Opinione scritta da Julie
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La famiglia felice
Un paio di anni fa vidi per la prima volta "I nostri ragazzi", un film di Ivano De Matteo con Alessandro Gassmann, Luigi Lo Cascio, Giovanna Mezzogiorno e Barbara Bobulova. Successivamente scoprii che la pellicola era tratta da La Cena di Herman Koch e mi procurai anche il libro; libro che per ben due anni ha atteso tra i miei scaffali di essere letto, ovvero su per giù il tempo necessario a far sì che la profonda sensazione di disagio che mi aveva lasciato il film scomparisse quasi del tutto, lasciando spazio all'interesse per il modo in cui la tematica affrontata veniva sviluppata. Della versione cinematografica italiana di questa cena tutta in famiglia accenno solo che questa risulta, nonostante la sua estrema crudezza, molto più digeribile del suo corrispettivo letterario, che rassomiglia invece un po’ quel boccone troppo grosso che non riesci proprio a mandare giù.
Il testo è sviluppato schematicamente, i capitoli seguono il menù di un ristorante, ogni capitolo comincia con l’introduzione di uno o più piatti scelti dai protagonisti e si concentra in seguito sulle osservazioni della voce narrante. Questo ordine apparente viene a mancare man mano che si procede nella lettura, che sempre più spesso è intervallata da flashback che interrompono la linearità del racconto. Il loro scopo primario è quello di mettere in luce gli angoli più bui della storia, ma allo stesso tempo contribuiscono a far sì che quest’ordine implicito nello sviluppo della trama si trovi pian piano a venir meno, accompagnando così il lettore, in un primo momento inconsapevole del cambiamento, all’interno di un caos quasi inspiegabile, dettato dalla più totale assenza di armonia strutturale. Che questo espediente sia più o meno voluto è ininfluente, ciò che è innegabile però è che è proprio attraverso questi flashback che il lettore comincia a mettere in dubbio l’attendibilità della voce narrante, che comincia a distaccarsi dal suo modo di vedere la realtà, che inizia a comprendere che c’è qualcosa di orribilmente sbagliato in questa cena, e non si tratta di certo delle porzioni da anoressici; ciò che più sa di marcio non sono le portate, bensì le persone presenti al tavolo.
Claire e Paul sono sposati e hanno un figlio adolescente di nome Michael, Serge, il fratello di Paul, è sposato con Babette, loro hanno due figli della stessa età di Michael, Rick e Beau, che è adottato. Rick e Michael hanno ucciso una barbona, colpevole di aver loro impedito, con la sua inopportuna presenza e con il suo puzzo fastidioso, di prelevare ad un dato bancomat. Beau, a conoscenza del delitto, ricatta il fratello e il cugino perché vuole comprarsi un nuovo scooter. I genitori si trovano a cena per decidere sul futuro dei loro figli.
La tematica è estremamente attuale, molto facile accostare la trama a quella de Il dio del massacro di Yasmina Reza, ma il nocciolo della questione non è proprio lo stesso.
“Cosa saremmo disposti a fare, a diventare per proteggere i nostri figli?” è la prima domanda a cui rispondono entrambe le opere, ma anche “Cosa rende i nostri figli gli uomini che diventeranno?” ed è proprio su questo che Koch maggiormente si interroga.
