello di cui ha già dato prova di sé nei suoi lavori precedenti, sempre ne ha descritto con cognizione di causa.
Sia che narrasse della magia lirica e poetica, intensa e toccante, instauratasi tra due dei suoi personaggi in un lungo e silenzioso interagire soltanto attraverso i vetri di due finestre contigue; oppure della commovente ed incredibile grazia e delicatezza con il quale un rude e brutale agente di polizia si prenderà cura, innamorandosi perdutamente, di una piccola neonata abbandonata tra i rifiuti, o ancora con quanta comune amorevolezza, premura e affettività una seria e stimata professionista, una analista dei servizi segreti, ormai avanti negli anni, si spenderà per la salvezza un bimbo innocente, come una qualsiasi nonnina d’altri tempi. Maurizio de Giovanni sa perfettamente di cosa parla, la sua sensibilità di uomo e di artista gli suggerisce quanto sia omnicomprensivo il termine Amore, che non è solo una parola. Perché è un sentimento che, sotto diverse spoglie, si ripete uguale per tutti, la sua essenza non ne raddoppia l’importanza, la triplica. Perciò il suo romanzo non è un unico racconto, si snoda attraverso tre storie, antiche e sempre nuove: quella del poeta dell’età antica, Catullo che abbiamo citato, poi quella di un gentile vecchio signore, ormai molto avanti con gli anni da potersi definire anche egli antico, in apparenza un po' confuso con la testa, assistito dalla sua fedele badante, e infine quella di un maturo professore, un accademico dei classici, prigioniero di una famiglia costruita quasi per caso e certamente senza amore, e che amore ritrova nella suggestiva e tenera malia con una sua giovanissima studentessa.
Lo scrittore qui parla solo di amore, lo stesso che alberga in ogni cuore, in ogni persona, in ogni tempo. Naturalmente, non solo di quello tra uomo e donna, abbiamo visto come con la stessa maestria ha già descritto nei suoi pregressi lavori vari modi di essere dell’amore.
Quello tra padre e figlia, per esempio, reso magistralmente nell’immagine del vecchio signore gentile, in apparenza un po' confuso con la testa, che con il capo lievemente inclinato di lato e un mezzo sorriso sulla faccia contempla quello che per lui è lo spettacolo più bello del mondo, il volto della propria figlia, che quotidianamente, al termine del lavoro, passa a salutarlo prima di riaffidarlo alle cure della fedele badante straniera, ed è un’immagine di una bellezza stupefacente.
Amore che si estrinseca all’esterno in un solo modo: con gli occhi.
Gli occhi adoranti del poeta antico, Catullo, che altro non erano che gli occhi di un ragazzo innamorato della sua Claudia, che per quell’amore era stato indicibilmente felice e indicibilmente infelice. Gli stessi occhi del maturo professore universitario, divenuti rossi e febbrili consumatosi nello studio accurato e approfondito dei pochi versi residui dell’antico poeta, catturati dalla visione di una sua allieva. Gli stessi occhi bellissimi di quella giovanissima studentessa, altrimenti insignificante, dalla voce bassa e profonda e dai capelli tagliati senza gusto, innamorata persa di un uomo più grande, sposato e con figli, il suo docente.
Perché l’Amore è un sentimento che unisce due persone. Due. Non una. Ma si fa in tre.
Si snoda attraverso un percorso di appartenenza, non si possiede il soggetto del proprio amore, gli si appartiene. E nell’appartenersi, sprigiona energia, innesca all’improvviso temporali, che fanno paura, certo, con i fulmini, i tuoni, il fragore, ma è lo stesso un fenomeno meraviglioso, l’amore questo è, il ricordo dolce di una tempesta. Non è il sole, non è un’immagine sdolcinata di cieli azzurri e passeri in volo, l’amore non è felicità: è un motivo. L’unico essenziale per sentirsi vivo.
Il finale del romanzo è struggente, spiazzante, eppure terribilmente logico. Direi naturale.
Dell’amore non serve dire neanche il nome.
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Il brutto anatroccolo
Il giornalista Domenico Cigno, protagonista del romanzo “La fame del cigno”, a firma dello scrittore casertano Luca Mercadante, è tutt’altro che persona gradevole, come lo sono ben altri eroi di carta, davvero difficile definirlo fisicamente piacevole e attraente. Ha compiuto il percorso inverso del brutto anatroccolo della fiaba famosa di Andersen, che da palmipede piccolo e sgraziato si ritrova, nella maturità, uccello flessuoso, elegante, aggraziato, neanche si riconosce mirandosi in uno specchio d’acqua. Il nostro Domenico, al contrario, in gioventù è stato davvero un cigno, o almeno un ragazzo normale, con un qualche talento per lo sport, era uno sportivo, una sicura promessa del pugilato, con fisico adeguato al ruolo e una castagna niente male. Nella maturità, persi per strada i sogni di gloria tirando pugni, è diventato giornalista di successo, un segugio investigativo di razza, tutti i media si disputavano la sua firma e l’ esclusiva dei suoi servizi. Poi qualcosa gli è successo, nella vita oltre che nello sport una valanga di cazzotti deve averlo tramortito, ha iniziato gradualmente ad azzuffarsi di brutto con il proprio peso, anche senza guantoni, avendo la peggio, e ad aver sempre più fame, cosa che per un atleta è quanto di più deleterio gli possa accadere. Da cigno, passa a diventare brutto anatroccolo, peggio ancora, un’oca all’ingrasso. Tuttora lo devasta, non più giovanotto ma pur ancora giovane cinquantenne, una grave bulimia ingravescente, il mezzo con cui palesa in tutta la sua bruttezza il proprio disagio esistenziale. Per capirci meglio, Domenico Cigno una normale pizza margherita la piega “a fazzoletto”, ma non per degustarla come l’omonimo “street food” napoletano, ma per versarsela direttamente in gola in maniera rapida e, chiaramente, nevrastenica, da fuori di testa. Questo non è più un disturbo alimentare, è l’urlo d’orrore di un’anima devastata. La sua non è fame di solo cibo, è autodistruzione metodica a base esponenziale.
“La fame del Cigno” è un ottimo lavoro, una lettura avvincente, un libro interessante.
Anche originale, diverso dai soliti gialli investigativi, vario e variegato, un racconto che è più un’analisi sociale di un certo territorio e del degrado ivi esistente, che un noir vero e proprio. Davvero un ottimo libro, da leggere, da gustarsi con calma, specialmente per chi non conosce la location dove è ambientata la storia, un racconto acuto, profondo e interessante, scorre in maniera rapida ed essenziale. Non un noir fine a se stesso, con delitto, investigazione e soluzione dell’arcano, per quanto il mistero sia pregevole e stimolante, tutto il costrutto induce invece a riflettere e a osservare con occhio diverso quanto troppo spesso fingiamo di non vedere. Per esempio, neanche ce lo chiediamo, cosa fanno, come vivono, quanto è disgraziata e miserabile la loro esistenza, intendiamo quella di nugoli di ragazzine nere scollacciate e succintamente vestite in qualsiasi stagione dell’anno, distanziate pochi metri l’uno dall’altra, prostituite a forza e in eterna attesa d'infiniti clienti ai margini di una strada di grande scorrimento nella periferia suburbana. Un testo analitico, curato nello sviluppo della trama fin nei particolari, una storia originale, fuori del comune, che mette insieme delinquenza organizzata d'infimo livello, razzismo, violenze, fatti d'immigrazione clandestina, volte in particolare a rifornire di materia prima i racket della prostituzione, florida attività criminale a danno di intere popolazioni dell'Africa. Giovani africane rapite, schiavizzate e brutalizzate, costrette a vendersi per strada, senza voler far cenno poi ad altre pratiche bestiali di dominazione di genere in uso presso quei popoli come l’infibulazione. Cosa possa succedere nella testa di una ragazza che subisce tutto questo non possiamo neanche immaginarlo. Il tutto che avviene realmente, e non nella fantasia dell’autore, in una zona ben precisa, quella di Castelvolturno in provincia di Caserta, e gli immediati e fangosi dintorni del gran fiume campano. Qui, pur essendo bianco, vive anche Domenico Cigno, che sconta a caro prezzo, e su se stesso, il proprio fallito tentativo di emanciparsi dalla nefasta influenza del genitore, sfidandolo e cimentandosi nel pugilato anziché nelle arti marziali di cui il padre è un esperto maestro. Da qui lo scherno paterno, perché esistono genitori così, che non ti toccano mai con un dito, nessuna violenza o coercizione, e però lasciano trasparire ogni giorno quanto rimpiangano con tutto il cuore non il momento in cui ti hanno messo al mondo, fanno di peggio, rimpiangono di averti riconosciuto, e fanno dell’assenza nella tua vita di bambino sensibile, di ragazzo delicato, di giovane atleta, l’unico modo per sopportarti. Ti rendono un mendicante in cerca di affetto, di amore, di stima, d’approvazione, che non gli viene mai riconosciuta. Forse a qualcuno questo non sembrerà poi tutto questo grande inferno, al punto da trasformare un cigno in una balena spropositata. Ma bisogna rendersi conto che l’inferno è fatto a gironi, a ciascuno il suo. Evidentemente quello di pertinenza di Domenico Cigno è il terzo cerchio, dove il buon Dante aveva posto i golosi perché subissero la giusta punizione, custoditi da un papà Cerbero. Domenico Cigno capirà a sue spese, rischiando la pelle in prima persona, che se vuole riuscire a rivedere le stelle, a salvarsi, deve farlo da solo.
A fatica, con dolore, a digiuno: e in ogni caso, senza alcuna garanzia, non è detto che troverà la luce in fondo al tunnel. Magari però uno specchio d’acqua sì, dove un brutto anatroccolo potrebbe riconoscersi cigno, chissà.
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Cose che capitano nelle migliori famiglie
Cesare Annunziata, protagonista di questo romanzo, è personaggio già noto a molti lettori, fin dal suo esordio nel fortunato” La tentazione di essere felici”, titolo che, oramai un decennio or sono, riscosse un lusinghiero gradimento di pubblico e di critica, contribuendo alla meritata notorietà dello scrittore napoletano Lorenzo Marone. Annunziata è il prototipo di un vegliardo burbero, scontroso e asociale, e tale è rimasto come dal suo primo apparire, però a modo suo sempre energico, deciso, capace; sa farsi valere, ci riusciva dieci anni prima, tuttora se la sgama alla grande. Però gli anni passano per chiunque, oggi sono aumentati ancora, e naturalmente pesano di più, come per chiunque. Nuove considerazioni gli affollano la mente. Annunziata non è mai stato tipo da piangersi addosso, o compatirsi in solitudine. Certo, resta burbero, e stizzoso: il motivo del suo perenne e critico malcontento che lo contraddistingue non è il rimpianto senile dei bei tempi andati, il ricordo dei tempi felici e spensierati quando era giovane e gagliardo, questo che normalmente vale per tutti, non è il suo caso. Ancora più anziano rispetto ai suoi esordi, vive i suoi giorni al meglio che riesce a trarne, rimuginando i momenti clou, i ricordi, i fatti essenziali del suo vissuto. L’input a tali flash mnemonici di riepilogo della sua vita passata glieli fornisce la sua regolare quotidianità: rapporti con i vicini, telefonate con i figli, questioni condominiali, e via discorrendo. Il suo umore però è più irrequieto, è cambiato, è maturato, quello che lo rode non è tanto considerare che la linea, il grafico che sintetizza l’andamento della sua esistenza, da lui stesso prettamente improntata a un certo pragmatismo di quieto vivere, sia negli affetti che nella professione, viri verso un saldo positivo o negativo che sia, quindi come di regola comune. No, affatto, gli dà noia accorgersi che l’indicatore non si direziona affatto con punta aguzza decisamente verso l’alto o il basso. Ne risulta invece una linea piatta, l’ECG tipico di un de cuius prima del tempo, senza scosse, senza sussulti, nemmeno color nero inchiostro ben marcato. Piuttosto un segmento tracciato lieve, in corsivo, tendente al grigio sfocato. La cosa gli scoccia assai: Cesare Annunziata è giunto alla ferale conclusione che non ha vissuto i propri anni con proba consapevolezza, e neanche con incoscienza, come nelle sue intenzioni; invece, si è fatto scorrere addosso l’esistenza come sabbia tra le dita, senza soddisfazione. Ecco, è questo che lo disturba: non è che ha vissuto la vita come capita, l’ha vissuta SOLO come A VOLTE capita.
Perché il più delle volte, quello che gli è capitato non è mai stato di suo gradimento, così nel matrimonio, e nella famiglia, in amore, nel lavoro e nella sua interazione sociale. Lorenzo Marone in questo è stato magistrale: non ha rievocato il suo Cesare alla soglia degli ottanta anni, stanco, depresso e deluso, assolutamente, lo ha rivisitato, è andato a fargli visita per accorgersi, con soddisfazione e malcelato orgoglio, che il buon vecchietto ama la vita come nessuno, come sempre ha fatto, a differenza di quanto tutto lascia supporre agli occhi degli stessi familiari. Cesare Annunziata è pervenuto su uno step qualitativo più elevato, così il libro e così il suo autore, che ne ha fatto persona nuova ma sempre uguale, un vino già ottimo di per sé che invecchiato diventa ancora più pregiato. Non era né facile e nemmeno scontato, ma Lorenzo Marone ci è riuscito per bene, con solerzia, dedizione, accurata rifinitura del suo lavoro. Cesare è sempre lui, gli scoccia che i figli finiscono di essere figli, che diventano a loro volta genitori e si defilano. Gli sembra davvero di pessimo gusto che finiscano le famiglie, e gli amori. Finanche quelli sbagliati. Tutte riflessioni che rimugina in pieno agosto, a Napoli, quartiere Vomero, durante una delle estati più calde e bollenti degli ultimi anni, la città si è svuotata per le vacanze, persino Dio è in ferie. Così la figlia di Cesare, divisa dal marito, si presenta al padre: illustrandogli un classico dei tempi, cose che capitano nelle migliori famiglie. Capita che il figlio trascorra l’estate con il proprio padre, ex genero di Cesare, la figlia altrove con il suo nuovo compagno, e il cane di famiglia, che per giunta neanche si chiama Fido, Boby, Fuffi o cose simili come si conviene a un rispettabile pet, ma rechi l’inconcepibile nome di Batman, un eroico e valoroso supereroe, a onta del suo essere innocuo e desideroso solo di compiacere gli umani in cambio di affettuosi grattini, debba venire parcheggiato dal buon Cesare a mo’ di pensione per cani, per il tempo necessario alla durata delle meritate ferie della prole. Annunziate non si tira indietro. Perché è cambiato, ora senza se e senza ma è una di quelle persone che ha imparato che a chi si vuol bene, si vuole bene e basta, senza spazio per torti o ragioni. Che a chi ti chiede aiuto, l’aiuto si dà, non capita a tutti di capirlo, ma a lui è capitato, forse suo malgrado, ha compreso in pieno che spesso soccorrendo, soccorri anche te stesso. Non c’è scusa, vale per tutti, neanche si è esentati per anzianità di servizio. Lo sapeva anche prima in verità, ma il suo cambiamento consiste proprio nel consolidarsi di questo pensiero, si intestardisce a credere nei miracoli, a cercare qualcosa di nuovo, ha voglia d'imparare ancora, porta a passeggio Batman, e sta attento a quanto capita. Perché la vita semplicemente a volte capita, e non bisogna farsela scappare. A costo di occuparsi, in mancanza di meglio, di un ulivo in pianta, che si porta a spasso in giro insieme a Batman, Cesare lo fa perché ha bisogno d'interessarsi agli altri, di prendersi cura degli altri, altrimenti si muore, ma si muore davvero della più tragica delle sorti, quella per malinconia. Gli è capitato di capire, dopo una vita, che le cose, qualunque siano, ci debbono stare a cuore, fregarsene rende tutti sconfitti. Questo vale per un ulivo, figuriamoci se non si industria per una giovane donna di cui intuisce il doloroso tormento interiore che la strugge; interviene allora, si mette in gioco a rischio di farsi venire un infarto, con la scusa di non impicciarsi e di farsi i fatti propri il mondo va alla rovina. Cesare Annunziata sarà pure vecchio, misantropo, eccentrico, anche asociale: dopotutto è una persona come tanti, con pregi e difetti, ma più di ogni altra cosa, è un essere umano, e tutto ciò che è umano gli appartiene. La vita a volte capita, se riesci ad aiutare qualcuno, se il tuo piccolo passaggio terreno cambia per sempre quello di un altro, allora la tua vita ha avuto un senso, la tua vita è capitata bene. A volte capita, più spesso di quanto immaginiamo, quasi sempre però manco ce ne accorgiamo. Capita anche questo, purtroppo.
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Cadute, traumi, contusioni
Come è noto, questo è il romanzo vincitore del prestigioso Premio Strega 2024. Chapeau, nulla da eccepire, si tratta in effetti di una lettura piacevole.
Una discreta prova di una autrice che ha già avuto modo in precedenza, con i suoi lavori, di farsi apprezzare da molti, sia in termini di critica che di vendite.
Un testo scritto con uno stile tutto suo, inconfondibile, leggibile in breve, mai i suoi libri contano troppe pagine. Una scrittura essenziale, un linguaggio asciutto, preciso. Donatella Di Pietrantonio va subito al dunque, magari anche in modo spiccio, forse eccessivamente sintetico, qualcuno direbbe una prosa scabra, però efficace, e anche efficiente per il suo voler dire. Tuttavia, a mio modesto parere, il premio più che a questo libro in sé, è stato dato, come dire, alla carriera, al complesso dei suoi elaborati e non specificamente a “L’età fragile”. Un premio meritato sì, ma alla scrittrice, al complesso della sua produzione. “L’età fragile”, in sé e per sé, non mi convince in pieno; per esempio “ L’Arminuta”, colei che ritorna, la riportata a forza, partita e rimandata indietro quasi fosse un campione deteriorato, che è il suo testo forse più noto e di buon successo, e a ragione, mi piacque tantissimo, molto di più dell’ “Età fragile”, era veramente un piccolo gioiello. Una storia di abbandono, molto incisiva, commovente ma terribilmente reale, raccontava un ritorno coatto che però si tramutava in una occasione, una opportunità di riscoperta delle proprie radici, e di un affetto unico, quello che solo una sorella può darti. Anche il sequel di questo, “Borgo sud”, mi è parso di una spanna superiore all’”Età fragile”, e dire che è appunto una continuazione, e si sa, la puntata successiva, l’opera seconda, non riesce mai bene come quello che lo ha preceduto, sarà perché il lettore si aspetta inconsciamente il “già visto”, il rischio di deluderlo è alto. Insomma, finanche i più datati “Mia madre è un fiume”, storia di una anziana che si perde nella nebbia dei suoi ricordi che svaniscono e di una figlia che se ne prende cura aiutandola a ricostruirli, o “Bella mia”, un testo attualissimo, non tanto perché ambientato all’epoca del terremoto all’ Aquila, ma per il tema, quella della maternità per interposta persona, mi sono apparsi, come dire, superiori. Di molto superiori. Intendiamoci, la penna è la sua, pregevole; però a mio parere, “L’età fragile” è appunto fragile, si ferma in superficie, non incrina la linea piatta delle acque, si limite alla trasparenza anziché tuffarsi per esplorare, e descrivere, al meglio i fondali. Che pure sembrerebbero meritevoli di più accurata osservazione: per me, non è la sua opera meglio riuscita. Detto questo, Donatella Di Pietrantonio prende spunto per questo suo ultimo da un tragico episodio di cronaca nera realmente avvenuto sulle pendici boscose della Maiella anni fa. Vittime, povere ragazze, giovani turiste, un femminicidio commesso a scopo di libidine da un individuo in cui erano incappate del tutto casualmente. L’assassinio, un giovane slavo, era un pastore confinato in estrema solitudine nell’assolvere il suo miserabile servizio, davvero in assoluto isolamento, mal retribuito e in condizioni miserevoli, uno schiavo, letteralmente, che l’esistenza di stenti e privazioni aveva desensibilizzato di ogni umanità regredendolo ancor di più alla condizione di bestia selvaggia. Ancora più bestia erano da etichettare però coloro che, persone cosiddette “civili”, avevano pensato bene, tra l’altro, di provvedere certosinamente ai propri meschini interessi, e cioè di armare la bestia perché meglio custodisse le greggi affidategli, infischiandosene delle conseguenze, salvo poi negare ogni responsabilità, scaricando tutte le colpe su quel disgraziato, ancora più colpevole perché un bruto, un diverso, una bestia selvatica, giustappunto. Ecco, tutto questo è preso a pretesto, sullo sfondo agisce il vero protagonista di questo romanzo, la terra natale della scrittrice, l’Abruzzo, il luogo vero protagonista, il personaggio principe e ambivalente, il solo che ha una grande età ma non è per niente fragile, reso a perfezione, e con orgoglio, nei suoi due aspetti precipui: la durezza e la magnificenza. Questa la location, e il pretesto narrativo: poi il romanzo è una storia di famiglia, un rapporto madre figlia. La madre, Lucia, che quel tragico evento che abbiamo detto lo ha vissuto, e la figlia Amanda che, tra un lockdown da covid e accidenti vari, ritorna alla casa natale abbandonando improvvisamente gli studi, e si rinchiude in se stessa, oltre che nella sua camera. In ambedue i casi è una storia di dolori, di cadute, di traumi, ma così è la vita, né più né meno, è quanto succede a tutti, a tanti, a molti, quello che differenzia gli uni dagli altri è il modo come reagisci al dolore, ti rialzi dalla caduta, ricomponi i traumi. Quello che non ti uccide, non è detto che necessariamente ti rafforzi: ma certamente ti insegna che, se vuoi vivere, sarai pure fragile per età o per altro, ma devi darti una mossa, in qualche modo, devi raccogliere almeno i cocci più grandi, e ricostruire un manufatto più o meno funzionante, almeno alla meno peggio. Qualcuno ci riesce, spesso più di uno, e talora davvero bene proprio quelli insospettabili, creduti meno capaci, che al momento utile sanno tirare fuori tutto quello che hanno, capacità volitive ignote finanche a se stessi, e bene o male ce la fanno. Perché è così che si fa, siamo tutti fragili, e forti a un tempo, se solo lo vogliamo. Il che significa che possiamo farcela tutti, a volerlo. Serve però…parlarne.
Ecco, è questo che non funziona. È un romanzo di silenzi, d'interruzione delle comunicazioni, quelle tra madre e figlia protagoniste, ma anche tra coppie, tra amici, tra le vittime di eventi tragici. Un libro che dice, non a parole, con i silenzi, troppi però. I vuoti silenzi non sono utili a indurci alla riflessione, resta un distacco tra libro e lettore, le emozioni ci sono, ma appena accennate, in superficie.
Così però non ti coinvolgono, non evolvi, resti fragile, a prescindere dall’età.
Libro compreso.
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A conti fatti
Maurizio De Giovanni con “Volver” torna a incantare i lettori con il suo inconfondibile stile di novelliere, con penna agile, snella, potente e intensa, variabile secondo i fatti. La sua è scrittura inconfondibile, unica, tanto semplice e raffinata, intima ed elegante, comica e appassionata, deliziosa per ogni sentimento, azione e considerazione che descrive. Ci offre ogni volta un prodotto che sembra identico ai precedenti, un format consolidato e consueto, ma invece è sempre nuovo, lo rinnova e lo ricicla, non lo modifica mai nei caratteri essenziali. Ci invita invece all’osservazione di nuovi profili, ci incanta con storie sempre diverse e dai finali sorprendenti e imprevedibili. Come è noto ai lettori che lo seguono da anni con fedeltà e passione, e sono tantissimi, fidatevi, il particolare che meglio caratterizza l’agire di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario di polizia in servizio presso la Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista, è il “fatto”. Il giovane è provvisto, suo malgrado, di una spiccata sensitività e percettività, tali che avverte distintamente, e lui solo, un’aura, una luminescenza, lo spirito degli ultimi momenti di vita delle vittime di atti violenti, siano queste accidentali o compiute per mano criminale. In più, recependo distintamente, anche qui solo lui tra tanti che gli sono d’intorno, le ultime parole pronunciate dalla disgraziata vittima, l’ultimo pensiero non sconnesso prima dell’esito fatale. Come sempre accade quando si è destinatario di simili poteri non richiesti, non è un dono, ma una maledizione, di cui avrebbe volentieri fatto a meno, e che almeno agli inizi lo ha fatto più volte dubitare della propria sanità mentale. Tutta l’esistenza del giovane commissario ne è stata influenzata, nel bene e nel male, nel lavoro e negli affetti, fin dal suo primo manifestarsi quando era appena un bimbetto di pochi anni. Ricciardi se ne è fatta, durante il trascorrere di anni angoscianti, laceranti e dolorosi, se non una ragione, almeno una tolleranza, a conti fatti, con il “fatto” viene a una specie di tregua, di accondiscendenza, di paziente per quanto dolente sopportazione. Ad accettarlo no, è una pena a cui non si abituerà mai, non sarebbe umanamente possibile; tuttavia, anche con le inevitabili difficoltà e i tormenti che un simile “fatto” comporta, Ricciardi non può volgere lo sguardo da un’altra parte, non può ignorare la stortura che come un film ininterrotto si snoda continuamente davanti ai suoi occhi, non gli è possibile passare oltre, deve raddrizzare la scena, ricostruire quanto successo perché la vittima in qualche modo ritrovi la propria pace incrinata con violenza, riceva giustizia, e il suo spettro gradualmente affievolirsi. Luigi Alfredo Ricciardi è quello che diremmo un eroe positivo, ma non un uomo eccezionale; è persona buona, aperta, disponibile, comprende come pochi le difficoltà, i giri tortuosi e maligni, e le spirali in cui spesso, troppo spesso, l’animo umano finisce per involversi per i motivi eterni, sempre gli stessi, della fame, della miseria, e poi per il motore più potente di tutti, l’Amore. L’Amore che è un “fatto”, quello sì, assurdo, per cui si vive, si sopravvive, ci si salva, e ci si ammazza. Ricciardi in “Volver” è al termine di un cammino che, iniziato all’alba del giorno dopo il dolore più grande della sua vita, si snoda attraverso un trio di titoli, prima “Caminito”, poi “Soledad” e infine in questo il cui titolo significa ritornare. L’ormai ex commissario ha dato una svolta alle sue abitudini e alla sua esistenza, ha lasciato Napoli per trasferirsi nei suoi possedimenti nel Cilento, il suo è un viaggio a ritroso, anche nel tempo, se vogliamo, un ritorno che lo riporta alle sue origini, si sveste dei panni di poliziotto, indossa quelli che erano già del suo papà, di ricco nobile dell’epoca, agiato possidente di beni e poderi, un gentiluomo di campagna. Il ritornare, il “Volver”, è decisione forse sofferta, e però resasi indispensabile dallo sconcio dei tempi: prima l’abominio delle leggi razziali, poi l’entrata in guerra dell’Italia, il fascismo dilagante con le sue violenze e le sue efferatezze. Ed è un “Volver” alla grande, sono ritornati tutti, sono qui tutti presenti, come in un grande affresco su uno sfondo rurale, i soliti protagonisti di questa azzeccata e deliziosa saga di De Giovanni, tutti insieme appassionatamente: dal Brigadiere Raffaele Maione, che in combutta con l’ umanissimo Bambinella, il “femminiello” arguto, comico, brioso e divertente, si industria a modo suo per salvare la pelle al dottor Bruno Modo, tanto valente come medico competente ed empatico, quanto romantico e impacciato oppositore al regime, militante nelle file dell’antifascismo dalla prima ora. Poi le donne: certo, il suo cuore batte esclusivamente per l’eternità per l’incantevole Ernica Colombo; tuttavia, è sempre nei sogni e nei pensieri dell’ex cantante e diva del regime Livia Lucani vedova Vezzi, ora riciclatasi come Laura, affascinante cantante delle melodie argentine. Nonché la nobildonna Bianca Borgati dei Marchesi di Zisa, contessa Palmieri di Roccaspina, che ha allevato come, più e meglio di una figlia propria la piccola Marta, la deliziosa figlioletta di Ricciardi. Poi i Vaglio, le donne colonne portanti e reggenti dell’immensa tenuta cilentana, zia Rosa e l’ineffabile nipote Nelide seguita da presso da Scuotto Gaetano detto Tonino o’ Sarracino, il suo spasimante, splendido e bellissimo giovane, martire e tribolante, perso dietro il suo incredibile amore per una donna di cui tutto si può dire, tranne che è bella e aggraziata. Ancora, i suoceri di Ricciardi, Giulio Colombo e la moglie Maria, fanno la loro comparsa finanche gli scomparsi genitori di Luigi Alfredo, Marta e Giovanni. E tutta la varia umanità napoletana, sempre presente nei suoi libri, De Giovanni non dimentica mai di citare la sua città e i suoi abitanti, il popolo verace dei vicoli e dei quartieri, sofferente e tribolante per le folle decisioni di Mussolini. Insieme a loro, altri personaggi nuovi, altrettanto intriganti e funzionali alla storia. L’ex commissario si imbatte in quello che oggi diremmo un cold case, un omicidio avvenuto proprio nei luoghi dove bimbetto ebbe diretta rivelazione per la prima volta della sua ambigua e sconcertante capacità. Luigi Alfredo non vuole ombre sul suo passato, inizia a indagare, incontra perciò strada facendo Teodoro Angrisani, maniscalco, fedele fittavolo, preciso e puntuale nei pagamenti, dedito al lavoro e ai figli; la sua sventurata madre Annina, massacrata di botte dal marito per motivi di onore e presunto adulterio, l’ex medico amico di famiglia Pasquale Persico, la maestra Giovanna, l’incredibile vecchissima zia Filomena, sordomuta, che in splendida sintonia comunicativa, si intrattiene in lunghi, logorroici racconti con la piccola, ineffabile Marta. “Volver” è un ritorno all’antico, Luigi Alfredo Ricciardi torna da dove era partito, perché vedete, fa parte di quei personaggi talmente riusciti, di tanta felice intuizione, che oramai vivono di luce propria, non si fanno più raccontare, raccontano loro in prima persona. Perché quello che li muove, è l’Amore: l’amore di chi li scrive, di chi li legge, di chi li segue, di chi li ama. L’amore che quando arriva, arriva: non guarda in faccia a nessuno. Per cui, chissà, anche Luigi Alfredo Ricciardi nel suo ritornare ha ritrovato l’Amore. Per una donna, certo, anche se con altre sembianze. È un fatto.
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Cose della vita
I fatti accadono, le cose della vita succedono, e si susseguono senza interruzione, servono le parole per dirle. Anche i silenzi, però, sanno essere eloquenti, talora finanche assordanti. Ecco, in questo romanzo il titolo è quanto mai espressivo, c’è chi dice, e chi no: e però, a mio parere, resta qualcosa d'incompiuto, d'irrisolto, controverso. Può capitare: sono cose della vita, ciascuno la vive a suo modo. A me lettore le intenzioni di chi narra non sono state del tutto evidenti, nell’ultimo romanzo di Chiara Valerio, sia per quello che dice, e per come lo dice, sia per quello sottinteso, perciò silenzioso, tra le righe. Parere personale, naturalmente, però davvero mi è riuscito difficile capirlo: leggerlo no, a modo suo, e molto a modo suo, è un romanzo ben scritto, anche facile da stargli dietro. Diverso nei dialoghi, nei colloqui, nel pensiero espresso in prima persona, ma si può seguire tranquillamente. Ha un intreccio simile a un giallo sui generis, ma l’enigma non sta tanto nello scoprire un potenziale assassino, quanto piuttosto nel capire chi è, o chi era, in effetti, la vittima. In un poliziesco che si rispetti, è vero, si parte sempre dal morto, l’esistenza della vittima sembra iniziare allorché la si rinviene defunta. Tutti i fatti, le cose della vita che la riguardano, vengono riesumati e sviscerati a fondo, si indaga su chi fosse la vittima da viva, perché è nelle cose della sua esistenza che si rinvengono i moventi che muovono la mano dell’omicida. Fino a qua ci siamo, è tutto il resto che non dice abbastanza, e che tace anche troppo. Perché è come se ci fosse tanta carne sul fuoco: per prima cosa la location, un contesto provinciale, Scauri, che è un piccolo centro in provincia di Latina, riconvertitosi nel tempo a località balneare, quindi con una certa frenesia di vita solo nel periodo estivo. Perché in sintesi, negli altri mesi, fuori stagione, si rivela invece un paese piccolo, con molto meno abitanti, solo quelli stanziali, dalla mentalità piccola, ristretti in un microcosmo chiuso e retrivo, pur essendo situato a pochi chilometri dalla metropoli moderna. Pare vigere ancora nel paese una visione patriarcale dell’esistenza, un divario incolmabile tra generazioni, dove ancora è celato e foriero di scandalo e pettegolezzi, per esempio, la banalità di un amore saffico. Vi impera l’egoismo legato al possesso, all’esibizione più che all’essere, e alla personale convenienza. Non esiste, se non per finto disinteresse, la privacy o la discrezione, tutt’altro, impera una curiosità morbosa, manca del tutto il rispetto per l’altrui modo di essere e di concepire l’esistenza. Tant’è vero che, sempre ad esempio, una donna medico, lì trasferitasi in fuga da un vissuto lussuoso ma opaco e deludente, per non dare adito a troppe chiacchiere, si cela dietro una meno appariscente veste di commessa esperta di piante e medicine. E una volta svelatosi l’arcano, Vittoria rappresenta per Lea, l’avvocatessa protagonista voce narrante, non tanto un motivo di curiosità per le motivazioni probanti della sua scelta di vita, una rinuncia radicale al passato pur godendo di agi, prestigio, matrimonio e tenore di vita elevato d’intellettualità, ma un motivo di personale rammarico. La mortificazione di Vittoria in Lea instilla dubbi, l’avvocatessa protagonista si chiede, e ci rimugina per tutto il libro, se il corso dato alla propria, di esistenza, non fosse invece stato guidato non tanto dal proprio arbitrio, ma piuttosto da giudizi e pregiudizi, conformismo e perbenismo di facciata che sembrano regolare imperituri il destino della comunità locale, malgrado studi, presunta apertura mentale e libertà di giudizio. Per questo credo che Chiara Valerio in questo suo lavoro parli soprattutto di donne, e di libertà; di quanto sia difficile tuttora, in certe realtà piccole sì, ma che rappresentano uno specchio fedele di quanto accade in quelle più grandi, l’essere donna malgrado i tempi, le lotte, l’ascesa delle donne nella società civile. Certi preconcetti sono duri a morire, sembra quasi che non spariranno mai: tuttavia, il romanzo è anche l’affermazione non tanto di una ipotetica speranza, ma di una certezza concreta, granitica, che sì, il cambiamento è in atto, si realizza, si concretizzerà, a dispetto di chi dice alle spalle, e sono quasi sempre uomini, e chi tace disapprovando, e disgraziatamente, sorprendentemente, sono quasi sempre donne. Quindi un romanzo con tante, molte chiavi di lettura, dicevamo con tanta carne al fuoco: risulta perciò difficile una cottura omogenea, non si fa in tempo a girarla tutta, può capitare che qualcuna si bruci, qualche altra venga troppo al sangue, quasi cruda. O forse no, forse vengono tutti i pezzi ben cotti, dopotutto il romanzo è stato finalista in uno dei premi letterari più prestigiosi, qualcosa significherà. Personalmente, mi dice poco, e tace troppo: capita, sono cose della vita.
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Ritorno al bel tempo antico
L’ultimo romanzo di Antonio Manzini, avente a protagonista il suo personaggio più noto, certamente quello più amato dai fedeli lettori, il vicequestore Rocco Schiavone, in servizio permanente effettivo presso la questura di Aosta, rappresenta un gradito ritorno in libreria, dopo una lunga assenza. Intendiamoci bene, però, il poliziotto romano Schiavone è stato sì assoluto protagonista dei più recenti lavori di Manzini a lui dedicati, ricordiamo ad esempio “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?”. Oppure “ELP”, e però a più di un lettore è parso quasi di non incontrare in queste pagine proprio lui in carne e ossa, il Rocco Schiavone come abbiamo imparato a conoscere, e ad amare, dal suo primo apparire in “La pista nera”, oppure “La costola di Adamo”, o ancora “Non è stagione”, ecc. Perché negli ultimi lavori lo spot è sì sempre focalizzato sul nostro particolare segugio investigativo, in particolare sull’etica squisitamente umana che ne guida le operazioni. Schiavone è sempre il noto verace “romano de’Roma”, trasferito ad Aosta, città rispettabilissima, ma quanto di più lontano dalla sua amata città natale, per clima, ambienti, paesaggi e modi di vivere. Il vicequestore per di più è stato sradicato a forza dal suo habitat imprescindibile di luoghi, amici, sapori, trasferito al nord coattivamente, per motivi disciplinari, sanzione in verità immeritata. Ma tant’è, Rocco è personaggio molto sopra le righe, tosto, testardo, cocciuto, applica la legge non a modo suo, non è un giustiziere né si arroga di essere sopra le parti, tutt’altro. Lui per primo sbaglia, sapendo di sbagliare, usa metodi d'indagine poco ortodossi, che non contemplano la certosina applicazione delle regole d'investigazione secondo manuale di legge. Si rilassa spinellando, che non è il massimo per un poliziotto, frequenta gli amici di una vita, i fedeli compagni, o meglio assai di più, i fratelli sodali della sua infanzia e giovinezza nel quartiere natale. Amici fraterni che però, a differenza sua che ha studiato ed ha superato il concorso in polizia, non sono persone rispettabili e dalla fedina penale immacolata, cosa che non si conviene opportuna per un dirigente della Polizia di Stato. Il vicequestore di tutto ciò non se ne dà per inteso, non per sufficienza o meno che mai per alterigia. Semplicemente Rocco Schiavone è fedele a se stesso, si ostina a ragionare con la sua testa e il suo cuore, ha studiato giurisprudenza ma la sua prima laurea l’ha conseguita summa cum laude per natali e vissuto. Sa perfettamente come vanno le cose nella vita, quanto la legge stabilisca netto e preciso il confine tra bene o male; ma sa altrettanto bene, lo ha vissuto sulla sua pelle, che più spesso il varcare la linea in un senso o nell’altro sia una necessità esistenziale per molti presunti cattivi, e una precisa volontà di nuocere per molti tra i presunti buoni, fidando nel commettere i reati più abietti sull’impunità che deriva dal loro ruolo sociale, acquisito spesso anche quello in maniera disonesta. Questo il Rocco Schiavone che abbiamo imparato ad amare: e che però di recente avevamo perso di vista. Questa volta invece Antonio Manzini è felicemente tornato all’antico, avrebbe potuto benissimo intitolare questo suo lavoro come ”Rocco Schiavone: il ritorno”, lo scrittore ha compiuto un salto nel passato, letteralmente, con questa storia, un bel romanzo corposo, che in oltre cinquecento pagine, tutte scorrevoli e leggibilissime, ci offre una indagine, anzi più di una, personaggi ottimamente descritti, vecchi e nuovi, quelli più datati anche arricchiti, aggiornati, rivitalizzati, un romanzo che è una bella sorpresa, un ritorno all’antico, direi di più, al bel tempo antico. Manzini, infatti, non si dilunga più particolarmente in ulteriori capitoli centrati sulle dolorose vicissitudini strettamente personali del vicequestore, legate cioè più alla persona che non alla sua professione, che vanno dal rievocare il passato del personaggio, dall’assassinio dell’amatissima moglie Marina, il successivo delitto della compagna del miglior amico di Schiavone, la ricerca del colpevole e traversie varie che, in un certo qual modo, illustrano i trascorsi del personaggio, indugiando sui motivi fondanti dell’amara solitudine, annichilimento e disperazione, che albergano nell’animo sconfortato del vicequestore, a onta di uno spessore umano di tutto rispetto. Antonio Manzini con i romanzi appena prima di questo ha chiuso la parentesi, Schiavone ha risolto in qualche modo i fatti relativi all’assassinio dell’adorata moglie e al tradimento dell’amico del cuore Sebastiano Cecchetti, e torna a essere “unus sed leo”, uno solo ma leone, si riprende in pieno le luci della ribalta. Capisce, e finalmente, che il passato è morto, esiste solo se lo facciamo vivere noi. Non è più distratto e abulico, sono tornati alla grande ambedue, Manzini e Schiavone. La vita va accettata, abbracciata, anche a costo di farsi male: rifiutarla, nascondersi è da vigliacchi, e quindi non da Schiavone. Tutto inizia, come un normale giallo, con un cadavere, un ciclista morto in quello che a prima vista appare come l’ennesima vittima di un pirata della strada, ed è invece un omicidio premeditato. Come tutti i mistery, il punto di partenza è il morto, si cerca di capire la vittima, e il suo passato, per scoprire i motivi e i moventi dell’assassinio, e da qui al colpevole. Solo che questa volta l’indagine si dipana all’infinito, rivela una catena di fatti e personaggi che risalgono indietro nel tempo, tutto avvolto in un mistero teso e intrigante da leggere, come può esserlo un morto ammazzato sì, ma senza cadavere. Una ricerca del colpevole che smuove le acque di uno stagno putrido che cela eventi dimenticati da anni. Una storia, e tanti fatti, che coinvolgono in toto, ciascuno a suo modo portando le loro storie nella storia, Schiavone e la sua squadra, il viceispettore Antonio Scipioni, gli agenti Ugo Casella, Michele Deruta, Mimmo D’Intino, e poi il magistrato Maurizio Baldi, il questore Costa e via via tutti i personaggi che sappiamo. Compresa Sandra Buccellato, la giornalista che, dopo tanto tempo dalla scomparsa della moglie Marina, sembra l’unica donna in grado d'interessare Schiavone. La sola a fargli capire che vivere nella memoria impedisce di vivere, perché i morti sono morti, con loro non ci puoi parlare, i vivi invece sono accanto a te, e richiedono il tuo amore. Possono anche spaventarti, i vivi, farti paura: Rocco Schiavone baldo e audace, accusa la paura, al solo pensiero di poter perdere anche Sandra. Anche i vicequestori forti e gagliardi hanno un’anima, sapete. Bentornato, Rocco.
