Opinione scritta da bluenote76
21 risultati - visualizzati 1 - 21 |
Avrei fatto volentieri a meno di questa lettura
Questo romanzo è accompagnato da un coro pressoché unanime di elogi sperticati da parte della critica mondiale il che induce sempre al sospetto.Al termine della sfibrante lettura delle oltre mille pagine del tomone, credo di poter dire che il sospetto di cui sopra era fondato e che l'entusiasmo dei recensori dipenda quasi esclusivamente dal solito meccanismo per il quale viene fatto prevalere un pre-giudizio di tipo "politico" rispetto a quello estetico, che dovrebbe invece essere proprio di un'opera artistica; si giudica, secondo tale criterio, un romanzo per ciò che dice, non per come lo dice; perciò se tu scrivi "il grande romanzo gay che New York aspettava", non puoi che ricevere encomi, elogi e pacche sulle spalle (e vendere un sacco). Scusate ma secondo me un romanzo non deve essere né gay, ne etero né quel che volete: deve essere un buon romanzo, punto. Di "romanzi gay", ne sono stati già scritti a iosa (senza risalire troppo nel tempo, e restando ai contemporanei, mi vengono in mente alcune opere di David Levitt ed Edmund White) che sono migliori di questo. Hanya Yanagihara ha messo su carta una serie infinita di banalità, di situazioni francamente inverosimili e di luoghi comuni che manderanno in deliquio le facilmente estasiabili vestali del politicamente corretto e pochi altri, e creato personaggi davvero poco credibili perché troppo uniformi e sempre uguali a sé stessi nonostante l'opera li analizzi nel corso del tempo. Perciò il romanzo fallisce dal punto di vista estetico e il ricorrere a categorie extra artistiche è solo un giochino già visto e rivisto che ha finito per annoiarmi terribilmente; a dirla tutta, come rivendicazione di orgoglio gay funzionano molto meglio i vecchi video clip dei Village People degli anni '80, che poi hanno il vantaggio di durare pochi minuti.
Indicazioni utili
Tra sogni e fantasmi, ecco l'inquietante Pietrobur
“Da sotto le falde del Cappotto di Gogol sono usciti tutti gli scrittori russi della seconda metà dell’Ottocento”.
Così Dostoevskij riassunse la portata rivoluzionaria dell’opera di Gogol', che ha dato inizio a una nuova stagione della letteratura russa. È lui che ha chiuso i conti con il filone letterario classicheggiante e poetico dominante inaugurando quella che i critici hanno definito la 'stagione del realismo letterario'. Quanto Gogol' fosse cosciente di ciò non è facile a dirsi; la sua personalità e il suo estro creativo si espressero in modo contraddittorio, a tratti estremamente critico e travagliato. Le crisi di cui fu vittima fino al momento della morte testimoniano la dolorosa consapevolezza di vivere un momento di passaggio. Dall’analisi delle opere e delle lettere è emersa la profonda difficoltà nel conciliare il suo essere uomo con l’essere scrittore. Il suo sguardo alla vita a tratti mite, caritatevole, ispirato alla misericordia cristiana, altre volte risultò cinico, satirico, lucido nel cogliere le contraddizioni dell'esistenza. Questo è lo sguardo che si ritrova anche nei Racconti di Pietroburgo, scritti tra il 1835 e il 1842. Pur nella loro caleidoscopica varietà, i testi sono accumunati dall’ambientazione, la magica Pietroburgo dove l’autore trascorse gran parte della vita e che gli ispirò alcune delle pagine più sofferte della sua produzione. Nella capitale lo scrittore cercò con tutto se stesso di fare carriera come impiegato per poi sviluppare un’ottica distaccata e sprezzante verso il mondo piccolo-borghese che con furia di scrittore dipinse. Pietroburgo è protagonista di tutti i racconti; insieme ai personaggi è cangiante, a volte li accoglie con le sue bellezze, altre li respinge e li condanna a un destino infelice. Talvolta la città è descritta con rapide pennellate, ma più frequentemente l’autore le dedica uno spazio da primo attore. Si legga la descrizione della Prospettiva Nevskij che inaugura il racconto omonimo per rendersene conto: poesia che non cede il posto al puro descrittivismo. La scrittura è possente e si incarna in immagini concrete; Pietroburgo non è sfondo, è presenza viva sulla scena dei racconti gogoliani.
I cinque testi (La Prospettiva Nevskij, Il naso, Il ritratto, Il cappotto, La carrozza, Diario di un pazzo) sono uniti soprattutto da quello che è l’elemento di forza della scrittura dell’autore russo: l’osservazione e il racconto della vita per ciò che essa è. Quello che i critici degli ultimi due secoli hanno messo più in luce della rivoluzione di Gogol' è il suo approdo al racconto realistico. Rispetto alla narrativa precedente basata sulla rapidità dell’avvenimento, sul colpo di scena, sul procedimento dell’avventura, i Racconti di Pietroburgo si costruiscono sull’osservazione del quotidiano, dell’ordinario, si può dire che hanno il ritmo dell’esistenza stessa. Da qui l’idea di parlare della Russia attraverso gli antieroi, “gente senza lustro”, impiegatucci che faticano per comprarsi un cappotto nuovo, barbieri ubriachi, piccoli mercanti e rigattieri che speculano, nobili di provincia decaduti e proprietari terrieri ansiosi di migliorare la loro posizione in società: i personaggi sono sconfitti o prigionieri del proprio status. Il singolo in Gogol' è solo di fronte alla vita oppure è oppresso perché parte di un gruppo da cui non riesce a uscire. Di tutti i racconti quello che è stato salutato con maggiore entusiasmo, già nell’Ottocento, è Il cappotto proprio per la sua capacità di descrivere l’ordinario squallore della vita di un uomo comune e per la profondità con cui l’autore riflette i suoi rapporti con ciò che lo circonda. È un racconto commovente, stilisticamente perfetto, un meccanismo che funziona su quel poco di trama sui cui si regge: a dargli forza è la potente osservazione dell’animo umano.
Ma i racconti di Gogol' non sono solo realismo come parte della critica contemporanea all'autore li considerò banalizzandoli. Accanto alla descrizione piana della vita dell’uomo qualunque emerge un’altra dimensione: la mancanza di senso e l’assurdità della vicenda raccontata ne Il naso, il mistero e il surreale de Il ritratto, lo sguardo estraniato del Diario di un pazzo, la satira pungente della Prospettiva Nevskij. Dietro l’ordine esteriore e il grigiore ecco che emerge, prepotente, il caos dell’esistenza. In tutte le pagine gogoliane si esprime la forza dirompente della sua invenzione, quella potenza linguistica e stilistica che pochi scrittori hanno e che diventa prosa viva. Completata la lettura, resta un senso di immersione totale nell’universo raccontato e, come in una magia, vi sembrerà per un attimo di essere sulla Prospettiva Nesvkij, lanciati all’inseguimento di belle signorine al passeggio, oppure crederete possibile che un naso si pavoneggi in uniforme, mentre gira indisturbato per la città.