Paul, il padre di Michael, la voce narrante, colui che inizialmente sembra il più integro, il più calmo e ragionevole, si rivela essere un violento con disturbi psicologici. Più volte ha sfogato la sua violenza di fronte ad un Michael ancora bambino, eppure ciò che più lo tormenta, anzi forse l’unica cosa che lo tormenta, è il dubbio che suo figlio possa essere com’è perché il suo è un disturbo ereditario. Claire è altrettanto disturbata, farebbe qualsiasi cosa per proteggere suo figlio e allo stesso tempo non prova nessuna avversione per la violenza che nota in lui e in suo marito, anzi alla prima opportunità dimostra di essere la più feroce all’interno del nucleo familiare. Michael, dal canto suo, non prova alcun rimorso per ciò che ha fatto, il modo in un certo senso amorevole in cui il padre lo descrive lascia comunque intendere che sia un sociopatico, è lui il leader, è lui che ha influenzato suo cugino Rick a tal punto da renderlo suo complice nell’omicidio. Michael quindi potrebbe avere innato in lui il seme della violenza, potrebbe essere il semplice frutto dell’educazione ricevuta dai genitori, ma Rick e Beau? Rick si lascia manovrare, Beau agisce in modo totalmente egoistico, entrambi nonostante l’educazione che hanno ricevuto (né Babette né tantomeno Serge mostrano infatti di essere persone prone alla violenza).
Qual è quindi la risposta? La risposta è che siamo il prodotto di tutti questi fattori, della genetica, di ciò che i nostri genitori ci insegnano, delle amicizie che abbiamo, di ciò che pensiamo, delle scelte che facciamo, siamo sempre giustificabili, ma siamo comunque responsabili. Non si fugge dalla responsabilità, non importa quanto lontano possa spingersi un genitore per farlo accadere.
Per quanto riguarda il finale mi sento solo di citare un paio di righe dal libro stesso perfettamente esplicative,
"Era come una pistola a teatro: se si vede una pistola nel primo atto, si può star sicuri che nell'ultimo verrà usata per sparare. E' la legge di ogni drammaturgia. Per la stessa legge, non si può far vedere una pistola se poi non la si usa."
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"Far da suggeritore ed essere dimenticato."
Edmond Rostand dedica questa sua commedia in cinque atti all'attore che per primo vestì i panni dell'eroe Cirano nel lontano dicembre del 1987, e lo fa con queste parole,
"E' all'anima di Cirano che avrei voluto dedicare questo poema, ma
poiché essa è passata in voi, Coquelin, è a voi che lo dedico."
L'anima di Cirano infatti prende vita nella mente dell'autore e nell'immaginazione del lettore, ma non è reale, di conseguenza la dedica si trasforma in ringraziamento per colui che emulandone l'essenza riesce a darle forma, anche se solo su di un palcoscenico. Ritengo che queste poche righe siano essenziali per comprendere il profondo rispetto e l'amore che Rostand ha per il suo protagonista, rispetto e amore condivisi da chiunque riesca a comprendere il personaggio.
Cirano incanta, appassiona e seduce il pubblico femminile, ma allo stesso tempo ispira, sfida e sprona quello maschile. E' il paradigma dell'eroe guascone per eccellenza, ricorda per tantissimi versi il giovane moschettiere D'Artagnan; lo ricorda nell'orgoglio, nell'inflessibilità, nell'irruenza e nella foga e nell'apparente arroganza, ma allo stesso tempo lo completa e lo supera, perché gli appartiene una dimensione in più, che è quella dell'animo. Un animo sensibile, senza mai cadere nel melenso, un animo da poeta, che non si rivela mai poetastro, un animo innamorato, ma di quell'amore che eleva, di una profondità che nobilita.
Questo grande eroe duella e compone versi con la stessa facilità, anzi a volte fa entrambe le cose contemporaneamente; nulla lo piega, perché sicuro nel suo codice morale si rivela incorruttibile, ma l'amore lo spezza, lo stesso amore che lo rende nobile, lo tormenta con tutti i suoi dubbi e le sue insicurezze, quell'amore "che move il sole e l'altre stelle" lo immobilizza, quando basterebbe fare un solo passo per raggiungere la meta. E così un semplice difetto fisico, una cosa di norma di ben poco conto, cresce e si ingigantisce pagina dopo pagina, dominando la trama e delineando il dramma dietro la commedia; un naso enorme diventa quindi un altrettanto enorme taboo, all'ombra del quale cresce e si rafforza l'unica paura di Cirano, quella di essere rifiutato e deriso dall'oggetto del suo desiderio, la bella Rossana. Infatti, ciò che secondo Cirano manca a Cirano è la classica formula del kalos kai agathos, il suo coraggio, la sua prodezza, non si rispecchiano nel suo aspetto esteriore e questo non lo rende all'altezza della donna che ama. In base a questa sua convinzione sceglie di farsi da parte e di favorire, in nome della felicità di Rossana, la sua unione con il bel Cristiano, e lo fa senza invidia e senza rancore e a discapito dei suoi stessi sentimenti.