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La Storia nella storia
L’ultimo romanzo di Fabiano Massimi è, semmai ce ne fosse ancora bisogno, una conferma ulteriore, l’ennesima direi, dello straordinario talento dello scrittore modenese nello scrivere una storia nella Storia. Massimi non è uno storico, solo un bibliotecario, un bibliofilo, uno studioso esperto, appassionato e curioso, per cui la Storia, almeno di un preciso lasso di tempo, la conosce benissimo, finanche nei suoi particolari meno noti al grande pubblico. E lo scrittore soprattutto di questo si fa forza, e insiste soprattutto, lavorandoci con talento e abilità, offrendoci una versione abilmente romanzata di fatti storici realmente avvenuti. Solo di alcuni, minimi però essenziali, che si incastrano mirabilmente nell’affresco più grande dei fatti noti, spulciando e insistendo perciò nei risvolti storici insoliti e sorprendenti, veri, non veritieri, fatti non ipotizzati, sussurrati, suggeriti, ma effettivamente accaduti. Scrive di particolari, insistendo più sui personaggi che sugli eventi di cui sono stati protagonisti loro malgrado. Trattasi di uomini, e donne, queste ultime in particolare, orbitanti a vario titolo nel vissuto dei Grandi Protagonisti dell’ultimo conflitto mondiale, la cui esistenza veniva abilmente celata dagli stessi e dal loro entourage, per motivi d'immagine, di opportunità, di decenza. Sono persone poste al limite delle luci della ribalta in cui si crogiolavano i presunti Grandi, e però depositari di verità e di ruoli molto delicati, importanti, che se portati alla giusta luce all’epoca, svelati all’opinione pubblica illusa e osannante, altrettanto repentinamente in caso di grave disillusione avrebbero influito nel cambiare il consenso truffaldinamente estorto. Se gestiti diversamente, e con onestà e rettitudine, da coloro che ne erano conoscenza, che tacquero perché complici, avrebbero potuto letteralmente riscrivere il corso della Storia, così come la conosciamo, orientandola diversamente, forse con un prosieguo meno tragico e doloroso. Questo è quanto ha fatto Massimi nei suoi precedenti lavori, per esempio ne “L’angelo di Monaco”, e poi il suo sequel “I demoni di Berlino”, lo studioso e ricercatore, il bibliotecario modenese prestato e prestatosi alla letteratura, aveva dato validissima prova di sé, narrando a modo suo l’ascesa al potere di Hitler e del nazismo romanzando con arte aspetti meno noti della storiografia ufficiale, e però reali, documentati, storicamente innegabili. In particolare, insistendo sulla figura di Angelika “Geli” Raubal, la nipote di Adolf Hitler, a lui affidata in qualità di tutore trattandosi di una giovanissima orfana. Aveva 20 anni meno di zio Hitler, ma ciò non impedì all’ astro nascente della politica tedesca d'instaurare un torbido rapporto incestuoso con la giovinetta. La natura incestuosa, la differenza di età, i capricci e le richieste pressanti della giovane di maggiore autonomia e visibilità destarono scandalo e preoccupazione nei vertici del partito nazionalsocialista, per il deleterio ritorno d’immagine che avrebbe indebolito il carisma del futuro Führer. Fin quanto un giorno la sventurata Geli fu trovata morta nell’appartamento di Hitler, si era nel 1931. La ragazza giaceva in camera da letto: apparentemente si era tolta la vita, usando però la pistola dello zio/amante, probabilmente fu invece uccisa perché ormai scomoda, allestendo una rapida messa in scena per sviare le indagini. Se solo si fosse avanzato il sospetto che fosse stato Hitler a ucciderla o a farla uccidere, certamente lo scandalo avrebbe nuociuto alla popolarità di Hitler con conseguente smacco alle imminenti elezioni e chissà, magari il corso della Storia sarebbe stata diverso. Su questa falsariga si svolge anche “Le Furie di Venezia”, questa volta siamo nel 1934 non più in Germania, ma nella città lagunare, Hitler è ancora sulla scena anche stavolta, e insieme a lui Mussolini. Ma il Führer qui è solo una comparsa, l’attenzione è tutta per il Duce, e per il suo comportamento misterioso e clandestino, ai margini dell’incontro di Stato tra i due dittatori. Il particolare insolito, il risvolto misterioso, che, se reso noto, avrebbe rappresentato il granello di sabbia in un meccanismo di consenso e propaganda finemente organizzato, stavolta è duplice: dapprima l’ esistenza di una donna, Ida Dalser, che afferma con forza e convinzione di essere la presunta prima moglie segreta di Benito Mussolini. Con tanto di presunte prove e riferimenti precisi al comportamento sospetto, di chi sa di essere colpevole ed è preda di paura e rimorso, del Duce, che appare effettivamente più ambiguo, guardingo e preoccupato del solito. Ma come se non bastasse, la Dalser rivela espressamente che Mussolini, all’epoca non ancora il Duce, e nemmeno in Parlamento, ma umile giornalista d’assalto, è il padre di suo figlio, quindi l’effettivo primogenito del Duce, di nome Benito Albino Dalser Mussolini, la cui esistenza pure viene tenuta volutamente celata con vari artifizi. Stiamo leggendo un romanzo, certo: ma i due sono realmente esistiti.
“…Mussolini non sopravvivrebbe a uno scandalo del genere…Un primo ministro non può concedersi certe libertà, nemmeno se è il Duce mandato dal Cielo…Esistono regole anche per lui…”
Ambedue sostengono, con forza, e per varie vie, di essere esattamente quello che dicono di essere, e certamente tutto quanto fece Mussolini per nascondere, negare e celare alla maggioranza questa storia, depone per una forte veridicità. Fatto sta che, se reso nota, questa storia avrebbe danneggiato gravemente l’immagine pubblica del Duce agli occhi degli italiani, sarebbe apparso come un miserabile bigamo, essendo già sposato con donna Rachele e padre di famiglia, ma soprattutto sarebbe apparso come in effetti era, falso, bugiardo, egoista e millantatore.
“…qui la forma è tutto, e il matrimonio, i figli, i giuramenti solenni sono sacri. Sacri. Un politico in privato può fare quello che vuole, combinare gli stessi guai di chiunque altro, ma se viene beccato è la fine.”
Un effetto dirompente, alla Matteotti, per dirla tutta; ma dato il gran numero di potenziali testimoni, e tutte persone perbene, non compromesse con il fascismo, stavolta non si poteva ricorrere a un Amerigo Dumini o un sicario prezzolato, la cosa migliore era fare tacere madre e figlio sì, ma senza ucciderli, per non creare troppo clamore, e però rendendoli inoffensivi, seppure in modo atroce: rinchiudendoli in manicomio, il che depone a favore della bella indole del dittatore italiano. Ma è davvero così? Se per una volta, Mussolini fosse stato veramente innocente, solo per questa volta una vittima, che nulla ha a che fare con due truffatori, che sono veramente due poveri mentecatti fuori di testa, millantatori comunque sgraditi al potere, perché magari, senza neanche volerlo, potevano essere a loro volta manovrati dalla Resistenza ai fini di propaganda antifascista? Infatti:
“…Uno scandalo ben piazzato potrebbe fare al caso nostro quasi quanto un attentato riuscito…si accorse che in tanti avevano sperato la stessa cosa per il caso Raubal, tre anni prima.”
Ecco, Massimi con questo romanzo dimostra la sua raggiunta maturità di storico e di romanziere, lascia in qualche modo la questione irrisolta, offre una ricostruzione rigorosa, ben scritta, come suo solito, gradevole e scorrevole poi però come ogni buon scrittore mostra, e non dice, l’interpretazione la lascia al lettore, a suo gradimento. Fabiano Massimi lo sa bene, la Storia è maestra di vita, ma la storia nella Storia è una delizia dell’esistenza, appartiene al lettore, a lui va lasciata, perché la gestisca come meglio crede: è il bello della lettura. Lui si limita a suggerire: leggiamo, e raccontiamo storie. Perché una certa Storia, non accada mai più.
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Amore di mamma
Questo è un romanzo atroce e crudele, una storia amara e infelice, uno scritto terribile, oscuro e contorto. Per molti versi ricorda quel libro altrettanto disumano, sofferto, ferino che narra una triplice orripilante realtà, appunto “La trilogia della città di K.”, di Agota Kristoff.
Ambedue sono romanzi feroci, quanto di malevolo e iniquo risalta dalle loro storie è accentuato dal fatto che in ambedue i casi le vittime protagoniste sono anime innocenti, donne struggenti, pratiche oltre che accorate, e bambini dolcissimi, teneri ed affettuosi oltre ogni dire.
Più precisamente, mamme nobili, sollecite, attente senza parere, dedite ad ogni rinuncia, patema e sacrificio per le loro creature; e figlioli delicati, sensibili, intelligenti, perciò più fragili perché già in grado di recepire appieno, ad onta dei pochi anni di vita, la crudeltà disumana che li scalfisce già all’alba della loro esistenza. “Genie la matta” non ha nulla a che fare con disturbi della mente e case di reclusione per pazienti problematici, è solo una etichetta di comodo, una delle tante affibbiate da sempre alla stridente contraddizione tra il bene ed il male, applicato con protervia al dualismo uomo donna, dominatore e dominata, che si avvera in scala diversa e differente intensità in ogni tempo ed in ogni luogo.
La protagonista, la giovane Eugenia detta Genie, è perfettamente sana di mente, ma è da tutto il suo paese definita pazza, esclusivamente perché è una ragazza madre, che tale intende rimanere.
Vittima di una violenza, non vuole sancire un matrimonio riparatore impostole, viene lasciata da sola a gestire l’ingiustizia patita, e pur additata al pubblico disprezzo, senza indugio si rimbocca le maniche, lavora come e più di un animale da soma per provvedere ai bisogni di Marie, la sua creatura.
Genie è ruvida, rigida, lapidaria, ma la sua è solo una difesa, Eugenie lo ripete spesso, dalla vita non ha avuto niente, e semmai, quello che ha ricevuto è solo cattiveria putrida e riprovevole.
Genie è fredda, distante, distaccata anche fisicamente dalla sua bambina che inutilmente la segue stentando la sua corsetta di gambetta svelta sui passi frettolosi della mamma indaffarata, ma il suo agire è solo una preghiera, in verità uno scongiuro, perché la figlia non abbia a ripetere la sua grama esistenza. Genie è scostante, indifferente, lontana, soprattutto perché è una donna che vive in tempi in cui le donne non hanno difesa, le sue sono epoche e luoghi in cui il suo essere donna è vox populi di per sé una evidenza di colpevolezza, una scheda di inferiorità, un cartellino di doveroso assoggettamento alla prepotenza maschile, se non un vero e proprio marchio di proprietà privata.
Genie è pazza, per i suoi simili, in particolare, per amaro paradosso, per le altre donne, perché è una ragazza che non ha saputo salvaguardarsi e difendere la propria integrità morale intrinseca a quella fisica. I più maligni, che coincidono con le più cattive, dicono seraficamente che non ha voluto sottrarsi ad una attenzione non desiderata, così in sintesi è detto lo stupro, neanche ha voluto in qualche modo “ripararla” o “giustificarla agli occhi degli immancabili ipocriti pseudo benpensanti come la logica corrente imporrebbe; allora è una sciagurata ed una svergognata, vale meno di niente.
Tutta la storia si snoda, precisa ed esauriente, in un romanzo breve, a capitoli struggenti, affilati ed efficaci. Non è una scrittura sanguinosa, nessuna prosa luttuosa o raccapricciante, tutt’altro, Ines Cagnati ha uno stile incisivo, scolpisce in poche parole la pietra di un animo inaridito, che è sola una corazza con molte crepe, ha un corsivo conciso, asciutto ma non tetro, il racconto è potente, descrittivo in pochi tratti, esaustivo ed esauriente. Quello che il lettore in particolare recepisce forte e chiaro è l’atmosfera arcigna, l’aura predace di ingiustizia perenne sospesa sulle due protagoniste principali, madre e figlia, Genie e la sua piccola Marie, dapprima bambina, poi ragazza, poi giovanissima e già provata, infine adulta, che è la sola voce narrante del testo, una voce che anela amore e attenzione ad ogni rigo. Genie possiede uno straordinario cuore di mamma, ma il suo vissuto non è né dolce nè amorevole, la sua è storia spacca cuore, come in mille frammenti aguzzi è stato frantumato il suo: in sintesi è un racconto commovente, c’è tutto il mondo d’amore di una mamma per la sua creatura, ma non ti fa venire gli occhi lucidi, semmai suscita rabbia, perché è tutta una corsa a rincorrere il bene, la giustizia, il voler rimettere a posto tutti i cocci, la trama è ingiusta, l’epilogo straziante, i veri colpevoli restano impuniti, è un testo crudele come sa esserlo la vita per alcuni, i puri di cuore in particolare. Non molte pagine in questo libro, che però raccoglie tutto: cuore e batticuore, confusione e disorientamento, dolori e inquietudini. E poi ansia, angoscia, scandalo, ma su tutto ingiustizia, con tutto un corollario di abusi, arbitri, prepotenze, storture, il male fatto di persone, finanche quelle a te più vicine. Quante parole servono per scrivere di simili dolori? Nessuna, basta il silenzio. Questo non è romanzo di sole parole, in questo Ines Cagnati è immensa, magistrale.
Non è un testo di dialoghi, ma uno scritto di silenzio, ma un silenzio che dice, che racconta, che esplica, che sottolinea, più di mille parole. Il lettore ne esce, ne usciamo, annichiliti. Sconcertati e impietriti. Perché vedete, un cuore di mamma riscalda, ma quello di una matrigna raggela.
Un’esistenza di angherie è una matrigna, una megera fuori di testa, una pazza, una arpia, lei sì, matta.
Da legare.
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La luce ed il buio
“You like it darker” di Stephen King è una raccolta di racconti deliziosi nel loro genere. Di cosa parla questo titolo, in italiano tradotto come “Salto nel buio”? Esattamente di quello di cui King racconta normalmente: della società americana del suo tempo. Un contesto civile con pregi e difetti, come tutti, con ampi spazi di luce e, appunto, salti nel buio, come è giusto che sia. La luce è un fenomeno fisico, e come tale si può misurare: il buio invece è un’ assenza di fenomeni fisici valutabili empiricamente. Usando un prisma possiamo diffondere una luce bianca su più colori e valutare le diverse lunghezze d’onda, con sfumature diverse per ogni colore, esattamente come accade per ogni evento della vita quotidiana di chiunque; più difficile è farlo con il buio, questo va illuminato. Il buio è un muro tra la verità e la verità celata.Stephen King racconta la luce, come la vediamo tutti, e il buio, che non vediamo finché una luce, di qualsiasi tipo, lo perfora, fino ad allora lo possiamo solo immaginare. Il buio è un posto reale che funziona a modo suo, dove magari ogni buona azione non resterà impunita. Un posto da non prendere sottogamba. Questo fa Stephen King, vive i fatti dei suoi giorni, li trasfigura con la sua sensibilità artistica, attinge dal suo immaginario, ne ricava belle storie, con il suo talento le scrive, e bene, riporta così della luce, e della sua assenza. Ha una bella fantasia, bisogna ammetterlo, che per di più piace a molti che lo seguono, e vende. Ne riportiamo qualche esempio, pescando tra i racconti della raccolta: nell’immaginario collettivo gli alieni alla ET sono sempre in possesso di una tecnologia avanzata salvavita, in “Due bastardi di talento” King inverte l’ordine dei fattori, ma il prodotto di qualità che ne deriva non cambia. Bello il rapporto nonno-nipote, trovate? Molto affettuoso, intimo, confidenziale, un raccontare continuo dell’anziano che ricorda e il giovane che apprende, un voler riversare da parte dell’anziano tutto quanto vissuto, la sua esperienza di vita, un desiderio di condividere, di passare il testimone, questo è quanto riporta “Willy lo strambo”. Ricordate quante polemiche suscitano certi episodi, con tanto di resoconto filmato, sulla brutalità della polizia americana? Certo, King non è così banale da riportare un semplice episodio di mala polizia, dopotutto esistono poliziotti buoni e altri cattivi, ma per davvero, non come coppia standard presente nei polizieschi, in sede d'interrogatori dei sospettati di delitti: in “L’incubo di Danny Coughlin” ce ne sono due di agenti singolari, una donna e un uomo che conta. Nel senso proprio di dare i numeri, e solo perché il presunto colpevole sogna. Questo è una raccolta per intenditori kinghiani: solo loro, infatti, potranno apprezzare compiutamente nel racconto: “Serpenti a sonagli” i richiami e i rimandi a titoli precedenti del nostro, pietre miliari come “Cujo” e “Duma key”. Infine, sappiamo tutti che ai bivi importanti della nostra vita, quando dobbiamo prendere scelte cruciali per il futuro della nostra esistenza, non esistono purtroppo mappe, cartelli indicatori o navigatori che tengano. Può succedere però d'incontrare sul bordo di una strada “L’Uomo delle risposte”, con tanto di tariffario, pochi dollari per qualche minuto di domande con risposte garantite veritiere. In sintesi, lo stesso Stephen King ricorda Francisco Goja, che ha dipinto il celebre quadro "Il sonno della ragione genera mostri”, dove il pittore ha ritratto se stesso mentre dorme, sognando creature fantastiche. Stephen King fa lo stesso, descrive l’America nei suoi lati di luce, ma anche in quelli nel buio, ma tanto il pittore che lo scrittore dichiarano ciascuno a suo modo che questi sogni fantasiosi siano in verità una componente necessaria alla sanità mentale. E che i responsabili della maggior parte dei problemi del mondo siano quelli tra gli uomini meno fantasiosi. Che non amano la luce e il buio, ma le sole tenebre: e King ne scrive di ambedue.
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Il lato oscuro della normalità forzata
A prima vista, gettando appena un’occhiata distratta e superficiale nel gironzolare tra i banchi della sezione apposita di una qualsiasi libreria, si indovina a pelle che sì, certo, siamo in presenza di una buona lettura, però usuale per gli amanti del genere. Finanche la copertina, ben suggestiva, già lascia immaginare i demoni celati in sé, il doppio “cattivo” che talora predomina su quello buono e tranquillo; quindi, un libro che per quanto ben scritto, rientra nell’ordinario, nel comune e già noto, magari anche prevedibile, questo all’apparenza non promette nulla di più dello scorrere delle giornate di un tranquillo e pacato serial killer, e la corsa del poliziotto di turno per fermarlo. Niente di più errato: l’autore, in maniera sottile, con una trama affilata come un rasoio, con una scrittura direi essenziale, agile e leggera, ti fa girare le pagine senza manco che ti accorgi che ti stai avvicinando alla fine, perché ti sorprende, ti sconcerta, ti sbalordisce. Il milanese Roberto Ottonelli nel suo lavoro ci dice di più che in un giallo, in un thriller, magari neanche molto di più, se vogliamo, ma quel tanto basta a fare de “Il dolce sorriso della morte” una autentica chicca per gli appassionati certamente dei thriller, ma non solo per loro. Perché Ottonelli non si limita a riportarci le imprese quotidiane del suo protagonista, il giovane travet piccolo borghese Marco Bordoni, un personaggio che definiremmo fin da subito un povero, eterno sfigato. Sfortunato in amore, schiavizzato sul lavoro, intimidito, apprensivo e spaurito d’animo, inadeguato nelle normali interazioni sociali, mesto convivente, ancora alla soglia dei quarant’anni, con l’anziana mamma vedova. Bordoni è scuro, scontento, fuori fase, un irresponsabile, vittima di abusi già nell’infanzia, bersaglio e preda dei bulli, prima della scuola, e poi quelli della vita, soccombente e spiazzato nell’esistenza, a mal partito finanche con sé stesso. Volete che uno così non si trasformi, all’improvviso e poi in modalità ingravescente, in uno spietato assassino, ricercato dalle forze dell’ordine che al solito, quando brancolano nel buio, si appoggiano a esperti, profiler, e psicoterapeuti ad hoc? Solo che Roberto Ottonelli racconta bene, scrive ottimamente, ma si esprime ancora meglio su quanto riporta tra le righe; ed è questo sottinteso, per nulla celato, che valorizza davvero tutto il testo, lo conduce difilato su uno step qualitativo superiore, l’autore fa del quotidiano del suo personaggio non tanto una discesa agli inferi, neanche ricerca una motivazione sociologica alle sue gesta efferate, incide semplicemente sulla banalità del male. Descrive un prologo che è peggiore del male, un incipit esistenziale che non ha nulla di demoniaco, e però è efferato, logico, malevole come solo sa esserlo il comportamento umano nei suoi lati più abietti. E frequenti. Marco Bordoni non è una vittima delle circostanze, è un ricettivo ai fatti occorsogli; è per indole dolce e mite, ma non abulico o indifferente, di pietra. La morte, quel tipo di morte che Bordoni infligge, ha un sorriso dolce, perché è dolce la mitezza, l’ubbidienza, l’affezione di Bordoni che, paradossalmente, inducono il giovane ai delitti. Bordoni è un mansueto che agisce per riparare, si applica dalla nascita e nella crescita al suo meglio, con scarsa considerazione altrui, tutto e tutti lo spingono ad agire sotto pressione, con inclemenza, astio, talora insensibilità assoluta, e violenza. Allora il giovane intende e si industria per suggellare a tutti i costi con cemento a presa rapida tutte le crepe, le lesioni, le fenditure, gli strappi dei fili spinati dell’esistenza, acconciati ad arte attorno a lui, quasi a copertura totale in simil bozzolo, e di cui è stato privato fin da subito delle apposite cesoie per aprirsi un varco. Solo che mentre ne suggella una, se ne aprono altre che in breve diventano squarci, tagli, fistole suppuranti che rimettono la sepsi in circolo. Il male non origina da partenogenesi spontanea, ma ha tanto di paternità riconosciuta, e spesso anche maternità, mitigata da una sorta di amorevole copertura. Allora, e solo allora, è morte, che non ha disegnata sul volto un dolce sorriso, ma una smorfia orrida e raccapricciante. Marco Bordoni non è pertanto un banale serial killer, non è posseduto da una metà oscura di kinghiana memoria, è un protagonista attivo, docile, clemente, suo malgrado rappresenta la prova provata di quanto di nefando può nascondere una normalità forzata e sfregiata a fondo. Normalità indotta ad arte da altri per celare, loro sì, l’incapacità, l’inadeguatezza, la totale incompetenza allo stare al mondo, a discapito dei propri simili quanto più vicini a sé: una banalità, proprio come sa essere banale il male. Quella di Marco non è perciò una storia thriller, ma la sintesi della reazione innocente della mansuetudine, tale che il lettore parteggia per lui, non per sadismo innato, ma per umana empatia. Allora, è solo allora, la morte reca pace, e sorride.
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Peccatori di provincia
Siamo in un piccolo paesino di provincia, a metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo: Brisa è una ragazza che potrebbe definirsi una giovane come tante, bella o brutta, dipende da chi la guarda. Ha una caratteristica che potrebbe renderla interessante, una eterocromia che non è una malattia ma una particolarità, ha un occhio di un colore e l’altro di un colore diverso. Insomma, niente di che, ma al popolino ignorante del posto in cui vive è più che sufficiente per etichettarla come la “stria”, la strega del paese. Una folta chioma nera racchiusa in una grande treccia che funziona un pochino come la bacchetta di un rabdomante, non aiuta a riabilitare la nostra figliola, che ha fama di presagire le cose a venire, piccole verità come indovinare il sesso dei nascituri, o altre più gravi, o interessanti, come gli eventi disgraziati in cui occorrono i mariti delle amiche. Brisa è innamorata di Primino, il miglior amico di suo fratello Tumaia: sono giovani del loro tempo, e i giovani cantano e suonano, naturalmente!
Da bravi provinciali, sono particolarmente sensibili alle mode che vengono da fuori; Elvis Presley, tanto per dirne una, è un mito, per cui è tutto un imitare e scimmiottare il divo americano, con tanto di capelli a banana, cintura in pelle di pitone, colpo d’anca scandaloso e innovativo, e “Love me tender” a tutto spiano.
Amami teneramente: certo, anche qui si ama, naturalmente.
Primino, Tumaia e altri amici girano i paesi suonando: la loro band si chiama “I cavedani di Gorino”. Già, i cavedani, i pesci d’acqua dolce tipico del loro paese; sennonché nel posto devono aggirarsi evidentemente anche squali, poiché scompare misteriosamente un bambino. Una cosa sospetta, perché in passato è già successo qualcosa di scabroso, anche in provincia alberga il peccato, anche nelle frazioni più piccole risiedono individui sospetti, peccatori di provincia.
Questa la storia: e qui Paola Baraldi interviene, con la sua scrittura attenta e accurata, con tatto e sensibilità, e lo delinea chiaro: esistono reti per catturare pesci, e reti mimetiche, per celare rifiuti repellenti, miserie e indegnità umane.
Per vederle, servono due occhi di colore diverso, come li ha Brisa.
Perché sapete, più delle streghe, sarebbe il caso di temere i demoni.
Il grande merito di Paola Rambaldi è che ha saputo offrirci con garbo, direi con fine cortesia, una storia delicata, reale, concreta, mai astratta anche nei momenti con risalti paranormali. La scrittrice ferrarese non riporta un thriller o un horror pauroso di per sé, ma un ancora più terrificante, proprio perché reale, racconto di ignobile orrore, dove non mancano pagine crudeli ed efferate, perché precise e circostanziate.
È un testo però sempre rispettoso di fatti, personaggi, vittime, e per inciso, dello stesso lettore, il che non è mai così scontato, taluno preferisce propinare l’effettaccio prezzolato fine a sé stesso. La Rambaldi fa invece di più: ogni rigo è essenziale, funzionale alla trama e alla logica dell’ordito, la scrittura è fantastica ma il particolare è sobrio e sfrondato, corrisponde con rigore al vero. L’autrice possiede scrittura incisiva, fluente e pertinente, concisa nei capitoli e nei dialoghi, e però è esaustiva, scrive e definisce, puntualizza con chiarezza, delinea avvenimenti, personaggi, ambienti e atmosfere con maestria, in maniera asciutta e persuasiva, non ricorre all’effetto in sé ma è provvista da sé di scrittura efficace.
Brisa in dialetto stretto significa non farlo: io in italiano direi che non leggerlo, quello sì, sarebbe un peccato.
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A piccoli passi
Questo è un romanzo giovane, attuale, ben organizzato: da ascoltare. Proprio da sentire invece di leggere, anziché scorrere le pagine, si seguono con attenzione i dialoghi dei protagonisti e di tutti i personaggi, tra di loro è incluso lo stesso autore. Una sorta di libro parlato, quindi, dove più che azioni si avvicendano monologhi, discussioni a voce multipla, pensieri, riflessioni tra se e sé. Tutti parlano sempre in questo romanzo, nessuno tace, nemmeno un silenzio eloquente, ognuno dice la sua, magari a sproposito, e ognuno a suo modo spiega, giustifica, se non si parlano si scrivono messaggi sul cellulare, tutti hanno le parole per dirlo, tant’è che serve a distinguerli il differente font utilizzato. Una protagonista principale eccelle, Nina, una deliziosa ragazza contemporanea, dolce, incantevole, magica anche in senso letterale, è davvero una maga, per lavoro tramandatole dal genitore allieta con giochi di prestigio le feste dei bambini. Attraverso lei, e il suo essere tanto autentica quanto contraddittoria, sappiamo di tutti gli altri, Nina a ruota libera trasmette, riporta, decifra tutti gli altri comprimari, interagisce con loro e in tempo reale ci informa, ci dice, si racconta e ci racconta. Qui si narra di vita reale, e perciò di famiglia, anche di solitudini, perché c’è chi si spende per creare un progetto almeno simile nelle intenzioni alla famiglia del mulino bianco, senza garanzie di successo, ma accontentandosi anche della sola buona intenzione. E chi invece vuole stare solo, perché stare insieme costa fatica, ma va bene lo stesso, non c’è nulla di male a voler vivere senza qualcuno accanto, perché sia una scelta, altrimenti è solo una prigione da cui si desidera evadere. A discapito altrui, talora a sfregio di volontà diverse equivocate a forza. Manuel Bova con il suo “Un millimetro di meraviglia” d'incanti e sbigottimenti ne riporta chilometri, quelle di esistenze magari tribolate, malinconiche, stentate e però navigate; di padri presenti ma assenti e padri assenti nel presente; di mamme che non ce ne è una sola, e di nonni, di amori vecchi e nuovi, perduti e ritrovati, dispersi e ossessivi, di cibi: pizza bufala, prosciutto cotto e ricotta; uova a decoro su qualsiasi pietanza, piatti vegetariani; tè al limone, alla pesca, e ricette improbabili. Un buon libro, una lettura scorrevole che è un tutt’uno istintivo, autentico e genuino, un fluire dalla penna alla carta direttamente dell’inventiva dell’autore, senza tanti filtri, od omissioni per correttezza, né alcuna censura, questo è un racconto di vita, di vite, e degli intrecci inevitabili dell’esistenza. Internet non c’entra, è l’umanità che è fatta per essere connessa, l’indole del vitale vuole che si muova in sincronia o in disaccordo con gli altri, sfiorandolo, urtandolo, calpestandolo. Ogni tanto intrecciando una relazione particolare; perciò, lievitando con un alter ego a sé sodale su uno step successivo. Succede anche di precipitare bruscamente a valle, irrimediabilmente divisi. E altro non c’è da fare che riprendere ad arrampicarsi per fuoriuscire dalla scarpata. Esistono anche persone che non sono fatte per stare da sole. Persone che piuttosto che non avere qualcuno a fianco si fanno andare bene un surrogato di compagno, magari se lo inventano, si illudono, si fissano di essere anche parimenti ricambiati se non di più. Quasi sempre uomini, che la felicità la identificano in una donna, e solo in quella, a forza quella. La felicità in sé è invece qualcosa d'improvviso e imprevedibile, che sorprende, una meraviglia: dipendente da una miriade di particolari incasellati su una tratta chilometrica, dove ciascuno ha da cercarsi il suo frammento, spesso di un solo millimetro. Siamo formiche, piccoli esseri che quotidianamente si mettono in marcia, seguiamo i nostri percorsi seguendo traiettorie casuali che intersecano quello di altri, ci scambiamo informazioni, sensazioni, esperienze, ognuno avanza un poco alla volta, a piccoli passi, nell’ordine di pochi millimetri, alla ricerca della propria personale idea di felicità. La felicità però non è un traguardo, e per fortuna; se esistesse un arrivo preciso, una volta raggiuntolo non avremmo più motivo di riprendere il cammino. Invece la gioia sta nel viaggio, non nella destinazione, e nella compagnia già dalla partenza, nonni, genitori, amici e amori e quanti altri si aggregano durante il percorso, tutti insieme senza lasciare nessuno indietro. Un millimetro di meraviglia lungo mille miglia è quello che dà il senso al formicaio, detta il ritmo dell’esistenza vissuta per intero, a ciascuno il suo. Manuel Bova, che è assiduo sul social, dichiara di sé che scrive cose: sarà, ma sottolineerei che non scrive di cose in senso materiale, scrive, e direi bene, di persone, e fa bene, benissimo. Tratta di emozioni e sentimenti, racconta vite, e quindi caratteri e nature, descrive fatti, emana sensibilità da quanto riporta, ci fa commuovere in particolare quando parla di nonni, di anziani, di quanto amore e quanta delicatezza si cela nella senilità. Infine, un lieto fine sui generis: la meraviglia è donna, ricordiamolo. E serve educare perché chi deve intendere intenda, e non intacchi la meraviglia. Nemmeno di un solo millimetro.
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Il libro parlato
Avete presente “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo?
Ecco, “Nannina” è un romanzo che, a grandi linee, riporta lo stesso sottinteso, cioè:
“…La morale di questa storia è che a certe femmine sfortunate come Filumena serve tutta la vita per riuscire a piangere. Ma poi, quando hanno imparato, possono fare un bel respiro e permettersi pure di sorridere un poco.”
Vale a dire, queste donne hanno appreso compiutamente, spesso a caro prezzo, sempre a proprie spese e sulla propria pelle, tutto quanto di essenziale e significativo è possibile assorbire dall’esistenza, e che può bastare per tutta una vita, e anche per più di una.
Come tutte le buone esperienze però, queste per mantenersi valide, efficaci, sempreverdi, vanno diffuse, fatte girare, raccontate.
Le storie di vita sono come acqua fresca, salubre, sorgiva, perché disseti e adempia la sua funzione ristoratrice, va fatta girare, irradiata, estesa per irrigare i campi, rinfrescare le teste sotto il sole, portare pausa e ristoro, se la si incanala e la si rinchiude in vasche circoscritte, a uso di singoli, di pochissimi privilegiati, le acque ristagnano fino a imputridirsi, e basta.
Anna Grimaldi detta Nannina, la protagonista di questa storia, tanto insolita quanto affascinante, con un sapore antico, d’altri tempi, e però intrigante e coinvolgente, questo fa, la vita la racconta, la descrive, la ripete in giro, la condivide, la declama in pubblico, dapprima per pochi intimi, poi in spazi più grandi, nei cortili dei caseggiati popolari, poi nelle fiere, nelle feste di piazza, finanche ai funerali, ampliando via via sempre più pubblico e platea, fino a divenire nel suo ambito una celebrità, rinomata e richiesta a gran voce, retribuita al meglio data la sua abilità.
Letteralmente Nannina racconta il fluire dell’esistenze, sua e degli altri, la mima, la recita, la rappresenta, ne fa ironia e parodia, è una cantastorie del suo tempo, l’immediato secondo dopoguerra.
Anni difficili, di fame, di stenti, di miserie, in particolare in certi contesti di degrado, e però magari proprio per questo vivi, vitali, rigogliosi, assetati di ascolto, smaniosi di sapere e di immedesimazione.
Anni in cui la televisione è agli albori e quindi non per tutti, la radio non è esaustiva per gli animi semplici bisognosi, più delle parole ascoltate, di “vedere” in dialetto per capire al meglio quanto rappresentato, cinema e teatri hanno ancora prezzi proibitivi per certi ceti, la carta stampata non è accessibile a gran parte del popolino poco avvezzo alla lettura e scrittura.
Tuttavia, la gente vuole sapere, anche e soprattutto di fatti usuali e comuni alla propria esperienza, storie insomma magari deteriorate, “sgarrupate” in termini dialettali, serve quindi chi racconti, e possibilmente bene, le “struppole”, le storie lacerate e strampalate in ogni senso, una “cuntastruppole”. Nannina è l’equivalente dell’epoca di un libro parlato, un podcast, un audiolibro una storia a voce. Un novellare attorno al fuoco di un bivacco, sotto le stelle, o al chiuso in un fienile o vicino al camino, un incantare l’uditorio come fa Ulisse alla corte di Alcinoo: rigorosamente a voce sola. “Nannina” è il bel romanzo, originale e incisivo, l’esordio di Stefania Spanò, scrittrice esordiente, certamente, però non nuova al raccontare storie, che in estrema sintesi è quello che deve saper fare ogni buon scrittore. Se è vero come è vero, infatti, che ogni autore riversa parte di sé stesso nella sua opera, Stefania Spanò è lei per prima una cantastorie, prima ancora di scrivere una storia tutta sua, che appartiene al suo vissuto e a quello della sua famiglia, racconta e sa raccontare bene.
A voce, ma non solo; su carta, certamente; ma finanche a segni, ben delineati con metodo, regole, struttura, espressività, in definitiva con immagini segnate, il che è un idioma, una lingua a sé stante.
Per indole, per scelta, per vocazione, la Spanò è esaustiva nel suo narrare, non solo nel suo romanzo, fuori dalla pagina scritta l’autrice infatti insegna nelle scuole.
Per essere precisi, fa oltre, sostiene nell’insegnare, e fuori scuola comunica nelle periferie urbane tramite laboratori di teatro, di poesia, di scrittura creativa, dove non arriva con il parlato, a voce, oralmente, fa ancora di più e forse, chissà, per qualcuno anche meglio, si esprime alla grande con i soli segni, con una lingua a se stante che fa leva più sul canale visivo segnante che su quello audio verbale, la giovane autrice è infatti anche una interprete LIS, la lingua italiana dei segni, la lingua della comunità sorda del nostro Paese.
Volete che una persona così non racconti alla grande, e riporti ancora meglio le sue storie?
Le sue pagine sono accese, trascinanti, sprigionano vita, finanche odori, come quello intenso del baccalà, pietanza simbolo della festa in onore della Madonna del Cavone!
I fatti che racconta, i “cunti” riportati, sono ameni, bizzarri, atipici, geniali, scongiurano e liberano perfino dai timori della morte:
“…Siccome poi pochi sapevano leggere e scrivere, il messaggio era quasi sempre un “cunto”, ché quelli tutti li ricordavano a memoria, e ognuno ne aveva uno a cui era particolarmente affezionato e che gli sembrava esprimere bene il segreto della vita…”
Stefania Spanò racconta, e si racconta, fa catarsi di sé stessa, rievoca le sue origini, gli inizi che sono di lettrice, come è tipico di chi poi si dedica a scrivere, ma di lettrice attenta al contesto linguistico in cui vive:
“I libri sono tutti in italiano. L’italiano mi affascina, ma non è la mia madrelingua, e mi ci misuro ancora con qualche fatica. Più la imparo e più sento di allontanarmi dalla mia famiglia. Esiste solo nei libri e in bocca ai professori l’italiano… “
Cerca ben altro per esprimere al meglio la realtà eletta del suo humus ordinario:
“Cerco un libro bello come il “Canto di Natale” di Dickens ma ambientato a Secondigliano, ce ne sono?”
Certo che esistono, ci mancherebbe che una tale eccelsa autenticità non sia già stata descritta, come per esempio ne “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortense:
“ …Non è Secondigliano, è Napoli, ma sono racconti belli di gente vissuta al tempo dei tuoi nonni…”
In quel tempo, ma non solo: perché il raccontare a voce è una malia, un ascoltarsi l’un con l’altro, incanta ora come ieri, domani, sempre.
Raccontare è donare gentilmente, offrirsi, è un favore, un servizio, un omaggio, un presente sempre gradito, ancora oggi:
“…I bambini trattengono il fiato per alcuni secondi, poi battono forte le mani, palmo contro palmo, come a voler acchiappare la magia nell’aria e farsela entrare nelle impronte digitali…”
“Nannina” di Stefania Spanò allora non è solo un romanzo, è molto di più, è una benemerenza sociale, è un riconoscimento civile, un lavoro virtuoso, una grazia letteraria, va oltre la lingua o lo scrivere in sé, è un elogio del raccontare in maniera quanto più possibile diretta e multi modale l’esistenza, nelle varie forme in cui si presenta nel suo evolversi, serbarne la memoria, custodirla, divulgarla, anche in quelle più tristi e drammatiche, come certi quartieri oggi tristemente noti alle cronache:
“ Caivano, Parco Verde. Verde, non per le siepi e le aiuole, ma per il colore dei palazzoni, in fila uno dietro l’altro…brutti perché la bellezza è un privilegio dei ricchi…e poi a furia di guardare il palazzone brutto e quadrato ti senti brutto e quadrato pure tu e con il passare degli anni te ne cadi a pezzi come il palazzo…”
Tutto questo va a esclusivo merito del talento innato, certo, ma indissolubilmente unito all’impegno, alla fatica, alla ricerca rigorosa dell’autrice, alle sue molteplici esperienze di vita.
Davvero una bella storia, un racconto incantevole, una novella deliziosa, a farla breve: un cunto.
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Cime tempestose
Sono i giorni di vetro quelli che gelano un cuore di sangue e di affetti, lo ghiacciano in un cristallo rozzo, grossolano, per di più estremamente fragile, e perciò pericoloso.
Un cuore simile non è lastra di sicurezza, malgrado l’apparenza si frantuma, non si polverizza innocuo, si scheggia facilmente in frammenti acuminati, stalattiti, aculei di ghiaccio taglienti come rasoi, e come quelli crudeli.
“I giorni di vetro” di Nicoletta Verna di questo racconta, è un testo magistrale, inteso nel senso di un romanzo che spiega, meglio di ogni saggio specifico, cosa e come è stata un’epoca tra le più importanti, ed infauste, della storia del nostro Paese.
Racconta nei fatti, anzi fa raccontare dalla viva voce di testimoni diretti, seppure romanzati, i giorni dolorosi dell’avvento del regime fascista, a far data dall’assassinio di Matteotti, fino ai primi momenti della liberazione da parte degli alleati.
Nessuno resta com’era, nei giorni di vetro, nelle sventure, ci si distingue: le donne, e quelli come loro che gli si smuove l’empatia, e gli uomini, a cui esce fuori la carogna. Non è un libro di Storia, ma una raccolta di fatti fittamente intrecciati a costituire la Storia, inventa ma dice il vero, talora il verissimo, racconta luoghi, episodi, persone che costituirono la trama di quei giorni, descrive con scrittura limpida, rustica, locale, con una elegante penna agreste e campestre, quanto realmente successo rivelato attraverso, guarda caso, un vetro, uno solo, però da ingrandimento fedele, perfetto e senza macchie, trasparente e veritiero. Tutt’altra cosa di un vetro solido e amorfo, magari confezionato a mo’ di gioiello in un misero pacchettino regalo, che tutt’al più può fungere da infausto memento. Protagonisti principali sono l’orfano Bruno e la stupenda, splendida, luminosissima Redenta, la gemma, la perla, il monile più bello e delizioso dell’intero romanzo, la sola che non è di vetro banale.