È semplice fantasia? Si, in parte. Sicuramente c’è bisogno di quella che Coleridge chiamava “sospensione dell’incredulità”. Ma è sorprendente come, pur nella loro sfolgorante follia, questi racconti risultino più veri della vita quale essa comunemente ci appare.
Una divertente commedia di provincia sulle piccole
Ugo Tognazzi nel 1970 prestò il volto ad Emerenziano Paronzini, protagonista de “La spartizione” di Piero Chiara, nella sua trasposizione cinematografica dal titolo “Venga a prendere il caffè… da noi” di Alberto Lattuada, regalandoci una magistrale interpretazione di quella “dimensione di mediocrità” che è la cifra di questo personaggio.
Tenendosi sulla sponda orientale del lago Maggiore, in quella Luino che troviamo in ognuno dei suoi romanzi, Piero Chiara – questo grandissimo, un po’ trascurato - ambienta anche questa storia nel recinto confortevole di una provincia chiacchierona e pettegola, pescando fra aneddoti, ricordi di infanzia, pettegolezzi, intrighi, nostalgie e creando un efficacissimo mix di sarcasmo e cinismo.
Nella vita morigerata e monotona delle tre sorelle Tettamanzi, rassegnate al loro destino di bruttezza, irrompe il Primo Archivista Emerenziano Paronzini, reduce della prima guerra mondiale, da poco trasferitosi in paese.
Deciso ad accasarsi e attirato dalle loro piccole ma sufficienti proprietà, il Paronzini comincia a frequentare la casa, assistendo impassibile allo sfoggio delle loro modeste armi di seduzione (chi le mani, chi le gambe) e scegliendo alla fine la meno problematica delle tre, la maggiore, Fortunata, perché saggia e dotata di buon senso.
Dall’ingresso in casa del Paronzini le sorelle subiscono una lenta ma costante metamorfosi: mettono su carne, approfondiscono le curve, perdono il cipiglio che le contraddistingueva per diventare cordiali ed affabili.
Un nuovo equilibrio a quattro si instaura lentamente nella famiglia Tettamanzi: la presenza di un uomo ridesta le sorelle dal torpore sensuale nel quale versavano, ed è l’inizio di uno strano e divertente menagè che Teresa, la domestica, assiste esterrefatta e che avrà un epilogo ironico e beffardo.
Piero Chiara è bravissimo nel non affondare mai nel torbido ma nel lambirlo, non perdendosi nelle minuzie degli incontri sessuali quanto piuttosto descrivendoci, con sguardo divertito e ludico, le dinamiche che essi generano.
Con l’eleganza di un vecchio signore di provincia ci descrive la realtà brulicante che si nasconde sotto il sottile velo di ipocrisia, sotto quel bisbigliato di paese che genera le “nomee”, le reputazioni, e lo fa con una prosa asciutta, straordinariamente leggibile, elegante nella sua essenzialità, che gli permette di trasformare una storia mediocre (perché di mediocri) in una vicenda surreale e irresistibilmente comica, venata di nostalgia.
Un autentico capolavoro.
Indicazioni utili
Sotto il Sole del Mississippi
Hai mai notato come la luce in agosto sia diversa da ogni altro periodo dell’anno?». Si racconta che sia grazie a questa casuale affermazione, fatta dalla moglie dell’autore durante una calda serata estiva, che William Faulkner decise di cambiare il titolo del suo settimo romanzo dall’originario Dark House (Casa Buia in italiano) a Luce d’agosto. In seguito critici e giornalisti formularono diverse supposizioni sul significato recondito del titolo e di come questo si potesse collegare agli eventi narrati nel volume. Tuttavia quando Faulkner verrà interrogato a riguardo, risponderà semplicemente che Light in August si riferisce alla particolare qualità della luce che illumina la sua terra (lo stato del Mississippi) nel mese di agosto «fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica». Titolo particolare per un libro, pubblicato in Italia da Adelphi a cura di Mario Materassi, con così poca luce e tante ombre. Faulkner scatta un’istantanea degli anni Trenta nel cosiddetto “Profondo Sud” degli Stati Uniti: gli stati sudisti, la parte del Paese più dipendente dalle piantagioni e dalla tratta degli schiavi, usciti pesantemente segnati dalla Guerra Civile. Il romanzo è ambientato per la maggior parte a Jefferson, immaginaria città dell’ancora più immaginaria contea di Yoknapatawpha, trasposizione letteraria della contea di Oxford, Mississippi, terra natale dell’autore. La povertà, si sa, è terreno fertile per la violenza. La segregazione razziale, il proibizionismo e la fede portata ai limiti del bigottismo completano il quadro di una realtà arida e in apparenza statica che traspare dai volti di pietra e dalle parole asciutte dei personaggi che si susseguono nel racconto. Tuttavia si tratta di un’immobilità solo apparente che cova la violenza come il fuoco sotto le ceneri, a cui basta un soffio di vento per divampare. La miccia di questo fuoco è un uomo taciturno, dal viso impassibile e un po’ malevolo che risponde al curioso nome di Joe Christmas. L’uomo, abbandonato in un orfanotrofio in tenera età, non sa nulla dei suoi genitori e approda a Jefferson in cerca di lavoro. La sua carnagione è troppo chiara per essere un uomo di colore ma Joe è tormentato dalla segreta convinzione di essere un meticcio, pur non avendo alcuna prova certa. L’America di allora non era certo il “melting pot” di oggi: la segregazione razziale aveva preso il posto della schiavitù, le unioni miste erano proibite ed essere mulatti significava essere in bilico tra due mondi, senza appartenere a nessuno dei due. Joe Christmas è forse uno dei personaggi più affascinanti creati dall’immaginario di Faulkner e principalmente perché è poco prevedibile. Nell’arco della sua vita, da capro espiatorio diventa carnefice e lo scrittore si astiene dal giudicare se alla fine sia una vittima o un colpevole.