"ROSSANA: Ma lo spirito?...
CIRANO: In amore lo detesto. Quando si ama è un delitto prolungare questa inutile schermaglia. Arriva inevitabilmente il momento in cui - e compiango chi non l'ha provato - sentiamo che c'è qualcosa di così nobile nel nostro modo di amare da non poterlo avvilire con vani giochi di parole."
Come sempre mi mantengo selettiva nelle tematiche delle mie recensioni, ma se sono riuscita lo stesso a darvi almeno un buon motivo per leggere o rileggere quest'opera teatrale mi ritengo comunque soddisfatta.
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Qualcuno nasconda la carta ad Ozpetek!
Un libro che a mio parere raggiunge a malapena la sufficienza; un bignami di sensazioni, ricordi e nuove esperienze appena abbozzati che non riesce, e forse nemmeno si sforza, di andare oltre una narrazione superficiale e scarna, cosparsa qua e là di massime a dir poco banalotte. Non aiutano gli evidenti riferimenti fatti a molti personaggi dei suoi film; non so se ci siano elementi autobiografici o meno, in ogni caso l'impressione che rimane è quella di un'opera di marketing (mal riuscita) che è un po' un'accozzaglia di tutte quelle particolarità che contraddistinguono la sua regia. Istanbul non l'ho vista, non l'ho sentita e non l'ho immaginata, è rimasta lì, chiusa in se stessa e a debita distanza. Se ne avesse fatto un film sicuramente sarebbe stato più apprezzato, anche se solo per la singolarità del modo in cui Ozpetek presenta l'immagine, saper scuotere gli animi attraverso la lingua scritta purtroppo non è cosa da tutti. In conclusione, poche righe di riflessione sul suicidio sono l'unica cosa che mi è rimasta impressa di questo altrimenti trascurabilissimo racconto:
«Ma perché?» mi chiedo, inutilmente. Non c’è mai un perché quando una persona rinuncia a vivere. Quando sceglie il buio, invece della luce. Non c’è mai un perché, o meglio, ce n’è uno solo: il mal di vivere. La fragilità. Ci sono persone troppo fragili, ed è proprio questa la loro debolezza ma anche la loro bellezza: un’immensa fragilità, quasi fossero fatti di cristallo, così trasparenti e luminosi, ma difficili da maneggiare, anche per gli altri. Non resistono agli urti della vita, agli ostacoli, agli ammaccamenti, alle cadute. È per questo che Yusuf si è ucciso? Forse, ma le spiegazioni del dopo sono inutili. Il mal di vivere ti afferra alla gola, ti avvelena lentamente; quando prendi i sonniferi, quando ti butti dalla finestra, quando scegli il buio, in realtà ti sei già ucciso piano piano, migliaia di volte. La morte, allora, è una liberazione.
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"Che immagine hai di te stessa, in realtà?"
La verità è che già da diversi anni avrei voluto leggere la tanto decantata trilogia di Stieg Larsson e se fino ad ora non l'ho fatto è solamente perché, lo riconosco, ho un problema serio con le storie interrotte. Per farla breve devo poter mettere un punto, trovare una conclusione, non mi stimola poter immaginare cosa sarebbe accaduto. Appurato ciò, l'uscita del quarto capitolo ad opera di David Lagercrantz, sul quale non ho commenti da fare essendo ancora solo a metà del secondo libro, è stato comunque il motivo principale che finalmente mi ha spinto ad iniziare la lettura.