In punta di piedi, tranquilla, schiva, silenziosa e attenta, da tutti detta sfortunata e meschina perché tra l’altro colpita dalla polio che le renderà impedita in una gamba, è lei sola l’anima intelligente, il fulcro amorevole, l’epopea eroica di quei giorni, in quei luoghi, con quelle persone, la sola a fronteggiare, con coraggio sovrumano, il Male, farsene carico di persona, e redimere tutti gli altri da quello. La sola a comprendere una grande verità della vita, che il più delle volte se noi stiamo bene non è per merito o per virtù ma perché a qualcun altro tocca stare male al posto nostro. Non avrà epica, nessun finale per lei pari alla resurrezione di Tolstoj, niente lieto fine con Bruno, per lei finanche resterà un mistero incomprensibile lo strano comportamento del suo amato, anche se sarà certissima che Bruno le vuole un bene da morire. Il lettore capirà infine che molte volte ciò che sembra, non è. E altri personaggi ancora tutti splendidamente descritti, sfaccettati, Adalgisa e Primo, la Fafina, Zambuten, Marianna ed Aurelio, e poi Diaz e Iris. Iris come l’opera, non come il fiore, che quella del grande fiume è terra d’opera, opera lirica e opere di fatica dei campi, dove la gente lavora e basta: nei campi, a casa, nel bosco. Brava gente industriosa, onesta, sono terre di borghi, casali, pascoli e coltivati, dove non si ha tempo per il Male, chi non può lavorare perché è troppo piccolo o troppo vecchio, aspetta di crescere oppure di morire in pace circondato da affetti…fin che il Male non si presenta. Viene da fuori, in pompa magna, come a Tavolicci, qui in alto, in cima e ben nascosto saranno cime tempestose, sarà memoria di sangue, di fuoco, di martirio, come altrove, per fatti analoghi, incisero sulla pietra, a monito futuro. Sempre è così nei giorni di vetro, giunge il Male, fa dei giri immensi e poi ritorna, è orbo ma ci vede benissimo, non è misterioso, ha storia propria, cattiveria intrinseca addestrata tra poveretti di pelle scura, neanche è brutto, si ammanta di medaglie ed onori, ha finanche nome e cognome, si chiama Amedeo Neri. Fa il Male, pratica il Male, distribuisce il Male a piene mani, tanto da farti sospettare che stai pagando il tuo, quanto meriti, giacché quel giorno certamente dovevi essere fra chi ha ammazzato Cristo. Invece no, prima o poi l’abbiamo ammazzato tutti, Cristo.
Ma vedete, Lui è come Redenta, redime, riscatta, ci offre ancora una opportunità.
Ai giorni della merla, infatti, di gelo, di vetro, segue sempre l’estate di san Martino.
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…e fuori nevica
Con “Pioggia”, l’ultimo suo romanzo seriale che vede per protagonisti gli oramai noti operativi di polizia in organico al commissariato di Pizzofalcone in Napoli, Maurizio De Giovanni non intende riferirsi solo alla precipitazione atmosferica uggiosa e torrenziale, malgrado la persistenza della stessa che, pressoché incessantemente, fa da sfondo, da scenario acqueo vaporizzato, alle vicende narrate.
E lo dichiara subito, già nelle prime righe: la pioggia la intende come sentimento.
La pioggia qui fa solo da unione, è come un denominatore comune, i fatti accadono velati dalle gocce più o meno grosse e fitte, e vengono descritti come dall’esterno di un acquario; tuttavia, la loro visione non risulta affatto distorta, le vicende fluttuano regolarmente in onde sinuose ed eleganti, scorrono in un mezzo comune.
I rovesci riversati dai nuvoloni grigi, per quanto scrosci continui ed insistenti fino all’ultima pagina, sono essenziali alla trama perché sono perturbazioni, certamente, ma dell’anima dei personaggi.
Sono cateratte d’acqua che scuotono il telaio interiore di protagonisti e comprimari, molto più che rivoli tumultuosi che, come cascate, si scaricano per devastare strade, paesaggi e intelaiatura di una città a torto considerata desueta a certi accadimenti atmosferici. Niente luoghi comuni, in questa storia, niente se non piove ora quando, la terra vuole acqua, o simili. “Pioggia”, qui e ora, non è un romanzo, nemmeno un giallo in senso stretto, è un sentimento, De Giovanni incanta con la storia dell’acquazzone intrinseco ed improvviso che talora tuona in chiunque di noi, e rivolta a galla ricordi, pensieri, rimpianti, rimorsi. Il bene compiuto è bello pesante, sta a fondo, non riemerge, ma il male è banale, perciò fatuo e leggero, galleggia, e scatena tempesta.
I fatti del passato, allora, qualsiasi superficie riflettente come uno specchio d’acqua te li presenta a chiedertene conto, ammenda e spiegazione; si scatena nel proprio interno un’alluvione di sentimenti che tutto travolge e rivolta, portando in vista alla propria coscienza, alla personale consapevolezza, umori sopiti, brividi improvvisi, emozioni dimenticate di vario colore, spesso quelle più nere.
Non è una tempesta che, ritiratosi le acque, lascia al suolo nel suo rifluire negli argini del limo buono e fertile, è temporale invece che fa male, acqua che può trasmutarsi in geyser, erutta bollente dal profondo allorché trova il canale adatto per riversarsi all’esterno, e scotta, fa male. Spinge ad uccidere, e così ustiona vittima ed assassino, li deturpa entrambi. “Pioggia” è rivoluzione, è il leit motiv della trama, ciascuno a suo modo, protagonisti e comprimari, si misurano con quella e con quella interagiscono, l’acqua funge da collante, è il bacino liquido e turbolento nel quale sussultano le vicende, sia quelle della vittima nonché quelle intime e personali dei componenti il team investigativo. Cosicché si creano storie nella storia: dapprima le indagini su un delitto, che di per sé investigano non tanto sulla morte della vittima, ma sulla sua esistenza in vita, poiché solo in quella si possono rinvenire i motivi che hanno portato al fatto delittuoso. Quindi, si sonda tutto quanto a conoscenza di vicini, parenti, comparse e sodali della stessa. In parallelo, si saggiano le vicende personali dei componenti della squadra poliziesca, nata come una sorta di parcheggio di derelitti, se non di discarica, di elementi scomodi di vari distretti di polizia sparsi per il comprensorio metropolitano. Rivelatosi invece un tutt’uno abile ed affidabile, per aver raggiunto lusinghieri risultati professionali sul territorio, e però ancora in discussione, ancora sulla corda e costretti ad industriarsi sempre una spanna buona sopra l’eccellenza a pena di scioglimento, con la solita motivazione di invidiose meschinità politiche. Riuscendovi alla grande, facendo leva sul sentimento di unione che li contraddistingue, dimostrando con i fatti che se la pioggia fa da unione, l’unione fa la forza, raggiungono risultati e soluzioni esclusivamente agendo da squadra solidale.
“Pioggia” è un racconto di sentimenti allora, e perciò è un bel raccontare: poiché De Giovanni in questo eccelle, non tanto nel creare intrighi polizieschi, in cui comunque si sbriga alla grande, ma perché ha bella penna nel delineare i meandri dei sentimenti, è il campione del sentimento principe della sua città, la sensibilità. Ascolta con attenzione gli umori della sua città, ricettiva e empatica, riversandoli su carta ha creato un format fortunato, che si ripete da qualche volume e però funziona sempre, miscela alla grande passione e sentimenti, ordine e rigore, azione e reazione, sprazzi di umorismo e momenti di autentica solidarietà, si destreggia con bravura, esperienza, tecnica e maestria, i suoi sono libri già visti e sempre nuovi, sempre graditi, poiché i buoni sentimenti, certi valori, alcune virtù, fanno giri immensi, magari si bagnano, poi tornano. Ci ritornano: come il senso dell’amore per i propri figli.
Perciò, magari fuori non solo piove, ma nevica, non importa, non vale a fermarli, si industriano spasmodicamente per i propri figli l’ispettore Giuseppe Lojacono con la giovane Marinella, sotto la pioggia battente; l’agente Francesco Romano con la piccola Giorgia, sotto la pioggia fortissima; Elsa Martini, ed il PM Diego Buffardi con la loro figlioletta, l’incredibile Vittoria, sotto una pioggia incessante; finanche l’avvocato Leonida Brancato, con il proprio figliolo Giancarlo e con la figliola acquisita, Brigida, che in realtà è la nipote, sotto una pioggia improvvisa; il boss della camorra Saverio Sibillo con il suo degno figlio Gennaro, travolti da una pioggia tumultuosa, e Ottavia Calabrese con lo sfortunato Riccardo, sotto una pioggia struggente; Adolfo di Nardo e la moglie Nora, genitori dell’agente Alex Di Nardo, sotto una pioggia preoccupante.
E altri, ma inutile tirarla a lungo oltre, lasciamo fare alla pioggia, tanto, prima o poi, smette. Per poi riprendere, a tempo debito, sono cose della vita.
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La metà oscura
Questo è un romanzo duro e forte, letteralmente di acciaio, che non è un metallo ma una lega minerale; acciaio come quello che a suo tempo donò buona notorietà all’autrice, in verità alquanto ben meritata. Anche questa nuova uscita è un buon libro, una buona lettura, però non facile, magari indigesta, trama e lessico possono talora apparire critici. Il testo è ben scritto, davvero molto bene, Silvia Avallone è dotata senza dubbio di una penna scorrevole, narra con un tono eclettico, istruito, sapiente, però descrive più che riportare. Rende bene l’essenza del narrato, ma si fatica ad attribuirlo con realismo agli attori, gli dà voce con fine eleganza, tant’è che si esprimono forse anche troppo chiaramente.
“Cuore nero” parla di persone, e di persone che raccontano di sé stesse, ognuna suo modo; Silvia Avallone riporta, fa da tramite, ma non si immedesima, traduce e resta in rispettosa distanza. Però funziona. Le persone possono essere buone o cattive, dipende da cosa predomina in un certo momento della loro esistenza, quale lato del dualismo bene/male è prevalente in quell’istante, pur nelle mille sfumature di luce evidenti in ogni chiaroscuro. Qui si parla in particolare della metà oscura delle persone: ma le persone non possono essere solo giuste o solo sbagliate per tutta la vita. Perché le cose cambiano, la vita scorre diversamente, l’esistenza ti forgia a sua immagine, l’animo umano conta versatili caratteristiche plasmabili, talora evolvi in meglio, talaltra in peggio, si persiste in certi modi o si svolta. Dipende: dipende dai fatti che ti accadono, dalle persone che incontri, anche se al momento ti appaiono tutto tranne che salvatori, le chiami Frau Direktorin anziché eroi, ma sono angeli custodi anche quando ancora non lo sai. Si cambia, tutto passa: per questo esiste il linguaggio, usa poche lettere ed infinite parole proprio per poter evidenziare i molteplici cambiamenti di una comune, magari banale, esistenza. Questo è racconto di arrivi e partenze, è storia di un viaggio, ma non di una fuga, è la ricerca di un riparo, un sito di riflessione per ritrovarsi, e possibilmente salvarsi. Il luogo scelto, la destinazione finale in cui le anime ferite dei due principali protagonisti si incontrano, si permeano, si salvano e si disfano a vicenda, ha un nome che è tutto un programma, isometrico ai personaggi detti, si chiama Sassaia. Un paesino anche ai tempi belli popolato di poche anime, fatto di sassi, di pietre, giusto per questo un macigno, statico e inossidabile assai più di qualsiasi lega minerale. Uno di quei borghi antichi e rimasto sempre uguale a se stesso, sperduti sulle alture più impervie del Piemonte, spopolato da tutti, abbondonato a se stesso come tanti, troppi, piccoli borghi del nostro paese, con le case tirate su di sassi, appunto, e perciò Sassaia, brullo, roccioso, riarso.
Ne restano solo due di abitanti, vivono qui fuori dal mondo con sporadici e logistici rapporti con l’esterno, il vecchio Basilio, artista, restauratore ed imbianchino ad un tempo, ed il maestro Bruno, ancora giovane e già dannato, auto confinatosi per scelta ed autoflagellatosi per convinzione.
Un giorno a Sassaia, accompagnata dal proprio straordinario papà Riccardo, un uomo comune che è invece la quintessenza buona del concetto stesso di paternità responsabile, giunge anche Emilia Innocenti, e con lei tutto il codazzo in ricordi e racconti delle sue amiche, prima di tutti la sorella di dolore assoluto Marta Vargas, e poi Yasmina, Afifa, Myriam e tante altre ancora.
Ragazze, giovanissime, adolescenti, o appena maggiorenni, che per i casi della vita si portano dentro l’inferno. L’inferno ha tante facce, è un fuoco perenne, quindi ha tinte diverse e calore differente, può solo scottarti o carbonizzarti del tutto, dipende da dove sei situato, le lingue di fuoco hanno le sembianze fluttuanti di abusi, di pedofilia, di incesti, di sfruttamento di ogni tipo, di lutti materni mai metabolizzati, di bullismo, di indifferenza familiare e sociale.
Tutte cose che avvenute ad una certa età pesano, è sempre l’adolescenza che decide chi sei.
Senza adatti strumenti ed artigiani che ti insegnano ad usarli, non puoi lavorare la pietra, meno che mai l’acciaio, in sintesi allora il male che subisci ti appare sempre molto più grave di quello che fai. Servono mirabili ingegneri, usi a forgiare l’acciaio in strumenti, trarne anziché lame per ferire, utensili degni di insigni artisti. I veri protagonisti di questo romanzo restano sempre sullo sfondo, senza mai apparire, sono gli umili fabbri, maestri costruttori che rispondono ai nomi della dottoressa Gilda Pavulli in arte Frau Direktorin, delle educatrici Sara, Rita, Vilma, la Pandolfi, perché l’unica vera risposta è l’amore. L’amore è la cura, il solo che lascia traccia, che innalza vertiginosamente la temperatura di un pezzo freddo di acciaio, portandolo al punto di fusione, rendendolo incandescente, forgiandolo a forma di cuore, rosso come l’amore e non nero, così come è giusto che sia.
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Tutto si crea
Questo di Marco Vichi non è la più recente uscita editoriale dello scrittore fiorentino, è però l’ultimo in ordine di tempo che annovera a protagonista il suo personaggio seriale più noto, il commissario di polizia Franco Bordelli. Gli anni giovanili e della piena maturità vedono Bordelli impegnato in prima persona negli eventi bellici del secondo tragico conflitto mondiale, sia in divisa da graduato militante nel glorioso Battaglione San Marco, sia successivamente nelle file della lotta partigiana.
Nel secondo dopoguerra, presterà servizio come funzionario della squadra omicidi della questura di Firenze, nel disbrigo con esito sempre felice delle indagini su omicidi e affini.
Sul finire degli anni Sessanta, sarà congedato ancora assai giovane per i canoni odierni, avendo però raggiunto i limiti d’età di messa a riposo richiesti all’epoca, e per fortuna sua, aggiungeremmo noi, visto che oggi l’età minima per lasciare il servizio professionale attivo in ogni campo si allunga sempre più verso l’alto. In questo romanzo, siamo nel 1970, un ancor giovane Bordelli è fresco pensionato, ma per niente un vecchietto decrepito, tutt’altro. Che persona è Franco Bordelli?
Un testimone del suo tempo, un uomo che osserva, ascolta, raccoglie, poi filtra quando riceve secondo regole elementari di buon senso, di giustezza, di coscienza civica.
Bordelli è persona comune di normale intelligenza, non un eroe o un tipo eccezionale, meno che mai un investigatore acuto, somiglia invece molto di più ad un segugio ostinato dal fiuto allenato. Esattamente come il suo pet personale, Blisk, un orso maremmano, vale a dire un cane dalle fattezze di un plantigrado delle banchise polari, dotato certamente di un buon fiuto, ma dal cuore ancora più buono. Quello che caratterizza il poliziotto è il suo io interiore, con il quale interagisce di continuo, sempre Bordelli pare pensare ad alta voce rivolto a sé stesso ma in realtà si indirizza a chi lo legge per raccontargli ciò che ha visto, che ha vissuto, con chi o cosa ha interagito nel bene e nel male, descrive con prosa semplice, mai complicata, dialogata, i tipi di varia umanità con cui ha a che fare.
Non solo, ma fa parlare anche con loro i lettori, perciò i romanzi di Marco Vichi non raccontano solo quello che accade a Bordelli, ma anche le storie degli altri personaggi, ciascuno estrinseca il suo vissuto. Non a caso, il clou dei romanzi di Vichi con Bordelli attore principale, vede sempre in primo piano l’ allegra convivialità favorita dalla gustosa gastronomia toscana. Bordelli ed i suoi amici più cari, pochi all’inizio fino ad aggiungerne man mano altri ed arrivare ad una decina di avventori, si riuniscono periodicamente nel casale del commissario, ed il solo lasciapassare per sedere al tavolo e gustare le leccornie approntate da alcuni dei commensali, è che ognuno racconti una storia, vera o inventata che sia. Ne consegue una forma di moltiplicazione dei pani e dei pesci, di storie e di novelle, Marco Vichi non sforna romanzi con Bordelli, scrive invece i racconti del commissario, i suoi libri sono decameroni, infarciti di storie nella storia, di racconti nel racconto, di aggiunte, divagazioni, nuovi aneddoti, aggiornamenti vari.
Vichi, e Franco Bordelli per suo tramite, narrano all’unisono ed a più voci delitti e memorie, fatti e fattacci, prosa, amori, poesie, in particolare il funzionario di polizia si fa forte di tutto quanto ha ricavato assistendo la vita nel momento che accade, oppure, come in questo caso, nel momento che accadeva, giacché “Nulla si distrugge” allude ad un cold case, la scoperta casuale di uno scheletro rivelatore di un delitto occorso tempo addietro.
Nulla si distrugge, è vero, e nulla si crea, i motivi che inducono al delitto ed al malaffare sono sempre gli stessi; tuttavia, non se ne può fare una valutazione standard, Bordelli ha ricavato dalla sua e dall’altrui esistenza lezioni di vita semplice, a misura di persona, facendone tesoro.
Da sbirro aveva sempre tenuto conto di quanto la giustizia potesse diventare ingiusta, se applicata con i paraocchi. Non a caso ha un rapporto di stretta amicizia, direi di fratellanza ed intimità, con un ex ladro alla Robin Hood, non ritenendo sbagliato voler vivere dignitosamente invece di arrabattarsi nella miseria. E se per riuscirci si sottrae ai ricchi quel che per loro sono solo spiccioli, non suona poi così immorale. Perciò nell’esercizio delle sue funzioni è uomo rigoroso, ma non intransigente, è determinato ma non ossessivo, comprende che la tolleranza, la giusta misura applicata al singolo caso è la sola che ristabilisce un minimo di equità civica. In sintesi, Franco Bordelli è personaggio che si spende in prima persona seguendo comunque, in vari tempi e modi, una propria etica di legge e di giustizia, di rettitudine e lealtà. Rischia e si mette in gioco, con coraggio ed umiltà, sa di non essere un santo o un giustiziere, ma una persona imperfetta che ragiona talora più con il cuore che con il cervello. Lo confessa lui stesso, ha sempre detestato i soprusi, fin da bambino, ha lasciato andare più di un assassino. Mai come in “Tutto si distrugge” devia dalla correttezza ottusa, non manda a marcire in galera chi ha commesso omicidi del tutto giustificabili, chi ha tolto di mezzo esseri spregevoli e difficili da incriminare, arrestare e condannare. Si schiera dalla parte di chi subisce, non di chi umilia, oltraggia, maltratta, infanga. Da persona che adora i libri, sa benissimo che l’ignoranza e la miseria sono le più efficienti fabbriche di mostri. Il tutto, entro certi limiti: è inflessibile, infatti, è Nemesi per chi delinque con disumana crudeltà, con gli adulti senza un apparato morale, incapaci di sopportare la sconfitta, di accettare la volontà e i desideri degli altri, e contro coloro che si arrogano privilegi e misfatti travolgendo tutti i derelitti con arroganza e prepotenza, quasi fossero carri armati guidati da bambini. A modo suo Bordelli è poco più che un piccolo borghese, non un eroe benché coinvolto per indole e rigore morale in condotte di rischio e di coraggio, ma un uomo comune che svolge al meglio i suoi compiti secondo come gli detta la propria coscienza di persona buona, di cuore seppur rigida e determinata, con principi etici ben precisi. Il territorio dell’etica si impara a conoscerlo crescendo, è una conquista della coscienza, e a seconda di come si è nati si prende una strada o un’altra: talora è una scelta forzata, talaltra è deliberata, Bordelli perseguita chi volutamente sceglie il male, pur potendo evitarlo tranquillamente, solo loro, e non altri.
Marco Vichi è un ottimo scrittore, piace ai lettori non perché le sue siano storie, o multi-storie, di alta levatura letteraria, Vichi certamente scrive bene e chiaro, non si dilunga ma mette in luce, non mistifica ma porge con cura, tuttavia la sua fortuna è altro, è che soprattutto Vichi racconta.
La letteratura è una lunga catena, e il primo anello si perde nella notte dei tempi, quando, a fine giornata, intorno al fuoco ci si raccontava le giornate, e quindi la vita.
Vichi eccelle perché affabula, novella, è un cantastorie, un menestrello di corte letteraria, un aedo, incanta con il suo dire, nulla distrugge ma tutto reinventa, mette a fuoco i punti nodali del suo personaggio e la sua indole di persona perbene, onesta, di buona educazione, a suo agio con ex prostitute di postribolo, commesse innamorate, questori, agenti semplici, piantoni intenti a disbrigarsi nelle parole crociate, filosofi e medici legali, ex ladri ed agenti dei servizi segreti. Con Marco Vichi si discute di letteratura con chi la sforna, come parlare di farina con un fornaio, si leggono libri e si incontrano dal vivo gli autori preferiti, come, non so, Alba De Cespedes, per esempio, alternando tempi e luoghi, fatti e memorie, intrecciando i mille fili del raccontato a costituire non un gomitolo aggrovigliato, ma un tessuto dalla trama calda, avvolgente.
Bordelli come Vichi è schietto e sincero come sanno essere i fiorentini purosangue, quelli del popolo, i“ maledetti toscani” in senso buono, quelli cioè che sventurati non sono, bensì gioiosi, arguti, positivi.
Che non si distruggono.
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Resistenza sempre
Questo è un libro celebrato da sempre come uno dei più emblematici e significativi sulla Resistenza, ed in effetti lo è a pieno titolo. Per più di un motivo, ma essenzialmente perché è in primo luogo una precisa testimonianza diretta di quei fatti, quasi una cronaca in presa reale, anziché una storia romanzata. La prima edizione compare subito, nell’immediato dopoguerra, quando ancora erano vivi nei contemporanei i ricordi di quei tempi tragici ed eroici ad un tempo; perciò, era facile per tanti riconoscersi nei tipi, nelle vicende, nelle paure, nelle speranze e nelle difficoltà comuni e diffuse.
La stessa autrice Renata Viganò, anche se non vive di persona la specifica epopea di questa sua protagonista, non è quindi un racconto strettamente autobiografico, ne è però di sicuro attrice coinvolta ed interessata, seppure per interposta persona, la scrittrice sa perfettamente di cosa parla, partecipò attivamente alla Resistenza con il nome di battaglia “Contessa”.
Tutto quanto sa la scrittrice è brava a renderlo al meglio, con uno stile autentico ed effettivo, talora agile, tal altra scivolosa, spazia con noncuranza dalle aie indiscrete e linguacciute di poderi e fattorie all’umidore e acquosità di paludi, acquitrini ed argini dove si snoda l’intera vicenda.
La scrittrice racconta bene, ma il suo più che altro è un attento riportare, mettendo in ordine un racconto franco, schietto, spontaneo, anche timido e discreto; i fatti che narra sono il risultato di un fortuito incontro con l’Agnese del titolo, che in un certo qual modo le presenta un rapporto di quanto fatto militando nella lotta clandestina. In particolare, nella zona del Ravennate e delle valli di Comacchio, sotto il crudele controllo dei nazifascisti. L’Agnese cosiddetta è una comune donna del popolo, una contadina semplice più che rozza, dotata di buon senso pratico e di una sana e corretta etica elementare, basata su semplici regole di rispetto e solidarietà tra pari, molto più che su cultura ed intelligenza. Non è un’eroina, non ha militato nelle file dei partigiani come attiva forza di fuoco della lotta armata, ha per lo più ricoperto incarichi logistici, non meno rischiosi e passabili di fucilazione, di fiancheggiatrice, di vivandiera, di staffetta, di portaordini segreti, facendo sempre al meglio e più delle sue possibilità. Ed è, oltretutto, una donna anziana, una rarità di operativi in questo tipo di racconti bellici, che nemmeno si rende conto di quanto ha fatto, dell’importanza che rivestono le sue azioni. Non si tratta di un “Uomini e no” alla Elio Vittorini, nemmeno di donne retrograde, ignare, pie e caritatevoli o all’inverso emancipate, una rarità per l’epoca, informate politicamente e dotate di una ben precisa coscienza civica. Qui ad agire non è una giovane emblema della nuova Italia in cerca di riscatto e che sfata luoghi comuni di azioni compiute brutali inadatte al sesso debole, è una donna avanti con gli anni, per nulla ingenua per quanto invisibile, ignara di politica e questioni sociali, sa solo che giocoforza, lo si voglia o meno, non può più stare ai margini di quanto accade.
Non lo può fare più nessuno, sono i tempi ad esigerlo, serve schierarsi, e farlo in fondo e fino in fondo. Nutre più di un dubbio sulla sua effettiva utilità d’agire, se abbia eseguito per bene quanto a lei richiesto dai capi partigiani, come dimostra il suo intercalare allorché la incaricano di svolgere certe azioni rischiose, risponde inevitabilmente con un “…se sono buona”.
Vale a dire se ho ben capito, se ne sono in grado, se non combino pasticci, non si tira mai indietro e però dubita sempre di essere all’altezza di quanto le richiedono, malgrado l’evidente stima e soddisfazione dei suoi compagni di lotta. Per loro è una mamma, più che una compagna: in verità, anche il loro è ancora un retaggio di un antico stereotipo, Agnese neanche ha figli suoi.
È stata dapprima una moglie, a cui i nazisti hanno deportato ed ucciso il marito, lui sì vecchio militante comunista nella guerra partigiana dagli inizi, ma non è entrata in clandestinità per spirito di vendetta. L’adesione, la spinta ad operare fattivamente in quello che solo la sua coscienza, spontaneamente e non per riflessione politica, le suggerisce, è avvenuta dopo qualche tempo quando, ferita, amareggiata ed oltraggiata dalla disumana violenza e cattiveria gratuita dei nazisti, ne fa fuori uno, dovendo poi sfuggire all’inevitabile rappresaglia.
Restando al fianco dei suoi ragazzi fino all’estremo sacrificio, di lei resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca: e però verrà pure il disgelo, e quei cenci avranno contribuito anche loro a tessere lo stendardo delle persone libere. Senza, sarebbe un vessillo lacerato in qualche punto.
L’originalità del racconto sta in questo, la protagonista non è una classica eroina romanzata, una ragazza bella brava e buona, abile e audace, che arrischia la vita in tribolanti avventure per un’idea di uomini liberi da ogni dittatura, è invece una persona comune, banale, anche paziente, fin troppo, che infine ha detto basta, senza se e senza ma. Non è né un’abile combattente, e nemmeno una decisa e determinata resiliente, è invece un qualunque esponente di una certa umanità.
Il cardine, il fulcro, la vivandiera di quel movimento che spontaneamente, formatosi almeno all’inizio motu proprio, da tanti, di ogni ordine e censo, età, genere, oltre qualsiasi differenza, inizia a muoversi, ad agire. E fa quel che può perché sente da sé quello che deve fare, senza che glielo dica nessuno se non il proprio cuore, mette a disposizione volontariamente le proprie abilità, quello che sa fare meglio, non è una madre ma partecipa, non ha ragazzi propri ma accudisce i giovani, non gli appartengono quei giovanotti imberbi o con le barbe scure, ma per loro si sacrifica, senza esitare.
Perciò resiste, perché non la sua non è insistenza, ma convinzione di essere nel giusto.
Ed è quanto rese vincente la Resistenza, riscattando l’onore svilito del Paese.
Renato Viganò ha reso racconto delle cronache normali dell’epoca, dell’agire eccezionale di quei tempi da parte di tanti, i più, che eccezionali non erano ma furono straordinari, più di tanti saggi fa capire le nostre origini, la nostra storia recente, chi siamo stati, da dove e da chi veniamo.
Certo, è un racconto di neorealismo un po' ingenuo, se vogliamo, molto di parte, distingue nettamente buoni e cattivi, cosa che altri testi dell’epoca, compreso quello citato di Vittorini, evitano, perché la realtà non è mai a colori netti, ma sempre sfumata, rarissimi i bianchi o i neri, molto di più i grigi.
E però, ” L’Agnese va a morire” è un testo importante, è un simbolo, è memoria, è monito, è grazie a lei e quelli come lei se oggi stiamo qui a scrivere, nessuno bussa furiosamente alla nostra porta con i calci dei fucili, costringendoci per sfuggirgli ad andare malvolentieri tra la neve, con le scarpe rotte, eppure bisogna andare. Si deve. Lo capiva Agnese, lo capivano i suoi compagni. E noi.
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Un sogno nel cuore
L’ultimo romanzo di Andrej Longo segna un ritorno: a differenza di tutti gli altri suoi lavori, in verità davvero pregevoli, che potremmo definire “individuali”, con personaggi a sé stanti, unici e irripetibili, questa volta lo scrittore ischitano-napoletano ripropone attori che abbiamo già avuto modo di conoscere in un suo precedente libro, originale e fortunato, “Chi ha ucciso Sarah”.
Trattasi nello specifico dell’agente di polizia Antonio Acanfora, voce narrante che riporta, in forma discorsiva e familiare, così coinvolgendo subito e confidenzialmente il lettore, i fatti, i dialoghi e le personali riflessioni e considerazioni su tutto quanto accade durante il suo servizio, militando in un distretto di polizia di uno dei quartieri più popolari e popolosi di Napoli.
Il suo contrappunto è il diretto superiore, l’alter ego altrettanto semplice ed umile ma più colto e gentilizio, il commissario Santagata, che alle osservazioni semplici, schiette e pragmatiche del suo sottoposto, affianca la profonda conoscenza non solo del mestiere, ma in particolare di usi, costumi, consuetudini, idee e filosofia di luoghi e persone, come dire anima e corpo, di Napoli, storia, cronaca, racconto ed indole della città e dei suoi abitanti.
Insieme ad Acanfora e Santagata operano con vario grado e mansioni gli agenti Scarano, Lo Masto, Cipriani, Cerasella: ognuno a sé stante e tutti insieme a formare una ben affiatata squadra, come quella di una compagine calcistica. Ciascun membro giostra nel suo ruolo naturale, che gli è più congeniale, chi difende, chi attacca, chi coordina, chi para e chi fa gol, chi si fa male e chi subentra, e tutti insieme si schierano al meglio, con un modulo di base o adattandolo alle circostanze ed agli avversari, all’occorrenza ciascuno lascia la sua posizione e corre in aiuto partecipe e sodale con le attività altrui.
Non a caso abbiamo usato lessico e fraseologia calcistica: perché se è vero che qui si racconta di insolite vicende criminose, di cui la squadra viene informata ancora prima che gli stessi accadano, al racconto del quotidiano professionale si affianca quello del personale, come spesso succede nella realtà. L’agente Acanfora, del tutto digiuno di calcio, pallone, partite, e normalmente immune da tifo e scomposte passioni calcistiche, e via dicendo, è costretto, per pressanti ragioni morali, dettati da antica e stretta amicizia, a seguire costantemente, con attenzione, e prendendo pure accurati appunti, il campionato della squadra azzurra. Tutta la città si sta infatti accalorando, si vanno entusiasmando tutti indistintamente, vecchi, giovani, donne e bambini come non avveniva dai tempi di Maradona, Dio in terra erbosa. Non c’è alcuno che, mai come questa volta, in silenzio e trepidando, non stia seguendo appassionatamente le gesta, la trionfale e vittoriosa cavalcata del Napoli in lotta per vincere lo scudetto. In sintesi, questo romanzo non è nulla di diverso, è esattamente come tutti gli altri a firma del suo autore: sempre, nei libri di Andrej Longo, i fatti sono pretesti per descrivere altro, per dichiarare il suo amore, direi di più, la sua essenza di vita, l’origine prima della sua scrittura. L’autore è come uno stilista, fa sfilare nelle sue pagine una ed una sola modella, bellissima ed intrigante, eclettica ed intelligente, che sfoggia di volta in volta tutti i capi del suo guardaroba, da quelli di alta sartoria ai panni più umili e consunti dall’uso. La sola, vera e unica protagonista di tutti i romanzi di Andrej Longo è Napoli, la sua città, e con lei la sua gente che fa da sé per fare per tre, e talora esagera, ma si sa, nessuno si salva da solo, da soli non si può porre rimedio alle mancanze di secoli, nessuno descrive meglio città ed abitanti di quanto sappia fare in poche parole Andrej Longo, e per lui il commissario Santagata:
“…Guarda la nostra città, per dire. È una città piena di persone in gamba, scetate, intelligenti, con mille idee, mille progetti. Persone che spesso fanno sacrifici impensabili, per mettere ogni giorno il piatto a tavola per la famiglia. Però, a mio avviso, ognuna di queste persone lavora solo per sé stessa, chiusa dentro al proprio orizzonte, senza occuparsi troppo di chi le sta vicino. Cosa dicono di solito di noi napoletani: che siamo bravi nell’arte di arrangiarci. Però, chi si arrangia, lavora solo per sé stesso. E questo crea dei limiti che non si riescono a superare. Delle mancanze a cui da soli non si può porre rimedio.”
Con la sua scrittura agile, aggraziata, snella ed immediata, Andrej Longo scrive con eleganza di un sogno, lo fa vivere con pagine vaporose, con parole mai velleitarie, sempre pratiche e snodate, che arrivano a segno. Abbiamo tutti un sogno nel cuore, un desiderio inespresso per timore di vederlo svanire sul più bello, Longo di questo ha scritto, e poiché è un sogno del cuore, ha narrato di un amore. Molti amori sono spesso inconfessabili, a pena di vederli svanire nelle prime luci del mattino, ma non è affatto detto che riescano sempre impossibili a realizzarsi, quasi che sogno fosse sinonimo di chimera. Tutt’altro: però, non devi mollare
L’ultimo romanzo di Andrej Longo forse è un giallo, o solo un racconto di amore e di amori, forse è tanto altro ancora riversato su carta, ma in particolare questa è la storia di un sogno che si realizza.
Di più: una meta che sembra realizzarsi pian piano, quasi in punta di piedi, senza parere e senza neanche citarlo per esteso, un crescendo rossiniano che non riesce a contenere tutta la trepidazione dell’attesa e l’eventuale, auspicabile tripudio finale, servirà un sequel, probabilmente.
Per dare forma compiuta al sogno nel cuore e segnare il gol vincente.
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Reperti dalle necropoli
Con il suo ultimo romanzo Giampaolo Simi letteralmente chiude un quadro, termina con uno svolazzo e rifinisce gli ultimi particolari di una tela iniziata volumi prima.
Non a caso l’intera vicenda qui narrata, un di tutto e di più che pare affastellato alla rinfusa, ed è invece un ordito metodico ed intrigante, è un racconto che ritrae un lungo, tortuoso e travolgente tourbillon di indagini, di azione poliziesca e malavitosa, di misteri e doppi giochi, soprattutto di tormenti umani e sentimentali, che ruota quasi interamente intorno ad un dipinto misteriosamente scomparso, tanto unico quanto prezioso. Il quadro ritrae una giovane donna vista di spalle, effigiata in tela dal proprio padre, artista famosissimo, e chiacchierato, nel mondo dell’arte contemporanea.
Pur essendo un’opera pregevole, di elevata fattura artistica nella sua semplicità, gode oltretutto del privilegio che il suo valore economico lievita in virtù del suo essere esemplare in unica copia. Stranamente però, la tela non è ricercata e ambita da tanti per questo motivo, in primis dalla figliola qui ritratta, la sola che ne avrebbe il diritto di detenerla, Nora; la giovane, con un trascorso tragico e doloroso alle spalle, la desidera intensamente per un valore meramente affettivo. Per un estremo tentativo di recuperare, in qualche modo, il sofferto rapporto con il genitore, con il quale non sussisteva affatto un rapporto idilliaco padre figlia.
Invece, da altri personaggi, in verità ambigui e controversi, la tela è elemento espressamente cercato per effettuare una strana permuta, serve come mezzo di scambio per ottenere altro, un manufatto di valore molto inferiore. Una modesta scultura in pietra, un semplice, anche banale, reperto archeologico, rozzo e rudimentale, per di più rovinato, perché diviso in due tronconi. A tale oggetto in duplice ricerca si dedicano parossisticamente personaggi al di dentro ed al di fuori della legge. Trattasi di una piccola sfinge, e delle sue ali staccate dal corpo, a cui andrebbero successivamente riunite in un’unità, che risulterebbe comunque riparata, saldata, quindi difettosa. Ma tant’è, questo misero bottino di un tombarolo, poco più di comuni suppellettili d'interesse solo archeologico, ottenuto violando antiche tombe, e destinate alla vendita a collezionisti privati privi di scrupoli etici per pura vanteria, è oggetto della ricerca ossessiva di tanti, di troppi, perché è un modo di esaudire una richiesta a cui non si può dire di no, serve per accattivarsi la simpatia e i favori di un cliente facoltoso ed importante, per quanto capriccioso e intestarditosi per quel possesso.
Insomma, non si esita a barattare in perdita, si è disposti a cedere una tela pregiata sul mercato pur di avere in cambio, nella sua interezza, un pezzo assai meno pregiato rinvenuto in una antica necropoli, trafugato su commissione per il prestigio che ne deriva al cessionario di accontentare il misterioso ed eccentrico committente, un cliente di riguardo da cui ottenere vantaggi più futuri che immediati.
“Il cliente di riguardo” di Giampaolo Simi termina in qualche modo, almeno per il momento, la recente tetralogia dello scrittore, è l’uscita che gli serve per chiudere la mano di poker del raccontare soprattutto la vicenda e le tribolazioni umane del suo personaggio più noto e forse quello meglio riuscito, l’ex cronista di nera Dario Corbo.
Corbo, infiltrato in certi ambienti mafiosi come collaboratore del Nucleo recupero patrimonio artistico dei carabinieri, è un ex giornalista ora addetto stampa della Fondazione artistica diretta dalla donna che ama, ha un passato tragico per la morte della moglie Giulia, assassinata dalla malavita probabilmente proprio a causa delle sue attività di doppiogiochista, è macerato per questo dai sensi di colpa e di rivalsa, e dalla preoccupazione per il figlio Luca, giovane trainer di una improbabile compagine calcistica di persone con disabilità.
C’è di tutto in questo libro, c’è la Mafia, i vertici di Cosa Nostra, la piccola malavita spicciola e di stupida manovalanza; ci sono i buoni, i magistrati, i Carabinieri; ci sono immensi capitali occulti, connivenze, complicità, corruzione, protezioni altolocate; in sintesi una trama complicata, personaggi numerosi, che quantunque ben delineati, danno adito a più di un dubbio e diverse domande.
Giampaolo Simi scrive molto, racconta tanto, è certamente chiaro e lineare, ma corre volutamente il rischio di non piacere. Più di uno è certamente tentato di mollare la lettura a metà strada, forse è incoscienza o un rischio calcolato il suo. Fatto sta che la scrittura difficile, faticosa da seguire, talora ingarbugliata, che spinge a chiedersi dove si va a parare, infine piace. Simi può non piacere, ma aggrada; può risultare pesante e contorto, ma si accetta; si predilige un ritmo più veloce, ma lo si accoglie tra le proprie letture. Perché tutto si ricompone, tutto si riconduce a logica, tutto rimanda alla realtà, al vissuto reale del Paese e delle persone. Nessuna meraviglia, nessun colpo di teatro, niente finali ad effetto, Giampaolo Simi riporta le cronache del reale, lo fa con l’abilità narrativa dello scrittore sperimentato, con acume, intelligenza, capacità di costruire trame articolate e personaggi credibili, narra i fatti e le azioni ed intanto scorre le pagine interiori dei suoi protagonisti, riporta alla luce i reperti delle necropoli, e li espone nelle teche.
I musei magari annoiano, ma in fondo affascinano.
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Ladri di polli
Certi autori stanno ai loro personaggi più fortunati perché, tra l’altro, le loro creature appartengono intimamente alle location in cui l’autore sceglie di farli agire: che è in genere una città che lo scrittore conosce al meglio, non di rado quella di origine del narratore.
Succede così per il Montalbano di Camilleri, siciliano ed intrinseco alla sua Vigata; per il commissario Luigi Alfredo Ricciardi di Maurizio De Giovanni, che agisce nella Napoli degli anni Trenta, in pieno regime fascista, o nella Partenope dei nostri giorni con la squadra investigativa detta dei Bastardi di Pizzofalcone; o ancora per il vicequestore Rocco Schiavone di Antonio Manzini, che è in servizio coatto effettivo in quel di Aosta, per un incidente di percorso, ma è un “romano de Roma” purosangue, ed alla capitale appartiene e riconduce il suo substrato vitale.
Infine, è di Milano, e tra le righe soprattutto di Milano si parla nella serie che vede protagonista Carlo Monterossi, personaggio dall’esistenza comoda e privilegiata dei romanzi ancora più fortunati di lui a firma di Alessandro Robecchi.
Robecchi è narratore abile e consumato, con scrittura affabile, un inciso divertente e godibile, ha una prosa piana e tranquilla, talora anche avvincente, ma per lo più articolata.