Indicazioni utili
Scritti corsari
Si narra di un periodo (1972-1975) nel quale si avevano sotto gli occhi, l’omologazione e il genocidio culturale e quella che l'intellettuale friulano chiama la "mutazione antropologica" eppure è lui il primo a scriverne dettagliatamente. Basta analizzare per sommi capi la società odierna per capire che il poeta delle “Ceneri di Gramsci” non è stato solo un sociologo involontario del proprio tempo, ma anche un profeta , che ha saputo prevedere gli sviluppi dell’Italia che aveva sotto gli occhi. A mio avviso attualmente viviamo in una civiltà dove regna l’omologazione dalle varianti minimali. Tutti comprano gli stessi dieci tipi di automobili, tanto pubblicizzate alla televisione, però allo stesso tempo ognuno sceglie il modello personalizzato in base agli accessori. Pasolini accusa anche la Dc della distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia e di intrallazzare con industriali e banchieri. E per quanto riguarda la strategia della tensione il poeta scrive:”Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe(e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del paese). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 Dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi dei 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti……Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali………Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti(attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i fatti disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero………”. Inoltre Pasolini invita a riflettere sull’annullamento di tutte le periferie, sull’impoverimento d’espressività linguistica, dovuto sia ad una lingua tecnicizzata ormai che alla morte dei dialetti. Interessante anche ciò che il poeta scrive a proposito del rapporto tra chiesa e potere. Secondo Pasolini nel mondo contadino esisteva una stretta relazione tra economia, famiglia e chiesa. Con l’avvento della società industriale i valori del Vangelo sono però stati sostituiti a suo avviso da nuovi valori come l’edonismo sfrenato, il laicismo, una falsa tolleranza. Nell’articolo delle lucciole scrive di due fasi della storia recente: la prima fase, che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, in cui i valori principali sono l’ordine, la moralità, la chiesa, la patria; la seconda fase, che va dalla scomparsa delle lucciole agli anni'70, in cui questi valori non contano più e sono stati sostituiti da valori laici e consumistici. Particolarmente originale l’analisi del linguaggio dei comportamenti giovanili che fa Pasolini. Per lui infatti i codici fisici e mimici causano comportamenti e Pasolini analizza proprio il linguaggio dei comportamenti per risalire ai codici culturali imposti dal potere. Infine è di fondamentale importanza la contrapposizione di due termini, ovvero sviluppo e progresso. Per Pasolini sviluppo significa produzione di beni superflui ed aumento illimitato della produzione industriale, invece al termine progresso dà il significato di benessere della collettività, ideato e voluto da persone che non ragionano in base al proprio egoismo. Questa raccolta, sistematica e sostanzialmente completa, rende giustizia al Pasolini saggista, uomo di cultura, politico; un Pasolini, tuttavia, sempre più "fuori dal coro", insensibile ed indisponibile ai compromessi pretesi dagli equilibri del potere. Anche da quelli interni alla sinistra (PCI) del tempo. Intellettuale scomodo, si sarebbe tentati di dire. Io, pur non condividendo tutto il suo pensiero, preferisco definirlo intellettuale. Tout court. Perchè l'intellettuale, se media, se mette la sordina alla propria coscienza, cessa di essere tale. In modo definitivo, irreparabile. Oltre 5 anni di ottime ed intense collaborazioni, di articoli, di saggi, quasi sempre ispirati in risposta a lettere dei lettori del settimanale. I temi, è ovvio, sono tantissimi; tutti quelli che sono assurti all'onore della cronaca e/o del dibattito in quegli anni di forti tensioni e di pericolosa crescita della c.d. "guerra fredda". Perchè rileggerlo, oggi? Perchè, come già cennato, molti quesiti sono ancora irrisolti; e perchè, comunque, rappresenta una delle più lucide e genuine testimonianze di uno sforzo intellettuale non fine a se stesso. Esempio di metodo e di rigore; ancora oggi.
Indicazioni utili
Neve a primavera
Primo episodio della tetralogia Il mare della fertilità, ultima opera e forse capolavoro di Mishima, questo romanzo, scritto nel 1969 e ambientato all'inizio del secolo, si presenta ben ricco di tutte le tematiche tipiche dell'autore.
Yukio Mishima è noto per i conflitti interiori dalla molteplice natura: oltre alla sofferta, soffocata omosessualità, lo scrittore visse con sofferenza e sentimenti opposti il conflitto tra la cultura occidentale sempre più dilagante e l'ormai morente tradizione giapponese, con i suoi samurai gonfi di onore virile e pronti al sacrificio in nome di alti valori. Non è un caso che questo romanzo sia ambientato in una fase di transizione: la fine dell'era Meiji, che alcuni tra i personaggi del romanzo rimpiangono insieme a quei valori morti con la guerra russo-giapponese, mentre altri si lasciano attrarre dalla supposta frivolezza della cultura occidentale. Geishe e associazioni femministe: il doppio volto del Giappone moderno.
Vera incarnazione di questo conflitto è l'ambivalente personaggio di Kiyoaki, protagonista morale di questo romanzo. Nato in una famiglia di marchesi, i cui valorosi avi contribuirono alla restaurazione Meiji, cresciuto presso una famiglia di tradizionalisti conti, il giovane Kiyoaki, di una bellezza che sembra fuori tempo, è un malinconico sognatore, impulsivo, che vive la sua vita e i rapporti personali sempre in un'ottica dialettica, all'ombra del contrasto odio-amore. Ambivalenti e contraddittori sono i suoi sentimenti verso Satoko, amica d'infanzia, anche lei trasfigurata dal contrasto tra le due distinte culture. Kiyoaki e Satoko vivono il loro amore sbagliandone i tempi e le modalità, mentre alle loro spalle si intrecciano a loro danno disegni di potere e di vendetta. E poco può fare Honda, migliore amico del protagonista, un personaggio buono, razionale, fermo nelle sue convinzioni. Kiyoaki è, a ben vedere, Mishima stesso, che proietta alla fine dell'era Meiji lo sdegno che cinquant'anni dopo lo scrittore vive nel Giappone occidentalizzato; Satoko è incarnazione dello sdegno stesso, sì da attrarre e repellere il protagonista a momenti alterni. E a Honda non rimane che la parte dell'eroe tradizionale, deciso, equilibrato, incarnazione della fedeltà e dell'amicizia. Ma, come detto, ben poco può fare - gli amanti si avviano verso il baratro, sconfitti, e al buon Honda non resta che accompagnare l'amico verso la morte.
Neve di primavera è un romanzo che si fa leggere e si fa amare: il coinvolgimento emotivo dell'autore non è tale da impedire un'ottima cura del romanzo sotto ogni aspetto. L'introspezione dei personaggi è totale, c'è veramente poco da dire. Sono pagine intense ed intime, che si arricchiscono di immagini evocative e poetiche: una natura giapponese che non smette mai di riflettersi sui personaggi. Come la neve di primavera, decadente, che si ritira scoprendo il fascino proibito di ciò che giace sotto la superficie.
Indicazioni utili
Esiste la persona giusta?
Quello che penso di questo libro voglio dirlo subito e senza giri di parole: è magnifico.
Un libro dallo stile limpido, smagliante, di grande eleganza ma mai stucchevole e che, come tutti i libri veramente importanti, si presta a parecchi livelli di lettura.
È certo un grande romanzo di passione e tradimenti; di sentimenti estremi e di personaggi tormentati strutturato in monologhi in cui la stessa storia viene narrata dal punto di vista dei diversi protagonisti. Ma sarebbe troppo ingiusto e riduttivo farlo passare esclusivamente come un romanzo d’amore, anche se la stupefacente capacità di approfondimento psicologico di Márai che — narrando in prima persona si identifica di volta in volta negli uomini e nelle donne dei diversi Io Narranti della storia — basterebbe già, a mio parere, a fare di questo romanzo una grande opera.