Uomini che odiano le donne.
Da umile lettrice e saltuario recensore ritengo che intitolare un libro sia uno dei passi più difficili per uno scrittore; deve essere incisivo e allo stesso tempo riassumere e chiarificare il senso del racconto, ciò che è nascosto all' interno della narrazione e che può essere più o meno chiaro a seconda del libro che si sta leggendo. In certi casi si potrebbe persino identificarlo con la stessa chiave di lettura. Questo primo capitolo della trilogia Millennium è tutto nel titolo. Non è infatti un caso che a solleticare l'interesse del lettore non sia tanto il giallo in sé, quanto una vera e propria inchiesta sotto forma di romanzo dedita a denunciare gli innumerevoli casi di violenza sulle donne che vengono perpetrati senza condanna alcuna in Svezia, e in senso lato per il lettore straniero, nel mondo. Ed è così che attraverso una storia che scorre senza particolari problemi, nonostante una complessa struttura a narrazione multipla e qualche evidente difficoltà nella resa in italiano di alcune espressioni, di cui l'autore ovviamente non ha colpa (apro una piccola parentesi perché mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile per un traduttore cercare di rimanere il più possibile fedele al testo tentando di dare un senso a modi di dire o strutture delle frasi che in un'altra lingua non esistono o semplicemente non si usano, ma d'altronde questo è il lavoro), i protagonisti principali diventano le figure di uomini che usano, abusano, violentano o maltrattano che dir si voglia le donne; il colpevole dunque non è solo quello che viene smascherato alla fine del giallo, ma assume il volto di svariati personaggi che ruotano intorno alla trama. In una simile cornice è impossibile non rimanere affascinati da personaggi quali Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist, che alla fine sono un po' due facce della stessa medaglia; entrambi anticonformisti, liberi nella loro sessualità e guidati da una propria morale. Mentre Lisbeth è in qualche modo il prodotto di un mondo sempre pronto a sottomettere e a sfruttare la donna, che è ancora una volta incatenata nell'accezione più negativa dell' essere sesso debole (parlando di Lisbeth non riesco a non pensare ad una frase tratta da un libro di Carlo Dragoni che mi sembra particolarmente esplicativa al riguardo, «E forse sin da allora si rese conto che questa vendetta della donna contro le regole apparentemente inviolabili che la ponevano in posizione di inferiorità, non era conciliabile né con la virtù femminile, né con gl' ideali morali della razza circa la funzione della donna. In realtà era questa una conseguenza necessaria, inerente ad ogni reazione, che tanto sorpassa i limiti quanto più forti sono gli ostacoli che la contrastano.»), Mikael è tutto l'opposto dell' uomo oppressore. Per quanto lo si possa giudicare naif e qualche volta persino un po' superficiale nelle sue relazioni, il suo tratto distintivo è che rispetta le donne, le ascolta, le lascia libere quando non vogliono avere più nulla a che fare con lui, in poche parole e più semplicemente, le ama. Entrambi più che protagonisti sono veri e propri eroi odierni, cosa che non implica affatto che siano perfetti in tutto, anzi, sono proprio le loro insicurezze, le loro debolezze e in generale le loro caratteristiche caratteriali più peculiari, magistralmente portate alla luce dall' autore, che li ancorano saldamente alla realtà.
Concludo questa recensione un po' selettiva nelle tematiche con una citazione del libro che mi ha fatto ulteriormente riflettere su un altro punto: le donne non solo devono essere amate dagli uomini, ma devono anche amare se stesse.
«Mikael rimase a lungo in silenzio. Che devo dire? Sei una ragazza assolutamente normale. Non fa niente se sei un po' diversa. Che immagine hai di te stessa, in realtà? "Ho pensato che eri diversa fin dal primo momento in cui ti ho vista" le disse infine. "E la sai una cosa? Era da un sacco di tempo che non provavo una simpatia spontanea per una persona fin dall'inizio."»