Intendo con questo sottolineare che Alessandro Robecchi è bravo a giocare su più tavoli, le sue trame cioè non sono mai uniche, è in grado di produrre come pochi altri una storia esauriente, ampia e spaziosa di suo, di piacevole lettura ed esaustiva di per sé. Però il nucleo principale dei suoi romanzi è come un grande bacino artificiale, che si riempie perché alimentato da tanti rivoli. Questi, come fiumi confluiscono a riempirlo ognuno con un proprio percorso, più o meno irto di ostacoli, dislivelli, curve e bruschi salti o cambi di direzione. Si crea infine una caterva di combinazioni, che allorché si aprono le chiuse del bacino, generano una cascata di fatti che formano un tutt’uno lineare, originale, logico, si ricostruisce un lago più in basso, al termine del romanzo, sulla cui superficie si riflettono i fatti e gli antefatti, i protagonisti ed i comprimari, a creare un paesaggio lacustre chiaro, limpido, incantevole. Il suo ultimo lavoro, “Pesci piccoli”, stavolta magari richiama un mare, in cui vivono tante specie ittiche, talora le più interessanti sono quelle piccole, abili a cavarsela contro i grandi predatori, o almeno ci provano, con tanti sotterfugi, dalla fuga al mimetismo.
Su questo mare, naviga il nostro Monterossi.
Carlo Monterossi è uomo dalla duplice personalità, come molti milanesi: con questo, intendiamo che non è affatto un campione di doppiezza, tutt’altro, anzi a modo suo è davvero una bella persona, di gran cuore e intelligenza, lineare e corretta, generoso in particolare nei confronti di coloro, spesso i più semplici e puri di cuore, con cui il destino non è mai stata granché prodigo.
In lui convivono però due anime, o sarebbe meglio dire due metà uguali e speculari, una estremamente pratica, da professionista capace ed affermato, ben adatta alla “Milano da bere” a cui appartiene, quella scintillante degli agi, dei lussi, dei privilegi; e l’altra lirica, malinconica, poetica.
Monterossi sarebbe un uomo semplicemente entusiasta della vita, di cui sa apprezzare le cose belle in tutti i campi, dall’arte alla gastronomia, dai lussi anche frivoli dell’esistenza fino all’accompagnarsi a donne di gran classe, è davvero un romantico sognatore, profondamente intriso di empatia umana. E però il suo vissuto quotidiano è spesso grigio, tetro, deludente ed avvilente, talora violento, lo fa ricredere e lo rende meno empatico e molto più amaramente diffidente.
Troppo intelligente e sensibile da restare indifferente a quanto vive; in un modo o nell’altro infatti, più spesso direttamente, tocca per mano e ha a che fare con le miserie umane, i delitti, gli intrighi, le ingiustizie dei potenti verso i più deboli, le loro insidie, gli inganni, le prepotenze e le soperchierie di quel tipo di umanità tanto potente quanto volgare ed egoista, assai più gravi e nascoste di quelle semplici, stupide, piccole cose la cui spettacolarizzazione lo rende, suo malgrado, un uomo facoltoso. Nell’ambito professionale, Monterossi è libero imprenditore di sé stesso; è dotato di notevole capacità di ideazione e realizzazione di format televisivi che meglio incontrano i favori del pubblico, richiamando succulenti sponsor pubblicitari. Questo nelle sue pie intenzioni: ne apprezza il lato pragmatico, è profumatamente remunerato, quale fortunato autore e ideatore di testi e programmi rotocalco che vanno per la maggiore nelle televisioni commerciali, ma sono diventate, disgraziatamente per la sua dignità e la sua intelligenza, prodotti di alto, altissimo gradimento delle masse, questo sì, ma di quelle ignoranti, ottenebrate dall’etica corrente dei nostri tempi, a base di frivolezze e stupidaggini vari. Carlo Monterossi è l’ideatore di “Crazy love”, un contenitore trash davvero di pessimo gusto, e però con audience da capogiro, che fa le scarpe ad analoghi programmi -spazzatura in giro sulle varie emittenti. Condotto dalla conduttrice Flora De Pisis, emblema perfetta della pochezza della trasmissione, dell’idiozia e della futilità del suo contenuto artistico e giornalistico, ciò nonostante, con seguito crescente. La De Pisis è avida di gloria ed ascolti, è più attrice che conduttrice, per di più falsa e bugiarda, senza alcuna remora morale, è una donna fintamente e posticciamente elegante ed amabile in video, in realtà con una perfida anima ben celata da sguaiata pescivendola, disponibile per il successo a vendersi anche il padre pescatore.
Una trasmissione di cui Carlo Monterossi si vergogna immensamente, prova un dolore lancinante a vederlo in onda, pur essendone stato origine e parte in causa, non riesce a liberarsene a causa delle forti penali contrattuali, cerca in qualche modo di tenerne le distanze, provando a riportarla, senza alcun successo, ad una dimensione più seria, magari sempre frivola e spettacolare, ma con un aspetto a misura d’uomo intelligente e non di massa bruta, e perciò decente, composto, decoroso.
Invano, e allora sopperisce diversamente, estrinseca nella vita fuori dagli spot il suo vero io.
Dentro di sé, nel suo cuore, all’esterno degli studi televisivi, magari anche all’interno della sua lussuosa abitazione, Monterossi mostra la sua vera essenza, la sua anima di milanese doc.
All’ombra della Madonnina vive la vita, e ne partecipa, è sodale con i suoi simili, non se ne sta con le mani in mano, porge la mano quando e se serve per ricomporre un minimo di equità civile.
Collabora allora, più che ufficiosamente, diremmo clandestinamente, con la polizia, o meglio con quei rappresentanti della legge a cui il fato lo ha legato con simpatia, gli agenti di polizia Ghezzi e Carella, e poi con gli amici investigatori privati Oscar Falcone ed Agatina Cirrielli dell’agenzia Sistemi Integrati. E poiché tutto il mondo è un grande paese, e siamo d’accordo, ma Milano è una grande Milano, ecco che allora fatti e persone diversissimi tra loro, come un presunto miracolo di un Cristo ligneo che si illumina, la costruzione di una diga in Africa, che vede impegnate grandi aziende di edilizia con tanto di segrete connessioni politiche, nonché ingegneri, guardie giurate, donne delle pulizie, vecchie sartine ed immigrati addetti al food delivery benché maghi dell’informatica, tutti si intersecano tra loro, si incontrano, si sfiorano, si scontrano in una miriade di combinazioni.
L’esistenza sfugge ad ogni logica, o meglio ne ha una tutta sua, tipicamente beffarda, si crea una reta fittissima di coincidenze, casualità, accidenti, imprevisti, tutte però parte in causa in un progetto super partes perché infine tutti i nodi vengano al pettine. Un’eterna lotta tra il bene ed il male, tra il potere bieco e prevaricante, e coloro costretti a subirlo, in un gioco a rincorrersi tra gente ricca e potente che maneggia affari loschi per milioni contro gente comune, come dire Davide contro Golia, guardie e ladri. Dove le guardie non sono certo gli amici di Monterossi, ma la classe dominante, spesso coincidente con i lerci parassiti della società, e i ladri sono, tutt’al più, ladri di polli, piccoli pesci che si arrabattano come possono per raggiungere, e con gran fatica, la paga da fame, la soglia minima degli ottocento euro mensili, indispensabili per la pura e mera sopravvivenza, quella per cui c’è tanta gente, tantissima, che corre. Ed è già tanto che non vengano ad impiccarci tutti. Perché Milano è una grande metropoli, è come un oceano, e nel gran mare nuotano sardine, tonni, squali. Inutile dire per chi solidarizza Monterossi, che di un pesce piccolo, o meglio di una sirenetta di nome Teresa, finisce pure per innamorarsi. Dopo tutto, è autore di Crazy Love.
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Il velo di Maya
Il protagonista di una fortunata serie di romanzi seriali, proprio come una persona reale, non è una realtà statica, è mobile, cambia, cresce, vive; negli autori migliori addirittura vive di vita propria, neanche il suo creatore sa di preciso dove andrà a parare crescendo e raccontandolo.
Talora sorprendendolo e sorprendendoci, esattamente come sa ben fare la vita da par suo.
Negli anni, un personaggio come una persona reale accantona ricordi lieti e tristi, rimpianti, nostalgie, acciacchi, tende a cambiare, a fare bilanci e considerazioni diverse proprio in virtù delle esperienze acquisite. Non è che non riesce più ad orizzontarsi, è che i colori non sono più accesi come in passato, la luce sta calando, il sole è al crepuscolo, l’orizzonte di notte c’è sempre, ma non si riesce a vedere.
Questo è quello che accade all’avvocato Guido Guerrieri ne “L’orizzonte della notte”, l’ultimo romanzo del magistrato felicemente prestato alla scrittura Gianrico Carofiglio.
Avvocato penalista in Bari, Guerrieri è investigatore quasi per caso, per forza maggiore; infatti, per indole propria nell’esercizio della sua professione cerca e persegue prima la verità dei fatti, certamente non per una astratta e irrealizzabile ideologia utopistica di giustizia, equità e rettitudine, fini a sé stante. Guerrieri è persona spiccia, pratica, esperta, considera acquisire il più possibile nelle diatribe giuridiche come sono andate effettivamente le cose, non la verità astratta, sempre relativa e opinabile, ma per appurare il contesto reale in cui i fatti stessi sono giunti a maturazione, è questo l’ elemento essenziale per un principio di equilibrata difesa del suo assistito, certo non per approntare scuse e cavillosità ostinate, che sono aliene al suo modo fondamentalmente retto di essere e di esercitare la sua professione. Guido Guerrieri è un legale che abbina ad una buona conoscenza delle aule giudiziarie una particolare sensibilità di persona, a renderlo professionista affermato, fallace ma coerente ed organico, prima con sé stesso e poi con colleghi, addetti ai lavori giuridici e clienti, è il suo essere persona aperta, ricettiva, cortese. Possiede spiccata indole e propensione all’ascolto ed alla logica derivante, ed è tanto a dargli spunti, idee e riflessioni per ricondurre un processo nell’alveo della conclusione più corretta, moralmente accettabile, soprattutto accessibile, poiché troppo spesso voler fare giustizia resta solo un concetto accademico. L’avvocato Guerrieri non difende, considera; indugia sulle prove ed i riscontri, ma li tiene in conto alla luce del contesto umano in cui si svolgono gli atti, quelli delittuosi in maniera particolare, perché spesso l’andare contro la legge è più una costrizione o una fallace ricostruzione anziché una utilità per il reo o presunto tale. Il nostro avvocato è felice protagonista di alcuni dei romanzi più belli di Carofiglio, la sua creatura forse meglio riuscita, resa benissimo da una scrittura precisa, diligente, calibrata e capillare.
Gianrico Carofiglio è titolare di una penna colta, ha trascorsi di magistrato, ma oltre ogni altra cosa è un fine intellettuale, un amante di libri e buone letture che gli hanno dato l’input a misurarsi come scrittore; non a caso nei libri di Guerrieri è presenza costante una caratteristica libreria esclusivamente notturna, l’”Osteria del caffellatte”, aperta tutta notte per una clientela d’élite affezionata, con chiusura appunto all’ora della prima colazione. Carofiglio scrive di ciò che sa e conosce a menadito, e bene, possiede prosa agile, scorrevole, spiega e rende, ma non è mai pedante, delinea il racconto in modo fiscale ed a tutto tondo, sottolinea con evidenza nitida i concetti del suo dire, redatti con logica deliziosa, leggere il magistrato significa fare letteratura della giurisprudenza, ammanta di poesia il codice più astruso, si fa seguire agevolmente. Non scrive di gialli, ma di violazioni della legge, non riporta investigazioni, ma riproduzione di condotte delittuose, sempre queste storie trovano il loro epilogo nelle aule dei tribunali, ed il loro compimento nella giustezza della ragione.
Guerrieri qui e ora è alla soglia dei sessant’anni, è uomo attivo, ma stanco: non è più un giovane avvocato con un piccolo studio ed una sola segretaria tuttofare ad assisterlo, è titolare di uno studio affermato, ed a detta del suo consulente finanziario potrebbe ormai ritirarsi a vita privata e smettere di esercitare. Cosa che medita di fare. Perché a lungo andare, le maglie della legge finiscono per mostrare tutti i punti, tanti e troppi, in cui la rete si è smagliata, Guerrieri allora un bel momento si ferma e si fa domande, non sa più che senso abbia la sua vita, e la sua professione, che occupa gran parte della sua esistenza. È come un vecchio pescatore oramai mezzo cieco che non fa più altro che tirare le reti a secco per ripararne i danni, dopo tanto navigare sui flutti dell’esistenza. Ha visto porti, solcato altri mari, incontrato persone nuove e ne ha riviste altre, ha variato cieli ed orizzonti, ora che cala il buio è stanco del continuo rammendare, la notte non mostra più l’orizzonte. Da bravo professionista sa che giunge un momento in cui si può, e si deve, cercare aiuto, ed accettarlo, e l’aiuto migliore sa darlo solo un altro bravo professionista, per cui il legale non esita ad affidarsi ad un valente psicoterapeuta. E intanto un vecchio amico, il titolare della libreria “L’Osteria del caffellatte” gli formula una richiesta a cui non può sottrarsi: difendere in giudizio una signora dell’alta società, Elvira Castell, rea confessa di omicidio nei confronti di un poco di buono, l’ex compagno della sorella gemella Elena, da poco morta suicida su probabile istigazione del pessimo soggetto. Il morto è un piccolo delinquente, ma della peggior specie di parassiti, bieco e violento, una specie di gigolò che vive di sotterfugi, espedienti, piccoli reati, abile manipolatore di persone fragili, colpevole di aver sottilmente istigato al suicidio la compagna per approfittarne dei beni, per finire poi ucciso nel mentre provava ad aggredire la sorella della defunta che gli rimproverava la sua colpa.
La cosa resa così però così com’è non persuade affatto Guerrieri, che tuttavia accetta l’incarico, fino al discusso e controverso finale. Nel mentre prova a ricomporre la vicenda, parallelamente l’avvocato si sottopone all’analisi, si crea così un connubio tanto intenso ed insistente, sentito e sofferto, eppure terso, lineare e intrigante tra analisi dei fatti e analisi dell’io, la scomposizione dei dati e dei personaggi dell’inchiesta e la ricerca e verifica del proprio vissuto, un dialogo interiore tra l’io corrente e quello trascorso, provando ad intuire il senso dell’iter esistenziale compiuto finora, a fianco all’iter giudiziario da gestire professionalmente. Guido Guerrieri allora a giuste dosi appronta sia il sale del delitto che il soluto della sua persona, giunge alla soluzione che è unica e univoca, la filosofia del vivere consiste nel sollevare con coscienza il velo di Maya, l’illusione che nasconde la vera natura della realtà. Per valutare le cose, non bisogna illudersi, le stesse non vanno viste, vanno vissute. Il giudizio va sospeso, le cose vanno accettate per come sono, con le loro rotture, le loro imperfezioni che non vanno nascoste, o peggio ancora cancellate e sostituite. Come, per esempio, si fa in una antica arte giapponese, che consiste nel riparare le ceramiche rotte stuccando le crepe con polvere d’oro: l’oro impreziosisce, evidenzia le crepe, e intanto le rende uniche e insostituibili. Gli errori rendono amabili.
La vita può scoraggiarci, è vero, ma il modo migliore per contrastare il nostro scoraggiamento consiste nell’incoraggiare gli altri. Aiutare gli altri, questo ristabilisce giustizia, ordine, equilibrio, ci fa stare bene, funziona per gli umani come per chiunque altro in Natura, restituisce un senso ai giorni della nostra vita.
Quindi anche a Guido Guerrieri ed alla sua arte giuridica.
Perché non è affatto vero che giunge il momento che non si distingue più l’orizzonte, che di notte l’orizzonte non si veda più. L’orizzonte esiste sempre, se solo vogliamo vederlo, è chiaro e luminoso, in verità, è davvero solare, come il sole di mezzanotte.
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Giochi di guerra
Sulle piattaforme streaming è disponibile il film omonimo a regia del noto attore Claudio Bisio, che ne ha tratto in verità un buon lavoro, permeato da una sottile ironia, talora insistendo come da suo ruolo più in una palese vis comica che in un concentrato di genuina ed affettuosa amicizia tra coetanei preadolescenti, come in effetti è, riuscendo tuttavia a mantenere intatta almeno un tanto del valente intento etico e poetico del romanzo che, nel testo all’origine della sceneggiatura, è l’attributo principe. L’amicizia vera, innocente, genuina, è il punto di forza, il cardine su cui ruota agevolmente il toccante resoconto di un viaggio di iniziazione. “L’ultima volta che siamo stati bambini” è un libro dolce, gradevole, davvero delicato, a firma di Fabio Bartolomei, un racconto suggestivo e struggente una volta letto per bene il contenuto tra le righe. Perché il testo scritto in sé può apparire didattico e moraleggiante, magari piatto, banale, parecchio infantile, più un racconto pedagogico, a tratti idilliaco, anziché quello che in effetti è, una cronaca spassionata, stupita e sconcertata di tempi aspri e tormentati. Durissimi per il corpo e per l’anima, specie per gli ultimi come possono esserlo solo i bambini, da loro stessi testimoniata, e perciò reale, prosaica. Succede spesso quando si narrano le storie con bambini protagonisti, che si sottovaluta il contenuto, quasi che la letteratura con bambini sia identica a quella per bambini, che è cosa ben diversa.
Si tende a classificarla in serie inferiore, quella delle favole fini a sé stesse, a scambiare l’infanzia per un universo alieno, gratuito e superficiale, da sopportare con pazienza, magari sorridendone, e scadere nello stereotipo dell’incanto del tempo dell’infanzia innocente e inconsapevole, ignara e persa dietro futilità, marachelle, pensieri e parole fatue. Quasi che i bambini non fossero individui in divenire, si, ma pensanti, soggetti attivi a sé stanti, creature seppur con meno anni, e però senzienti e recipienti, ricettivi con attenzione, elaborazione e saggezza di tutto quanto gli si propina nella crescita.
Trattandosi di bambini, si tende a sminuire, a distrarsi, a non prestargli importanza, quasi fosse un’epoca della vita in cui quanto gli accade, tranne pochi accidenti, non può rivestire soverchia importanza ed interesse, niente a che fare con i fatti davvero importanti dell’esistenza.
I bambini sono irrilevanti, infine, i fatti salienti sono altri, almeno all’epoca in cui è ambientata la storia, all’indomani del disastroso armistizio di settembre del ‘43 nel nostro Paese, diviso in due tra tedeschi e repubblichini da una parte, alleati e partigiani dall’altra, insomma cose serie, cose da adulti: la guerra, la politica, le leggi sulla razza, il rastrellamento di ebrei e la loro deportazione, e cose così, affari assennati, fondati, giudiziosi, di primaria importanza, non giochi da bambini. Dimenticando che i bambini ci guardano, assimilano, imitano, fanno loro anche i giochi di guerra, e però la loro mente, il loro giudizio, le loro considerazioni non sono ancora deteriorate dalla crudeltà umana dettata dal delirio di onnipotenza, di odio per i presunti diversi, dall’assenza assoluta di empatia, affetto e solidarietà per i propri simili. Le gesta, i pensieri, le riflessioni dei piccoli, in particolare dei primissimi preadolescenti, sono ancora germogli in divenire, il loro primo humus ancora si basa sull’empatia, sull’amicizia, sull’affetto e sul calore tra di loro, sulla concordia e l’armonia, finanche sul cameratismo, inteso però come aderenze comuni, lealtà, accordo, in sintesi rispetto, tutto quello che purtroppo troppo spesso si perde poi in là negli anni, per pura omologazione con la massa disgraziata.
Fabio Bartolomei utilizza con semplicità una prosa agile, rapida ma non sbrigativa, funzionale ed efficace nel tratteggiare i suoi personaggi, stilizzandone i caratteri significativi e le loro azioni, con poche pagine svelte, spedite. Direi che è dotato di uno stile disinvolto che dice, descrive, racconta, poi lascia il lettore libero di fare le sue considerazioni, fornisce un assist spiccio, però logico e ordinato, da cui trarre inevitabili riflessioni che ammaliano, colpiscono, spesso commuovono, sempre ti toccano.
Questo romanzo non è un racconto di crescita, è piuttosto una storia di resistenza di bambini che non intendono crescere a misura di adulti, di quegli adulti, i più, che manifestano sentimenti a loro estranei di inimicizia, di contrasti, di dissapori e discordie.
Quattro bambini nella Roma bombardata dagli alleati, con la guerra becera, il duce destituito, i tedeschi pronti a rastrellare i partigiani, la fame, la miseria, la paura: eppure si ostinano a restare bambini. A fare amicizia tra di loro, a parlarsi, a confrontarsi, ad aiutarsi malgrado differenze di vario genere, manifestando il tutto nell’unico modo con cui i bambini comunicano magnificamente tra loro, con il gioco. Finanche giochi di guerra: ma la loro non è la distruzione cieca ed insulsa degli adulti, fanno la guerra magari con spade di legno, scudi di cartone, fionde, certo finanche con armi più moderne, armi giocattoli o realizzati ex novo con la loro fantasia che ricicla abilmente materiale di risulta. Bambini diversissimi tra loro: Italo, l’obeso ragazzetto balilla figliolo del podestà locale, Cosimo, che viene da una famiglia popolare, privato a forza dal prediletto papà spedito al confino perché antifascista, Vanda, una ragazzina orfana cresciuta in un convento dalle suore, tanto abile e intelligente quanto sofferente per la mancanza di una famiglia, ed infine un piccolo ebreo, Riccardo, con tanto di stella di Davide cucita sul petto.
Tutti insieme appassionatamente: poiché la loro unione genuina, e di conseguenza di fratellanza, di intesa, di elezione. crea tra loro un legame leale di appartenenza, una vera e propria etica amorosa che li isola, li protegge, li accudisce, come e meglio della migliore delle famiglie.
Perciò quando un bel giorno il piccolo ebreo Riccardo sparisce di colpo, e con lui tutta la sua famiglia, e quasi tutti i residenti del ghetto ebraico, i tre rimasti chiedono, girano, indagano, finiscono per scoprire che il loro amico, del tutto uguale a loro, anzi molto più “ariano” di quanto favoleggiano gli adulti, i tre sono tipici italiani bruni e scuri ed il loro compagno ebreo è invece biondo e con gli occhi chiari, finiscono per scoprire che Riccardo è stato caricato su un treno con destinazione in Germania, in un posto un po' misterioso, ma comunque non malvagio, si dice che lavoreranno e se si comporteranno bene, ecco, allora sono al posto giusto, lì il lavoro rende liberi.
I tre però non ci stanno: si informano, pare che la Germania non sia poi così lontana, basterà seguire i binari del treno, poi una volta giunti lo libereranno, spiegheranno tutto ai tedeschi, la bambina grazie ad una suora germanica parla bene il tedesco, uno di loro è il figliolo di un gerarca fascista della prima ora e fratello di un eroe militare, il terzo è pronto a giurare che l’amico ebreo è in realtà di razza italiana pura, insomma i tre, di nascosto dalle famiglie, si mettono in viaggio decisi a raggiungere Riccardo e riportarlo alla base. Un viaggio che si rivelerà un percorso di iniziazione, un tour a modo loro avventuroso e faticoso, una specie di traversata con una zattera sui marosi dell’esistenza adulta, un po' come quello che a suo tempo descrisse Mark Twain, quello di Huck Finn e dell'inseparabile amico Tom Sawyer; solo che il mondo degli adulti, avranno modo di scoprire, è ben altro che saggezza, maturità, benevolenza, è un universo ignorante, maleducato, anaffettivo e inconciliabile con la sola vita detta a misura d’uomo, che è quella a guisa di bambino. Per questo, a cose fatte, per potersi salvare l’anima, dovranno necessariamente rivedersi dove tutto è iniziato, l’ultima volta che sono stati bambini. Loro direbbero per amore del loro amico, ma gli adulti, si sa, sono sempre tanto stringati quanto pomposi, usano dire: Per non dimenticare.
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Cattivi ragazzi
Dimenticatevi il burbero bonario Maigret, questo è un romanzo di Georges Simenon un po' insolito, durissimo, spietato, brutale quanto il protagonista, l'autore ci appare più coinvolto direttamente in quanto scrive, e perciò più cupo, forse, e non solo perché l’epoca è quella buia dell’occupazione nazista. Direi invece che trapela chiaro come sia un romanzo letteralmente redatto da un autore sofferente interiormente per motivi suoi, come in effetti è, depresso e dolorante. Intendiamoci, la mano è sempre la sua, però la penna per quanto valente è intinta in un inchiostro nerissimo, accecante, cinico nella sua oscurità. Simenon è normalmente un attento osservatore di fatti e persone del suo tempo, ma in particolare sa leggere benissimo nel cuore dei suoi simili. Il più delle volte quello che legge non è luce, non tutto almeno, ma stavolta sembra soffermarsi particolarmente solo sulle linee più marcate a carbone brunito. Protagonista è Frank, un ragazzotto triste e sprezzante, all’apparenza uno come tanti, che però è quello che definiremmo un giovanotto parecchio problematico. Privo di padre e di una qualsivoglia guida morale, poiché la madre è coinvolta nei biechi affari del meretricio, è di conseguenza pessimo esempio educativo da seguire, il giovane Frank cresce come un vizioso sfaccendato, non studia, non lavora, batte la fiacca oziando con gli amici. Neanche ha bisogno di mostrare il meglio di sè, comportarsi da bravo ragazzo simpatico ed attraente per rimorchiare qualche ragazza, infatti nell’impresa di famiglia ha modo di sfogare i suoi ormoni in subbuglio, senza sforzo, gratis et amor dei, per cui persiste a militare tra i cattivi ragazzi. Il tutto lo rende un individuo affatto solare, con un cipiglio duro e cattivo. L’ozio è il padre dei vizi, e in un giovane immaturo e presuntuoso, con le carenze affettive del nostro, insieme ad una sorta di innata cattiveria e scarsa empatia per i suoi simili, inevitabilmente lo spinge sempre più in basso nell’abisso dell’abiezione, fino all’assassinio. Né vale ad arrestarlo l’intervento amorevole della crocerossina di turno, questa non è purtroppo una storia tipo la bella e la bestia. Di quella favola c’è sola la neve, ma non è candida, fresca, immacolata, è neve sporca, perciò grigia, scura, rispecchia l’anima del protagonista: una persona odiosa e pericolosa, da mandare a processo per il suo delitto perché gli venga comminato il giusto castigo, quasi come se “La neve sporca” fosse a suo modo un connubio tra “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij e “Il processo” di Franz Kafka.
Solo che, e questo Simenon lo dice tra i denti, più che le righe, la neve prima di sporcarsi è bianca, disarmata, virginea. Lo era anche Frank: che aveva il vizio, forse più che pavoneggiarsi che per altro, di stringere gli occhi a fessura. La luce sarebbe passata anche da quella crepa, illuminandogli l’anima nera che si ritrovava certamente non per sua sola colpa. Però è rimasto indietro, nessuno si salva da solo, chiunque chiede salvezza, Frank è ragazzo buio perché conosce solo il buio: aspirava anche lui ad amore, affetto, empatia. Ma aveva stretto gli occhi troppo forte perché le emozioni solari filtrassero; magari trapela un lieve barlume, diciamolo tra i denti, è un cattivo ragazzo, ma più vittima che carnefice. In sintesi, un Simenon diverso, sempre grande, però a denti stretti.
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Città nuova
Più che una forte scarica di un temporale, trattasi di uno scroscio improvviso di acqua piovana, che però, a causa di un forte vento che spira in senso contrario, crea un turbinio tale che le gocce di pioggia colpiscono il malcapitato di trasverso. Quindi non c’è ombrello che tenga, è battaglia persa proteggerci dall’acqua con il vento che gonfia il parapioggia in senso contrario, come una vela in balia del maestrale, a rischio di strapparcelo di mano, ci bagniamo lo stesso di piovaschi che ci beffano trasversalmente, siamo destinati a soccombere alla ria sorte, e a inzaccherarci comunque senza rimedio, per quanti sforzi facciamo con l’indomabile paracqua, inclinandolo per ripararci in qualche modo. Come dire, un fluire spiovente sorto inatteso e sgradito, fastidioso: un po' come un nostro antipatico e petulante conoscente, in cui ci siamo disgraziatamente incappati mentre eravamo presi dalle nostre faccende. Senza manco salutarci o perdersi in convenevoli, costui con voce querula attacca bottone e inizia a spettegolare di tutto e di tutti, taglia i panni addosso a chiunque ha la sventura di conoscerlo magari solo superficialmente, magnifica solo sé stesso, la sua sagacia e la sua oculatezza, senza interrompersi un momento per dare agio di qualsivoglia replica, e parlandoci sopra letteralmente si pone di trasverso, ci rimbambisce di chiacchiere futili, inzaccherandoci di fango.
Ecco, questo usuale tipo di umanità, anche molto comune, che è importuno e ci importuna nostro malgrado, a Napoli si usa dire che è uno che: “parla a schiovere”, vale a dire blatera fastidiosamente.
Tutt’altra cosa invece è “A schiovere”, l’ultimo lavoro di Erri De Luca; dove lo scrittore napoletano, però, prende il termine a prestito dalla saggezza popolare indigena sua per indicare come nascono i suoi raccontini: d’improvviso, mettendosi poi di trasverso rispetto a quanto stava già facendo, magari di urgente, mentre pensava e si industriava in ben altro, ma è colpa del suo estro potente che non lo molla più, lo spinge a costo di mettersi di trasverso sulla sua strada a scrivere, e per nostra fortuna a condividerci il suo pensiero. Pensieri, scritti e riflessioni che non ci vanno mai di trasverso come un boccone malandrino, sono invece gustosi, prelibati, ma non solo, anche essenziali nei sapori.
Erri De Luca è fortunato titolare di una scrittura scarna, asciutta, lineare, nessuno dei suoi libri conta mai molte pagine, sia che si tratti di romanzi, di saggi, di cronache, De Luca padroneggia la sua lingua e il suo dialetto, si cimenta finanche nell’ebraico, ma sempre usa poche parole, le più adatte alla bisogna, e sempre straordinariamente esaurienti, appropriate, esaustive, convincenti.
Qui lo scrittore napoletano ci presenta quello che a prima vista sembra un glossario, un vocabolario di voci e modi di dire nel dialetto della sua città. In verità, è ben altro, solo un titolo, un pretesto per dire di più, non “a schiovere” ma direttamente, incisivamente e senza tanti giri di parole; e mentre lo dice tende ad infarcirlo della memoria delle sue origini, dei suoi natali, aromatizza di gusto il suo dire con il racconto a volte comico, altre curioso, sempre istruttivo, dei suoi primi anni di vita, di studi, di lavoro nella sua Napoli, Nea-Polis, città nuova, perché è la sola che sa, che conosce e che si rinnova sempre pur restando sempre fedele a se stessa. L’esistenza dell’autore si è poi snodata e proseguita in altri lidi, ma Erri de Luca tuttora pensa in napoletano e racconta in italiano, ne viene fuori un felice connubio che piace, intriga, ammalia. De Luca è stato liceale del classico, operaio di infimo rango, politicamente impegnato come fondatore ed attivista di gruppi dell’estrema sinistra; partecipe in prima persona, rischiando più volte la morte, nelle iniziative di soccorso umanitario in zone di guerra; alpinista e amante della montagna e delle solitudini da eremita; studioso autodidatta di lingue straniere che padroneggia alla grande, tra cui yiddish e l'ebraico antico, traduttore della Bibbia, ma prima di ogni altra cosa, è un poeta, un osservatore, un romanziere: e racconta, e ci racconta. Racconta bene, con voce roca, esponendo i fatti essenziali, e dispensandoci leccornie di vita e di esperienze vissute in prima persona. Con parole scarne, austere, non è che qui si diletta a vantare la sua conoscenza del lessico arguto ed intelligente dei suoi conterranei, ne fa invece un discorso basilare di vita e di valori, ci offre un dizionario di sostanza e di concetto, sa che gli uomini che vivono mille difficoltà acquistano in saggezza e tolleranza, e l’uomo così fatto sapiente è un faro che indica il porto giusto ai suoi simili. Da qui nascono i detti brillanti, significanti, ironici e mordaci, millenari, qui riportati; giacciono sedimentati nelle antiche pieghe di una città che è spalmata su un golfo priva di difese naturali, e perciò nei secoli ha accolto tutti, e da tutti ha imparato, assorbendone il meglio, rimescolandolo con i propri posti e luoghi, usi, sapori, persone e costumi, così rimescolandosi ex novo e declamando il discernimento, l’oculatezza e la saviezza così acquisita nel tempo spennellandola nel proprio idioma. Adattabili a tutti, specialmente ai non napoletani: siamo tutti desiderosi di cittadinanza di una Nea-Polis, una città nuova clemente, aperta, disponibile, tollerante e gentile. In sintesi, umana.
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Dura lex, sed lex
La cronaca nera attrae lettori, anche quelli che leggono poco, forse per curiosità morbosa innata, un sentimento per quanto innaturale però comune a tanti, fatto sta che i grandi delitti stimolano il cittadino medio, lo incitano a saperne di più, a scendere nei dettagli, un utile stratagemma per invogliare l’acquisto è l’ indicazione precisa, direi tassativa: tutti i particolari in cronaca.
”Tutti i particolari in cronaca”, per inciso, è anche il titolo dell’ultimo romanzo di Antonio Manzini, il noto autore creatore delle storie seriali poliziesche che hanno per protagonista il vicequestore romano Rocco Schiavone, trapiantato a forza in servizio presso la questura di Aosta.
Questa volta però il vicequestore non c’è, non perché l’autore ha voluto prendersi una pausa distaccandosi dalla sua creatura, o forse perché le ultime prove non hanno pienamente convinto gli appassionati, Antonio Manzini ha già dato in precedenza prova di sé senza necessariamente basarsi solo sulle storie seriali del personaggio che gli ha dato la notorietà.
Questo romanzo non è un poliziesco, in senso stretto, non di solo questo ci parla, va oltre, più a fondo, è un racconto di giusti e di giustizia, di sentimenti e di offese, di più, direi che è l’eterno dibattere del bene e del male. Perché il pregio di Manzini non sta nella sua abilità di tessere detective stories, ciò sarebbe riduttivo del suo talento, anche stavolta il nostro scrittore, anche se ha edito nei tipi di una casa editrice dall’inconfondibile color limone che contraddistingue il genere, come con Schiavone tutto fa, di tutto scrive, ma di ben altro racconta, non solo di guardie e ladri, ma di tipi umani, di persone, di soggetti, a prescindere dalla professione che svolgono e dal contesto in cui agiscono, le loro estasi ed i loro tormenti, le loro vite, che poi sono come le nostre.
Se il romanzo racconta un omicidio, un giallo, un delitto, e prende la deriva per un poliziesco, questo è solo un dettaglio, Antonio Manzini è per prima cosa un buon scrittore, inventa belle storie e ce le presenta anche meglio. Manzini è uno scrittore accurato, ha un suo stile discorsivo, a modo suo intenso ed introspettivo, visualizza al meglio le anime delle sue creature, più che le loro sembianze, alle fattezze fisiche ci pensano le fiction tratte dalle sue storie, racconta scene ed atmosfere nella loro essenzialità, soprattutto eccelle, lo ripetiamo, nel caratterizzare i tipi umani reali, tormentati e sofferti, idealisti o sognatori, che sempre popolano i suoi racconti.
Scava nel cuore dei suoi personaggi, di più, nel fondo della loro umanità, che non è mai unica ma sempre binaria per natura, quindi lecita o meno, decorosa o disdicevole, diritta o illegale, sempre fermamente bene intenzionati a schierarsi dall’una e dall’altra parte di due opposti, tra due estremi.
Uno rappresenta ciò che è ipoteticamente etico, giusto, corretto, l’altro invece è quanto praticamente attuabile, comunemente ammissibile, facilmente realizzabile, anche se talora, o spesso, indebito.
All’atto pratico, finiamo invece sempre o quasi tutti a dibatterci, ad affannarci, ad industriarci per mantenere un minimo di coerenza, letteralmente cerchiamo alibi inconsciamente o meno per il nostro tenerci a galla in un mare di transazioni, accomodamenti, cedimenti, e la zattera per l’emersione, quale che sia, lascia sempre qualcuno scontento, deluso, frustrato.
Carlo Cappai, il protagonista principale di questa storia, è un uomo ordinario, abitudinario, metodico: è anche un uomo solo, banale, insignificante, con un suo vissuto con cui si barcamena nel gestire le sue giornate. Cappai è integerrimo di per sé, scrupoloso, con una memoria di ferro, un proprio senso diamantino della giustizia, accentuatosi ancor di più in seguito alla perdita delittuosa del suo primo amore in gioventù; perciò, nell’esplicare le sue funzioni, gestisce l’archivio penale presso la cancelleria del locale tribunale, ha una conoscenza approfondita dei casi archiviati di omicidi irrisolti, spesso, troppo spesso, giunti al termine dei gradi di giudizio senza colpevole. Sentenze chiuse con un nulla di fatto non tanto perché il responsabile vero o presunto non sia mai stato individuato, ma più spesso i processi si chiudono per l’impossibilità legislativa di condannare il sospettato al di là di ogni ragionevole dubbio. Cappai lo comprende, legge e giustizia non sono la stessa cosa, anzi lo sono, ma in maniera diversa. Legge e Giustizia corrono su due binari differenti, sempre paralleli, che perciò non si incontreranno mai: di più, esistono ben distinti in due universi lontanissimi tra loro. L’una, la vera Giustizia, è un precetto morale assoluto, tuttavia per applicarla serve la legge, che è la giustizia applicata, quella corrente, comunemente usata. La legge la scrivono gli uomini, quindi di conseguenza non è perfetta, ma fallace, oppugnabile, come si suole dire, fatta la legge, trovato l’escamotage per eluderla. Magari avvalendosi delle giuste amicizie e conoscenze: giacché mancando prove certe, indizi inoppugnabili, evidenze conclamate, nessuno può subire l’ira della Giustizia. La legge è la giustizia concretamente esercitata dagli uomini, e gli uomini vivono in società, si incontrano, si conoscono, spesso quelli dello stesso livello si aiutano, si scambiano favori, si accordano, minimizzano, mistificano, negano la Giustizia. Cappai tutto questo lo vede ogni giorno, ieri come oggi e anche domani, ne è permeato, e lo sa: un tribunale può sentenziare che qualcuno è innocente, anche se per la Giustizia è colpevole come il demonio.
Dura lex sed lex, la legge, per quanto talora iniqua è spesso così attuata, e a Cappai, come a chiunque di noi, la giustizia negata lacera, strazia, tormenta e avvelena l’esistenza.
La legge è un genuino cronista, cerca e riporta i nudi fatti, e non le intenzioni malefiche, applica i codici, i commi, le eccezioni, non è la Giustizia astratta, che è di per sé una chimera.
Le chimere sono sogni, non cavilli del codice, perciò non ammessi dalla Corte.
Il tormento e l’estasi: i particolari in cronaca riportano i tormenti, altrimenti non si vendono copie. L’estasi è per quelli come Cappai, per i sognatori, per i puri di cuore, che però non fanno audience.
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Non ho l'età per amarti
Non ho l’età per amarti, per uscire da sola con te.
Sono i versi di una canzonetta di una volta, che rispecchiano esattamente il costume di quei tempi: al giorno d’oggi, nella nostra società moderna, libera ed emancipata, tutt’al più il testo suscita un sorriso.
Ma tant’è, le intenzioni allora erano buone, la morale del tempo lo esigeva, il contesto lo accettava.
Amare, innamorarsi, condividere un affetto, vivere una relazione è una cosa dolcissima: una giusta maturità aiuta a vivere con consapevolezza una qualsiasi unione, dopotutto si usa dire ogni cosa a suo tempo. Eppure, ancora c’è qualcuno convinto che, paradossalmente, ciò non sia accettabile per chi è fin troppo maturo!
I vecchi, gli anziani, i vegliardi, non possono più innamorarsi, stare insieme mano nella mano, occhi negli occhi, appaiono sciocchi, imbarazzanti, ridicoli.
Trattasi di un’autentica esagerazione, se non una vera aberrazione.
Rughe, capelli bianchi, corpi non più tonici e traballanti, nulla hanno più a che fare con i sentimenti, nel caso contrario è segno evidente di decadenza, di demenza, o peggio di lascivia.
Kent Haruf, con la sua scrittura a voce unica, potente, omnicomprensiva, con il suo tono monocorde e però sempre discorsivo, incisivo, esaustivo, questo ci racconta: quelli avanti negli anni, gli stessi che conta lo scrittore stesso quando scrive questo libro, hanno una loro valenza, un loro spirito, una loro essenza, e come tutti si innamorano, esattamente con gli stessi palpiti dei più giovani.
Lasciamoli vivere la loro affettività: l’energia di un nuovo amore brilla, sfavilla, riluce, li eleva.
Si appresta così anche per chi ha un’età avanzata questo spettacolo dolcissimo, mirabile, spendente: il librarsi libere nel cielo stellato delle loro anime di notte.
Lo scrittore americano, alla pari di Ernest Hemingway, è un mirabile cantore del tessuto connettivo della società americana del suo tempo, quello della sua provincia rurale; che è quello più vero, cristallino, genuino e rappresentativo, con pregi e difetti, fatti e personaggi descritti nei particolari, seppure in poche righe. Qui ci offre un breve testo, più un racconto lungo che un romanzo, in cui contesta chi afferma che taluni non hanno più l’età per provare sentimenti, e questo è davvero l’ultimo lavoro dello scrittore americano, redatto in pochi giorni appena prima del termine alla sua esistenza.