Ma questo è solo uno dei tanti possibili livelli di lettura di “La donna giusta”, che è anche, e per certi versi, forse soprattutto un libro su un mondo in trasformazione, sul sentimento di appartenenza ad una classe sociale la borghesia, sulla solitudine e sulla cultura, temi che vengono declinati attraverso le voci dei quattro personaggi monologanti di cui tre protagonisti della storia.
Ilonka, la moglie piccolo borghese, donna bella e intelligente che ama e desidera catturare l’anima del marito amato. E’ lei che dipana e sviluppa il tema dell’amore e che ad un certo punto dice “Ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Esistono solo le persone ed in ognuna c’è un pizzico di quella giusta”.
Peter, il marito, borghese colto e raffinato, personaggio onesto e tormentato, innamorato dell’arte ma incapace di creare. E’ la voce di chi sente di appartenere alla borghesia colta ed illuminata (“non quei borghesi da strapazzo, che portano tale titolo soltanto in virtù del loro denaro o perchè sono stati in qualche modo promossi sulla scala sociale […] Io mi riferisco ai veri borghesi, a quelli che hanno creato qualcosa e lo conservano” ). Peter è la voce solitudine, quella “… solitudine profonda, intensa, che circonda ogni spirito creatore come l’atmosfera avvolge la terra.” Eppure “si continua a sperare. E’ davvero difficile arrendersi di fronte a questa realtà sconfortante, rassegnarsi al fatto di essere soli, terribilmente e disperatamente soli” […] ” …Forse un grande artista è in grado di tollerare una solitudine di quel genere: è costretto a pagare un pezzo terribile, ma entro certi limiti viene risarcito dalla sua opera”
Judit, la sottoproletaria diventata serva, terza voce narrante. Scaltra, bellissima, intelligente, orgogliosa. Di lei Peter si innamora, per sposar lei abbandona la moglie, è da lei che viene derubato da quasi ogni suo bene.
Eppure, è al personaggio di Judit, questa serva che diventa padrona ma che poi ridiventa povera senza farne una tragedia che Márai affida il ruolo di cogliere i significati ultimi e profondi di quello che è la cultura: “la cultura è quando una persona o un popolo sono pieni di una gioia immensa! Dicono che una volta i greci hanno avuto una cultura perchè tutti loro sapevano gioire. Prova ad immaginarti un popolo che vive nella gioia e questa gioia è la cultura!”
Ci sono poi, immediatamente riconoscibili per chi abbia letto i due volumi di memorie di Márai “Confessioni di un borghese” e “Terra, terra!…” lampi autobiografici che squarciano il romanzo e che si colgono
soprattutto in due personaggi: Peter (il marito) e Lázár, uno scrittore … che ha smesso di scrivere perchè — osservando l’apocalisse e gli orrori dell’occupazione nazista prima e di quella sovietica poi — si consuma sulla domanda ” i libri sono mai riusciti a rendere migliore qualcuno?” ed ha smesso anche di leggere niente più altro che dizionari di lingua ungherese.
Sia Peter che Lazar lasciano per sempre l’Ungheria quando si instaura il regime sovietico; entrambi consapevoli delle profonde trasformazioni cui viene sottoposta la loro appartenenza di classe e di cultura; della messa in discussione delle loro radici più profonde. Sono i due alter ego dello stesso Márai. Non a caso Peter parla di Lázár come del “testimone oculare” della propria esistenza.
Sándor Márai (1900-1989) è uno scrittore che amo profondamente. E’ uno di quelli che io chiamo “i miei scrittori”.
Era ungherese, profondamente antifascista ed anticomunista. Lasciò l’Ungheria nel 1948 (“La donna giusta” è del 1941) con l’instaurarsi dell’occupazione sovietica e non vi fece più ritorno. Le sue opere (romanzi e volumi autobiografici) rimasero inediti e sconosciuti mentre era vivo poichè gli scritti ungheresi molto raramente venivano tradotti all’estero ed egli, da parte sua, rifiutò di curare la loro pubblicazione in patria durante il regime sovietico.
Viaggiò molto in Europa (Parigi, Roma, Berlino, Napoli) e poi negli Stati Uniti, sempre struggendosi nella nostalgia non tanto della sua terra quanto della sua lingua madre, l’ungherese, lingua ostica e difficile da parlare e da tradurre (“la sola lingua che il diavolo rispetti”), lingua assolutamente minoritaria e pressocchè sconosciuta al di fuori dei confini magiari ma che per Márai rappresentava davvero la sua “madre patria” perduta.
echè uno scrittore è davvero senza patria se è consapevole del fatto che la lingua in cui scrive non viene compresa…
Morì suicida negli Stati Uniti, a San Diego, nel 1989. Si racconta che prima di uccidersi telefonò per chiamare un’ambulanza. “C’è un cadavere da portar via”, disse all’operatore che aveva risposto al telefono.
Indicazioni utili
Il mito americano...
Già questa prima prova lo aveva segnalato come autore di grande interesse, espressione di quell'America amara di una generazione di intellettuali, che in letteratura, nel cinema, nell'arte sono la coscienza critica della società dei consumi.
Il mondo rappresentato (e da cui il protagonista fugge) è quello dell'immagine, dei media, dell'apparenza. Una New York frivola e mondana, dominata dalla noia e dal vuoto, è quella che viene splendidamente rappresentata nei capitoli iniziali. L'eleganza e la bellezza simboli di un potere che in realtà si dimostra brutale e primitivo nella sua spietatezza. L'arrivismo di alcuni, la condanna pregiudiziale ai danni di altri, la superficialità nel giudizio che diventa crudele e impietosa. Il sesso e i sentimenti come gioco e strumento per combattere la monotonia. Donne e uomini che parlano, parlano, ma non rompono la finzione dei rapporti. Protagonista è David Bell, poco più che un ragazzo, ma già pienamente inserito nei meccanismi della società newyorchese. Manager di una grande rete televisiva, considera la propria bellezza una forza e lo specchio che gliela ripropone una specie di terapia psicologica. Il pensiero positivo, oggi così di moda in Italia (ahimè quello che avveniva trent'anni prima negli Usa è ora entrato nel costume nostrano) indica appunto nell'autoincoraggiamento davanti allo specchio una forma di terapia per giungere a una maggiore autostima. Ma è troppo evidente l'inutilità, il vuoto sotteso a tutti i rapporti. Troppo angosciosa la coscienza della finzione della comunicazione televisiva che, dichiarando di rappresentare la realtà, ne propone invece solo l'aspetto più funzionale, fa da cassa di risonanza dei miti e dei simboli della società consumistica. Così l'unica via d'uscita è la fuga, l'andarsene... Ma i tempi sono cambiati e non è più un viaggio alla Faulkner quello proposto, anche se è pur sempre un cammino alla ricerca di una identità: Dave riprende con una cinepresa, attraversando gli Usa con un vecchio camper, la gente, le situazioni, le contraddizioni, in una parola la realtà, quella che la televisione ignora o che mimetizza. Si srotolano così nella narrazione storie e personaggi (un'ampia sezione del libro ripercorre in un lungo flash back anche l'infanzia e l'adolescenza del protagonista) della provincia americana e dei suoi miti. Molto di tutto ciò ricorda Nashville di Altman e i racconti minimalisti di Carver, e soprattutto preannuncia le successive opere dell'autore e i loro temi.