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Mangerà [...] è onnivoro, come noi.
Un testo teatrale, c'è poco da fare, può essere pienamente apprezzato solo nell'atto della sua rappresentazione. La lettura trasmette molto e ciò che non trasmette lo supplisce l'immaginazione, ma gli attori sono elementi essenziali, cosi come il sottile gioco di equilibri tra urla e sussurri, esitazioni ed esclamazioni, silenzi e parole. Nulla di più vero si può dire per Il dio del massacro di Yasmina Reza, visto per la prima volta al Teatro Eliseo di Roma nel 2009 e mai più dimenticato. Oggi, sei anni dopo circa, mi sono convinta a leggerlo e di seguito a recensirlo.
Nel testo nulla è superfluo; lo afferma l'autrice stessa descrivendo la scena, "Un salotto. Nessun realismo. Nessun elemento inutile." e il dramma viene introdotto ancor prima di cominciare. Le due coppie infatti, i Reille e gli Houllié ci vengono presentati in "un'atmosfera computa, cordiale e tollerante", tre aggettivi che già preannunciano quello che sarà il fulcro di tutta l'opera, ossia la dicotomia tra realtà esteriore, fatta di regole, confini e morale, e la realtà interiore, che cela gli istinti più bassi della natura umana. La causa apparente che dà il via alla vicenda è un episodio di violenza fisica subita dal figlio degli Houllié ad opera del figlio dei Reille. I quattro genitori si riuniscono per discutere civilmente dell'accaduto con lo scopo di raggiungere un accordo sul da farsi, ma la situazione si complica rapidamente sino a trasformarsi in tragedia quando la maschera della civiltà cade e la vera indole dei protagonisti si fa spazio pian piano sulla scena. Non c'è nessun reale desiderio da parte delle due coppie di raggiungere un compromesso, solo di imporre la propria supremazia sull'altro, di distruggerlo minando le sue convinzioni, perché "mors tua, vita mea", se ti uccido, sopravvivo.
Lo scontro tra le due famiglie diventa così una delle più bieche dimostrazioni della filosofia di Hobbes dell'uomo che è lupo per gli altri uomini, "homo homini lupus", secondo la quale è solo la realtà sociale, la necessità e il bisogno opportunistici di una rete di relazioni tra le persone, ad impedire un massacro. Massacro che in questo caso si snoda nella sua crudeltà più totale, perché l'evento scatenante, amplificato dal desiderio delle due coppie di difendere ad ogni costo il rispettivo bambino, sovverte le regole sociali, infrangendo il miraggio dell'ordine e della tolleranza e scatenando gli impulsi più bestiali. Di conseguenza, le parole tagliano come lame e non risparmiano nessuno, scoppiano le coppie, distruggendo qualsiasi legame di solidarietà in un crescendo sempre più serrato di meschinità, accuse e volgarità che non può far altro se non trovare la propria fine in un anticlimax di silenzi imbarazzati e imbarazzanti, come quelli di un bambino che preso dalla foga sbaglia, ma se ne rende conto solo quando è ormai troppo tardi.
L'idea che l'autrice ha della natura umana e che permea il testo può essere anche brevemente riassunta con un semplice scambio di battute presente nello stesso,
MICHEL: Senta, ne ho fin sopra i capelli di tutte queste discussioni alla cazzo di cane. Abbiamo fatto i simpatici, abbiamo comprato i tulipani, mia moglie mi ha camuffato da uomo politicamente corretto, ma la verità è che sono del tutto privo di auto controllo, sono uno che va fuori di testa.
ALAN: Lo siamo tutti.
Anche se poi alla fine sta a noi lettori/spettatori/vittime? decidere quanto ci sia di vero in questo.
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