Il testo della canzonetta citata Haruf la declina all’incontrario: l’età per nutrire un sentimento affettuoso, e si badi si intende qui più una comunione di anime che un’attrazione fisica ed emozionale, qui ci sarebbe anche, e di parecchio di più. I due protagonisti, Addie e Louis, ambedue vedovi, sono anziani, per non dire vecchi, insomma davvero assai avanti con gli anni, liberi da impegni con figli e parentado vario, economicamente indipendenti e tutto sommato in accettabili condizioni di salute fisica e mentale. Adulti e consenzienti, liberi e indipendenti, a chi devono dar conto di una loro scelta affettiva? Invece il loro desiderio di unire le reciproche esistenze, è decisamente ostacolato, diremmo di più, aspramente disapprovato, contrastato, negato esclusivamente per egoismo dai loro prossimi e dal contesto generale della comunità in cui vivono, peggio della storia di Romeo e Giulietta dei bei tempi andati. Si sa, sono sempre le ragazze a prendere l’iniziativa, Addie non è una ragazzina, non ha tempo da perdere, sa perfettamente che alla sua età i giorni contengono poche gocce di nettare, vanno centellinati tutti con cura per gustarli a fondo; perciò, con grazia e schiettezza si rivolge un giorno direttamente a Louis: “Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me”.
Niente di pruriginoso, di fisico, di sessuale. Solo compagnia, affetto, fuga dalla solitudine, voglia di tenerezza, e quant’altro di dolce, se viene, è ben accetto, tanto di guadagnato, riempie gli ultimi giorni.
Un cane, per esempio, o gli strilli gioiosi di un nipotino che gioca in giardino.
Sic et simpliciter, questo di Haruf è una grande storia d’amore, e niente più.
Ma ben presto, la storia di due anziani che vanno a convivere insieme, agli occhi dei benpensanti, parenti prossimi compresi, si trasforma, non è più una voglia di stare insieme gli ultimi giorni, è uno scandalo al sole. Inammissibile: sono due vecchi, perciò non capiscono quanto di sconcio possa essere la loro insana relazione. Uno stare vicini che è in realtà un rapporto candido ed innocente, che soccombe, si frantuma sotto i colpi dell’egoismo altrui.
Devono comportarsi bene, ad ogni costo. Devono solo avere paura di morire, come si fa alla loro età.
Prima o poi, inizia per tutti un lungo viaggio al termine della notte.
Quando il cielo è completamente buio, allora si vede meglio la strada che percorriamo, aiutandoci con la luce delle stelle, e se abbiamo fortuna anche con quella della luna, i più fortunati con quella del plenilunio. Ma sul finire della notte, ai primi grigiori, l’ultimo tratto è ancora fievole di luce chiara, si procede alla cieca, confusi, scoordinati, serve un’altra fonte luminosa, e questa la fornisce solo l’amore, l’affetto, la solidarietà, sono le uniche cose che fanno brillare le nostre anime di notte, perché appunto non è vero che non si ha più l’età per amare.
Questi anziani che amano…lasciamoli andare, senza fargli pressione di alcun genere.
Non metteteli alle strette, sono solo canzonette.
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Cromosoma XX
Il buon romanzo d’esordio di Aurora Tamigio è una saga familiare, forte ed efficiente, il racconto di un’epopea tutta declinata al femminile, che inizia nella Sicilia dell’immediato primo dopoguerra per terminare, in linea diretta da donna a donna, nei moderni anni Ottanta del secolo scorso.
La storia scorre disinvolta, funzionante per bene nelle intenzioni, costruita con proprietà di linguaggio ed intercalata da espressioni dialettali che la contestualizzano senza aggravio nella lettura, narra la vita vissuta, e vessata seduta stante già all’origine, della capostipite Rosa, passando poi per la sua unica discendente femmina, e vittima angariata, Selma; infine, la narrazione termina con le figlie di quest’ultima: la bellicosa ed indomabile Patrizia, Lavinia, tanto fascinosa come un’attrice quanto rammaricata di non poterlo essere, ed infine l’ultima nata Marinella, vaga e confusa, a tratti smarrita.
Tutte donne, dal loro fato così segnate per l’esistenza difficile, sofferta, limitata dallo strapotere maschile e maschilista imperante, dalla mentalità patriarcale prepotente e prevaricatrice del loro tempo, immutata al trascorrere delle generazioni.
Le segna un modo di pensare degenere e degenerato, dapprima addirittura ostentato e motivo di vanto, in seguito con il trascorrere degli anni ed il crescere delle coscienze, certamente sempre manifesto ma in qualche modo velato, fattosi accorto per motivi di comodo opportunismo, e però tacitamente tuttora divulgato e applicato di fatto dal consorzio del vivere comune, ieri come oggi. Cambiano i tempi e le mode, non le storture.
Giacché, sebbene con modi diversi, ognuna dei personaggi del romanzo viene considerata, e trattata di conseguenza, esattamente come all’inizio della nostra storia il papà di Rosa considerava le donne, all’alba del secolo scorso: nulla più che campane.
Oggetti, quindi, in primo luogo, e per di più inanimati, perché sebbene provviste di sapienza e parola, non godono di volontà propria di decidere e agire.
Non a caso, letteralmente campane: manufatti da cui trarre suoni, anche piacevoli per il suonatore, e altre pratiche utilità di qualche costrutto, solo allorché vengano scientemente battute, e non per modo di dire.
Violenza, e non parole; prepotenza, e disumanità.
Il solo modo, per diffusa convinzione, per poterne trarre sinfonie di qualche vantaggio per un solo genere, quello dominante; per la controparte femminile non si assegnano diritti e meno che mai pretese accampate per meriti e fatiche, in sintesi le donne protagoniste del romanzo, e le loro contemporanee, sono soggette e sottomesse alla volontà e giurisdizione esclusiva di un uomo, non necessariamente il proprio uomo.
Lo status di genere vale di per sé come precisa distinzione di ruolo tra libero e sottomessa, semmai il legame di parentela è un di più, semplicemente certifica ex lege, per quanto assurdo ed abietto, un diritto esclusivo di proprietà sulla persona e sui suoi beni.
Né più né meno di quanto tuttora occorra, in modo diafano, impercettibile, minimale, e però concreto. Esiste tuttora una ferma volontà, magari inconscia, di predominio sociale fondato sull'autorità assoluta dell’uomo, patriarcato e maschilismo sono realtà tanto abiette quanto reali, non si tema di esagerare nell’affermarlo, ed è inutile che si rivendichino emancipazioni e conquiste basilari già da tempo acquisite.
Il rifiuto ostinato alla parità dei generi è dimostrato di fatto dal costante aumento di violenze registrate periodicamente nelle cronache contemporanee, sempre e solo a discapito di un solo genere, guarda caso quello femminile.
Tutto il romanzo è un affresco, un ritratto di famiglia angusto e addolorato, inserito in un preciso contesto storico di costume, che descrive non tanto l’usuale esistenza di queste donne, ma sottolinea i vari modi, che paiono diversi ma sono infine sempre gli stessi, immutati nei secoli, con cui si manifestano i vincoli, le restrizioni, gli abusi e le soperchierie a cui sono obbligate a forza le donne di tutti i tempi non solo dai propri ma anche dagli altri uomini. Ciò che il libro denuncia, in forma più cronistica che romanzata, e perciò tanto più reale ed aderente alla realtà dei tempi, è sempre la stessa canzonetta, il trito ritornello del maschilismo, il solito refrain del becero e deleterio spirito maschilista, arcaico e patriarcale. L’ atteggiamento mentale tanto assurdo quanto di comodo, un pretesto per giustificare un dominio, il pregiudizio culturale che recita la superiorità dell'uomo rispetto alla donna, altro non è che un’indole nefasta, deleteria, immonda che da sempre ammanta l’animo di certi uomini, troppi, tanti, la stragrande maggioranza.
Sorge perciò spontaneo il fondato sospetto che tale modo di essere altro non sia che una tara ereditaria, la storpiatura del gene XY, che niente ha a che fare con la perfetta comunione di intenti, l’ umana solidarietà, la bontà, la dolcezza e la delicatezza dettate dalla più sana coppia gemella dei cromosomi XX.
Gli uomini non sono vittime della mentalità corrente dei tempi che vivono, dei costumi e delle circostanze, dell’educazione e degli insegnamenti sbagliati, il romanzo non è un elenco di torti, ma offre una visione omnicomprensiva, riporta per esempio personaggi campioni del genere umano pur essendo maschi, come Sebastiano Quaranta, il marito di Rosa. Ma per altri, come ad esempio Santi Maraviglia detto Santidivetro per la sua pelle diafana, è comodo fare proprio un modo di vivere situando la donna, che lo voglia o meno, in un posto parecchio indietro rispetto al maschio, dapprima di manifesta sudditanza e vassallaggio, poi successivamente in forma velata, di giogo invisibile, di passività se non di prigionia a sbarre velate. Perché “Il cognome delle donne” è in sintesi il racconto di una appartenenza, le protagoniste sono indicate sempre con il loro nome di battesimo, perché non appartengono a se stesse, ogni donna porta sempre, o quasi sempre, il cognome del maschio che l’ha messa al mondo. Un cognome che è un marchio, un codice di assegnazione, un timbro di destinazione. C’è solo da sperare, quindi, di trovare un uomo buono, una volta usciti dall’alveo familiare di sudditanza a padre e fratelli, un buon marito, comunque un altro maschio che sia magnanimo, perché:
“…i maschi gentili sono preziosi come l’oro.”
Non sono quasi mai gentili, gli uomini, perché sono soli, ed isolati, sono uno sbaglio di natura; le donne che non sono preziose come loro e l’oro, hanno invece un valore incalcolabile. Infatti, sono duplici, vanno in coppia come il loro cromosoma doppio insegna, si cercano, si uniscono, solidarizzano, fanno fronte comune come una sola donna.
E cambiano il fronte, finanche quello del loro cognome:
“Adesso la legge dice che te lo puoi tenere se vuoi, lo aggiungi a quello di tuo marito.”
Come dire: c’è ancora domani. E domani vincerò.
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DIARIO DEI MALANNI DI MENTE
Cosa ci emoziona repentinamente, ci tocca il cuore di colpo, ci desta all’improvviso amore, incanto, delizia, sorpresa? Tante cose, o tante persone, e di ciascuna diciamo: che meraviglia!
“Grande meraviglia” è, di nome e di fatto, l’ultimo romanzo di Viola Ardone, una lettura bellissima che ci prende, ci turba, finanche ci sconvolge, inevitabilmente commuove e sa suscitarci un sorriso, scioglie ogni nostro preconcetto, illumina la pagina e insieme il cuore di chi legge, lo rende partecipe delle vicende narrate, stimola l’empatia e l’umanità insita in ciascuno nei confronti dei propri simili più sventurati. Magari un solo ed unico briciolo di umanità, di affezione, solo un lampo, certo non una potente scarica elettrica, d’altra parte l’elettrochoc è molto sopravvalutato, è deleterio e non serve a nulla, nemmeno è una proiezione di impulsi interiori.
Questo è per davvero un racconto delizioso, per gran tratti aspro e spigoloso, triste ed ingiusto, eppure è una storia attraente, importante, eletta, l’autrice conduce su e giù il lettore per quasi mezzo secolo di storia, gli sciorina davanti agli occhi una realtà paradossale, spesso sconosciuta perché volutamente celata. Un vissuto letteralmente alienato e dissennante, riversato sulla carta con garbo, con un suo stile amabile, con tatto e premura, con una scrittura fluida ma sempre rispettosa, in punta di piedi. Con dolcezza, con delicatezza estrema, Viola Ardone delinea e presenta i suoi personaggi, qualcuno anche mentecatto e fuori di testa, la maggior parte comunque folli, brutti, sporchi, impertinenti, con un vergato netto e preciso, testuale e veritiero, rigoroso, ma mai, nemmeno per un momento, il narrato deborda, va fuori rigo, la sua è una prosa sensibile, sempre quanto scritto è ammodo, discreto, impeccabile e diligente, visto e riportato tale e quale, delicato e solidale.
La scrittrice napoletana con questo suo lavoro sembra voler concludere, e alla grande per davvero, il fortunato trittico dei suoi lavori precedenti, iniziato con “Il treno dei bambini” e “Oliva Denaro”.
Questo suo ultimo è un fortunato compendio, racconta di una bambina, parla di infanzia disastrata come nel “Treno dei bambini”, e la declina al femminile, come in “Oliva Denaro”, in “Grande Meraviglia” la protagonista è una bambina, poi giovane ragazza e infine donna adulta.
Il suo nome, Elba, richiama espressamente l’omonimo grande fiume del nord, freddo, grigio, decorrente in territori difficili per paesaggi aspri e geopolitica dominante, tutt’altra cosa della ridente isola dell’arcipelago toscano.
Tutti i fiumi originano da una sorgente, si versano in mare, profilano un territorio: per la giovane Elba, invece, origine, destinazione e trascorso della prima parte della sua esistenza, quella quindi quanto più essenziale, rilevante e fondamentale per una sana e normale crescita soprattutto psicoaffettiva, si svolge tutto in un mezzomondo. Non un gran mare dell’esistenza, neanche un lago o uno stagno, semmai una breve palude con acque putride e ristagnanti, in realtà una struttura fisica ben delineata, neanche tanto grande dove l’Elba persona è come un Elba fiume gravemente inquinato all’origine, si dipana in maniera sballata e assurda, termina letteralmente fuori dal mondo.
La giovane protagonista è infatti nata e cresciuta in un manicomio, un luogo di reclusione per malati di mente, ma sarebbe più esatto definirlo un immondezzaio dove gli sbagliati, gli indesiderati, i malaccetti dalla società, veri o presunti o solo in sospetto, vengono a discarica della loro anormalità.
Siamo infatti negli ultimi anni Settanta, i primi Ottanta, quanto sono ancora di lì a venire le teorie della moderna psichiatria a misura d’uomo, e la rivoluzione posta in atto da menti illuminate della medicina come Franco Basaglia, che riconsiderano le malattie nervose come quelle che in effetti sono, patologie, ed esistono perciò i malanni della mente e non i malati di mente.
Tali semplici idee, non ideologie, porteranno poi alla chiusura dei manicomi in quanto tali, per essere sostituita dai più logici, e umani, centri di igiene mentale.
Ma qui non esistono ancora gli ospedali che curano la psiche, ma solo le prigioni che rinchiudono tra le sbarre gli alienati, costringendoli a forza a terapie allucinanti, grottesche, crudeli, campate in aria, senza alcun fondamento scientifico, come le docce gelate, i letti di contenzione, le sedazioni forzate, e la peggiore di tutte, l’elettrochoc encefalico, una sorta di morte civile causata dall’equivalente di una sedia elettrica applicata all’encefalo, in grado di trasformare un essere senziente in un vegetale catatonico, sbavante e demente per davvero.
Non sono luoghi di cura, sono galere, o peggio, sono campi di concentramento, sono piccole Auschwitz dove sono certamente internati i pazzi, questo sì, coloro che hanno dato ripetutamente prova di essere pericolosi per sé e per gli altri, e però si sono ben presto trasformati in una comoda via d’uscita, di eliminazione non fisica dalla società dominante, ma ugualmente efficace, di tutta un progenie di “disturbatori” dell’ordine costituito, della morale dominante retriva e bigotta, dello status quo perbenista ed ipocrita dei tempi. Con i pazzi veri vengono chiusi anche quelli solo presunti, per esempio gli alcolisti, i sobillatori politici, le persone complicate che vivono ai margini, le adultere, le persone scomode e sgradite ai potenti, tutti immersi nello stesso calderone e resi docili dai farmaci sedativi, dalle scosse elettriche, dalle punizioni anche corporali, tutti scientemente spogliati gradualmente della loro dignità ed intelligenza, perché siano buoni, passivi, annullati.
Non curati dalla pazzia, ma fatti impazzire: a forza, pur che sia.
In questo deserto dell’anima e della mente, Elba è nata, sana di mente come lo è la madre, rinchiusa a forza nel manicomio perché è una “diversa”, niente di più che una profuga politica, una donna tedesca in fuga dai territori dell’est ai tempi della guerra fredda. Una persona scomoda, non gradita, imbarazzante, per di più di dubbia moralità, è incinta senza avere un legittimo consorte, tutto questo basta per rinchiuderla in manicomio, così come va rinchiusa la prole, secondo legge.
Elba però ha vicino la sua Mutti, la sua mamma, l’amore di una madre immunizza, fa in modo che la figliola cresca preservando la sua sanità di testa, d’anima e di cuore, riceva un minimo di istruzione al di fuori delle mura del manicomio. Solo che, quando la bambina ormai ragazza ritorna dopo gli anni della scuola dell’obbligo nel lager, non trova più la sua Mutti.
Non per niente il suo è nome di fiume, come un fiume si comporta: travolge le scuse accampate dal personale, si ostina a cercarla nell’istituto, ed intanto si prodiga come l’amore della madre le ha insegnato, lei non è un fiume, ma fa di più, è acqua pura che prova a dissetare le nuove, perché non inaridiscano l’ultimo semino di intelligenza, si interessa e si immedesima nei malanni dei suoi compagni, provvede a modo suo ad irrorare di vitalità gli altri ospiti perché tengano viva la loro essenza di persone, senza le quali davvero sarebbero degli alienati.
Cambiano i tempi, cambiano le stagioni, i manicomi vengono chiusi, le strutture aperte, grazie al professor Basaglia ed ai suoi discepoli, si apre una nuova era per i malati di mente, al perfido, malvagio e retrivo primario Colavolpe, al suo disgraziato assistente come Lampadina, addetto all’elettrochoc, si sostituiscono teorie nuove, nuovi modi di gestire i malanni della mente così come Elba già da piccola elencava in un suo diario personale.
Tutto questo è rappresentato in concreto dall’arrivo per la nuova gestione del reparto di Fausto Meraviglia, basagliano convinto della prima ora, che per i suoi pazienti va ben oltre quello che può fare un medico. Perché Meraviglia non sa, non vuole, e nemmeno è giusto che lo faccia, limitare il suo agire alla sfera professionale, sa che in psichiatria non si può dividere la mente dalla persona, sono un tutt’uno, non è in difficoltà la testa, è in crisi la persona, ha un blocco, una difficoltà, un impiccio l’uomo nella sua interezza, ed è una conseguenza se è problematico il suo pensiero.
Così Elba ritrova la sua Mutti, ed anche una parvenza di famiglia come il dottor Fausto, che la accoglie nella sua di famiglia, la incita a studiare, la conduce alle soglie della laurea.
Ma la vita non è tutta una meraviglia.
Fausto Meraviglia è una brava persona, dopotutto: certo, ha i suoi difetti, un pochino istrionico, egoista, egocentrico, plateale. Un dongiovanni, anche mentitore, ma è perché è una persona vera, reale, non è una meraviglia, è un uomo normale, con i suoi pregi, i suoi difetti, i suoi limiti.
Elba è per Fausto la grande Meraviglia, quella che ha avuto salva la sua esistenza con la meraviglia dell’amore di Mutti e che quindi è la conferma vivente della nuova psichiatria, che la sola parola d’amore salva più delle benzodiazepine. Fausto Meraviglia vorrebbe che Elba, proprio come un fiume, segue un percorso più o meno lineare, magari con qualche rapida, forse una cascata, qualche curva tortuosa, per poi giungere al mare della salvezza.
Ma Elba non è un fiume, è una persona: ed una persona si salva da sola, ha tutto il diritto di uscire fuori dal suo letto, allontanarsi dal suo mentore, cambiare foce, punto di sbocco, mare d’ingresso. Gestire in proprio la propria esistenza, se lo desidera, con libertà e amore.
E farne solo allora, allora sì, una meraviglia.
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QUESTIONE DI FEGATO
Ha appena compiuto 76 anni, scrive da una vita, ha all’attivo circa 80 romanzi ed un numero spropositato di altri scritti, lavora tuttora sei ore al giorno tutti i giorni eccetto che a Natale ed il giorno del suo compleanno, e quando non scrive, legge.
Non i suoi libri, quelli dei colleghi, e li legge puntualmente con umiltà e passione.
È il Re di nome e di fatto, è Stephen King: scordatevi qualsiasi etichetta che hanno voluto affibiargli a forza.
Lui è semplicemente un narratore, un bravissimo affabulatore dalla fantasia fervida e affascinante, ed in più, sa esteriorizzare perfettamente quanto inventa, nero su bianco.
“Holly” è il suo ultimo romanzo.
Di cosa parla?
Oh…potremmo dire, certo, che è un mystery, anche seriale, la storia di una detective, già presente in alcuni romanzi precedenti, che indaga stavolta su un serial killer.
Può essere anche questo, perché no: tuttavia, non è un giallo qualsiasi, è un romanzo di Stephen King. Una bella storia, scritta ancora meglio, un libro corposo, di spessore, di contenuto delizioso, una buona lettura che merita e ripaga il lettore del tempo e dell’attenzione che gli dedica.
La protagonista Holly Gibney è agli antipodi di qualsiasi poliziotto o investigatore di cui abbiate letto, direste piuttosto che è una sfigata, vittima di una madre ansiosa e soffocante, oppressiva ed egoista, e quindi ha dei grossi problemi di interazione sociale e di identità personale.
Un protagonista insulsa e banale, forse, ma quanto di più comune e intrinsecamente reale si possa incontrare nella vita di ogni giorno.
Una giovane donna che incontra, e si scontra, con il reale; il vero, il comune, il quotidiano, spesso celato sotto una patina insulsa, una pseudo normalità che supera sempre qualsiasi fantasia, ti spiazza ogni volta lasciandoti sgomento, e ogni volta finisci per assuefarti fino alla successiva, perché la realtà sa essere atroce e mai inverosimile, ed è assai più seria e facile ad incontrarsi di quanto si creda.
Come il Covid, per esempio. O gli attentati, gli assalti al Campidoglio, le guerre…chi lo avrebbe mai detto prima che avvenissero? Magari nell’immaginario collettivo faceva più paura essere vittima di un cannibale come il dottor Lecter, no? Quello che adorava il fegato alla veneziana, ricordate?
Serve fegato per scrivere di quelle cose, ma Stephen King non ne scrive, sarebbe troppo banale, fa di più, fa quello che gli riesce meglio. Il Re fa altro nei suoi libri: compara.
Mette a confronto la realtà e la fantasia.
Confronta un orrore reale quale può essere la pedofilia, il bullismo, l’incesto, la guerra, tutti i guasti troppo spesso celati dall’ipocrisia e dal perbenismo della società americana, con gli horror stereotipati quali il vampiro, il mostro informe che vive nelle fogne e si cela dietro le sembianze di un pagliaccio, un demone in grado di possedere uomini e macchine.
Cosa pensate sia peggio? Stephen King lo chiede sempre, infine, al suo fedele lettore.
Anche “Holly” non fa eccezione: più che altro, è l’accorta, incisiva, dettagliata descrizione di certa America trumpiana. Falsa, bugiarda, ingannevole, illusoria…e pericolosa.
Dove, sotto uno strato di cultura, di pacata e illuminata saggezza, di professionalità, di tolleranza e apertura mentale nei confronti del prossimo, si cela invece il disprezzo per i diversi, i poveri, i non allineati, gli invertiti, al punto da definire ancora dentro di sé gli omosessuali con il termine di “maricon”, l’equivalente di froci o ricchioni, definizione politicamente scorretta, e di cui con ipocrisia e falsità si disapprova pubblicamente l’uso con toni sdegnati.
Il tutto in circa 500 pagine, nessuna delle quali appare superflua, ognuna redatta con cura e attenzione, soprattutto con rispetto ed amore per chi lo legge.
Questo amore, ricambiato, è alla base del suo successo: King gode dello stesso carisma del sovrano amato dai suoi sudditi perché il suo operato è volto, prima di ogni altra cosa, al benessere del suo popolo. Per questo è il Re, il più grande, l’unico, il migliore.
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Tutto il mondo è paese
Un raro caso di simbiosi letteraria perfetta tra un autore ed il suo personaggio più noto è quello tra Antonio Manzini e Rocco Schiavone, quasi che uno fosse l’equivalente dell’altro.
Se non fosse però che la fortuna del commissario romano in loden e Clarks ai piedi, traslato a forza in quel di Aosta, il cui clima rigido richiederebbe piuttosto un piumino d’oca, e mal si adatta alle polacchine predilette dal poliziotto, sta proprio nel fatto che quelle che lo vedono protagonista sono certamente belle storie, ma vengono scritte ancora meglio.
Antonio Manzini non è solo il creatore di Schiavone, è uno scrittore, non un novelliere che ha inventato un personaggio fortunato, casuale ma che funziona, tutt’altro, è un autore, un romanziere completo, in verità è un bravo scrittore dotato di una penna fluida, celere, descrittiva, non è la prima volta che dà prova di sé con altri testi diversi da quelli seriali che gli hanno conferito notorietà.
Le sue pagine scorrono veloci, quanto racconta attira, lega, cattura attenzione ed interesse, a fine lettura offre spunti notevoli di riflessione.
“La mala erba” ne è comprova, qui mancano Schiavone e soci, nemmeno è un giallo in senso stretto, piuttosto direi che è una storia che riduce la location di azione, dalla piccola città di Aosta popolata da qualche decina di migliaia di valligiani si passa ad un piccolo borgo sull’Appennino tra Abbruzzo e Lazio, zona di boschi, di lupi, di monti e valli impervie, dove i residenti ammontano a poche centinaia.
Il che però non comporta una diminuito di quanto di più deleterio insito nell’animo umano si riscontra più in grande: l’angheria, lo strapotere, la prepotenza e i soprusi del più forte sul più debole.
Sempre queste compaiono in un consorzio umano, e la fanno da padrone, solo che appena si palesa al bestiale lupo mannaro di turno la possibilità di divenire hominis lupus.
Una belva per i propri simili, accoppiando alla violenza la furberia, la malizia, la disonestà, il tutto volto al proprio personale tornaconto.
Più che un romanzo in sé, direi che “ La mala erba” è una forma neanche tanto velata di denuncia sociale.
“…la mala erba a forza di ammazzare tutto quello che ha intorno, poi muore…”
In sintesi, Manzini descrive nei particolari un microcosmo dove i personaggi sono formichine che replicano in piccolo quanto di più eclatante si rispecchia pari pari nel macrocosmo.
Ci offre uno spaccato dell’attualità, il suo borgo in piccolo è l’emblema di quanto accade più in grande in ogni tempo e in ogni luogo.
“…Quando si è disperati, ci si tolgono le maschere…”
“La mala erba” non è un titolo a caso, è una pianta invadente, che si diffonde con rapidità, travalica i limiti del piccolo borgo montano in cui è ambientata la nostra storia, in un certo senso diviene simbolo, immagine, metafora dell’intero Paese con la maiuscola.
Anche qui c’è un dominus super partes, un signorotto locale, tale Cicci Bellè, padre di Mariuccio, un povero ritardato, a cui la disgrazia di tale figliolo comunque amatissimo dal padre non gli ha impietosito l’anima, temperandone il carattere alla benevolenza e alla solidarietà, tutt’altro, forse lo ha esacerbato nei suoi istinti peggiori.
Cicci Bellè domina sul paese, esercita un miserabile dominio sulla maggioranza, cittadini che già di per sé stentano la vita in simili difficili contesti economici ai limiti del sostentamento materiale, praticando sui poveri sventurati, costretti da inevitabile bisogno, vessazioni basate su ed oltre l’usura fisica e psicologica, da cui gliene deriva asservimento e vassallaggio delle disgraziate vittime.
Da solo Bellè, o insieme ad altri squallidi personaggi di contorno, costituisce allora letteralmente la mala erba, il fiele che intossica quanti costretti alla dipendenza, avvelenando l’esistenza, e originandone differenti conseguenze.
In contrapposizione a Bellè, quasi in antinomia a esso, è l’altra protagonista principale, la giovane diciassettenne Samantha De Santis, una ragazza dei nostri giorni a cui, inevitabilmente, la realtà del paese, soprattutto la mentalità, il modo di essere e di concepire l’esistenza, la soffoca molto più di quanto una qualsiasi erbaccia possa compiere su un tenero virgulto.
La giovane Samantha mal sopporta, e giustamente, del suo borgo natio, le ombre, le tristezze, le miserie, i colori grigi e i toni cupi dei fatti e delle persone, compresi i coetanei rimasti indietro.
Come un seme nuovo, vuole crescere bene e meglio, anela ad insediarsi su un campo fruttifero, aspira ad altro. Nulla di eclatante, la possibilità di studiare all’università, di emanciparsi, di crescere libera da legami tossici e antichi legacci fibrosi, la giovane non a caso prova a trarre forza, a ravvivare i suoi sogni e le sue ispirazioni traendo spunto dal poster di una donna lupo posto in bella vista sulla parete della sua camera. Se Cicci Bellè, e quanto lui rappresenta, è il lupo che si nasconde nell’erba pronto a sbranare il membro del gregge più debole, Samantha è la donna lupo, desidera avere la sua forza ed il suo coraggio per mirare alla luna.
“…Quello che voglio fare è finire il liceo e andare a fare veterinaria. Il resto è solo un impiccio…”
Quello che però Manzini sottolinea, e lo fa magistralmente, con pochi tocchi di colore che descrivono alla grande il tumultuoso avvenire di fatti e azioni che paiono letteralmente travolgere, come un fiume in piena, il paese ed i suoi abitanti, è ben altro che una sterile contrapposizione tra buoni e cattivi, ritratti sia in grande che in piccolo.
L’autore intende rimarcare quanto cioè sia difficile per chiunque cambiare, evolversi, divenire differentemente. In meglio.
Dicevamo che il suo più che un romanzo è una denuncia sociale: direi di più, è un atto di sconforto, una constatazione letteraria di contraddizioni, incongruenze e controsensi insite nel nostro essere umani, radicate in profondità come e più di una mala erba, assai difficili da sradicare.
La mala erba non è, di per sé, un qualcosa di necessariamente cattivo, essa è sì un’erba spontanea, di sua natura rapidamente infestante, e perciò nociva alle colture.
Viene definita tale, un’erba mala, cattiva, proprio perché intralcia il nostro progetto di crescita e di coltura, per cui la strappiamo. Usiamo diserbanti, al limite il napalm.
La mala erba è un vegetale, fa quanto si ritiene debba fare una pianta, cresce e si sviluppa, segue la sua natura. L’uomo con il veleno appesta tutto, anche sé stesso, lui sì che non è naturale.
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Fiuto investigativo
Marco Malvaldi è autore con solidi studi scientifici alle spalle ma, paradossalmente, ha raggiunto il successo ottenendo ottimi risultati nella letteratura umanistica, più che nei seriosi articoli sugli “acta” di genere. Lo scrittore pisano è bravo di penna e gradevole di spirito, scaltro e dotato di arguto umorismo, sottile e mai greve, amabile per le sue storie, apprezzato e delizioso per il suo raccontare spedito, tutti i suoi romanzi hanno una chiara, marcata impronta regionale, uno stile da toscano verace che lo personalizza e lo contraddistingue. Dei suoi personaggi, i lettori ricordano e amano in particolare soprattutto i simpatici vecchietti protagonisti dei romanzi seriali del bar Lume, una banda di pseudo investigatori parecchio in là con gli anni, intenti ad investigare su omicidi e delitti che avvengono in quel di Pineta, località di mare dove sono stanziali. Forse sarebbe meglio dire intenti ad intralciare le indagini con il loro intromettersi e ficcanasare a forza nei casi che si presentano, il loro è un modo come un altro per scongiurare noia e tramonti esistenziali, anziché dedicarsi solo agli usuali passatempi dei loro coetanei. Il classico vecchietto nullafacente si trastulla in genere visitando i cantieri, i nostri eroi invece si sollazzano nei lavori in corso di indagine giudiziaria in cui volutamente si intrigano pasticciando il tutto. Con chiari intendimenti comico-dottrinali sull’animo umano.
Stavolta però Pineta ed i vecchietti non ci sono, non solo, ma un’altra novità presentataci in questo lavoro è data dal particolare che trattasi di un romanzo scritto a quattro mani, due appartengono al nostro autore più noto, le altre invece alla sua signora. Ne consegue che è un romanzo che da subito si intuisce doppio, nel senso che sulla stessa vicenda figurano due diversi punti di vista, uno femminile ed uno maschile. Una bella pensata, in verità, sviluppata anche meglio, ne è venuto fuori un racconto gagliardo, scorrevole, concludente e conclusivo, il cui merito è da dividersi esattamente a metà con gli autori. Ciascuno di loro ci ha messo del suo, moglie e marito si differenziano chiaramente, senza intralciarsi, sovrapporsi o prevaricarsi, un esempio di perfetto ménage di coppia, a prescindere dal loro vincolo matrimoniale i due autori funzionano davvero bene, senza inutili competizioni neanche sottese, un raro esempio di simbiosi letteraria in genere giallo alla Fruttero e Lucentini, con testi risciacquati in Arno in una falda sottilmente comica.
La coppia di autori sciorinano i loro pezzi a capitoli alterni, redatti in prima persona; tuttavia, i generi non sono quelli d’ordinanza maschio-femmina ma i più moderni genitori uno e genitore due, specifichiamo allora che la voce femminile, attenta, graziosa, acuta, intelligente e intuitiva appartiene a Serena Martini, moglie, madre, chimica e runner. Il punto di vista maschile, aitante, possente, sbrigativo e privo di fronzoli, ma giuridicamente efficace e di pari intelligenza con Serena, è appannaggio della sovrintendente di polizia Corinna Stelea, donna di alta statura, intesa in senso letterale, è alta quasi due metri, non è affatto un riferimento morale.
Inoltre, se il giovane barista Massimo proprietario del bar Lume è capobanda, guida e suggeritore degli scalcagnati vecchietti di cui sopra, indirizzandone le conclusioni investigative con la sua preparazione scientifica, anche la protagonista femminile principale di questo racconto, Serena, guarda caso è anch’essa persona erudita nelle scienze. Nello specifico, laureata in chimica: non solo, ma è dotata di un notevole fiuto investigativo. In senso testuale: Serena infatti possiede un olfatto formidabile. Insomma, c’è chi possiede un infallibile colpo d’occhio, chi un udito finissimo che avverte distintamente la caduta delle foglie, Serena è l’equivalente umano di un cane da tartufo, per studi e formazione professionale distingue perfettamente, e sa differenziarli nei singoli componenti, gli odori di ogni tipo, ed indovinarne lo specifico substrato chimico. Serena Martini ha un talento sprecato, visto che, come tantissimi, non esercita la professione in cui eccelle: conosce gli atomi, gli elementi, le molecole, sa come si combinano, che prodotti ne risultano, ma in particolare che odore rilasciano. Una specie di superpotere, quindi, che le permette anche un utilizzo più prosaico, per esempio per ottenere una cottura perfetta delle patatine fritte, conscia di come i valori di temperatura o contenuto d’acqua nelle sostanze influenzano chimicamente l’esito finale. Ed è questa la cosa maggiormente apprezzata in famiglia, nemo profeta in patria, come suol dirsi.
In verità la nostra eroina ha rinunciato alla ricerca, alla carriera universitaria o nelle multinazionali, nei colossi della chimica, perché è persona seria, onesta, per nulla incline a piegarsi alle leggi non scritte della baronia scientifica, fatta di compromessi, inganni, delusioni, avanzamenti e progressi mai per merito e intelligenza, dato che la maggioranza reggente e dominante della congrega culturale è una lobby in mano a maschi mediocri, incompetenti e disastrosi.
La vicenda narrata è un giallo sui generis, nemmeno tanto difficile da decifrare, ma i coniugi Malvaldi non intendono dar luogo ad un enigma, piuttosto con sarcasmo ed ironia descrivono luoghi, ambienti, modi d’essere e di vivere in una certa piccola provincia, talora un microcosmo chiuso in cui tutti i residenti vivono sotto una specie di campana di vetro, offrono di sé un’immagine all’esterno e ne secretano un’altra, talora assurda ed inverosimile, che però accade, succede, si riscontra all’improvviso, l’odore smascherato che ne emana è un aroma amaro.
Come sono amari i dissidi in famiglia, il troppo amore spesso più che odori acri emette note stridule.
Trattandosi di un giallo, è richiesto un delitto, e da qui un rappresentante delle forze dell’ordine, un’investigazione con tutti i crismi di legge, un tocco rude, diciamo così, maschile, dato dalla sovrintendente di polizia Corinna Stelea, e non a caso sono questi i capitoli in cui parla l’”uomo” razionale ed empirico, in contrapposizione, e complementare alla donna, che riportano sul frontespizio gli articoli del Codice penale interessati, e le modalità operative da questi dettati a giudici e poliziotti.
Una buona lettura, un momento di sano relax senza per questo rinunciare a qualche riflessione prima di ripartire soddisfatti, perché leggere è come una reazione chimica dove tutto si ricombina, si rinnova, niente si perde, si creano nuove molecole, odori diversi, altre storie, chi si ferma è perduto.
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Modestamente
Donne in fuga, e donne in cerca di guai.
Due donne diversissime tra loro, per età, origine e vissuto, in fuga perché ferite crudelmente, ciascuna a suo modo, in quello che è più intimo e radicato nelle femminilità di una donna, l’amore di una madre per la figlia e viceversa, e che incappano nei guai peggiori, una serie di misteriosi omicidi.
Su cui sono costrette poi ad indagare insieme, spinte dal bisogno e dall’insolvenza.
Il tutto nello scorrere frenetico di fatti e avvenimenti tumultuosi ed esagitati, in crescendo via via che si procede nella lettura, stimolando abilmente l’attenzione del lettore.
Invogliandolo a seguire assorto, senza distrarsi e senza badare allo scorrere delle pagine, perché la storia è costruita davvero bene, strutturata con verismo, intelligenza e mestiere, il racconto, e con esso le sue singolari ed indovinate protagoniste, attrae, incuriosisce, lascia in sospeso, vogliosi di girare pagina per il capitolo successivo. Un romanzo intrigante e ambiguo allo stesso tempo, non chiarisce tutto nei particolari, ma non li omette o li nasconde, tutto viene presentato in piena luce a chi desidera chiarezza, ognuno è realmente quello che è, per esempio una delle due protagoniste ha un aspetto androgino orientaleggiante, ma è una donna con tutta evidenza; oppure finanche un comune pet, di nome Donna Achille, che non sembra affatto diverso da quanto appare, si rivela per quello che in effetti è, estrinsecando il suo pensiero nero su bianco, per chi sa e desidera davvero leggere per bene, magari tra le righe. Insomma, donne che incappano in un vero accidente, e la più anziana delle due definisce davvero così, “accidente”, il minore dei suoi tanti problemi personali, una grave forma di agorafobia che la affligge. Se poi qualsiasi traversia, già spiacevole di per sé stessa, sovviene quando cala il buio, allora tutto si complica ulteriormente, si aggrava, è peggio che andare di notte, nei modi di dire in uso nel napoletano si impreca che è, appunto, un guaio di notte.
“Guaio di notte”, è l’ultimo superbo ed elegante romanzo della scrittrice napoletana Patrizia Rinaldi,
la cui notorietà si è recentemente ampliata con la trasposizione in una fortunata fiction del suo precedente lavoro “Blanca”. La Rinaldi è una bella penna, moderna, stuzzicante ed interessante.
Un romanzo superbo il suo, niente affatto un guaio di notte ma una bontà di giorno, perché è un elaborato insigne, nobile e generoso, sarà anche un thriller, ma è un pretesto letterario, più che altro l’autrice si sofferma con umiltà ed empatia, con prosa rispettosa e solenne, sull’osservazione e sulla disamina di ferite atroci, che troppo spesso si portano all’animo femminile, sia nel fisico e nel morale.
Questo è un racconto sull’estrema vulnerabilità del genere, e insieme sul loro stoicismo solidale, la fermezza e la forza d'animo nell' affrontare le difficoltà e le avversità dell'esistenza purché siano unite, sodali oltre qualsiasi differenza di età e di censo. Come solo le donne sanno fare, quando una potrebbe essere la madre dell’altra, in questo caso non lo sono, per fortuna o per sventura però a deciderlo è il lettore. Il tutto reso con una bella scrittura filata, svelta e disinvolta.
Questo romanzo denota occhio, cuore e inclinazione della sua autrice alla indagine, certo, ma in particolare è una attenta analisi sulle incrinature, sui solchi e le scissioni incise a forza su psiche e caratteri, allorché fatti come abusi, arbitri, brutalità, abbandoni e delusioni feriscano ad ogni età.
Nemmeno necessariamente ad opera dell’altro genere, talora anche da parte della propria madre, peggio che andare di notte se poi le madri sono due.
Si usa dire però che è dalle crepe che fuoriesce la luce, ed è davvero così in questa storia, l’incontro casuale, e poi custodito gelosamente da ambedue con la tenacia dell’amore, di due donne divise da età ed esperienze, trapela dalle crepe, è la luce della simbiosi, è spia di un completamento, la Signora e l’Autista, le due protagoniste, sono in reciproco ascolto e supporto l’una con l’altra.
La Signora è avanti con gli anni, sofferente perché troppe volte manipolata e delusa nella vita e negli affetti, soprattutto perché una madre mancata, l’altra invece, l’Autista Andrea, è una vittima brutalizzata dall’infanzia, in fuga dagli orrori nel solo modo che conosce, provocandosi altre ferite a scopo diversivo. Diverse quindi ciascuna a suo modo, ed invece simili; tant’è vero che si attraggono, si cercano, si accordano, sono due sinfonie discordanti che si armonizzano in una melodia organica.
L’una vogliosa di recuperare una vita sprecata in deludenti convinzioni, in realtà inezie, costrizioni e inganni, foriere di amarezze, tradimenti e disillusioni.
Da cui intende affrancarsi una volta per sempre con forza, dignità e fierezza, da qui il suo continuo intercalare “modestamente”, con tanto di punto esclamativo, che è allo stesso tempo un avverbio per autoelogiarsi e insieme un grido di rivalsa, una ripicca, un dispetto, in definitiva una voglia di rivincita, e un punto d’onore di riprendersi l’esistenza.