Indicazioni utili
La morte è il vero Messia, questa è la verità
Pur nella lontananza geografica e storica, il ruolo della famiglia nella tradizione della cultura yiddish evoca l'importanza che questa istituzione riveste nella nostra civiltà e nelle culture mediterranee in genere. La famiglia Moskat, fatta di un capostipite, reb Meshulam, di tanti figli e altrettanti nipoti, si allarga con matrimoni successivi, separazioni, figli illegittimi e nuove unioni, si estende al di fuori della via Nalewka, cuore del ghetto ebraico di Varsavia, e accoglie tra malumori, liti e riconciliazioni nuovi personaggi e storie.
Per tre decenni, dagli ultimi scampoli di belle époque all'orlo dell'abisso che la inghiottirà nell'olocausto nazista, la genealogia di una benestante famiglia ebrea polacca apre uno spiraglio sulla ostjudentum, la vita delle comunità ashkenazite e ne racconta storia, tradizioni, costumi e cambiamenti in un affresco vivace e colorito, spigliato e nostalgico, venato da una profonda tristezza postuma e insieme di una inesauribile vitalità.
Il filone narrativo principale segue l'arrivo di uno studente di famiglia rabbinica, Asa Heshel Bannet, a Varsavia e il suo ingresso nella ricca famiglia Moskat tramite la conoscenza con Abram Shapiro, un viveur genero del patriarca Meshulam Moskat, e la sua storia d'amore, contrastata dalla famiglia, con una delle nipoti di Meshulam, Hadassah, dopo una fuga in Svizzera e un matrimonio infelice con Adele, figlia di primo letto di Rosa Frumetl, ultima moglie del capofamiglia.
Attorno a questa vicenda sentimentale si raccolgono le inquietudini, amorose ed esistenziali, dei vari rami della famiglia e delle famiglie imparentate o vicine, per esempio quella di Koppel, l'intrigante factotum e amministratore dei beni dei Moskat, sposato e con figli ma innamorato di una delle figlie del suo datore di lavoro.
La storia coinvolge in realtà i destini di tutta una cultura e di una lingua, quella yiddish, nel pieno dell'ondata di antisemitismo che dilaga dalla Germania nazista all'URSS di Stalin e travolge anche la Polonia, in precedenza accogliente verso il popolo eletto, con il contagio del nazionalismo e delle teorie del complotto plutogiudaico.
Singer è egli stesso erede e testimone vivente di questa tradizione così ricca e potente in tutti i campi dell'arte e della letteratura e ci lascia - non solo in questo romanzo - un ritratto estremamente fedele delle sue radici, essendo egli stesso scampato alla piena della shoah. L'autore condensa nella decadenza di questa famiglia un paradigma dell'intera realtà storica fatta di tradizioni, dell'ortodossia dei chassidim, di una morale rigidamente formale, del tradizionalismo delle mogli in parrucca e degli uomini con gabbano, barba luga e filatteri, e nello stesso tempo della spinta inarrestabile, esercitata dalla modernità, alla ribellione verso questo modo di vivere caparbiamente ancorato a una visione precettistica e rigorosa della morale.
Tutti, o quasi, i personaggi vivono in maniera dilemmatica questa opposizione tra un modo di vivere che rappresenta una certezza - una delle poche tra persecuzioni e vagabondaggi delle tribù d'Israele -, fatto di un attaccamento, persino alle sciagure, tale da vedere un pericolo anche nel sionismo nazionalista che spinge i giovani a cercare una vera patria e delle speranze per il futuro in Palestina, e le sirene della modernità nelle forme di un'omologazione che mira a confondersi coi gentili eliminando i segni esteriori dell'appartenenza etnica e religiosa, che costituiscono insieme un forte richiamo identitario e un altrettanto facile bersaglio.
La ricerca della normalità e il dolore della perdita attraversano le due generazioni centrali della famiglia Moskat: la prima, quella di Meshulam, non arriva a vedere i cambiamenti per limiti d'età e l'ultima, quella dei figli di Asa Heshel, non farà in tempo a vivere appieno la tradizione. Le due centrali, quelle di Abram Shapiro e Asa Heshel stesso, subiscono la tensione lacerante tra il peso dell'eredità ingombrante dell'Ebraismo yiddish, che pervade la vita fino al modo di vestirsi e di mangiare, e la voglia di praticare una via, anche individuale, alla felicità, ribellandosi a matrimoni combinati e riti ripetitivi e devoti.
In tutte le contrite e scoppiettanti storie che Singer - insignito nel 1978 del Nobel alla letteratura come cantore della civiltà yiddish - raccoglie nella 'Famiglia Moskat' c'è il ritratto fedele e imparziale della vitalità di questo popolo, assuefatto a pogrom e diaspore ma sempre reattivo, pronto a lasciare la terra dei propri padri e a tornarvi poi per nostalgia: così fa Lia, una figlia di Meshulam, che va in America per sposarsi con Koppel, l'amministratore dei beni paterni, contro il volere di tutta la famiglia timorosa dell'opinione della gente. Lia, oramai emancipata cittadina yankee, torna in visita a Varsavia poco prima dello scoppio della guerra con la Germania del Terzo Reich con marito e figli e non riesce a resistere al richiamo ancestrale delle origini, anche quando ormai è chiaro cosa succederà di lì a poco con la crisi di Danzica. Anzi, quasi in una sorta di 'cupio dissolvi', rimane a Varsavia fino quasi all'arrivo delle truppe naziste, mentre i bombardamenti riducono in macerie il quartiere del ghetto attorno alla via Krochmalna.