Anche per conto, per tramite, a favore di Andrea, salvata a forza da un brutta esperienza e riconvertita, seduta stante, come proprio autista; l’Autista è in perenne ricerca dell’Amore materno che sempre le è stato negato, in qualsiasi forma, sostituito da una forma di auto colpevolezza inculcata da arte che la induce all’autolesionismo: pure questo, bisogna ammetterlo, modestamente, realizzato con cura, coscienziosità e diligenza, degni di miglior causa, ferite e tagli che sono intarsi arabescati, quasi.
“…avevo bisogno di mia madre. Di mio padre no…si faceva vedere poco. Meglio così.”
Nessuna delle due, in realtà, è quanto appare: la Signora, con tutti i tratti della matrona dell’alta borghesia napoletana, ed in effetti è stata la consorte di un noto professionista con tanto di attico e superattico di proprietà nel quartiere più esclusivo della città partenopea, se ne va in giro con tanto di pistola con matricola abrasa, detenuta illegalmente, intrattiene rapporti tanto cordiali quanto ambigui ed impropri con un boss della camorra napoletana, tale Naso di Cane, un nome che rievoca il titolo di un romanzo di malavita dello scrittore Attilio Veraldi, il che è tutto un programma.
L’Autista è invece in fuga da una autentica persecuzione, ed è il motivo per cui non vuole che venga accertata la sua effettiva identità, al punto da girare travestito da uomo pur essendo una bellissima ragazza.
“…Fino ai sette anni sono stata bene. Ogni tanto, almeno. Amavo mia madre, la mia madre vera, e ogni tanto mi pareva di essere riamata. Fino a quando non mi hanno consegnato alla casa-famiglia. La casa della Madremaestra.”
Le due donne in fuga su un SUV, ognuna che ha perso tutto, e ciascuna vogliosa di lasciarsi tutto alle spalle, giungono in Toscana dove saranno costrette ad industriarsi per necessità, e con molta abilità, bisogna ammetterlo, come detective presso un noto albergo con SPA annessa e omicidi acclusi. Per poi ritrovarsi e congiungersi in una sorta di recuperato e reciproco amore materno - filiale, e ricostruirsi e ritemprarsi nell’unica vestigia sopravvissuta al glorioso passato, una sorta di minuscolo buon ritiro nei pressi di Palazzo Donn’Anna, con tanto di vista spettacolare sul panorama del golfo di Napoli, con Vesuvio annesso.
Loro due, e Donna Achille, modestamente.
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Delitto e castigo
Una legge morale dall’alba dei tempi recita che ad ogni delitto segua il giusto castigo.
Concetto introdotto già da Beccaria, poi Dostoevskij ne trasse anche un bel romanzo.
Nella società civile, la privazione della libertà personale è una misura estrema, volta certamente non a punire ma al recupero del reo, lo prevede la Costituzione, tramite un percorso di consapevolezza, di crescita e maturazione seguita da evidente ravvedimento, ed infine un utile ed operoso reinserimento nel vivere comune, in sintesi il carcere serve a conseguire la libertà attraverso sanzione e rimedio.
Sarà; certamente non è questo il caso di Antonio Caruso, protagonista del romanzo “Mille giorni che non vieni” di Andrej Longo, scrittore ischitano di nascita e napoletano d’elezione.
Caruso da un giorno all’altro si ritrova rilasciato, posto in libertà, senza nemmeno conoscerne i motivi effettivi: nessuno, tantomeno il suo legale, sono al corrente del provvedimento di sospensione immediata del castigo. Per quanto concerne il delitto, invece, Caruso sa benissimo di essere colpevole, e di un reato tra i più gravi, oltretutto, un omicidio.
Non è reo confesso, o pentito del suo gesto: ha fatto fuori Skorpio, un malavitoso suo pari se non pure peggio, magari avrebbe anche preferito evitarlo ma certamente non poteva esimersi, sentiva di doverlo fare. E lo ha fatto.
L’assassinato a colpi di pistola era un infame, secondo il codice deontologico a cui Caruso aderisce dalla nascita, lo aveva colpito nei suoi affetti più sacri, ben oltre i legami di sangue, prima ancora che nei suoi affari. Come a dire, Skorpio se l’era cercato, ma soprattutto era un viatico obbligato nel mondo di Caruso. Malgrado sconti già da diversi anni la sua colpa, e tanti altri ne ha davanti, Caruso tuttavia accetta lo scorrere della reclusione quasi con compostezza, senza speranza ma neanche senza particolare avvilimento, perché la disperazione in carcere è pericolosa, il detenuto Caruso conosce le statistiche di suicidi nelle carceri meglio di un operatore del sociale.
“…il passato è un’ombra scura che ti viene a cercare ogni sera”.
Non può permettersi alcun scoramento, per quanto sia conscio della sua avvilente condizione, fuori dalle sbarre ha una moglie, che per quanto ancora innamorata di lui è triste e non lo aspetta più, ma soprattutto l’amatissima figlia, che invece vorrebbe tanto rivederlo, almeno quanto lui.
La piccola non ha ancora strumenti e coscienza per intendere perché il suo papà, di cui pur recepisce in pieno l’amore smisurato che porta alla sua bambina, lascia trascorrere tanto tempo, tanti momenti, mille giorni che non viene a trovarla.
Antonio Caruso è un figlio del suo tempo, dell’habitat e delle condizioni in cui è nato e cresciuto.
Viene dalla strada, quelle di vie, viuzze, vicoli, piazze e quartieri degradati: la sua formazione è, di necessità, per pura sopravvivenza, di natura delinquenziale.
Non vive, Caruso, neanche studia o lavora, a quelli come lui scuola e lavoro sono negati quasi per dettato costituzionale, semplicemente si arrangia.
Vale a dire che trova, racimola, mette insieme quanto serve per sostenersi, e poi sostenere la fidanzata in stato interessante, nel solo modo che la vita gli riserva: fuorilegge.
Come fanno tutti, ad iniziare dagli amici con cui cresce che sono la sua unica, vera famiglia: Tyson, Polpetta, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone, Mezza Recchia.
“…eravamo immortali. E ci mangiavamo la vita a morsi, più in fretta che ci riusciva”.
Non sono macchiette, sono per davvero la sua famiglia, le persone che ha più care al mondo, per cui si farebbe uccidere…e uccide.
Pertanto, una volta rimesso in libertà, Antonio prende la cosa nell’unico modo giusto che una persona intelligente come in effetti è, e anche ricco di umanità, malgrado i trascorsi delinquenziali, può fare: come una seconda chance. Una via d’uscita dal suo passato che il caso, la fatalità, la vita intende offrirgli, una pista di scampo, una svolta, una nuova direzione.
Tutte buone intenzioni…che rischiano di rimanere tali.
Perché Caruso si industria, si ingegna, si sforza per rifarsi un’esistenza priva di sbarre e palpitazioni, intende procedere su una retta via per amore sia della moglie Maria Luce che della piccola Rachelina.
Si rivolge allora per un aiuto al cappellano del carcere, per suo tramite viene assunto per guidare i camion…salvo poi accorgersi che al peggio non c’è mai fine.
Antonio Caruso vorrebbe semplicemente passeggiare al braccio di sua moglie sul lungomare, giocare con la figlia e poi regalarle un gelato, ritirarsi la sera dopo una lunga giornata di lavoro faticoso e mal pagato, solo questo, e non più delinquere: ma il suo destino sembra essere un fine pena mai.
Perché i camionisti devono ingurgitare pasticche e intrugli osceni per sostenere viaggi dai ritmi impossibili, ignorando come muli con i paraocchi quello che trasportano.
Dietro merci comunissime come verdure e pomodori vengono celati esseri umani, ancora più disgraziati dello stesso Caruso, perché utilizzati non tanto come forza lavoro, sempre il termine “lavoro” suona come chimera in certe situazioni, bensì nell’espianto di organi.
Inoltre, armi, droghe, rifiuti tossici. Con il corollario del bisogno perenne, il ricorso costretto agli usurai, le pretese pedofile di queste.
“…ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati”.
Antonio Caruso allora decide di riprendersi la sua esistenza, torna a mettersi in gioco, a rischiare in proprio, questa volta però dalla parte giusta: questo sì, il solo modo di rieducare un reo, recuperarlo alla società civile, molto più di come potrebbe farlo un qualsiasi carcere.
Pagando il prezzo che deve.
Andrej Longo non ci offre un romanzo di guardie e ladri, di buoni e cattivi.
Con la scrittura scarna, essenziale e incisiva che lo contraddistingue, Longo induce a riflessioni, per quanto amare. Lo scrittore ha una prosa scorrevole, agile e disinvolta; si fa leggere e seguire con facilità, comprensibile a chiunque anche quando indulge nelle forme dialettali, la sua è una attenta disamina sociale che illustra una certa realtà degradata a spirale, dove sui bordi permangono i buoni, certo, e però nel vortice chiunque può finirci, mancando appigli sicuri come il lavoro, la scuola, la cultura, i libri, ancor di più se nessuno si muove di quelli che potrebbero venire in soccorso.
Forse il finale non soddisfa pienamente il lettore, ed è l'unico limite del libro. Ma quello che Longo intende sottolineare, è altro: che serve che i derelitti imparino in fretta a sottrarsi al vortice, perché il fondo, questo Longo lo dice chiaro e tondo, è un inferno. A cui un buon padre, per quanto delinquente, per amore sa sottrarsi, la piccola Rachelina anela solo mille giorni con il suo papà.
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Un cold case, di quelli amari
Al momento, questo è l’ultimo romanzo di Antonio Manzini con protagonista l’ormai notissimo Rocco Schiavone, vicequestore romano in servizio presso la Questura di Aosta, nell’immaginario collettivo oramai identificato con le sembianze inscindibili, assai indovinate in verità, dell’attore Marco Giallini, che presta il suo volto al vicequestore nelle omonime fiction.
Questa volta Manzini, però, non si dilunga particolarmente in ulteriori capitoli centrati sulle dolorose vicissitudini strettamente personali del vicequestore, legate cioè più alla persona che non alla sua professione, che vanno dal rievocare il passato del personaggio, dall’assassinio dell’amatissima moglie Marina, il successivo delitto della compagna del miglior amico di Schiavone, la ricerca del colpevole e traversie varie che, in un certo qual modo, illustrano i trascorsi del personaggio, indugiando sui motivi fondanti dell’amara solitudine, annichilimento e disperazione, che albergano nell’animo sconfortato del vicequestore, ad onta di uno spessore umano di tutto rispetto.
Rocco Schiavone questa volta è chiamato in causa direttamente come segugio investigativo, a proposito di un cold case in puro stile alla “Ossa” di Kathy Reichs, concernente uno dei delitti più odiosi esistenti, una vicenda di quelle amare, toste, miserabili, il brutale assassinio di un bambino di dieci anni, Mirko Sensini, di cui casualmente si rinvengono i poveri resti, dopo anni dalla sua scomparsa. L’investigazione è di quelle toste e difficili, data l’esiguità degli indizi, e tuttavia Antonio Manzini fa procedere il racconto con abilità, a modo suo riscrive e ripresenta il suo personaggio meglio riuscito, questo per Rocco Schiavone diviene così non un giallo da risolvere ma è un’opportunità, Manzini offre a Schiavone un motivo di evoluzione e crescita del personaggio.
Perchè è un delitto che desta troppa rabbia e indignazione in chiunque, ma mai come nel nostro poliziotto, lo spinge a scuotersi, a mettere da parte i suoi demoni personali, a dannarsi, a immergersi in profondità e senza esitare nel fango e nel luridume del mondo della pedofilia, come nessuno mai.
Schiavone non si tira indietro, con caparbia determinazione non lascia nulla di intentato, il suo elementare ma solido senso della giustizia pretende che venga fatta piena luce sulla barbaria avvenuta, ed il colpevole punito come merita. Così Antonio Manzini rivitalizza la sua scrittura ed il suo eroe.
Rocco Schiavone è un personaggio riuscito, per la bravura, il talento e la maestria nel riportarlo sulle pagine del suo creatore, certamente; ma lo è soprattutto perchè è una figura controversa, ed autonoma.
Vive di vita propria ormai, ha una sua precisa, ben identificata personalità, quasi pare si scriva da solo le sue storie. È un apprezzato investigatore, un poliziotto intelligente e di buon senso, dalla moralità però dubbia e non sempre irreprensibile. Perché non è un apostolo della giustizia, è un comune mortale che ha a che fare con le quotidiane brutture ed ingiustizie dell’esistenza, che prova a raddrizzare graduandole, e quindi accomodando il codice a modo suo, in maniera più umana e meno giudiziosa. Non è un giustiziere, solo sa essere comprensivo e tollerante, quanto spietato e irriducibile, solitario e riservato, e altrettanto empatico e di buon cuore. Così ha appreso nel corso della sua esistenza: lui è una guardia, i suoi migliori amici dei delinquenti, tutti nati e vissuti gomito a gomito, e tutti consci che quello che fai non è quello che sei.
Puoi essere guardia e insieme farabutto e delinquente, e un delinquente con una morale onesta meglio di una guardia, dipende sempre dalle persone e dalle circostanze della tua vita. In questo suo essere binario, più nel bene che nel male, sta la sua normalità, e insieme è la chiave del suo successo: non è un paladino della Legge e della giustizia o un supereroe come Capitan America, ma è un uomo buono, altruista e generoso con gli amici e quanti ha vicino, malgrado non gli siano mai stati risparmiati lutti, tradimenti, disillusioni.
Fedele alla purezza di base, semplice quanto autentica, del suo animo che non transige sul Male in quanto tale sugli Innocenti per definizione, segue queste indagini con frenesia, impegno, determinazione, oserei dire con furore, tanto è grande il suo sdegno, e con modi e con l’esempio, guida e si fa seguire spassionatamente dai suoi collaboratori.
Come Michela Gambino della polizia scientifica, valente e accorta professionista quanto persona alquanto singolare, diciamo che sta con uno stato d’animo diffidente e guardingo come una no vax, però non nei confronti dei vaccini, ma delle scie chimiche, degli alieni, dei poteri forti e occulti.
Come Alberto Fumagalli, medico legale serio, esperto e competente, dotato di una vena di fine umorismo, sarcastico e rispettoso insieme davanti alla morte, da lui vista come un evento accidentale che fa parte dell’esistenza, giungendo a mangiare tranquillamente dinanzi ad un cadavere da dissezionare.
Come i componenti della sua squadra, Italo Pierron, travolto dal demone del gioco e debiti conseguenti e però pronto a fare la sua parte; Antonio Scipioni, bravo, coraggioso e audace poliziotto quanto pessimo a gestire una pluralità di rapporti sentimentali con le donne, e poi Ugo Casella, Michele Deruta, Domenico D’Intino, e inoltre i poco regolari ausiliari di polizia acquisiti a forza di sentimenti, come Eugenia ed il suo figliolo, mago dell’informatica meglio degli effettivi della polizia postale. In fondo, per il solingo e solitario Schiavone, tutti costoro, e poi gli amici di infanzia Sebastiano, Furio, Brizio, banditi pluripregiudicati, bravacci e lestofanti, però dotati di un candore, a modo loro una legittimità d’essere, una liceità di agire, una purezza da banda degli onesti, rappresentano la sua famiglia, il suo unico patrimonio di amore, il solo che gli è rimasto.
Rocco Schiavone è, a modo suo, un Capitan America, che ha perso tutto il suo mondo di affetti, compagnie, affezioni: la vita gli ha riservato lutti, disamore, acredine, lui ne è sconsolato; tuttavia, è e rimane uomo di coscienza gentile, sollecito, affettuoso malgrado non voglia mostrarlo e si celi dietro una coltre di fumo. E fumo illegale. Anche uomo saggio, come un buon padre di famiglia; per esempio quello che potrebbe considerare un suo figliolo, come Gabriele, lo lascia andare via incontro al suo futuro, lo spinge e lo incoraggia a lasciarlo, malgrado al poliziotto gli si strazi il cuore, perché il ragazzo viva la sua vita, come è giusto che sia.
Il nostro invece, come figli, magari si farà bastare la cucciolata della sua Lupa.
Volete che ad una persona così, le povere ossa non parlino? Forte e chiaro.
Il piccolo Mirko Sensini riposerà in pace.
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Associazione a non più delinquere
Fabiano Massimi, bibliofilo e bibliotecario modenese prestato felicemente alla narrativa, è noto ai lettori in particolare per i suoi romanzi “storici”, ambientati ai tempi dell’infausto avvento del Nazismo in Germania. In questi romanzi Massimi coniuga con abilità, acume e intelligenza personaggi di sua felice invenzione narrativa, che agiscono a fianco o contrapposti ai reali protagonisti storici dell’epoca. Troviamo quindi perfettamente delineati e resi con tutta la loro impronta di pensiero, sentimenti ed intenzioni, per esempio Adolf Hitler, nel pieno della sua escalation ai vertici della politica tedesca, a cui faranno seguito le infernali e disastrosi conseguenze per l’umanità.
Oppure i “giusti tra le nazioni”, comuni uomini e donne non di etnia e religione ebraica disperatamente indaffarati, a rischio della propria vita, a porre in salvo quanti più ebrei possibili, specialmente i bambini, avendo con lungimiranza intuito i lutti, le persecuzioni, gli eccidi, la tragedia che si sarebbe scatenata per i figli di Davide a causa dei folli intendimenti del dittatore tedesco.
Il tutto affiancando alla levatura letteraria del suo scritto il rigore dello studioso, senza travalicare i fatti ma riportandoli nella loro esattezza di svolgimento, ben inseriti nel contesto della trama ricca, variata, deliziosa, presentata e offerta alla lettura in maniera fluida e scorrevole, attraente come un romanzo di fantasia ma riportante con precisione anche fatti e protagonisti realmente esistiti.
Tuttavia, Fabiano Massimi prima ancora di essere uno studioso ed un appassionato cultore della Storia, è uno scrittore. Un ottimo narratore, un estensore di buonissime storie ben architettate, logiche, intense, affascinanti, con personaggi in tutta apparenza comuni, e invece originali e sorprendenti senza perdere di credibilità. Lo scrittore già dai suoi esordi ci ha offerto infatti romanzi piacevoli che si fanno leggere con interesse e coinvolgimento, rilevano per la bontà dello scritto perché sciolto, morbido, fluente. Massimi sa farsi leggere, sa gestire alla grande la parola scritta ricavandone scene, affronta questioni sociali, si dilunga su atti e indagini investigative, intermezza il racconto con spunti umoristici, con discrezione e sensibilità delinea quadri sentimentali, in sintesi presenta nei suoi libri ambienti e personaggi delineati nel profondo, e che interagiscono con il lettore incantandolo, interessandolo e deliziandolo insieme.
Tant’è che il lettore vuole godersi in pieno la malia del libro, senza essere distolto dalla lettura, a costo di isolarsi e ritirarsi, e come suggeriva Epicuro, di vivere nascostamente.
Non a caso quindi questo romanzo si intitola “Vivi nascosto”, segue al fortunato “Il Club Montecristo” dello stesso autore, ed è l’atto secondo di una serie poliziesca dove nei panni degli investigatori agiscono delle forze dell’ordine “sui generis”, gli Ammutinati.
Non sono pirati o galeotti che si sono ribellati ad un crudele capitano della nave contro le sue vessazioni, ma ceffi da galera lo sono per davvero.
Perché uno stereotipo ben diffuso vuole che certe persone che hanno sbagliato una volta, inevitabilmente torneranno a farlo, reiterando il vissuto delinquenziale come fosse un imprinting genetico, anziché il risultato di dinamiche esistenziali
In sintesi, se uno è stato in prigione anche una volta sola, quando esce tornerà inevitabilmente a delinquere di nuovo, quasi fosse una legge di natura.
Quindi, in caso di un qualsiasi reato occorso, i primi sospetti cadranno sempre su coloro che in precedenza sono incappati nelle maglie della legge per aver commesso lo stesso reato o simile.
Perché un certo modo di pensare è ben radicato, diffuso a forza specie negli ambienti investigativi ufficiali, non è ammessa neanche di straforo una qualche possibilità di riscatto, redenzione, espiazione della pena e dal sospetto una volta per sempre.
Nasce così il Club Montecristo, nomen omen, una libera e funzionale alleanza di ex carcerati, non più una banda criminale ma una associazione a non più delinquere, costituita da persone che hanno pagato le loro colpe, e dopo essersi riabilitate in prima persona, si sono prefisse di adoperarsi a favore dei loro colleghi, meno fortunati. Facilitandone il reinserimento nella società degli “incensurati”, e proteggendoli nel caso, come spesso accade, che finiscano per essere additati come colpevoli pur essendo estranei al caso specifico, ed innocenti a prescindere, esclusivamente per i loro trascorsi e per i pregiudizi duri a morire che ne derivano.
Si sono quindi questi ex carcerati “ammutinati”, ribellati a tale iniquo, crudele e ingiusto modo di pensare. Gli ammutinati creati da Massimi tornano alla grande in questo nuovo episodio che verte sull’inchiesta di un famoso stilista finito in prigione per falso in bilancio, e di tale omicidio viene accusato un suo vecchio compagno di cella, indicato naturalmente come sicuro colpevole con il solito affrettato giudizio sommario, d’uso abituale in casi simili. In più, stavolta prove a carico ne esistono per davvero, complicando la questione. Si tratta quindi di un poliziesco atipico, in cui i buoni che investigano sono i pseudo cattivi, e viceversa; inoltre Massimi riesce a caratterizzarlo da par suo, con riferimenti ironici e di fine umorismo, nonché, tenendo conto della sua professione ufficiale, anche a suggerire indirettamente al lettore titoli di buone letture, per esempio “Il senso di una fine” di Julian Barnes, oppure “Mal di Pietre” di Milena Agus, o ancora ”Se consideri le colpe” di Andrea Bajani.
Come a dire, anche i detenuti leggono, e perché non dovrebbero?
I libri rendono liberi, e senza preclusioni; insomma, Fabiano Massimi ci ha offerto un poliziesco di alto livello, potremmo dire, come la cultura del suo autore.
In sintesi, Massimi intende sfatare tanti luoghi comuni, in primo luogo va dissolto il dubbio: ad ogni detenuto al termine della pena deve essere fornita una seconda chance, deve poter riscattare socialmente i propri sbagli, non soltanto con l’internamento nei luoghi di pena, ma ricostruendosi una fruttuosa esistenza seguendo la Legge, quella morale prima di tutto.
Delinquere non è un’attività inestirpabile, più spesso il reo preferirebbe non esservene costretto.
Se questo è vero, è assurdo e paradossale che al recupero del reo, debbano provvedere non tanto le istituzioni, ma un cooperativa di volontari di mutuo soccorso, per quanto benemerita.
Il che induce a non poche riflessioni e critiche su aspetti della nostra società, spesso non a misura d’uomo, figuriamoci a misura di uomo che sbaglia.
Per rifletterci su, e far seguito a buone prassi dopo la riflessione, serve buon senso, un’ottima cultura e preparazione, volontà e impegno, coniugate a solidarietà, comunanza ed empatia umana.
Tutte cose che si apprendono anche con i buoni libri: perciò, un bibliotecario che ti suggerisce ottimi titoli, e che ne scrive lui stesso, è il top.
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Di mamma ce n’è una sola
Di mamma ce n’è una sola: ed è verità sacrosanta, niente e nessuno ci amerà sopra ogni cosa, contro tutti ed a dispetto di tutto, lei sola è l’emblema autentico di Amore con la maiuscola.
Naturalmente, non tutte le madri sono uguali; perché ogni madre è, prima di essere tale, una persona, per cui l’amore di mamma si manifesta diversamente secondo il contesto ed il modo di essere, di crescere e divenire della genitrice. Ogni madre è mamma, ma ciascuna lo diviene a suo modo.
Un retaggio dell’imprinting ambientale.
Tutte le madri amano però con cuore di mamma, ognuna è a sé stante nei confronti della propria prole, però tutte sanno perfettamente, nell’intimo, cosa significa, cosa comporta essere madri.
I simili sempre si riconoscono all’istante tra loro, è legge inscalfibile di natura; le altre genitrici saranno pure estranee, così come i loro figlioli, ma per il semplice fatto di aver partorito, una madre riconosce la compiuta maternità in un’altra donna, e tutto quanto a questo consegue.
Resta una persona estranea, la loro prole a loro solo appartiene, non è intrecciata nell’anima come la propria carne, l’altra è la madre dell’altro, l’altra madre. Comunque, Mamma.
“L’altra madre” è un gradevole titolo di Andrej Longo, non uno dei più recenti, e però un volume snello, slanciato, armonioso, come lo sono tutti i lavori dello scrittore ischitano di nascita e napoletano d’elezione. Un romanzo essenziale, veloce, può apparire scarno ed è invece pulito, più che conciso, perché la scrittura di Longo è così, non descrive, trasporta nei luoghi, negli ambienti, nell’intimo dei suoi personaggi, è il narrato che parla chiaro di per sé, riporta fatti e azioni che si spiegano da soli, senza tanti giri di parole. Andrej Longo è un autore dotato, abile, perciò la sua è scrittura efficiente, per quanto nodale. Pur essendo un racconto scattante è vigoroso, ha forma piena, compiuta ed esaustiva nel suo dire e sottolineare, soprattutto perché è un lavoro attuale, fuori tempo, parla dei momenti che restano sempre aggiornati all’odierno, vigenti, effettivi. Andrej Longo descrive una realtà che conosce perfettamente, che si ripete ciclicamente come la vita, parla di lavoro e di lavoro che non c’è, discetta sul bisogno e sul degrado che produce bisogno, ragiona degli umili, dei comuni, dei proletari e degli ambienti dove si svolge la loro esistenza. Ambienta tutte le sue trame nei quartieri usuali ad ogni grande città, nemmeno di estrema periferia ma siti a margine, spesso a ridosso se non proprio al centro più antico delle metropoli. Qui gomito a gomito risiedono piccoli delinquenti e dignitosi lavoratori, famiglie per bene ed altre disastrate, o forse solo sfortunate, misere o a disagio, tutti faticano a sbarcare il lunario, e vicini tra loro convivono canaglie e galantuomini, bricconi e uomini onesti, tutta la variopinta umanità che si riscontra nei quartieri popolari e popolareschi dell’habitat dell’autore, Napoli, o in analoghe grandi realtà urbane.
“L’altra madre” è un principio, un incipit, poi il racconto si riflette nei figli, come naturale derivazione.
Genny ha sedici anni, Tania ne ha quindici, sono due giovani simili, eppure profondamente diversi, sono gli altri figli, i figli dell’altra.
Sono ambedue bravi ragazzi, all’alba della loro giovinezza trascorsa troppo in fretta, che già intende catapultarli nel vivo dell’esistenza.
Genny ha lasciato la scuola, è orfano di padre, la madre è una donna gravemente malata, che si arrabatta a crescere il suo figliolo malgrado l’asma e la malagevole difficoltà di respiro, che la costringe a trascinarsi dietro la bombola dell’ossigeno. Non rinuncia però ad industriarsi in un lavoro clandestino, gravoso e mal pagato, cuce l’orlo dei pantaloni per pochi euro, quasi che il suo sforzo fosse grazia ricevuta per vivere. Per estremo dileggio e sberleffo nei confronti del suo gramo vivere, la donna non esita ogni tanto a fumarsi una sigaretta, che innesca inevitabilmente una tosse convulsa, stando ben accorta a non farsi beccare dal figliolo che le rimprovera il suo vizio pericoloso.
Anche Genny, come tanti giovani proletari, si arrangia con un lavoro precario, ed in nero: è barman tuttofare in un piccolo bar del rione, si occupa anche delle consegne a domicilio di caffè e colazioni, sfrecciando per il quartiere a bordo del suo motorino truccato, che manovra con innata abilità.
La sua vita si svolge così tra il lavoro, la cura della mamma invalida, il tifare per il Napoli, lo sfrecciare sul motorino, il militare nella squadra di calcio del rione, stando ben attento a non ficcarsi nei guai, a tenere le distanze dagli amici di una vita, suoi coetanei, che per pari bisogno come il suo hanno però preferito intraprendere scorciatoie malavitose.
Tania invece è unica figliola di una famiglia monoparentale più che dignitosa, il papà li ha abbandonate, ma madre e figlia sopravvivono benissimo da sole, la donna ha un impiego disagevole ma sicuro, è infatti in Polizia, in servizio operativo sulle volanti. La giovane come tutte le sue coetanee ama lo shopping, le feste, i bei vestiti, ma sa perfettamente fin dove può spingersi nei suoi sogni e nei suoi desideri, una ragazzina con la testa ben piazzata sulla testa, l’orgoglio e la gioia della mamma.
Finché un giorno i destini dei due giovani, e per estensione delle loro madri, si intrecciano tragicamente, e da qui tutto il romanzo precipita inesorabilmente, con crudele irruenza, in una turbolenza di furia, di rabbia, aspra e cattiva, dura e idrofoba.
Longo descrive letteralmente una discesa agli inferi, e ritorno; delinea a chiare lettere, e però con pochi tratti incisivi, l’essenza del dolore, il peso amaro della croce, l’algia e lo struggimento dell’anima violata dalla sventura e dal patimento per la perdita di quanto più caro hai al mondo.
Il peggior strazio che esista, quello che ti lacera, ti macella, fa scempio delle carni, del cuore, del cervello, è disperato pianto perenne, supplizio, martirio, e non ti fa comprendere più nulla:
“…ora non lo sa più quello che è giusto e quello che è sbagliato. Non sa più niente.”
Tutto il racconto sembra ruzzolare allora da qui in poi rovinosamente in una vicenda da grand Guignol, un film scontato e prevedibile di un borghese piccolo piccolo che reagisce con rabbia cieca ad un evento assurdo e crudele, insensato e irragionevole, gratuito, che rintrona, altera la coscienza, ti sconvolge la mente.
Andrej Longo però non è autore scontato, e rassetta, riordina, regola la vicenda come è giusto che sia, in un confronto tra la madre e la madre dell’altro, l’altra madre.
Comunque, Mamma.
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Winston list
Esiste un giorno preposto per ricordarli, a imperitura memoria.
Istituito semplicemente perché ciò che accadde allora, non si ripeta. Mai più.
Ogni anno il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, istituito per ricordare le vittime dell'Olocausto, e per inciso, quelli della Shoah, giusto perché si intenda che non fu un sacrificio inevitabile, ma un delitto coscientemente perpetrato dalla malvagità umana verso i propri simili.
Un giorno che rammenta a tutti, specialmente alle nuove generazioni, lo sterminio messo in atto tra il 1933 e la metà degli anni Quaranta dalla Germania nazista e dai suoi alleati, Italia compresa, in misura massiccia nei confronti del popolo ebraico, ma non solo, anche contro tutte le categorie ritenute deleterie all’ordine nuovo razziale del Terzo Reich.
Senza distinzione di età, di genere, di nazionalità, e senza provare mai un briciolo di umana pietà e misericordia, nemmeno per i bambini.
Per estensione, però, è anche un’occasione per ricordare i giusti, coloro cioè che pur non essendo ebrei, e quindi immuni dalle persecuzioni, non esitarono a rischiare, ad esporsi, a mettere in gioco la propria esistenza nel tentativo di mettere in salvo quanti più ebrei e perseguitati possibili. Nascondendoli, proteggendoli, ponendoli in salvo in altri paesi, aiutandoli in tutti i modi, a rischio della propria vita, disinteressatamente, rimettendoci tempo, valori, stress e salute, solo ed esclusivamente nel nome della loro normale, innata e mai sopita umanità d’animo.
Erano costoro i giusti tra le nazioni, uomini e donne dal cuore buono, generoso, solidale ed altruistico, a cui tantissimi ebrei devono la vita, questi fortunati furono salvati perché i non ebrei si adoperarono per loro. Non erano eroi, neanche giusti; erano le persone giuste, uomini e donne semplici e genuine, di comune buon senso, diversi dai perseguitati per nascita, etnia, religione, e però con loro saldi e concordi nel considerarsi come appartenenti tutti ad una ed una sola unica razza: quella umana.
Il più noto dei giusti tra le nazioni fu, paradossalmente, un tedesco: l’industriale Oskar Schindler, che con la scusa di impiegarli come manovalanza nelle sue fabbriche, sottrasse ai campi di sterminio oltre un migliaio di ebrei, i cui nominativi erano presenti in una lista, la lista di Schindler, appunto, da cui il famoso regista Steven Spielberg trasse il celebre film omonimo “Schindler list”, divulgando in tutto il mondo il coraggio e l’altruismo dell’industriale tedesco sì, ma certamente alieno alla logica aberrante dello sterminio nazista.
Come lui, tanti altri, meno noti ma non meno meritevoli, hanno operato nello stesso modo per trarre in salvo quanti più ebrei possibili; e meritano un plauso particolare quanti hanno rivolto i loro sforzi a porre in salvo i più innocenti tra gli innocenti, i bambini.
“…quello che facciamo qui non è illegale, ma potrebbe diventare rischioso…Lavoriamo venti ore al giorno, non siamo pagati, nessuno ci ringrazierà.”
In questo modo questi relativamente pochi prodi, agendo spesso senza alcuna copertura politica o diplomatica a protezione del loro operato, hanno in un certo senso riscattato il Bene, l’umanità degli uomini, la dignità dell’Uomo, degradata e svilita dal Male bieco e belluino, celato sotto la croce uncinata. Certo, il tutto non vale a porre rimedio, quanto accaduto è una vergogna della Storia, che non ammette assoluzione, remissione, venia, non è assolutamente possibile ipotizzare indulgenza.
Nessun abbuono; può esistere solo, per merito dei giusti, una minima forma di riscatto.
Se esiste un perdono, è perché tanti, e quasi tutti misconosciuti, si adoperarono per la salvezza di tantissimi.
“Se esiste un perdono”, l’ultimo romanzo di Fabiano Massimi, è un racconto di fede, di promessa, di attesa; non è un’opera di fantasia, nemmeno Storia romanzata, è l’accurata e documentata descrizione del romanzo dell’esistenza, in una delle epoche più buie della nostra Storia recente.
Massimi non è nuovo a questi lavori attenti, curati al dettaglio, ineccepibili, scrupolosi nella ricerca di fatti e protagonisti, letture che sono però allo stesso tempo deliziose, eleganti, d’autore.
Già nei precedenti “L’angelo di Monaco” ed il suo sequel “I demoni di Berlino” lo studioso e ricercatore, il bibliotecario modenese prestato e prestatosi alla letteratura, aveva dato validissima prova di sé, narrando a modo suo l’ascesa al potere di Hitler e del nazismo romanzando con arte aspetti meno noti della storiografia ufficiale, e però reali, documentati, storicamente innegabili.
Fabiano Massimi sa scrivere molto bene, vale a dimostrarlo tra l’altro la circostanza che si è cimentato felicemente anche in pregevoli lavori di genere poliziesco, in cui i buoni di turno non sono le forze dell’ordine, ma una cooperativa di ex carcerati riuniti in una forma di mutuo e solidale soccorso.
Massimi nutre una evidente amore per la Storia, è inoltre un bibliofilo, e bibliotecario, curioso e appassionato, ma a tutto questo si accompagna, con pari scrupolo, anche talento, dote e genio nel riportare su carta la sua inventiva. Scrive con uno stile fermo, risoluto, sa esporre il suo narrato con classe, sicurezza, il suo racconto ha un ordito forte, completo, abbina fascino e disciplina, sentimento e azione, paura e audacia. I suoi personaggi, quelli realmente esistiti e rivisitati, e quelli dettatogli dalla sua inventiva, sono delle perle, delle finezze, sia che si tratti di protagonisti positivi, uomini e donne, eroi tanto banali e comuni quanto splendidi portenti, sia che si tratti della feccia dell’epoca, gli obbrobri umani con il loro repertorio di oscenità d’essere, permeati dalla mostruosità del nazismo.
In particolare, protagonisti sullo sfondo di questo romanzo, ma in verità i veri mattatori della storia, sono i bambini, costretti a scappare oltrefrontiera, posti in salvo in paesi pronti ad accoglierli, almeno in un certo numero, ma necessariamente Paesi stranieri che i piccoli, alcuni piccolissimi, non conoscono e nemmeno ne intendono la lingua, da soli e senza i loro genitori.
Genitori che consapevolmente non li abbondano per salvaguardarli, se li strappano letteralmente a forza dal loro cuore e dalla loro anima, li affidano ad estranei perché li portino via, in aereo, per treno, in ogni modo lontani dal tedesco invasore, che abbiano almeno i piccoli una residua speranza di salvarsi e godere di una vita non diciamo felice, ma almeno comune e banale, a misura d’uomo.
Il loro emblema è una misteriosa, e incantevole, Bambina del Sale; una piccola che si aggira solo di notte per i vicoli bui, sfidando pericoli e paure per vendere per pochi soldi sacchettini azzurri ripieni di sale, per i tempi un bene introvabile, qualcosa di raro e prezioso.
“…si cresce in fretta, quando serve.”
La bambina del sale: non a caso.
Perché il sale è componente delle lacrime, è contenuto nel sangue, ma soprattutto si resta di sale davanti a certe vicende.
Gli adulti che sono, ma solo in apparenza, i protagonisti principali, i salvatori, tutte persone realmente esistite, e ricordiamo qui i nomi di questi giusti, Doreen Warren, Trevor Chadwick, ma soprattutto lui, l’artefice primario di queste missioni di salvataggio di bambini, Nicholas Winston, l’uomo giusto, nel senso più nobile del termine, il più giusto tra i giusti, cittadino inglese operante da straniero in terra straniera, che tanto si spese per espatriare i bambini ebrei da Praga prima dello scempio dell’invasione nazista.
“…Aiuto chi è senza aiuto.”
E che rivedrà a sorpresa i piccoli da lui salvati, potremmo dire i bambini della “Winston list”, a decenni dalla fine del conflitto, sul finire della propria esistenza terrena, vissuta in discrezione e misconosciuto, perché i giusti sono così, una volta esaurito il loro compito, ritornano nell’ombra, perché…perché li tormenta, è sale sulle ferite, il loro convincersi che potevano fare di più, salvare più bambini, salvarli tutti, nessuno escluso.
Anche la bambina del sale, il loro più grande rimpianto di una vita spesa giustamente.
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Gli indifferenti
La legge parla chiaro: in caso di omicidio sono ugualmente colpevoli sia l’esecutore materiale del delitto, sia i mandanti, i complici, i fiancheggiatori.
Benché non punibili, da un punto di vista etico sono ugualmente degni di biasimo e reprimenda, anche senza conseguenze giuridiche, finanche tutti coloro che, da una morte tanto violenta quanto improvvisa, sebbene non ne siano causa nelle intenzioni, e nemmeno minimamente coinvolti, ne ricavino indirettamente qualche vantaggio.
Ecco, “Chi ha ucciso Sarah?”, questo bel romanzo dello scrittore ischitano-napoletano Andrej Longo, è un testo che forse si potrebbe etichettare a prima vista, già dal titolo, come un ordinario poliziesco, e però non lo è. O almeno non è solo il racconto di un delitto e delle indagini che comportano: Longo rappresenta molto di più, e questa sua esigenza di dire mostrando, di far riflettere raccontando, è una costante nei suoi lavori. La sua è una iconografia stringata dei tempi che viviamo, resa vivida, nei suoi testi con una prosa semplice, asciutta, sintetica, tanto diretta quanto tanto chiara ed esaustiva.
Quella di Longo è una lettura scarna di parole ma ricca di sottesi, a tratti dura e spigolosa, ci mostra un costume dilagante come non mai prima nei nostri tempi. Andrej Longo non racconta di omicidi, relaziona di uno e un solo omicidio principe, forse l’assassinio più efferato perpetrato in larga scala ai nostri giorni. Con una pletora di esecutori, molti di questi killer neanche consci del delitto che consumano pressoché quotidianamente, neppure realizzano il crimine di cui sono diretti esecutori. Questo misfatto così svelato è la disumanità.
L’inedia ed il disinteressamento nei confronti dei propri simili, il menefreghismo, la noncuranza, l’impassibilità davanti alle miserie, ai dolori, alle sventure dei propri pari.
Viviamo un’epoca povera di valori positivi, e di quanti li esercitano; le tecnologie informatiche, che nelle intenzioni dovevano avvicinare gli uomini tra di loro, annullando distanze fisiche e differenze, farli sentire uguali sotto uno stesso cielo, fianco a fianco, uniti e solidali nel nome delle dimensioni e dei talenti a letterale misura d’uomo, come la bontà, la comprensione, la compartecipazione, la tolleranza e l’indulgenza, in realtà hanno creato una progenie di persone rinchiusa ciascuna egoisticamente in un proprio mondo fasullo.
Un alveo limitato dai propri personali interessi e tornaconti, persone incapaci di dialogare con i propri simili guardandoli direttamente negli occhi, parlano con una macchina e diventano essi stessi una macchina, e perciò per definizione freddi, aridi, senza cuore.
Un chip, un calcolatore al posto dell’anima, che computa cosa conviene e cosa no, emette valutazioni di proprio comodo, semina freddezza, insensibilità, cinismo, spinge a chiedersi:
ne vale la pena? chi me lo fa fare? perché impicciarmi? perché prendersi briga e fastidio?
Fatte tali premesse, allora “Chi ha ucciso Sarah?” è una domanda la cui risposta non è interesse di alcuno, se non forse dei congiunti stretti.
Semmai, i più si dilungano ad insinuare il dubbio, maligno e crudele, che la vittima, per essere stata assassinata, qualcosa avrà combinato, magari se la sarà cercata invece di farsi gli affaracci suoi.
Il sonno della ragione, l’allontanamento ed il distacco tra simili, il raffreddamento dei sentimenti di amore, vicinanza, solidarietà, unione, ha generato generazioni di indifferenti, a paragone dei quali “Gli indifferenti” di Moravia buonanima ci fanno una bella figura.