Il racconto si ferma qui, sulla soglia della cronaca, che sta per prendere i lugubri contorni della soluzione finale hitleriana, lo sterminio totale della razza ebraica, quando ormai è evidente che la fuga non è più possibile, con l'attonita consapevolezza che l'unica prospettiva messianica è la distruzione, che: "La morte è il vero messia, questa è la verità"
Indicazioni utili
Fiesta
I romanzi di Hemingway riflettono la sua stessa personalità, quella di giornalista e uomo inquieto, e così la sua scrittura, caratterizzata da molti dialoghi, battute graffianti, personaggi tesi alla continua ricerca di senso nell'azione calati in realtà più o meno esotiche. Così è Fiesta, uno dei suoi libri più famosi, dove l'autore rende con tocco da cronista l'ambientazione fra la Parigi dei Café e la Pamplona della festa di San Firmino (celebrata con la famosa corsa dei tori per le strade della città) fra le due guerre. Hemingway ci racconta di un mondo che a noi pare tanto irreale quanto affascinante, popolato da giovani americani sradicati coinvolti nella contraddittoria ricerca frenetica di divertimento e vita da una parte e, dall'altra, consapevolmente dediti a una metodica autodistruzione. Tuttavia un'autodistruzione di lusso, che li vede trascinarsi per mezza Europa tra i bar più alla moda e gli alberghi più costosi, tra battute spritose ma al contempo amare e litri di vino in quantità tali da diventare quasi il vero protagonista del romanzo. Ma Fiesta in fondo è il racconto (particolarmente calato nel contesto storico e temporale) del profondo disagio di una gioventù estremamente ricca che non ha preoccupazioni materiali, che è sempre stata abituata ad avere tutto e ad ottenere tutto ciò che chiedeva ma che, ad un certo punto, si ritrova a fare i conti con la mancanza di senso che questo comporta. Tale inquietdudine giunge al culmine durante i giorni della festa di San Firmino e viene combattuta attraverso l'oblio dell'alcool e il bagliore accecante delle luci del bel mondo: e dopo gli eccessi dell'estate spagnola e l'epica descrizione della frenesia provocata dalla pazza corsa dei tori per le vie di Pamoplona, anche la disperazione sembra più misurata, seppure non ancora risolta.
Indicazioni utili
LA CINA DI MO YAN
In un Paese attraversato da interminabili piantagioni di sorgo, nei campi alti e duri in cui brulicano anime di varie fattezze, estrazioni e provenienza - contadini, soldati, monaci, lebbrosi, amanti e portatori - si consumano le avventure del bandito Yu Zhan’ao e la distruzione, da parte dei giapponesi, di Gaomi, il villaggio sulle rive del fiume Moshui in cui vive la famiglia, la sua famiglia. Un villaggio isolato, una Macondo cinese in cui gli abitanti si identificano in quello che hanno, il loro bandito, e mai né con i comunisti né coi nazionalisti. Zhan’ao non è solo un bandito, un tagliagole, uno con le mani imbrattate di sangue: è anche un portatore, di quelli che portano a spalla le spose al cospetto del futuro marito. Ma il marito della bella Fenglian è un lebbroso, non la merita ed il cuore del bandito palpita per vendicarla, riscattarla da un destino triste uccidendo il marito e prendendola con sé, come compagna, fino a che le pallottole giapponesi non la lasceranno riversa, con gli occhi al cielo, nell’immensità vermiglia del sorgo. Da qui la sua storia prenderà pieghe sempre diverse in una Cina sempre in tumulto, fino ad arrivare sotto l’ombra tormentosa di Mao…
Mo Yan, in un romanzo epico e retrospettivo sviluppato in cinque libri come fossero cinque storie differenti, ripercorre romanzandola con una narrativa marqueziana, complessa e magica, la storia della propria famiglia - della nonna, del nonno e di suo padre - nella Cina al tempo del conflitto sino-giapponese fino alla rivoluzione culturale. I suoi avi si trasformano in personaggi mitici punteggiati da metafore fulminanti, da biografie fantastiche, da un’esistenza piena, ricca ed intensa. La modalità di scrittura pesca a piene mani da un registro simbolico tipicamente orientale, ma dando ai personaggi una vitalità anticonformista che rompe schemi e preconcetti. Ogni particolare è cesellato con cura, ogni dettaglio incastonato al punto giusto. Ci vuole poca fantasia per non rimanere succubi affascinati dal mondo che dipinge riga dopo riga; ci vuole una grande dose di indifferenza per non rimanere irretiti nelle vicende narrate così piene di scoppi, cariche di umanità, grondanti di una vita pulsante e accesa. Ci troviamo davanti ad una narrazione a zig zag nella quale i personaggi muoiono e resuscitano e dei quali sembra ci sia sempre un altro aneddoto da raccontare, un’altra storia da non ignorare, un altro tassello da aggiungere come in un mosaico in cui il particolare è esso stesso universale sullo sfondo rosso imperante delle piantagioni di sorgo.
Indicazioni utili
IL DEMONE CHE è IN NOI
“Ci sono degl'istanti, non più di cinque o sei secondi ogni volta, in cui lei avverte la presenza dell'eterna armonia pienamente raggiunta.In quei cinque secondi io vivo tutta una vita, e per essi sono pronto a dare la vita perchè ne vale la pena”
Mai lettura per me fu più complessa e inquietante.
Una perfetta miscellanea di complicati temi(politica, idee rivoluzionarie, l’ancestrale lotta tra bene e male, il delitto), che danno vita a un’opera affascinante, a tratti folle, incentrata sulle emozioni di un’intera folla di personaggi.
Ma chi sono questi fantomatici demoni? Difficile stabilirlo.
Dostoevskij non ci aiuta, non ci da una definizione certa, di certo possiamo intuire che non sono le persone(anche se alcuni di loro sono dei veri e propri esempi viventi di nequizia), possono essere le idee che pervadono il nostro spirito e offuscano la nostra ragione, possono essere le vicende di un passato oscuro che si presenta di nuovo ai nostri occhi, possono essere le nostre dissolutezze, i nostri vizi…non possiamo stabilirlo, il demone può essere una fissazione positiva o una gioia negativizzata.
A prima vista la trama sembrerebbe semplice e lineare, c’è un ragazzo ingenuo e svagato, tal Stephan Trefamovic, che s’innamora perdutamente della dispotica ed eccentrica Varvara Petrovna.
A questa storia il magistrale Dostoevskij unisce altre storie, altri personaggi, fino a far diventare questo romanzo un’insieme di voci, di personaggi, di pettegolezzi che si susseguono pagina dopo pagina, in un’atmosfera misteriosa e inquietante.
Tra questa moltitudine di personaggi due spiccano per complessità: Petr Stepanovic Verchovenskij e Stavrogin
Petr Stepanovic(Dostoevskij si ispirò per questa figura letteraria a un tal Sergej Necaev, seguace del rivoluzionario e filosofo russo Michail Bakunin) è uno dei personaggi più infidi che si possano incontrare, un mistificatore dalle mille parole, un personaggio abbietto, che dice di voler fare la rivoluzione, ma che in realtà non crede in nulla, a parte sé stesso.
Stavrogin è il più profondo e il più complesso di tutti…fin dall'inizio si distingue per la sua cattiveria, è il male allo stato puro, è molto temuto e amato, sa essere violento, ma anche freddo, tranquillo, sorridente, affascinante nella sua malvagità.
Gli altri personaggi sembrano esser fatti apposta per far emergere la sua figura, di lui si parla spesso con un senso di mistero o d'attesa, lui è presente anche se fisicamente non appare in tutte le scene.