L’agente di polizia Acampora, in servizio presso la squadra mobile di Napoli, è il prototipo del bravo ragazzo, nato e cresciuto in provincia, pochi grilli per la testa, buono d’animo e volenteroso, svolge il suo lavoro con la pacatezza di chi è nativo dei luoghi dove esercita il suo mandato, sa quando necessita intervenire con decisione e quando invece mostrarsi tollerante, con equilibrio e buon senso.
La sua esistenza si svolge come una normale routine, piccoli interventi di pubblica sicurezza quando di turno in servizio di pattuglia, o a sbrigare lavori d’ufficio, con i colleghi con i quali si rapporta con sano e amichevole spirito collaborativo.
Finché in un giorno di agosto inoltrato e di straordinaria calura, la sua volante viene allertata per un intervento, e scopre così personalmente l’omicidio di una giovanissima studentessa, la Sarah del titolo. Trucidata forse con un colpo in testa con un corpo contundente, utilizzando come arma residui ferrosi di pregressi lavori edili in corso nel cortile del condominio dove viveva la giovane.
Il ragazzo Acampora diviene adulto e poliziotto, si scuote nel profondo, sia per la giovane età della vittima sua coetanea, sia perché, nel suo animo ancora intonso dall’umano menefreghismo, è vivo e palpitante il sentimento dell’innata giustizia.
La scoperta del colpevole è per il giovane agente un’impellenza vitale, ha connotati precisi di ricerca di un proprio equilibrio interiore, quasi il risveglio del tabù ancestrale per cui privare la vita di un proprio simile è sempre uno sfregio all’ordine morale naturale delle cose.
Ancor di più se trattasi di una giovane piena di vita, di interessi, di allegria e voglia di fare e di partecipare gioia dell’esistenza ai suoi simili con genuino candore, come si rivelerà essere dalle indagini. Questo omicidio per Acampora è un insulto, una crepa, un guasto etico che va assolutamente riparato, va restituita dignità alla vittima privata del suo vivere, e questo può avvenire solo indagando ed assicurando il colpevole a rendere ragione della sua colpa.
Supportato dal suo superiore, che rivede nel giovane il suo stesso entusiasmo di agire prima che le traversie e le brutture della professione ne inaridissero lo slancio, Acampora si rende conto che l’assassinio, occorso in un signorile condominio della zona bene della città, può avere come colpevole solo un residente dello stesso condominio. Si trova davanti, come dire, un po' come un delitto della camera chiusa, il colpevole è tra i presenti, e solo tra quelli, nessun altro poteva invadere la scena del crimine in quell’ora e in quelle circostanze. La cosa perciò si fa difficile, si tratta di indagare tra insospettabili, professionisti di specchiata moralità, persone dell’alta società, di ceto agiato, perbene e di alta educazione, lontanissimi da motivazioni e occasioni omicide: e però il colpevole può essere solo tra loro.
Il finale è a sorpresa, sconcerta, fa riflettere, tuttavia pur essendo una finezza letteraria è certo sorprendente ma logico insieme, se solo si tiene bene in mente quanto è nelle intenzioni di dire dello scrittore. Intenzioni chiarissime, come ben si deduce dalle riflessioni di Acampora, durante il funerale della giovane Sarah:
“…ero andato perché uno non può campare così, facendo finta di non vedere quello che capita attorno…che solo delle cose mie mi interessava. E il resto niente. Come se non esisteva.”
Fin quando esisteranno persone come l’agente Acampora, però, ci sarà speranza per l’umanità.
Ad onta degli indifferenti.
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A cosa serve allora, tutto questo mare?
Maurizio De Giovanni ci offre un lavoro nuovo ed originale, con un protagonista antico e sempre uguale, il noto commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, titolare della squadra omicidi in servizio presso la Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista, che ci appare ora cresciuto, maturato, con le stesse sfaccettature ma con gli angoli arrotondati come accade a chiunque dopo anni, rivisto dopo un lustro, nel corso della propria evoluzione. Lo scrittore napoletano non scrive, riporta; non inventa, riferisce; non racconta, espone. Il segreto dell’autore non è la felice inventiva del “fatto” che contraddistingue il suo personaggio più famoso, piuttosto è che egli stesso è persona estremamente sensibile, ricca di umanità, sente in maniera tangibile le umane emozioni, le condivide, è con quelle solidale, potremmo dire che è in qualche modo pervaso da un “fatto” analogo a quello del commissario Ricciardi. Sia il commissario che il suo creatore sono tra di loro in simbiosi, uno è l’alter ego dell’altro, accomunati non a caso dall’identica evidenza: la straordinaria, profonda, incisiva sensibilità, ricettività, disponibilità a “sentire” il “fatto” dell’esistenza, nel bene e nel male. Allora per Ricciardi, che vive in un’epoca cupa, grigia, ingiusta, talora disumana, il “fatto” consiste nel vedere i lati oscuri della vita, che per il mestiere che svolge, risultano essere gli ultimi istanti di vita, le ultime parole pronunciate dalle vittime per violenza omicida, o anche dalle tante vittime di fame, ingiustizia, sfruttamento, incidenti, disumana cattiveria, e tutto quanto può produrre la disumanità in sé stessa, l’egoismo, la miseria morale, l’indifferenza, che sono altre forme di violenza non meno gravi di atti compiuti da mano assassine. Sono fatti che neanche gli risultano utili ai fini delle sue indagini. Questo però non lo esime dal provare con rara intensità anche sentimenti di ben altra valenza, a corrispondere l’amore con la sua Enrica con pagine di rara letizia, delicatezza, poesia e rapimento estatico. Anche l’amore, si sa, può far male, perciò Ricciardi soffre: si strugge per la perdita della sua amata; si angoscia per la dittatura fascista oramai dilagante in progetti ancora più folli; per il crescente liberticidio, per la minaccia che incombe sui suoi più cari amici, come il dottor Modo, contrari e resistenti al regime; si rattrista per le traversie dei suoi sottoposti come il brigadiere Maione, a cui si vuole sottrarre l’amatissima figliola adottiva; si indigna per le leggi razziali, risente per le preoccupazioni dei suoi congiunti acquisiti di etnia ebraica; in particolare si tormenta per la sua unica figliola, Marta, a cui vorrebbe fosse risparmiata la sua stessa estrema sensibilità, e non provare le sue stesse pene. Ogni scrittore riversa parte di sé nelle proprie creature, è inevitabile; Maurizio de Giovanni risente anche lui di un “fatto”; per fortuna sua vive in tempi ben diversi, in democrazia, con più luce e meno ombre, e soprattutto è figlio della sua città, la città più solare, con più calore fisico e umano per unanime definizione. Allora De Giovanni non vede gli ultimi istanti delle vittime di cattiva morte, come Ricciardi, e però, da persona ricettiva qual è, “sente” benissimo i momenti di cattiva vita di quanti lo circondano, e continuamente gli parlano, gli dicono, gli riferiscono, sa i fatti buoni e cattivi della sua città, e di quelli scrive, quasi sotto dettatura. Li trasmuta in altri tempi, in epoca diversa, inventa cose e persone con la sua inventiva letteraria, ma parla di sé, della sua città, soprattutto rivela la sua umanità, la sua apertura mentale, la finezza d’animo, la sensibilità del suo cuore. I lettori già dal penultimo episodio anelavano sapere se Marta è coinvolta come Ricciardi dal “fatto”; non è importante saperlo, qui e ora basti precisare che la deliziosa bambina è come la sua mamma, un’anima semplice e buona, che “sente”, “recepisce”, “intende”. “comunica” con il cuore, è quel tipo di creatura angelica che rende la vista ai ciechi, la parola ai muti, il suono ai sordi, e la speranza e la gioia nel cuore di chi vive in tempi e modi poco felici. “A cosa serve allora, tutto questo mare”, viene da chiedersi, a cosa serve parlare di amore e sentimenti, allora, nel ventennio fascista, e ai nostri giorni, in tempi simili con identici venti di guerra? Serve, è l’Amore che ci fa vivere, sempre. La vita, come l’amore, è una danza, è un tango, d’improvviso si rivela un incanto, le nubi si dissolvono e un vicolo, un piccolo cammino, un Caminito, indica un nuovo orizzonte. Si usa dire che è dalle crepe che entra la luce. Ecco, è lo stesso per un vicolo, un caminito, un piccolo sentiero, “nù vicariello” come si dice a Napoli. Tutto questo mare serve, il tango nasce in Argentina, ma si può danzare anche a Napoli, tutto questo mare serve, non a separare i continenti, ad unirli. È un “fatto”.
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Dieci piccoli indigeni
Questo, che è uno dei primi testi editi dallo scrittore ischitano, napoletano per estensione, Andrej Longo, è esattamente quanto indica il titolo, un decalogo.
Un insieme di dieci racconti, ognuno dei quali prima si intitola, e poi si ispira, a ciascun punto del dettato evangelico, la serie dei dieci Comandamenti dati da Dio a Mosè per il popolo ebreo.
Applicato però alla prosaica realtà napoletana, e per estensione a quella di qualsiasi altra location analoga per disgraziato vissuto e difficili condizioni di vita; in sintesi questi perspicaci racconti di Longo, tutti brevi, incisivi e raccolti, per una lettura agile di un libro di non molte pagine illustrano, a saperli leggere, una serie di precetti fondamentali purtroppo da osservare in determinate condizioni o attività.
Un decalogo quindi assai distante dalle idilliache intenzioni teologiche, ma non per questo i dieci comandamenti in salsa partenopea esprimono precetti meno veritieri, anzi enunciano un dettato che rispecchia fedelmente ciascun verso di quelli incisi sulla pietra a lettere di fuoco, dati da Dio sul Sinai.
“Dieci” non ha nulla di biblico, qui non si racconta del Paradiso in Terra, piuttosto si narra di una terra da paradiso, in cui però qualcosa non gira per il verso giusto, e stavolta non per colpa degli Adamo e Eva, i residenti dell’Eden non hanno colto alcun frutto proibito, è che in mancanza di adeguati strumenti, scuola, lavoro, famiglia, opportunità e adatte condizioni esistenziali, nessun paradiso in terra darà buon frutto, e senza frutti dilaga la miseria e la fame, e le malevoli azioni conseguenti.
Dieci comandamenti, dunque, esattamente quelli delle tavole della Legge date a Mosè per la salvezza degli uomini, adattate però come detto alla realtà napoletana, attualissime ancora oggi anche a distanza di anni dalla sua pubblicazione, semplicemente perché rispecchiano la realtà nuda e cruda.
Una realtà immutabile da tempo immemorabile perché certe discutibili situazioni, alcune oscure ingiustizie, le violenze manifeste, le iniquità evidenti, le sopraffazioni dilaganti, in una parola le mafie locale, la camorra o come dire si voglia, sono endemiche in certi territori sussistendo certe volute congiunture politiche e storpiature sociali di comodo, come la miseria fisica e morale, al pari passi della mancanza di regole, di supporti sociali, di opportunità, di lavoro, nell’assenza più assoluta delle istituzioni proposte. Soprusi, angherie, torti, abusi sono radicati in ogni dove e non solo nel territorio napoletano, allorché sussistono certe situazioni di sfascio e di degrado; Longo ci racconta qui dell’habitat napoletano perché è quella a sua immediata portata, ma sono dogmi universali, come ogni buona religione che si rispetti. Puoi sarchiare per benino la vigna del Signore, tuttavia i campi più fertili, allorché sono invasi dalle erbacce cattive, necessitano di aratura profonda, ogni tentativo di risolvere o porvi rimedio, per essere efficace, deve essere incisivo, andare alla radice della gramigna e troncarla con decisione.
Radere le erbacce in superfice è una manovra di facciata, un’operazione di maquillage che lascia il tempo che trova, la malerba poi ricresce, magari anche più folta, dilagante e soffocante.
Andrej Longo non enuncia il suo decalogo per la salvezza del genere umano, fa ben altro, declina i dieci comandamenti ognuno nei suoi aspetti pratici, porta degli esempi, racconta degli episodi eclatanti a cui il dettato biblico si attiene alla perfezione, manca però un Messia da invocare, sperando che arrivi quanto prima ad immolarsi per la salvezza del genere umano.
In assenza di un deus ex machina l’umanità, e una bella umanità, bisogna dirlo, unita, concorde, solidale e compartecipe, descritta con incisività e crudezza da Andrej Longo, costituita da persone semplici, naturali, genuini, uomini, donne, bambini, tutti indigeni dei luoghi, si salverebbero benissimo da soli se solo gliene fosse concessa l’opportunità.
In questo senso, allora, “Dieci” racconta di dieci piccoli indigeni, dieci protagonisti di varia età e genere, piccoli perché intesi nella loro assoluta normalità e semplicità, potrebbero essere persone che casualmente potremmo incontrare ogni giorno, nativi dei luoghi e che di quei luoghi vorrebbero essenzialmente goderne le bellezze fisiche e morali che offre, viverci e lavorare tranquillamente ed in pace, in empatia e sodali con i propri simili.
E sono riportati davvero bene: Longo ha una scrittura deliziosa, una voce garbata e rispettosa che riporta letteralmente quanto vede, stretta, stringata, senza fronzoli, diretta.
Con toni e accenti dei luoghi, termini dialettali, suoni e melodie, stridori ed onomatopea, Andrej Longo trasporta chi legge a vivere i dieci comandamenti nelle strade più tradizionali di Napoli, gli fa vivere i vicoli e i quartieri, non chiede alcuna assoluzione, fa da sacrestano, un passo indietro all’altare, lascia che siano i fatti così come accadono a parlare per lui al lettore.
Il lettore allora si avvede che Caifa, i sacerdoti, i farisei o chi per loro condannano i dieci piccoli indigeni, i protagonisti dei singoli racconti, che ad uno ad uno soccombono, fin che non ne rimase nessuno…in stile Agatha Christie.
Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me, è attributo del locale boss della camorra, a cui un giovane di sani principi, ben deciso a tenersi alla larga da certi traffici delinquenziali, deve però prestarsi per salvaguardare la propria giovanissima fidanzata da una grave violenza.
Non pronunciare il nome di Dio invano, perché potresti essere chiamato a renderne tristemente conto, ed è quanto succede ad un giovane cantante di quartiere, oggi diremmo un neomelodico, che non si accontenta più di cantare ai matrimoni ed alle feste di paese, per la carriera e la cieca ambizione si presta ai servizi di malavita, per poi restarne drammaticamente invischiato.
Ricordati di santificare le feste, ed in famiglia possibilmente, ma come è possibile farlo per un onesto lavoratore, coniugato e con figli, costretto dal bisogno a lavorare ben lontano da casa e farvi ritorno solo poche ore al mese, perdendosi la vita, le feste, la famiglia e la gioventù in uno stringato pendolarismo da fame?
Onora il padre e la madre, e uccidine uno se te lo chiede per bieca e dolorosa disperazione.
Non uccidere, è quanto raccomanda un killer della camorra al figlioletto che desidera seguire le orme del papà. E via così per gli altri cinque comandamenti, fino all’ultimo.
Nessun cantico delle creature, qui ci sono solo povere creature che cantano una elegia della loro esistenza, una poesia di come vorrebbero la vita, o come potrebbe essere o essere stata, e com’è in effetti. Andrej Longo ha scritto di Napoli, dei suoi quartieri più vivi e più popolari, e nel contempo ha dato voce a tanti, troppi che voce non hanno, e che possono solo sussurrare le loro giaculatorie in clandestinità, in silenzio, quasi come ai tempi delle catacombe.
Sperando che qualcuno li ascolti: ma il cielo, spesso, troppo spesso, non risponde.
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La meglio gioventù
Il riferimento al nome proprio del ragazzo protagonista di questo romanzo, il giovane americano Holden Caulfield, di poco più di sedici anni, nel libro che ha regalato fama imperitura al suo autore, è in realtà una iniziativa dei traduttori dell’opera in Italia.
Infatti, il titolo originale in lingua inglese è “The Catcher in the Rye”, che letteralmente non significa nulla per qualsiasi lettore che non sia nativo degli States, o meglio ancora della grande Mela, città che ha dato i natali al suo autore. Un motivo, anzi più di uno, ne esistono per questa scelta editoriale, ed è emblematico per sintetizzare il lavoro di Salinger. Perché questo è un romanzo controverso, per la maggioranza della critica e dei lettori è un autentico capolavoro, tuttavia non mancano voci discordanti che lo etichettano come una storia pretenziosa ma banale, con un potenziale non espresso compiutamente. A parere di chi scrive, questo è in verità un ottimo romanzo, di intensa qualità, non saprei dire se un capolavoro o meno, certamente è una lettura consigliata, direi un classico, che però va gustato freddo, per assaporarlo in pieno. Alla seconda rilettura. Vale a dire, non si apprezza a caldo, cioè quando si è giovani oppure non ancora buoni lettori, non ci si è ancora nutriti anima e testa di un buon numero di testi, serve una certa non dico maturità letteraria, ma una sensibilità, un saper leggere tra le righe che si acquisisce solo con diverse esperienze librarie. Anche allora, però, sconcerta non poco.
Già il titolo, come abbiamo detto, esplica in pieno sia la complessità che la profondità dei temi trattati.
Il titolo originale dell’opera è di difficile interpretazione, davvero oscuro per certi versi e di difficile assimilazione per un lettore non statunitense. Letteralmente lo si può figurativamente indicare come un prenditore, qualcuno che letteralmente afferra, prende al volo qualcun altro o qualcosa, tra l’altro il catcher è una figura chiave nello sport nazionale americano, il baseball, anche questo sport presenta dinamiche e svolgimenti poco accessibili fuori dagli States. Fatto sta che nel baseball il catcher è il ricevitore, l’equivalente dall’uomo di maggior classe nel gioco del calcio, quello che segna gol e fa segnare. Ma c’è anche molto di più; il rye, per esempio, è un tipo di whisky molto apprezzato in America, ed è quasi una bevanda di uso comune, per cui indirettamente Salinger fa riferimento già nel titolo ad alcune problematiche presenti sottilmente nel libro, per esempio l’endemica tradizionale abitudine a consumare alcoolici in tutti gli Stati Uniti, con le relative problematiche sanitarie e sociali correlate all’abuso. Sottolinea come l’alcool è visto dai giovani come un rito di iniziazione, lo spartiacque tra la minore età ed il passaggio all’età adulta, sancito dalla possibilità legale di poter finalmente acquistare in proprio bevande alcooliche, altrimenti severamente proibito.
Ma non finisce qui: “The Catcher in the Rye”, è anche un verso di una poesia di un famoso poeta scozzese, Robert Burns, che in qualche modo, forse più per assonanza di suono che di voluta storpiatura, viene travolto nel suo significato originale, ed insomma, tutto il titolo dovrebbe in qualche modo richiamare l’atto di prendere al volo i bambini prima che si mettano nei guai, come attraversare una strada di corsa o cadere in un dirupo, e probabilmente è da tutto ciò di alieno alla cultura non americana che deriva la decisione editoriale di intitolare il libro con il nome proprio del giovane protagonista. Scelta non errata, poiché in fondo la lodevole morale dell’intero testo di Salinger è quella che i giovani vanno ascoltati, attenzionati, considerati, seguiti, e sì, se necessario presi al volo in tempo prima che accada l’irreparabile. Ma già da tutto quanto abbiamo appena detto del solo titolo ci fa capire davvero la complessità dell’opera, un libro datato nei primi anni ’50 e che è stato la delizia, o l’incubo, di generazioni di giovani americani che a forza o per scelta lo hanno letto.
Non è un romanzo facile, dunque, talora può apparire nemmeno tanto fluido da leggere, non scorre agilmente specie se il lettore non viene preso dalla malia di Salinger, è un romanzo difficile da capire e da digerire, e però per la stragrande maggioranza della critica riconosciuta è un gran romanzo, una bella storia, intensa, compiuta, intrigante e significativa. Un autentico capolavoro, che da solo ha donato fama e prestigio al suo autore. Da dire che Salinger era tanto sicuro del valore della sua opera, che pretendeva che venisse pubblicato con una copertina vuota, bianca, solo con titolo e autore, giacché era certo che il lettore sarebbe stato pienamente soddisfatto dal contenuto, e non dal contenitore. E non aveva torto, dato il successo ottenuto.
Idolatrato o incensato, criticato o sminuito, “Il giovane Holden” è però dai più considerato un libro magnifico, un capolavoro assolutamente da leggere, specie dagli adolescenti a cui è rivolto.
Per molti altri, però è un testo sopravvalutato. Probabilmente anche per colpa della trama, relativamente semplice: è la storia, narrata in prima persona dal sedicenne Holden Caulfield, una cronaca di pochi giorni della sua esistenza, un lungo fine settimana, trascorsi a vagabondare mentre rientra alla casa natale dopo l’ennesimo fallimento scolastico e relativa espulsione dall’istituto dove studia. In un certo senso, è un racconto senza tempo, malgrado sia trascorso quasi un secolo dalla sua pubblicazione. Holden - unico vero protagonista della storia malgrado tanti personaggi e comprimari, presenti nella storia o solo citati e ricordati, - è l’archetipo dell’adolescenza, è una specie di Gianburrasca all’americana, perciò esasperato ed esasperante alla massima potenza. Holden è il sedicenne intelligente e contestatore, cacciato da vari e rinomati istituti scolastici, critico su tutti i luoghi comuni e le regole che governano la società ‘civile’ (scuola, materie di insegnamento, professori, leggi e dogmi religiosi), alla ricerca di una propria identità personale, in conflitto con il ‘mondo’ (anche i genitori e soprattutto il padre) che lo vorrebbe coartare in schemi rigidi, stereotipati per lui inaccettabili. Dalle critiche, che coinvolgono anche compagni di scuola e le prime simpatie giovanili (Jane Gallagher, Sally Hayes), si salva solo la intelligente sorellina Phoebe, forse l’unica che sa capire ed accettare le tempeste emotive del fratello. Salinger non fa morale, non predica, semplicemente ci offre il suo eroe, ce lo fa seguire nei suoi giorni e nei suoi pensieri esattamente com’è, senza edulcorarne l’immagine, ci racconta di Holden Caulfield facendolo parlare in prima persona a ruota libera, una specie di “Ulisse” di Joyce, il ragazzo è crudo, con linguaggio pungente data la giovane età, e il lettore ne è attratto o respinto. Non è uno stupido, ama leggere e non se la cava male con i temi letterari, tanto da essere stimato dal suo professore per questo, ma non per il suo carattere diffidente e sospettoso. Il libro è piacevole da leggere, ma tale gradimento è variabile come abbiamo già avuto modo di dire.
Va letto tenendo conto in particolare che Holden Caulfield cova rabbia.
La stessa di tutti gli adolescenti: questo è il segreto alla base del suo successo.
Perché siamo stati tutti Holden, oppressi, rabbiosi, contestatori, e diciamolo pure, un po' sfigati.
Holden è una persona comune che mette tutto in discussione, non capendo immediatamente ciò che pensano gli adulti, e detesta le persone ipocrite, come gli piace ricordare frequentemente.
Questo è un libro di crescita, un racconto di prime volte, un percorso difficile di consapevolezza di sé e di ricerca della propria identità, un misto di curiosità e desideri che comprende finanche una iniziazione all’amore mercenario finito male. In sintesi, il successo di questo romanzo, che dura ancora oggi, sta proprio nel fatto che è un libro attuale: siamo tutti, o lo siamo stati tutti, dei giovani Holden. Tutti noi da ragazzi abbiamo “sfogato” la nostra solitudine in vari modi, chi si è chiuso in sé stesso in modo molto pericoloso, chi ha sofferto persino fisicamente queste ansie, il giovane protagonista del libro non è da meno, anche lui, magari come noi, si è sfogato sull’alcol e sul fumo.
I giovani continuano a farlo anche oggi, per questo vanno seguiti, e Salinger consiglia di più: vanno amati, a prescindere. L’amore è la sola cosa che davvero gli serve per crescere, e crescere bene.
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VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE
Questo non è un romanzo di uno scrittore, è un pezzo di bravura, una gran prova di cultura e di erudizione di un artista a tutto tondo, di rara e duplice sensibilità, un notissimo maestro della cinematografia italiana, e non solo. Quindi un regista, che è solito esprimersi in immagini animate, e invece qui si rivela altrettanto abile, operazione già fatta in passato, nel trasformare le immagini ed i suoni in parole scritte, suscitando ad arte con il testo su carta, nell’immaginario personale del lettore, le malie, gli scenari, la colonna sonora, le inflessioni vocali nei dialoghi ed i lineamenti dei personaggi, il tutto sapientemente provocato con la sola parola scritta, esattamente come saprebbe fare un bravo letterato.
Pupi Avati è, in sintesi, un poeta che sa esprimersi altrettanto bene tanto in video che sulla carta.
Direi di più, il regista bolognese è un sommo poeta; con le immagini o con le parole, sempre esprime il lirismo dell’esistenza, quella che permea comunemente i fatti della vita, e che solo gli artisti di rara sensibilità sanno cogliere per offrircela.
“L’alta fantasia” è un testo di estrema poesia, e lo stesso titolo, non è che un modo di indicare una liricità di estrema bellezza.
Chi è il cantore massimo dell’esistenza del suo tempo espressa in canti, in versi, in un carme di estrema suggestione ed emozione?
Ma Dante Alighieri, naturalmente, e chi altri?
Con la sua “Divina Commedia”.
Pupi Avati questo farebbe normalmente, parlerebbe di Dante in un film; ma ogni artista che si rispetti, tende ad esplorare, a mettersi in gioco, ad esprimere il suo immaginario in modi diversi ma con pari efficacia, ecco allora che nasce non una divina commedia per immagini, sarebbe scontato e ripetitivo, ma una bella storia scritta con Dante protagonista, un Dante magari diverso e poco noto, resa bene quanto le immagini, e però con le sole parole vergate su carta.
Magari utilizzando tecniche cinematografiche come il flash back, ma rigorosamente espresso in forma scritta. Avati è cineasta, ma anche scrittore: e questa duplicità la riversa anche nel suo racconto, non solo Dante compare nel romanzo, ma anche un altro grande della letteratura, Boccaccio.
Come dire, due al prezzo di uno, o due a due, giusto per pareggiare i conti artistici.
“L’alta fantasia “inizia con la morte dell’Alighieri.
Alla notizia, Firenze reagisce come si suole dire chiudendo la stalla quando il bestiame è già scappato, la città ed i suoi governanti trenta anni dopo la morte di Dante stanziano una bella somma di denaro a titolo di risarcimento per i familiari del poeta condannato a suo tempo all’esilio, e morto perciò lontano dalla terra natia e sepolto in quel di Ravenna.
Questo bonus pecuniario viene affidato a Giovanni Boccaccio, con l’incarico di consegnarlo alla figlia di Dante, che ha preso i voti monastici.
Tutto il romanzo è quindi un taccuino del viaggio, che non è solo fisico, ma in un certo senso un susseguirsi di emozioni, un giro a tappe ciascuna delle quali costituisce un evento miliare nella vita del Fiorentino. Un itinerario che è una sorta di ricostruzione di ciò che è stata l’origine, anzi l’insieme delle origini, della commedia divina: lo stesso iter che studiosi, docenti, discenti o semplici appassionati compiono da tanti secoli per leggere tra le righe i fatti, i significati, le accuse, le iniquità, gli amori, le metafore e le allegorie insite nei singoli canti dell’opera omnia del grande letterato.
Diciamo subito però che “L’alta fantasia” di fantasia vera e propria ne conta poco, non è un racconto fantastico, o almeno non solo, ma è una ricostruzione fedele a quella che potrebbe davvero essere stata la concretezza dei fatti del tempo, è storia vera e reale, è un libro molto ben documentato, con tanto di eventi storici precisi e ben riportati, Pupi Avati porta Boccaccio a ricordare e riconsiderare Dante, lo fa su un substrato di eventi realmente accaduti e che certamente hanno influenzato il Poeta ispirandogli i canti della sua opera, e però allo stesso tempo ci presenta a modo suo, filtrato dalla propria sensibilità di narratore, un Dante altrettanto reale sebbene meno conosciuto e citato dalla storiografia ufficiale. Un Dante più uomo e meno sommo poeta, una persona dotata tanto di talento letterario, faticosamente temprato nel tempo, che da una sensibilità fuori dal comune, il fiorentino è prima di tutto un uomo sapiente e intelligente, un professionista, e allo stesso tempo è persona fortemente empatica, un acuto osservatore dei suoi tempi e di tanti personaggi da lui conosciuti, antepone la sua sodalità alla sua poesia, ed è questa sua drittura morale che ne fa il Sommo Poeta.
Il viaggio per Boccaccio, e per suo tramite per Avati, è un pretesto, un modo per raccontare Dante bambino, Dante giovinetto, Dante turbato, travolto ed estasiato dall’amore sublimato per Beatrice, Dante politico, Dante soldato, Dante amico intimo di Guido Cavalcanti, Dante letterato.
Si narra tra le righe quanta fatica e quanto ingegno, quanti sacrifici e quanto dolore gli sono costate le sue opere, spesso osteggiate dai suoi nemici, prima tra tutti la Chiesa.
Come lo fu per Michelangelo, la poesia, la Divina Commedia in particolare, anche per Dante rappresentò il tormento e l’estasi, ben lo sanno Boccaccio e, secoli dopo Pupi Avati, perché l’arte, sapete, provoca spesso dolore, supplizio, sacrificio, prima di giungerti all’incanto ed all’elevazione intellettiva. Il tutto reso in maniera fluida, scorrevole, lineare, rapida e godibile, si tratta di un libro di non molte pagine, e però intenso. Di grande levatura accademica, senza mai apparire pesante, tutt’altro, un racconto per tutti. E poiché la poesia è anche Amore, tutto il libro rivela Amore con la maiuscola, certo principalmente quello di Dante per Beatrice, ma anche per la famiglia, gli affetti, manco a farlo apposta anche la stessa figliola monaca di Dante si chiama Beatrice, e in particolare risalta un altro amore, quello che lo stesso Boccaccio vela gelosamente in sé per il grande poeta.
“…Boccaccio affidò la borsa contenente le monete alla vecchia badessa: Vorrei le diceste che considero suo padre mio padre…padre di tutte le gioie della mia vita…”
Il che ammanta il suo tragitto di tristezza e malinconia, anche doloroso essendo l’autore del Decamerone affetto da scabbia, e tuttavia prosegue, non demorde, lo rende un cammino di rimpianti, un viaggio al termine della notte.
Amore…ma ogni amore pretende Musica. Esige una colonna sonora che sottolinei i momenti cruciali delle azioni. Chi meglio di un regista può saperlo?
Allora ogni capitolo è inframmezzato dai titoli delle musiche che Avati ritiene più opportune a quanto narrato, spaziando dalle arie della musica classica ai pezzi del repertorio jazz.
Il tutto, sia chiaro, non è una biografia, una storia di Dante uomo e poeta, o di Boccaccio, non è un’opera compiuta, nemmeno potrebbe esserlo, data l’esiguità del volume: più precisamente, è una serie di scene, di quadri ben scritti e ben presentati, ma non dei ciak, qui diciamo chiaro e tondo che non è una sceneggiatura, anche se potrebbe divenirlo, il romanzo non è stato scritto per il cinema ma per un altro motivo: per Amore.
Un duplice amore: per la scrittura, e per i due grandi letterati, Dante e Boccaccio, gli inventori della letteratura italiana, i campioni della nostra poesia e prosa.
Perciò Avati si avvicina a loro con amore, certo, ma anche timore reverenziale, e quindi con umiltà: il suo intento è rendere omaggio ai due grandi, non altro.
Come da settecentocinquanta anni tanti altri fanno, con immutata stima, devozione e ammirazione; perché, sapete, Dante Alighieri:
“…Sapeva il vero nome di tutte le stelle.”.
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Cioccolato e vecchi merletti
La sua recente scomparsa ha destato impressioni, emozioni e sentimenti vari, magari opposti tra loro, in tutto il mondo. A lungo se ne è parlato, malgrado l’età avanzatissima la sua dipartita ha sorpreso tutti, perché vedete, per generazioni succedutesi negli anni, lei è stata una icona inscalfibile, un vero e proprio testimone dei tempi trascorsi.
Insomma, di eventi in circa un secolo, e che secolo, se ne sono succeduti tanti, veri e propri fatti storici e memorabili che si studiano nelle scuole di ogni ordine e grado, e lei c’era, li ha vissuti tutti, li ha gestiti talora in prima persona, era presente in prima fila. Una presenza rassicurante per il suo popolo, talora controversa, una figura particolare di cui tanto si è detto e di cui ancora tantissimo si dirà e si studierà, lei era la Regina, sapete, non di quella delle fiabe, una sovrana reale, lei era l’Inghilterra.
Parliamo come avrete intuito della Regina Elisabetta II del Regno Unito d’Inghilterra, più precisamente regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri reami del Commonwealth dal 6 febbraio 1952 all'8 settembre 2022: oltre 70 anni, per cui è stata direttamente o indirettamente testimone di eventi indimenticabili della Storia. Iniziando, giusto per dire, dai conflitti mondiali con le loro conseguenze su genti e territori da lei amministrati, e proseguendo via via con i cambiamenti degli anni ‘60 e ’70, mutamenti epocali tra i quali la devoluzione del potere nel Regno Unito e la decolonizzazione in Africa, poi la guerra nelle Falkland negli anni ’80; ancora, sempre come semplice esempio, ricordiamo che ha assistito alla caduta del Muro di Berlino e al disfacimento del regime comunista sovietico, il sorgere dell’epoca digitale, l’avvento di pc, internet e cellulari, per giungere all’entrata del suo paese nella comunità europea fin dal primo sorgere dell’UE, e finanche alla sua successiva fuoriuscita con la Brexit, fino a giungere ai drammatici recentissimi eventi della pandemia da covid-19, il lockdown e tutto quanto ne è conseguito e tuttora incide sui nostri giorni.
Il tutto, destreggiandosi allo stesso tempo abilmente con le problematiche familiari private, di necessità pubbliche per simili personalità, come valga per tutto l’esempio del disastroso matrimonio del proprio primogenito erede al trono con la principessa Diana, la principessa del popolo amatissima dagli inglesi, scomparsa in drammatiche circostanze in un incidente di enorme impatto emotivo per i suoi sudditi.
Tutto quanto ciò premesso è per dire che “Bournville” di Jonathan Coe né più né meno è, come Elisabetta, un testimone della storia inglese degli ultimi decenni, un romanzo di testimonianza diretta, altamente descrittivo delle emozioni popolari sorte in coincidenza con i fatti più eclatanti della storia inglese.
Questo è un libro dove l’autore assume a modello del suo dire un microcosmo, una comune cittadina della provincia inglese, Bournville appunto, con tanto di classica topografia cristallizzata:
“…un intero villaggio…Case, negozi, una chiesa. La chiesa è l’edificio principale, proprio al centro dell’abitato. Il campanile è così alto…Accanto ci sono il macellaio, il fornaio…il calzolaio…Tutti i negozi sono sulla stessa strada, una lunga via alla fine della quale c’è la piazza del villaggio, con la torre dell’orologio e il palco per la banda.”
Città naturalmente con la topografia per quanto statica tuttavia in evoluzione, come è giusto che sia, per cui i protagonisti stentano a riconoscerla dopo tanto tempo trascorso da quando se ne sono allontanati, come succede a chiunque.
Tutta la cittadinanza, come succede in simili piccole realtà, ruota intorno alle alterne vicende della più importante fonte di reddito del posto, una fabbrica di cioccolato, con i protagonisti che in quella lavorano a vario titolo e ruolo nel corso delle discendenze familiari, e Jonathan Coe ne fa lieto racconto, lo snoda attraverso gli anni seguendo le vicende dei primi attori sulla scena e poi i loro figli e nipoti, quindi è una descrizione attenta dell’evolversi di tradizioni, modi di pensare, di essere, usi e costumi, rivelati proprio dal vivere comune dei vari personaggi. Anche, e soprattutto, della morale corrente, basta vedere come erano ancora visti gli omosessuali appena pochi decenni or sono, detto da voci autorevoli:
“…Gli uomini come quello sono la feccia della feccia. Ricordati solo questo. La feccia della feccia.”
Non a caso il romanzo inizia la sera dei festeggiamenti per la fine dell’ultimo conflitto mondiale, termina ai nostri giorni con la paura del nuovo morbo, le restrizioni e le reclusioni a cui obbliga i protagonisti, fino ad un epilogo placido e naturale, esattamente come è il corso dell’esistenza di ognuno.
Un racconto normale, anche ben scritto, in pure stile britannico, con tanto di atmosfere british stile arsenico e vecchi merletti, anzi più precisamente cioccolato e vecchi merletti. Ecco, forse il limite del romanzo è proprio questo: certamente non è un libro sovranista o nazionalista, tutt’altro, però ha troppo un’impronta locale. Voglio dire, piacerà sicuramente ad un inglese, che ritroverà certamente l’evolversi della mentalità britannica nel corso del tempo, e il che è interessante, attrae, si fa leggere con piacere, ma credo piacerà un po' meno al lettore non anglosassone. Come chi scrive.
Certamente è un testo ironico, piacevole, a tratti divertente, ed è interessante leggere le reazioni e la partecipazione emotiva popolare il giorno dell’incoronazione della Regina Elisabetta II, giusto lei; e poi, la vittoria della nazionale inglese nel campionato mondiale di calcio del 1966, manco a farlo apposta battendo in finale la Germania, acerrima nemica nell’ultimo conflitto mondiale. E poi ancora, il matrimonio tra Carlo e Diana in una atmosfera fiabesca, fantastica, irreale, fuori del tempo, e l’altrettanto grandioso funerale della sfortunata Principessa. Come il ciclo della vita, non a caso ma per precisa e significativa scelta artistica di Coe, il romanzo termina in piena epoca appena post covid nel settantacinquesimo anniversario della fine della guerra, esattamente come il giorno in cui è iniziato.
Un testo che parla dell’Inghilterra, e del suo popolo, abbiamo detto; e però Jonathan Coe è scrittore di razza, in certe pagine riesce a farsi leggere, a farsi apprezzare, da ogni lettore; come, ad esempio, quando racconta dei giorni in cui infuria il Covid:
“…La pandemia, di cui forse stiamo vedendo soltanto gli inizi, ha già creato situazioni di grande crudeltà. Famiglie separate da enormi distanze, impossibilitate a vedersi per molto tempo…E naturalmente milioni di morti improvvise, premature. Milioni di vite spezzate, quando la gente pensava di avere davanti a sé ancora molti anni, forse decenni…”
E poi, con tono sempre più toccante, va oltre, è qui e ora che diviene scrittore universale, perciò di valore:
“…gli ultimi mesi della vita, li abbiamo vissuti attraverso lo schermo di un computer…Questi schermi, queste finestre sono le barriere di vetro, silicone, plastica che la pandemia ha innalzato tra noi. Siamo stati costretti a separarci e a comunicare con modalità che sono solo una pallida imitazione, a volte una parodia, di ciò che è un autentico contatto tra le persone… “
In sintesi, Jonathan Coe in “Bournville” parla della vita, e di noi tutti.
Perché per tutti noi l’esistenza è un mantra:
“Tutto cambia e tutto resta uguale”
Solo che Coe, tra le righe, fa risuonare le prime note di “God save the Queen”, o the King che dir si voglia. Ma non tutti sanno cantarla benissimo quanto un inglese.
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La grande abbuffata
Siamo quello che mangiamo: mai frase risulta meglio indovinata per sintetizzare quanto parte abbia il cibo nel corso della nostra esistenza.
Mangiare non consta solo nell’atto di nutrirsi: significa appartenere al luogo dove ci si sfama, carpirne gli umori, le essenze, la storia, gli influssi sui popoli e sulle persone che quel cibo hanno prodotto, coltivato, curato, spesso inventato di sana pianta, per soddisfare il più elementare dei bisogni primari.
Ben lo comprende Erri De Luca, lo scrittore napoletano scarno, asciutto, dismesso ed essenziale tanto nella sua prosa che nella sua persona, con una costituzione fisica, un incarnato che sembra visivamente disconoscere al cibo una soverchia importanza.
Invece, il mingherlino De Luca restituisce al cibo tutto il suo valore nutriente, lo scrittore napoletano è persona tanto essenziale quanto sensibile, è un poeta sotto una scorza di montanaro riarso, sa ascoltare attentamente le emozioni della vita, finanche le suggestioni che può trasmettergli un semplice tocco di pane, recepisce appieno il senso di quanto porta alla bocca, a piccoli pezzi o forchettate di maggiore raccolta, il cibo racchiude intrinsecamente non una ma tante storie, racconta di sé e di come è arrivato sulla nostra tavola, narra la fatica, il lavoro, il dono, la gratificazione, e tutto questo e altro ancora l’autore ce lo riporta pari pari, rimestando nel calderone dei suoi ricordi, del suo vissuto, del suo peregrinare.
Ci offre la manna della sua scrittura.
A spizzichi e a bocconi, che letteralmente vorrebbe dire dapprima in maniera frammentaria, disorganica, disordinata; senza sequenza logica. Anche stentatamente, a fatica, poco per volta, ma poi le parole si susseguono, formano frasi, diventano porzioni sempre maggiori, si aggiungono resoconti, racconti, informazioni. Erri De Luca riporta la voce del cibo, non il chiacchiericcio che il o i commensali si scambiano tra sé e tra loro tra una portata e l’altra attorno al tavolo, i suoi sono pensieri e riflessioni proprio intrinseci al cibo e alla valenza umana di questo.
De Luca ci apparecchia qui una grande abbuffata, di quelle che allietano e non stordiscono, un pasto deliziosamente pantagruelico ma leggerissimo, che scivola via lasciandoti in forma, di cui non si riesce mai a saziarsi del tutto, la sua penna fa opera pregevole anche di un argomento semplice, lo fa lievitare naturalmente, fino a farlo crescere e divenire narrativa piacevole a gustarsi, pur utilizzando comunque lo stile asciutto ed essenziale che da sempre contraddistingue l’autore.
In sintesi, De Luca in ogni suo vissuto assorbe e nutre fisico e anima con i prodotti del luogo, a chilometro zero, e ne scrive:
“…In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Sono le credenziali del luogo. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto.”