Stavrogin è affascinante come solo il Male sa essere, è in grado di essere gentile, di essere cortese, affabile con gli altri, ma sotto quel sorriso e quel fascino si avverte l'oscura presenza del Male.
Scrive il narratore: "Se qualcuno l'avesse colpito sulla guancia, egli, secondo me, non lo avrebbe nemmeno sfidato a duello, ma avrebbe senz'altro, lì sul posto, ucciso l'offensore: era appunto di quelli, ed avrebbe ucciso con perfetta coscienza, e non in un momento d'esaltazione”.Anche in preda a una collera feroce è in grado di rimanere freddo, di conservare il suo “sangue freddo”, un calcolatore nato, questa è la giusta definizione per lui.
Lui è l’emblema, il simbolo dei demoni, in lui troviamo il male, le tenebre, il mistero, la morte, tutti racchiusi in lui, nel suo animo di persona profondamente cattiva ma pericolosamente irresistibile.
Romanzo difficilissimo, che contiene dentro di sé tantissime sfaccettature, impossibili da catturare a una prima lettura.
Molti i temi proposti, che rappresentano un modo per scrutare attentamente in noi stessi, nelle nostre ansie e nelle nostre utopie.
E’ un romanzo dove molti personaggi sembrano in preda a una follia latente, ma dove la pazzia ha sempre un significato sostanziale, l'introspezione di se stessi, l'emancipazione del proprio essere e il desiderio di liberarsi da un passato oscuro e nebuloso.
Ma a questi aspetti positivi si unisce un qualcosa di laido, non solo nei personaggi volutamente descritti dall’autore in modo negativo, ma anche in quelli positivi, che nascondono dietro a una facciata di bonomia presunzione e sconsideratezza.
Un romanzo affascinante, che nonostante le sue ottocento pagine si legge in brevissimo tempo grazie allo stile scorrevole e pulito di Dostoevskij, un libro che ha bisogno di un’attenta analisi e di diverse riletture per poterne assaporare al meglio la sua grandiosità, ma che lascia dentro un turbamento dei sensi tale da non poter quasi più respirare.
Indicazioni utili
GUERRA E....GUERRA
Vi sono libri che per la bellezza e profondità delle immagini letterarie suscitano nel lettore emozioni intense, sicchè, quando se ne conclude la lettura, si lascia il testo con una sensazione di nostalgia e rimpianto. Vita e Destino di Vasilij Grossman, libro che può essere considerato un classico della letteratura russa del novecento, appartiene a questa categoria di opere letterarie, per la sua profondità e bellezza.
Vasilij Grossman scrisse questo libro in oltre dieci anni di lavoro, e riuscì a rappresentare in una narrazione divisa in tre parti, di cui colpisce la perfezione letteraria, l'epoca dello stalinismo, la lotta contro il nazismo, la natura dei due totalitarismi europei, quello comunista e quello nazista, la seconda guerra mondiale. Nella prima parte il lettore si trova immerso in un luogo terribile: un lager nazista.
Nel lager nazista sono rinchiusi i prigionieri sovietici, il cui paese è stato invaso dai tedeschi nel 1941. I bolscevichi, privati della loro libertà, angosciati al pensiero che le armate di Hitler sono riuscite ad avanzare fino al Volga, temono per le sorti del proprio paese. Pensano di essere fortunati a trovarsi in un lager gestito dai nazisti, anziché in un luogo simile governato dai bolscevichi.
La descrizione delle operazioni di guerra intorno al volga, con i soldati e gli ufficiali russi impegnati a respingere l'invasore tedesco, è precisa, attenta, coinvolgente, emozionante. Accanto alla rappresentazione delle vicende belliche, nel libro viene raccontata la vicenda di una famiglia sovietica di intellettuali. Victor Strum è un fisico nucleare di straordinario valore; con la moglie Ljudmila Nikolaevna e la figlia Nadia ha dovuto abbandonare Mosca, dopo che è avvenuta l'invasione tedesca del suolo sovietico nel 1941, e con i colleghi scienziati si è rifugiato a Kazan'.
Nel libro Victor Strum incarna il tormento dell'intellettuale sovietico che non riesce a capire e a tollerare le crudeltà compiute da Stalin, pur di pervenire alla edificazione del socialismo in un solo paese. Strum, mentre si trova nei salotti modesti di Kazan' a parlare di politica e letteratura in tempo di guerra con i suoi colleghi e con gli altri intellettuali, ha la netta sensazione di non potere esprimere liberamente il proprio punto di vista; teme che fra i suoi interlocutori si nasconda un delatore, che potrebbe denunciarlo e provocarne la rovina umana e intellettuale.
Strum ricorda, inorridito e addolorato, il silenzio degli intellettuali sovietici al cospetto delle purghe staliniste avvenute nel trentasette, dinanzi al processo farsa contro Bucharin e gli altri oppositori di Stalin, di fronte agli orrori legati alla collettivizzazione forzata delle terre. In questa parte del libro l'autore chiarisce il suo punto di vista intorno alla natura dei sistemi totalitari.
Per Grossman la violenza politica costituisce il fondamento del potere totalitario, a causa del quale la persona umana si trova oppressa e schiacciata da uno Stato possente e soffocante. A questo proposito, nel libro viene narrato un episodio di straordinaria bellezza, che esemplifica in modo inequivocabile il pensiero di questo scrittore sulla simmetria esistente tra nazismo e comunismo. Mostovskoj, prigioniero in un lager nazista, bolscevico per convinzioni filosofiche, una sera viene chiamato dall'ufficiale Liss, il quale desidera avere un confronto con lui.
Mostovskoj prova disprezzo per l'ufficiale nazista di fronte al quale si viene a trovare. Mentre Liss parla e sostiene che tra i comunisti e i nazisti non dovrebbe esserci la guerra, poiché entrambi sono i fautori di una dottrina che presuppone lo Stato di Partito, Mostovskoj prova una sensazione di disgusto e di rabbia incontenibile. Poi, l'ufficiale nazista, comandante del lager in cui è rinchiuso Mostovskoj, gli ricorda che anche Stalin ha eliminato i suoi avversari con la forza, che nei lager ha rinchiuso i suoi oppositori, e conclude il suo monologo, facendo precipitare il prigioniero in un abisso di disperazione, con l'affermazione sorprendente che il Nazismo ed il Comunismo devono essere considerati due ipostasi della stessa sostanza.
La struttura narrativa e letteraria del libro, attraversato da un respiro epico grazie al quale il lettore ha una immagine nitida della storia tragica del novecento, è fondata sulla rappresentazione delle vicende legate al destino dei membri della famiglia dell'intellettuale Victor Strum, sulla descrizione dei momenti fondamentali della battaglia di Stalingrado, sulla narrazione della sorte dolorosa dei prigionieri sovietici rinchiusi nei lager nazisti. In una parte successiva all'incontro memorabile tra il bolscevico prigioniero e l'ufficiale nazista, vi è un testo nel libro, scritto dal prigioniero russo Ikonnikov, nel quale viene sviluppata una ampia dissertazione sul Male ed il Bene.