Il protagonista di questo libro, l’eroe della storia, è proprio lui, il cibo.
Il cibo che è storia, è dono, è miracolo, è vita.
Intendiamoci allora chiaramente, qui malgrado gli interludi di un nutrizionista che lo affianca a capitoli alterni, non si parla di diete o di filiere alimentari, di calorie e ingredienti, De Luca scrive solo di sentimenti, il cibo è l’innesco della memoria e lo stimolo al raccontare e raccontarsi.
Allora i capitoli si snodano, uno dietro l’altro De Luca rievoca piatti e ricordi della propria infanzia:
“…La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mamma, nonna Emma… Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un grido di ragù dritto nel naso…”.
Volete che nei trascorsi gastronomici di un napoletano non venisse citato il ragù, il re dei pranzi domenicali napoletani, quello più volte celebrato da Eduardo; e poi anche altri piatti tipici partenopei, i friarielli, la cianfotta, i peperoni ‘mbuttunati, il casatiello, la pastiera…
Poi più avanti negli anni, altra vita, altra storia, altro cibo di tutt’altro genere a scandirne i giorni, i cenoni di Natale del tutto diversi dalle consolidate antiche tradizioni familiari, trascorsi stavolta magari in osteria, seduti a tavolacci sbilenchi insieme agli amici operai compagni di lavoro e di militanza politica, o da solo in una sperduta baita in alta montagna, rallegrata da una visita inaspettata con cui condividere lo scarso cibo e l’abbondante umanità.
Quasi in sottofondo, si ode la voce del coautore, il nutrizionista Valerio Galasso, che con rigore scientifico e l’entusiasmo dell’appassionato ci spiega sia i cibi che il loro significato alimentare, si relaziona con quanto ha appena detto De Luca nel capitolo immediatamente precedente al suo intervento, indaga come nutrizionista con tutto quanto a “spizzichi e bocconi” ogni giorno interagiamo, e insieme ci insegna senza parere a nutrirci in modo più semplice e sano, responsabile.
Siamo quello che mangiamo, dunque, e anche se non mangiamo è significativo, significa che sussiste un problema, una guerra, una difficoltà, una tragedia, ma di quelle vere.
In definitiva, una bella lettura, agile, veloce, spedita: Erri De Luca è un artista di profonda umanità, e anche stavolta si occupa dell’Uomo, di genti, di collettività, perché il cibo, a piccole dosi o a grandi portate comunque possiede un sapore, dolce, amaro, irritante, delicato, esattamente come mille sapori ha la vita. Che va assaporata, a spizzichi o a bocconi, perché ne vale la pena,
Sempre, senza temere che ci faccia male, o ci faccia ingrassare.
La vita, come il cibo, va assaporata, nutre, ci fa crescere.
Sta a noi farlo bene, scegliere le pietanze giuste, gli ingredienti genuini, le dosi esatte, mangia come vivi e vivi come mangi.
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Chiare, fresche e dolci acque
I romanzi distopici in genere presentano un’umanità sopravvissuta a qualche cataclisma di varia natura, in genere provocato dagli stessi uomini, in scellerata autonomia, che riporta il pianeta e le comunità in una condizione declassata, retriva e regredita.
Questo accade a volte come esito di un conflitto mondiale, seguito da un olocausto nucleare, oppure in seguito ad un immane disastro ecologico, occorso per folle, malevolo, illecito abuso delle risorse naturali. Trattasi in ogni caso di eventi tali da proiettare i superstiti in un nuovo scenario sociale ed ambientale, drammatico per molti versi, perché necessariamente la realtà come la conosciamo appare stravolta da nuove priorità, si instaurano giocoforza nuove regole, sorgono spesso autoritarismi, tendono ad affermarsi valori e strutture non sempre lodevoli ed esemplari, anzi, quasi mai l’esperienza passata insegna a edificare un mondo nuovo a misura d’uomo, dove l’aggettivo nuovo dovrebbe intendersi nel senso di “buono”, migliore proprio in virtù dell’esperienza passata.
“Il Maestro della cascata” di Christoph Ransmayr non fa eccezione, qui a seguito di annosi conflitti armati l’umanità si è come dire frammentata, si è divisa in stati e staterelli, costantemente ostili tra loro, i continenti sono divenuti un gigantesco puzzle, sbrindellati in una miriade di cocci, piccole fazioni sempre in lotta tra di loro, e l’elemento essenziale, la ricchezza superstite del pianeta, è l’acqua. Infatti, oltre agli usi comuni quale elemento indispensabile alla vita, l’acqua è oramai l’unica risorsa energetica del pianeta. Terminate le risorse sfruttabili, abbandonate e improponibili quelle dannose, l’unico modo di fornire energia per gli usi civili e industriali, è l’acqua, che opportunamente incanalata su appositi percorsi, crea energia, sfruttando il principio delle dighe si creano bacini, chiuse, dislivelli, cadute, cascate per cui il movimento liquido viene convertito in moto, e da qui in energia buona a tutti gli usi. Ne consegue che coloro che sono in grado di padroneggiare l’elemento liquido, guidarne e regolarne il corso, la corrente, il deflusso, quindi gli ingegneri idrici, gli esperti del ramo, sono i nuovi sacerdoti, i potenti, i sapienti in grado di assicurare il proseguimento della civiltà, sono i nuovi maestri, letteralmente i maestri della cascata, e come tali a lungo andare assumono vesti e modi di onnipotenza.
Il protagonista del libro è esattamente questo, un ingegnere delle acque, che in virtù del suo potere e dei suoi privilegi, è il solo a poter percorrere impunemente il mondo in perenne conflitto, accolto ovunque con tutti gli onori grazie ai suoi indispensabili servizi. Ma non solo, egli è anche il figliolo di uno dei primi grandi nuovi padroni del pianeta, Il Maestro della cascata per antonomasia, che pare si sia tolto la vita proprio nelle acque affidate alla sua guida, al suo governo, alle sue manovre, forse per il rimorso di aver volutamente e gratuitamente provocato un naufragio con vittime, un pluriomicida, quindi, agendo sul sistema di chiuse e canali sotto la sua potestà, per un malinteso delirio di onnipotenza. In sintesi, il romanzo sembra snodarsi come il racconto in prima persona di una epopea familiare, una famiglia del nuovo mondo a prevalenza energetica acquatica, sorto sulle ceneri dell’originario e devastato pianeta di terraferma, quasi che il protagonista percorresse a ritroso, controcorrente, la storia della propria famiglia, dalla foce alla sorgente. Trattasi pertanto di un romanzo forte, con una scrittura altrettanto energica e vigorosa, e proprio per questo una lettura non facile. L’assenza quasi totale di dialoghi, la presenza di accurate descrizioni e di lunghi monologhi e pensieri sparsi alla rinfusa, quasi un “Ulisse” di Joyce alla massima potenza, rende il romanzo complesso, molteplice e multiforme. Non è un gran volume, non conta neanche duecento pagine, e però richiede concentrazione, attenzione, attenta riflessione, anche se talora non è proprio sufficientemente empatico da accattivarsi la simpatia del lettore. Non è un libro scritto male, tutt’altro, direi invece che è scritto fin troppo bene, e fittamente, ma è un libro parlato, narrato a ruota libera, autoriferito in velocità. Il romanzo non racconta, è il protagonista che si parla addosso, le acque protagoniste, sapientemente racchiuse, sono sullo sfondo, ma il maestro della cascata si comporta non come uno che sa dirigerne il corso per l’opportuno e proficuo salto, ma come se fosse il creatore stesso della cascata. Per cui la storia è involuta, si schiarisce nel finale che lo riscatta in toto, ma solo dopo essersi impegnato, non è quindi una lettura facile, da relax, ma ha una sua valenza, indiscutibile.
Forse per questo il romanzo, malgrado l’ottima idea originaria, sembra perdersi, confondersi.
Può piacere, ma anche risultare gravoso, difficile da leggere quanto è stato difficile da scrivere.
Ha un suo valore di percorso e di corrente, ma è fiume sotterraneo, ha le sue cattedrali, situate però in grotte sottomarine, non all’aperto, serve essere sub o speleologi, quindi, per carpirne appieno il valore. Talora il testo appare oscuro, contorto, spinoso, ma perché è chiaro e torbido allo stesso tempo, come sa essere l’acqua secondo l’habitat che percorre. Il romanzo, ed il sottinteso in esso, è da un lato semplice quale può essere la struttura molecolare dell’acqua stessa, H2O, solo un paio di elementi chimici di cui uno ripetuto due volte, che però con opportuni provvedimenti può trasformarsi di stato, mutare da acqua lieve dissetante ad acqua pesante buona per una bomba atomica.
Lo stesso elemento dei versi poetici delle chiare fresche e dolci acque può trasformarsi in flutti rapidi, assume un aspetto impetuoso, travolgente, tumultuoso, strepitante.
Il nuovo ordine mondiale è estremamente frammentario, per cui problemi di differenze etniche, di nascita, di provenienza, sono esasperati, unioni appena nate e cementate dal tempo devono obbligatoriamente essere scisse allorché una ulteriore divisione si attua in una realtà politica già miniaturizzata. Ne consegue che sono incoraggiate le unioni tra consanguinei, tra fratelli e sorelle, questi legami non sono più considerati incestuosi o forieri di errori genetici, ma come un rievocare le epopee faraoniche dell’antico Egitto, com’è noto i faraoni si sposavano tra consanguinei, ed il tutto avveniva al cospetto del Nilo, come dire la maggiore divinità delle acque:
“…il faraone…era il figlio di una coppia di regnanti sul Nilo, fratello e sorella, potente ed invincibile come i suoi genitori, un figlio del sole che come già suo padre aveva preso in moglie la propria sorella.”
In definitiva, quindi, tutto il libro ha percorrenza tumultuosa, da fiume in piena, il finale poi, a sorpresa, lascia ad un tempo meravigliati e sgomenti, sbigottiti, sbalorditi, è sconvolgente e veemente, anche commovente, restituisce la caduta, il salto, di una cascata, e il conseguente sfarfallio alla bocca dello stomaco quando si precipita dall’alto per un tuffo o un piede in fallo: il tutto a suggerire, e significare, una grande verità della vita, che è impossibile opporsi a certe correnti convulse e frenetiche, esattamente come l’umanità non è capace, non è in grado, non ha architetture o strutture ingegneristiche tali da opporsi alla deriva delle proprie passioni nel mare dell’esistenza, e le prime vittime sono sempre quelle con le ossa di vetro.
“…il faraone…venerato come un santo protettore…non soltanto era morto da ragazzo, ma soffriva di una malformazione, aveva i piedi vari, il bacino troppo largo e il mento sfuggente, e riusciva a camminare solo appoggiandosi a due stampelle dorate (che alla fine vennero messe insieme a lui nel sarcofago).”
Navigare nella vita come fanno le acque nei fiumi, linearmente dalla sorgente al mare, seppure con rapide, salti, vortici e anse serene, senza guida e timone, per la razza umana non è altrettanto facile, certamente non come bere un bicchier d’acqua.
L’acqua si ricicla di continuo, dal cielo alle sorgenti ai fiumi al mare, disseta e assiste, aiuta, sostiene.
Gli uomini invece non imparano mai, vivono sempre:
“…Everyone for himself: ognuno per sé.”
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QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO
Sangue di Giuda è una imprecazione, un’invettiva, un improperio di rabbia, di delusione, di stizza, pronunciato a volte a mezza voce, con un sibilo amaro, più a sé stessi che ad altri, altre volte invece strillato al mondo intero con toni rochi di ira, di furia, se non di disperazione, quasi ad ammonire o scacciare qualcuno o qualcosa, più che a maledirlo.
Chi lo usa, più che per acredine, rabbia e disappunto, lo fa spesso per abitudine, un intercalare non tanto per vizio o per vezzo malsano, ma come un voler sottolineare a tratto grosso, e grossolano, un vissuto sgradito, che sembra incaponirsi a perseguitarci, con insolente protervia.
La frase in sé a volte rimarca inconsciamente anche l’evidenza di un triste e doloroso arrendersi, l’inconsapevole issare la bandiera bianca sulle barricate della lotta per l’esistenza, rassegnarsi ad un destino avverso, un capitolare ad una realtà malevole e insofferente, che non si accetta, non era prevista, non si considera equa, nulla è andato come nelle intenzioni e nelle previsioni, e però non si riesce in alcun modo a ribaltare l’iter dei propri giorni disgraziati, anzi sembra che il disagio, il malessere, il mal di vivere sia in fase di progressivo sviluppo nel tempo.
Sangue di Giuda, perciò, non è in sé e per sé una bestemmia, non è una frase che mira per motivi vari a oltraggiare la divinità, i santi e i simboli venerati da una religione, qui ci si scaglia specificamente contro Giuda Iscariota, uno dei dodici apostoli, che, come è noto, tradì Gesù consegnandolo ai sacerdoti per trenta denari d'argento, con una delazione perfida, maligna, crudele, paradossalmente compiuta indicandolo ai centurioni con un bacio, la massima espressione di amore e fedeltà.
Un bacio tenero, dolce, mite, al chiaro di luna per giunta, può esistere aberrazione maggiore e antitetica per un tradimento? Baciare per tradire, c’è chi lo fa spesso, e volentieri.
Sangue di Giuda è allora un modo di dire che sacramenta una manifestazione di amore di chi invece trama un danno o un tradimento; non solo, ma è una frase che in modo irriflesso cela in sé anche il rimorso, il complesso di colpa per gli errori che si sa di aver compiuto volutamente e non per sbaglio, un macerarsi e maledirsi, lo stesso che portò l’apostolo, pentitosi troppo tardi, ad autopunirsi.
“Sangue di Giuda” di Milvia Comastri, in estrema sintesi, né più né meno ci parla di tutto questo appena detto, si racconta qui di donne tradite, ingannate con un bacio, illuse e deluse, circuite e violate, in nome dell’amore o presunto tale, da qui il vituperio cantilenante per molte pagine.
Un libro scritta da una donna e che parla di poche donne e di tante donne insieme, e delle loro condizioni, quasi sempre le stesse malgrado il decorso delle generazioni, tuttora sempre uguali pure se con orpelli diversi, l’essere donna dai tempi dell’Eden è una condizione che pare gravata da una maledizione di Giuda, che le vieta di essere uniche fattrici dei propri destini.
Con una differenza fondante: se il titolo è un’invettiva, la storia è ben altro, è un augurio, una speranza, un lieto fine contro tutto e contro tutti, è un racconto di crescita, di maturazione, di consapevolezza, oserei dire di rinascita ed ascensione ad un empireo di autodeterminazione, sebbene descriva un percorso comunque duro, difficile, irto di ostacoli per ognuna delle quattro protagoniste, il loro Calvario innanzitutto perché donne.
Talora è un incedere per molti versi straziante, ma in definitiva è un trionfo dell’Amore ritrovato e della Colpa ripudiata, la ritrovata consapevolezza scaccia da ognuna di loro ogni addebito, insieme a tutti i tormenti, il fiele ed i veleni che sempre accompagnano le infrazioni addebitate a torto.
Perché da sempre è Giuda che tradisce, colui che si dice militare tra i buoni scientemente opta per il Male, mente, nasconde, prevarica; colei invece che è la Maddalena, peccatrice per definizione, usata, abusata, lapidata, non abbandona l’Amore, la Fedeltà, la Verità che ha scelto di servirsi come guida per vivere, e se lo fa, lo recupera prontamente.
Perché è una donna, soprattutto per questo, non altro.
Come dire: gli uomini a fatica migliorano, le donne lo fanno prima e più facilmente, comunemente.
Milvia Comastri tutto quanto lo racconta bene, con prosa semplice e chiara, fluente, limpida ed incisiva: davvero una bella scoperta questa autrice, una scrittrice precisa, fertile e feconda, con una scrittura agile, slanciata, sottile, in un romanzo di un numero di pagine usuale riporta scorrevolmente quattro personaggi fondanti e tre generazioni significative, rende emblematici fatti, usi e costumi di tempi e situazioni diverse, avvince il lettore, lo inchioda alle pagine, alterna capitoli, pensieri e azioni tutte perfettamente coordinate tra loro.
Non unite ad incastro ma indipendenti, collegate da un filo narrativo sottile e non invadente, l’autrice lascia libere le sue quattro protagoniste di agire come desiderano secondo indole ed inclinazioni proprie.
Ci offre quattro storie nella Storia, srotolando un gomitolo di ricordi lineare, senza strappi, senza nodi, un filo robusto che non è, o non è solo, parentale.
Un racconto al femminile, dove essere donna è la condizione comune di chi pospone il sentimento alla ragione, segue le ragioni del cuore, che significa soddisfare con chiarezza e dedizione i bisogni del corpo e dell’anima insieme, senza nascondersi, celare, mistificare in nome o per timore di una presunta, asserita e bugiarda superiorità dell’altro genere.
Il romanzo d’esordio della scrittrice bolognese altro non è che un riportare il dettato di una donna e di tante donne, e ancor di più, quello che le donne non dicono.
Esprimendo il tutto, dietro un’apparente durezza, severità e rigore, con estrema dolcezza, intensa delicatezza, struggente malinconia, tanto amore e toccante poesia, impossibile non empatizzare per le sue creature. Che non dicono perché a lungo, troppo a lungo, sono state ostacolate, interdette, diffidate a dirlo: perché le hanno tacciate di stupidità, inadeguatezza, incapacità di gestire la propria esistenza se non sotto un’egida maschile, perché sono state ingannate, gli uomini si sono comportati nei loro confronti sempre come Giuda, vendendole per trenta denari per il loro predominio, oppure ingannandole con un bacio, vessandole con i complessi di colpa, i ricatti morali e quanto altro di infido hanno saputo inventare.
In sintesi, certi uomini le loro donne le hanno sposate per convenienza, anche sapendo di non essere in grado di soddisfarne affettività e sensualità; oppure le hanno circuite sotto falsa identità perché distratti da presunti ideali di ben alto lignaggio rispetto ai sentimenti suscitati, negli anni dei cieli plumbei della storia del nostro Paese; o ancora, le hanno semplicemente sfruttate ed usate come un oggetto o un trastullo, qualcuno senza neanche badare alla minore età e relativa innocente inconsapevolezza della controparte.
Troppo spesso e volentieri nel corso dei tempi le donne sono state tradite, ingannate, violate da coloro, partner o meno, sempre uomini, di cui si sono fidate ed affidate, che hanno amato, che hanno difeso ad oltranza, solo dopo lungo penare comprendono che è l’unione tra loro quello che solo le serve per assolversi, e ripartire.
Milvia Comastri più che inventare una storia, fa da testimone silenziosa, lascia che siano le sue quattro protagoniste a sciorinare i fatti, a capitoli alterni, a descrivere gli eventi che hanno scandito le loro singole esistenza, in un modo o nell’altro ma sempre con connotati tragici, drammatici, con venature violente, talmente usuali e comuni da risultare senza alcun sforzo reali e concreti, è un narrare il suo mai pesante o barocco, ti porta su e giù in tempi e situazioni diverse per epoca e protagoniste.
In una cascina, presumibilmente della bassa emiliana, in un’atmosfera grigia e di perenne attesa di qualche novità che non giunge mai, scenario che ricorda tantissimo “Il postino suona sempre due volte”, vivono, o forse sarebbe più esatto affermare che risiedono in simil reclusione coatta, quattro donne, un poker omnicomprensivo dell’universo femminile bistrattato.
L’anziana vedova Celeste, la capostipite della famiglia, che da decenni non esce di casa nemmeno per recarsi nell’attiguo giardino, convive con le sue due figlie.
La maggiore, Agnese, inaridita perché delusa dalla scoperta dell’artefatta identità dell’amore della sua vita, allontana da sé ogni giorno la perenne rievocazione della sua pena, scagliando con ossessiva reiterazione ogni sorta di oggetti e suppellettili a frantumarsi fuori dalla finestra.
La minore, Nadia, è quella che si dice vox populi una figlia della colpa, e come tale additata a pubblico disprezzo, alla quale l’animo sensibile della giovane reagisce concentrando tutti i suoi sforzi nell’apparire, nel cercare di mostrarsi sempre migliore ed esteticamente superiore; perciò, si industria dove la bellezza è richiesta, il cinema, le sfilate di moda, le foto artistiche ed altro, quasi come se la bellezza in qualche modo la riscattasse agli occhi della comune meschinità.
Per la sua ingenuità, è una persona che viene spesso ferita, sfruttata, umiliata, e tutto quanto non fa che accrescere la sua sensibilità e di converso la sua voglia di vivere, sarà pure una donna irresponsabile e vanesia, ma è amabile e bisognosa di amore come non mai, perciò vulnerabile, e per questo di lei gli uomini approfittano come fosse cosa.
L’ultima protagonista è Mira, figlia di Nadia e di uno dei suoi tanti amori occasionali, perciò di padre ignoto, poco più di una bambina, acuta e intelligente, e però priva della necessaria attenzione e tutela in un simile contesto familiare in degradazione.
La giovanissima manca ancora degli adatti strumenti di discriminazione tra Amore e Inganno, Candore e Malizia, Buonafede e Malignità: tuttavia, seppure inconsapevolmente, l’adolescente è l’enzima adatto, il catalizzatore familiare che, agitando la soluzione tutta al femminile della sua famiglia, induce la buona alchimia con un’ottima resa finale.
Quattro donne, quattro epoche diverse, quattro stagioni dell’esistenza.
Celeste è l’inverno degli anni del dopoguerra, sposa e merciaia, figlia da sistemare, moglie del prototipo della brava persona per antonomasia, un uomo del nord diverso per indole, modi e carattere da chi magari la vita l’affronta invece con brio e sfrontatezza tutta mediterranea: e l’inverno, si sa, si scioglie come neve al sole, è un connubio naturale.
Agnese è l’autunno degli anni ’60 e ’70, quelli del boom economico e delle successive immediate contraddizioni, rivendicazioni, stravolgimenti e confusioni, che coinvolgeranno tanti giovani come lei, persi dietro la chimera delle proprie scelte tese a realizzare a forza un cambiamento tanto radicale quanto utopistico.
Nadia è la primavera degli anni ’80, viva la vita edonisticamente come i tempi richiedono, ma nei cinema, come nei sogni, i fondali sono di cartapesta, basta un acquazzone ad infrangerli, e non distingui più le lacrime dalle gocce di pioggia.
Mira è l’estate degli anni del nuovo millennio, ma è anche di più: è luce, è sole, è alla ricerca del personale Atticus che rischiari il proprio “Buio oltre la siepe”:
“…Mira pensa alle parole che Atticus dice a Scout: Quasi tutti sono simpatici quando finalmente si riescono a capire.”
Per cui Mira è oltre l’estate, è tutte le stagioni, è lei l’eroina che vive la vita esattamente com’è, nel bene e nel male, lei è accoglienza del diverso, è incontro, è speranza, è input per nuovi orizzonti.
Grazie anche all’incontro con Stefano, che le spiega:
“…è così che ti vedo, sai? Quattro isole in un braccio di mare stretto. Ma basterebbe costruire ponti, piccoli ponti per collegare le isole. Non è un’impresa difficile. Basta volerlo sul serio.”
La verità è appunto questa, che con i mattoni si ergono tanto i muri quanto i ponti, basta scegliere.
“Sangue di Giuda” è esattamente questo, una storia di muri che poi diventano ponti, è una tetralogia al femminile, un unico excursus storico, dai muri ai ponti, dalla reclusione alla libertà.
Gli uomini?
Francamente, non tutti gli uomini sono farisei, vivaddio i più sono brave persone, come Stefano, e spesso li incontriamo per caso, come accade a Mira: in effetti, l’unico a tradire è stato Giuda, ma gli altri undici si comportarono bene, dopotutto.
C’è speranza per l’umanità, allora, se solo siamo uniti finalmente tutti insieme, uomini e donne, naturalmente sullo stesso piano, con pari dignità, e sarebbe pure ora, sangue di Giuda!
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DIDATTICA IN PRESENZA
La prima cosa che colpisce nel leggere “Il liceo”, l’ultimo romanzo di Alessandro Berselli, è che è un libro snello, asciutto, rapido. Dove i termini non sono riferiti al numero di pagine, affatto poche, e del tutto in linea con analoghe letture, ma proprio per la sua scorrevolezza, fluidità, agilità del narrato.
Si badi, per quanto slanciato e spedito, è però un racconto ben scritto, una trama fitta di eventi, una storia che si legge con curiosità ed interesse, minimalista e perciò perfettamente immersa nei giorni nostri. Ci presenta un susseguirsi incalzante di fatti a incastri logici e normali, nonché avvenimenti pressanti sebbene usuali del vivere quotidiano, anche se non coinvolgono propriamente i comuni mortali ma in questo caso le classi elette e privilegiate, d’altra parte sono parte dell’umana varietà anche loro. Il racconto emoziona e coinvolge, vibra con toni lievi, ci fa sorridere, sorprende, presenta protagonisti vividi e reali, mai abbozzati ma sempre tracciati a luce piena, seppure con brevi segni.
A proposito dei quali oserei dire di più: Alessandro Berselli non crea i suoi personaggi e poi li caratterizza, li vive. Con un realismo pragmatico e psicologico impressionante.
Compie lo stesso lavoro che sono soliti effettuare gli attori della Actors Studio di New York, giusto per intenderci: non interpretano i loro personaggi, nemmeno si immedesimano, ma diventano quelli.
Così Berselli: ad esempio, non delinea un professore filosofia, Lorenzo Padovani, si incarna in esso, si impossessa del suo animo; perciò, lo vive, non lo interpreta, e la resa è stupefacente.
Non usa il suo linguaggio, ma la sua lingua, veste come lui, mangia come mangia il professore, è come quello un giovane del suo tempo, immerso nelle identiche situazioni quotidiane, con le sue caratteristiche, il suo stile, è esattamente quello che appare, una brava persona con una bella etica.
Berselli/Padovani non cita i maggiori autori della filosofia, ne discorre comunemente; non delinea il loro pensiero e le loro teorie, ne fa tranquilla conversazione spicciola; non scorre i menù delle varie gastronomie, li gusta riportando sapori e sensazioni, non sorseggia vino, ne esalta il sapore indicandone l’etichetta precisa. Ascolta con attenzione e ironia il cameriere che informa serissimo:
“…Il pane naturalmente è a lunga lievitazione in modo da neutralizzare gran parte dell’acido fitico contenuto nella crusca”
L’autore vive nel suo personaggio protagonista principale, trasmuta in quello.
Così per gli altri comprimari.
Questo presuppone creatività e particolare sensibilità di artista, ma anche fatica e disciplina.
Disegna un quadro delineato nella cornice, ma ricco di particolari minuti ed essenziali, quindi ben rifiniti; non è un racconto per immagini, non una sceneggiatura cinematografica però, intendiamoci, ma una buona lettura, non un capolavoro ma una piccola chicca, è un ascoltare i protagonisti in presa diretta, attraverso la parola scritta.
Berselli è narratore, non un regista; dal suo comporre nero su bianco viene fuori un romanzo completo, preciso, dettagliato: pertanto incisivo ed esauriente, poiché i particolari sono delineati non tanto per far scena e coreografia, ma per rendere al meglio personaggi e situazioni.
Lo scrittore bolognese ci offre qui un buon lavoro, energico e fruttuoso, meritevole di rispettoso omaggio, si vede qui chiaro e tondo soprattutto l’impegno e lo sforzo dell’autore per porgere al lettore un lavoro più volte rifinito e rielaborato allo scopo di contribuire, per quanto gli è possibile, ad esorcizzare con un’immagine vincente, quella di Padovani appunto, protagonista principe del suo lavoro, le recenti paure covidiane. Non a caso, nelle postille finali, normalmente riservate ai consueti ringraziamenti da parte dell’autore, Berselli sorvola per sottolineare invece quanto la scrittura, e di converso la lettura, abbiano contribuito in qualche non irrisoria misura a rendere lievi i giorni del lockdown, a sé stesso ed al popolo dei lettori.
Tra i settori maggiormente stravolti dall’emergenza pandemica, e forse il primo, oltre alle strutture di soccorso ed ai sanitari impegnati in prima linea, è da annoverare certamente la scuola: da qui il titolo.
Questo è una storia da ascoltare tramite la parola, allora i vocaboli richiamano esattamente i concetti, il titolo rimanda alla scuola: da notare, l’intera vicenda interessa per la maggior parte una scuola in presenza, dove la didattica, una formazione scolastica di altissimo livello, è esplicata esclusivamente in vivo e de visu, in diretta contrapposizione ai tempi della reclusione forzata, allorché era giocoforza ricorrere alla ben nota, e magari famigerata DAD, didattica a distanza. Il libro fu scritto e perfezionato allora, in tempi di coprifuoco perenne, in un certo senso si è rivelato un portafortuna, incrociando le dita è stato edito giusto in coincidenza con il ritorno sui banchi dal vivo. Quasi un talismano.
Non si creda però che il lavoro verta sulla scuola come istituzione, sul mondo della formazione dei giovani o simili, nemmeno è un giallo o un noir come lo svolgersi degli eventi succedentesi nella trama potrebbe indurre a credere.
Se un evento traumatico, forse delittuoso c’è, è perché rappresenta l’elemento di rottura, il punto di non ritorno cui nemmeno un privilegiato dell’esistenza può impunemente oltrepassare; direi di più, è un pretesto, uno stiletto volto a squarciare il velo di ipocrisia che copre le azioni disdicevoli di un certo tipo di umanità, cui i privilegi sociali acquisiti, spesso mai per merito proprio, ne stravolgono l’etica individuale, alterano la normale scala di valori di qualsiasi società che voglia dirsi civile, propagandosi all’intorno come la più virulenta delle epidemie.
Solo l’acquisizione di un pensiero, di una dirittura esemplare, di una retta coscienza filosofica, riconduce l’esistenza ai canoni squisitamente umani, gli unici accettabili, quelli volti al bene, alla solidarietà, all’empatia, è la cultura, la conoscenza, la condivisione, la compartecipazione empatica che quelle forniscono ciò che conferisce un’immunità permanente contro i guasti di un certo tipo di comportamento.
In sintesi, che dona un’indipendenza di giudizio: il valore aggiunto di un buon educatore.
Non a caso il protagonista principale è il prototipo della persona per bene, ricca di valori, manco a farlo apposta un docente di filosofia.
“…Insegnare non è soltanto conoscere una disciplina e trasmettere agli altri il proprio sapere. Entrare in classe e lavorare con gli studenti vuol dire anche comprendere la loro complessità emotiva e psicologica. Se un educatore non capisce questa cosa, la sua missione fallisce miseramente.”
Un’anima pura, il buono della storia, il bene per eccellenza, a maggior ragione perchè i suoi buoni sentimenti non gli derivano da esperienza diretta di vita, infatti è giovane, addirittura giovanissimo per il ruolo conferitogli, un’eccezione, appunto.
La filosofia, intesa come rettitudine, è quanto rende eccezionale l’uomo.
L’amore per la sapienza è un concetto da diffondere, include la compassione e solidarietà per i propri simili, solo allora la filosofia è salvifica, acquisisce un senso pragmatico.
Quindi, malgrado titolo e location, questo romanzo è una sottile considerazione sul pensiero umano. Sulle azioni degli uomini, e sui pensieri reali e concreti che li inducono a compiere certe scelte e non altre, il loro sforzo per nascondere spesso invano la propria vera e triste essenza.
Il pensiero appartiene a tutti quanti dotati di raziocinio, in questo libro non si fa filosofia, non la fa nemmeno il protagonista principale che la materia la insegna come titolare di cattedra.
Questo è un racconto pratico di scelte, di etica, di morale, indirizza gli attori al bivio tra umanità e mera malignità egoistica, li segue nel loro agire per libero arbitrio.
Lo stesso pensiero razionale chiarisce che le azioni umane, allorché meschine e negative perché dettate da sentimenti di natura prettamente egoistica, triste, malsana, non troverebbero mai approvazione in un contesto ammodo e rispettabile: serve quindi celarle.
Talora, più spesso, inutilmente, è sforzo vano, i pensieri come i nodi vengano al pettine, le miserie si rivelano tali anche in un campus per eletti o presunti tali.
Lorenzo Padovani, il protagonista principale, a soli 27 anni è già abilitato all’insegnamento della Filosofia nei licei, e con pieno merito, può vantare infatti un curriculum da primo della classe, decanta una preparazione che definire eccellente sarebbe riduttivo, ha portato a termine studi e stages, tutti conseguiti con applicazione, passione, impegno e fatica personale.
Non è un giovane rampante della Milano dei giorni nostri, è un giovane già arrivato.
E bene in alto anche, gli viene conferito il prestigioso incarico di ruolo presso il liceo Modigliani.
Non un qualsiasi istituto dell’istruzione pubblica, ma la scuola degli eletti, più un campus americano che un liceo nostrano, con rette altissime e residenze interne per allievi e docenti, frequentato quindi esclusivamente dai rampolli della società bene, figli di ministri, industriali, grandi imprenditori, i mammasantissima di ogni società, è un santuario dove si preparano le classi dirigenti del futuro, quelli che succederanno ai loro padri.
“…Secondo il “Wall Street Journal” siamo la terza scuola nel mondo per qualità di preparazione e posizionamento accademico.”
Solo che Padovani è assai più di un insegnante, per quanto colto e preparatissimo, ha in sé, affinata per indole e educazione, oltre che per gli studi compiuti, una qualità che dovrebbe essere compresa nel bagaglio di ogni docente che si rispetta, ma troppe volte si perde per strada.
Lorenzo Padovani non insegna, educa: non enumera perché vengano memorizzati supinamente e restituiti a richiesta teorie, autori ed evoluzioni del pensiero filosofico.
Il professore stimola i suoi allievi perché tirino fuori il meglio di sé stessi, diventino gli unici autori e responsabili della propria vita, creino da sé un proprio pensiero, si costruiscano una personale filosofia di vita, gestiscano in prima persona la loro vita, si rendano membri onorevoli dell’Umanità a pieno titolo. Uno di quei professori che:
“…dovrebbero proteggere gli studenti, aiutarli a diventare grandi, assolvere l’importante funzione di educatori…”
Educare significa in primo luogo ascoltare: Padovani ascolta i suoi ragazzi, poi la sua dottrina, la sua empatia, il suo essere sodale gli rimanda le immagini speculari della realtà, ognuno è esattamente quello che è, al di là del bene e del male, un dirigente intransigente è in verità una persona disdicevole, una sorella ilare esprime così il suo affetto costante, una collega scanzonata mostra in questo modo il suo essere una donna innamorata, un’allieva ribelle denota un carattere difficile perché debole.
Non esistono superoi o superuomini, ci pensa la giustizia, la legge, le forze dell’ordine a raddrizzare reati e storture. Un buon professore si deve limitare a educare, inculca un’idea positiva del vivere da uomo, con amore, coltivando sentimenti etici. Un’ottima filosofia del vivere.
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Crazy love
Questo romanzo è un sequel: spesso accade che il seguito di una storia sia in qualche modo meno attraente dal precedente, di cui rimarca ambiente e protagonisti principali.
A mio parere, invece, stavolta è il contrario, questo testo è forse meglio definito, ugualmente ben scritto, ma con una marcia in più, uno step qualitativo superiore rispetto a “Brisa”, nome proprio della protagonista e insieme titolo del lavoro precedente a questo, ambedue a firma di Paola Rambaldi.
Tuttavia, è un testo a se stante, non è indispensabile aver letto il libro precedente.
Brisa non è un soprannome, anche se nel dialetto in uso nei luoghi in cui si dipanano le sue avventure significa “non farlo”, è davvero il nome di battesimo di una giovane ragazza sui generis della provincia emiliana dei primi anni Sessanta. Una persona decisamente particolare, non tanto per le sembianze comuni e quasi banali, ma per un tocco diciamo così esoterico, se non paranormale.
La giovane infatti possiede un qualche fortunato talento nell’indovinare con esattezza il sesso dei nascituri, imponendo le mani, anche se con somma riluttanza, sul ventre delle partorienti, vi lascio immaginare come fosse una pratica assai richiesta in un’epoca in cui le ecografie erano ancora di lì a venire, ben lontane dall’essere prassi primaria in una gravidanza come oggi. Non solo; in particolare Brisa, suo malgrado provvista di accessori ad hoc per il ruolo di indovina, o di “stria”, che sta per strega, le invidie non mancano mai per qualsiasi cosa; le adorna il capo, infatti, una lunga treccia nera, e soprattutto spicca una innocua anomalia genetica, per cui ha un occhio con iride di colore diverso dall’altro. Il suo tocco magico, comunque esagerato dalle dicerie paesane, più spesso è anche una maledizione: certamente è provvista di una qualche spiccata sensibilità, realmente la giovane si accorge di provare delle sensazioni, o come altro si possono definire una serie di premonizioni, flash, immagini fuggenti e mai perfettamente delineate, sulla sorte di soggetti scomparsi, ritratti in fotografia, allorché in qualche modo non solo le immagini ma anche oggetti personali di pertinenza degli scomparsi sono sottoposti alla sua attenzione fisica e visiva. C’è da rimarcare che Brisa non è una sensitiva o un fenomeno da baraccone, lo diventa per vox populi ignorante ed interessato, questo ricorrere alle sue pretese arti magiche è un evento sporadico non replicabile a comando, ne incorre spesso per caso, talora anche dopo una spiacevole coercizione a cui deve prestarsi se non a forza, comunque contro la sua volontà. Va da sé che ad un simile talento consegua quasi motu proprio la pratica di indagini su misteri, scomparse, fatti delittuosi, inghippi e raggiri. Tuttavia, sia nel primo volume che in questo secondo che la vede protagonista, non si tratta di gialli propriamente detti, o almeno non sono solo thriller, sono invece bei racconti, in particolare questo che abbiamo tra le mani è ricco, articolato, incisivo, la sua caratteristica peculiare è che tutto è eccetto che un tranquillo mistery, un racconto pacato e misterioso. Questa è una storia frenetica, briosa e intelligente, non è un ricordare altri tempi e altri costumi, e un descriverli a brevi linee, questo è un testo in cui si nota la cura, l’impegno, la fatica e l’attenzione dell’autrice, è un piacevole tourbillon di luoghi e situazioni, di uccisioni e tentati omicidi, di nefandezze dell’animo umano e di amori tanto teneri quanto aggrovigliati, di deliri e passioni. Inizia su un traghetto che porta in vacanza sull’Isola d’Elba una sorta di compagnucci della parrocchietta, si dipana per l’assortita provincia emiliana tra amori, amorucci, violenze e prevaricazioni, trovando il suo epilogo, triste, inaspettato e sconcertante, a Bologna. Dalle nove a mezzanotte, dall’alba al tramonto, nella luce e nel buio sia dei luoghi che dei cuori, Paola Rambaldi non dà tregua al suo lettore, lo rapisce, lo avvince, lo trascina a rotta di collo nel dipanarsi dei fatti, sa farsi leggere, seguire con spasmodica attenzione, è autrice scorrevole, frizzante, drammatica, comica, deliziosa, racconta con pari incisività amori e tragedie, la passione in tutte le sue sfaccettature, da quelli più semplici a quelli esasperati, da quelli romantici al crazy love che ti fa andare fuori di testa, e poi ancora persone splendide e lestofanti della peggiore specie, canzoni e canzonette, Little Tony e Elvis Presley, fatti storici e storiche catastrofi. Il tutto è un fiume in piena, scorre rapidamente tra anse, rocce emerse e spuntoni nascosti. Direi di più, i meriti di Paola Rambaldi non si esauriscono qui, la scrittrice bolognese offre il meglio di sé quando, con sensibilità e struggente tenerezza, indugia sui suoi soggetti preferiti, donne e bambini. La Rambaldi senza tanti fronzoli spiega qui, in maniera quanto mai chiara incisiva ed esauriente, quali fossero per esempio le difficili condizioni d’essere all’epoca di donne e bambini, gli anelli più deboli nell’ arcaico contesto sociale dell’Italia del boom economico, bacchettona e perbenista, misogina e patriarcale, permeata di illusioni e ipocrisie. Sottolinea esplicitamente quanto doveva essere problematica la vita sentimentale e passionale delle giovani in quegli anni e in quei luoghi, in cui la parità tra i sessi, il diritto di scegliere, la rivoluzione sessuale erano ancora lungi dal venire, gli anticoncezionali una chimera sconosciuta o proibita, il perbenismo bigotto imperante, e l’irresponsabilità ed il menefreghismo dei giovani maschi un modo d’essere abituale di cui vantarsi pure. In un ambiente simile, difficile a viversi per i motivi più svariati, spesso anche i bambini sono vittime, un malinteso senso di inadeguatezza porta a trascurare i piccoli, a non seguirli, ascoltarli, accudirli, prestargli la necessaria attenzione perché di cosa altro possono preoccuparsi più che giochi, giostre e balocchi, è comodo e pretestuoso presumerli sempre innocenti, spensierati e fortunati e in qualche modo salvaguardati dalle miserie della vita per il fatto stesso di essere bambini. Con le conseguenze del caso, spesso tragiche, se non stupefacenti. Tutto questo narrato in fretta, tutto di corsa, Paola Rambaldi non concede requie, la colonna sonora, il leit motiv di “Dalle nove a mezzanotte” è un rock and roll, il ritmo proprio di quel tempo; un ritmo che scandisce in fretta il passaggio tra la miseria dei tempi di guerra e del dopoguerra, ed i fasti e le promesse dei favolosi anni Sessanta. Che tanto fantastici non devono proprio essere se tanti, troppi, ricorrono a delitti, al buio, allo scuro, si affannano in questo dalle nove a mezzanotte. Paola Rambaldi lo afferma invece chiaro, la luce giusta invece è Bianca, e ha le sembianze di una ghiandaia. Concordiamo con lei, il cielo più spesso è in una stanza, non in una dimora grande e buia.
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