Per l'umanista Ikonnikov, la storia umana non deve essere considerata la lotta del Bene contro il Male. In realtà, la storia dell'uomo, sia quella antica sia quella moderna, dimostra che il male tenta di spegnere e soffocare in ogni epoca l'afflato umanitario che è presente nell'animo di ogni persona. Tuttavia, finché le azioni umane saranno rivolte ad affermare il bene e l'amore verso il prossimo, il male non potrà trionfare. Infatti, scrive Ikonnikov, il bene, inteso come l'amore muto e cieco, è il senso dell'uomo. In tal modo, questo personaggio del libro, che riflette il pensiero dell'autore Grossman, pone il totalitarismo sovietico e nazista in relazione con il male, che da sempre è stato presente nella storia umana. Un altro episodio, molto bello e di straordinaria profondità, ha per protagonista un ufficiale di alto grado, che viene mandato a compiere una missione nella steppa calmucca.
Darenskij attraversa con la sua automobile la steppa calmucca, osserva la natura, il cielo e la terra che paiono confondersi all'orizzonte, i colori delle piante e dell'erba, e nel suo animo si affaccia il pensiero sublime che l'uomo è una creatura che aspira verso la libertà, senza la quale non riesce a vivere e ad essere felice. Nella parte seconda e terza del libro, viene narrata e descritta la strategia militare che seguirono i sovietici, grazie alla quale riuscirono ad accerchiare in una morsa terribile le truppe naziste e tedesche, guidate dal generale Paulus, comandante della VI armata.
In questa battaglia, memorabile per l'abilità dimostrata dai sovietici nel respingere l'invasore nazista, i tedeschi vennero ridotti allo stremo sia dal freddo e dal ghiaccio sia dall'isolamento in cui si trovarono, a causa dell'accerchiamento realizzato dalle truppe russe. Accanto alla descrizione delle fasi finali della guerra, nella seconda parte del libro viene raccontata la storia di Victor Strum. Strum e la sua famiglia rientrano nella loro casa di Mosca.
A Kazan', dove si era rifugiato in tempo di guerra, in un periodo doloroso aveva avuto una straordinaria intuizione scientifica, chiedendosi se la conoscenza derivi dalla osservazione dei fenomeni fisici oppure dai pensieri che nascono spontaneamente nella mente umana. Strum riprende a lavorare nel suo laboratorio di ricerca, per dare attuazione all' intuizione scientifica che ha avuto intorno all'atomo e alla fisica nucleare.
Presto, poiché non accetta l'idea che la ricerca scientifica debba essere subordinata alle direttive del partito, entra in conflitto con i suoi colleghi scienziati, dai quali viene accusato di avere elaborato una teoria fondata su elucubrazioni talmudiche, essendo di origini ebraiche. In questa parte del libro viene descritto il modo in cui la menzogna totalitaria riduceva al silenzio ed alla impotenza i migliori intellettuali sovietici.
Strum, allontanato, dopo un sommario processo politico tenutosi dinanzi al consiglio accademico, dal suo laboratorio di ricerca, si trova da solo, prova sensi di colpa, si dispera, perché non può più attuare le sue ricerche sull'atomo. Grazie ad una telefonata di Stalin, che riceve nella notte, Strum viene riabilitato e riammesso nel suo laboratorio di ricerca. Suo cognato Krimov, accusato di essere un seguace di Trotskii ed un traditore, viene rinchiuso nel carcere della Lubjanka, dove è costretto con la tortura a rendere una falsa confessione di colpevolezza, come accadde a tanti bolscevichi nel periodo fosco dello stalinismo.
Nella parte finale del libro vi è una straordinaria e memorabile descrizione della città di Stalingrado ridotta in un cumulo di macerie, dopo una guerra cruenta combattuta per sconfiggere le armate tedesche.
Indicazioni utili
STORIA E LETTERATURA
Persone vittime di una guerra che non hanno voluto, chiamati a combattere per ideali che celano invece oscuri obiettivi dei potenti, che muoiono per cause che non conoscono. Vittime di una Guerra che ha distrutto un paese, il nostro paese. In questo quadro di desolazione conosciamo la famiglia protagonista del romanzo. Una famiglia di modeste condizioni che fin dalle prime pagine commuoverà il lettore. Ida Ramundo, vedova e madre di Nino, subisce a Roma nel 1941 la violenza di un soldato tedesco. Incredibile come un atto così bestiale e ai limiti della comprensione umana generi una prodigiosa creatura innocente, Giuseppe detto Useppe. Sarà proprio l’innocenza infantile di questo bambino, il suo modo tenero di vedere la realtà, i suoi giochi e le sue risate su uno sfondo di morte, a dare uno spessore maggiore a questo romanzo. La famiglia subirà tutte le traversie della Grande Guerra, dalla perdita della casa alla scomoda convivenza con altri sfollati, al disagio che solo coloro che hanno vissuto quei duri anni possono comprendere, un disagio dato dalla perdita di qualsiasi bene. Nino, il figlio maggiore, come la maggior parte dei giovani dell’epoca si fa smanioso davanti agli eventi. Il desiderio di crescere in fretta, la voglia di libertà e di indipendenza lo portano prima tra gli schieramenti fascisti, poi la personalità ribelle lo conduce tra i partigiani, e infine il suo coraggio lo rende vittima della polizia. Nino, un giovane come tanti, morto prima di vivere. Il piccolo Useppe invece resta vittima del suo male, l’epilessia. Un bambino che nonostante le circostanze riesce a vivere la sua infanzia come fosse in una bolla di sapone. Elsa Morante con tono distaccato ma non indifferente racconta la storia di questi uomini, la storia degli umili, delle persone che se pur sconfitte sul campo di battaglia sono vincitrici nella vita e quindi nella storia. In un solo libro vengono affrontate tematiche importanti come la guerra, la violenza, il mondo dell’infanzia collocato in un’atmosfera a dir poco magica. L’aspetto realmente affascinante è che tutto ciò che è brutto, la malattia, la morte, la guerra è escluso dalla visione infantile. È come se Useppe non vedesse la realtà che lo circonda. Guarda con gli occhi di un bambino e attraverso una sana fantasia rielabora dentro di sé un mondo fantastico. Così per Elsa Morante l’infanzia diventa non solo “innocenza ignara ma anche vitalità immediata e gioiosa”. Un romanzo che tocca i cuori anche dei più duri e cinici. Un romanzo che emoziona perché all’interno contiene un ingrediente straordinario: la verità storica che si mescola alla letteratura.
Indicazioni utili
Sogno americano
ED ALLA FINE
AMERICA NON SIGNIFICO' PIU': OCCASIONE, SPERANZA, GIOVENTU' America, America, America.
Per quanto si possa essere più o meno perplessi nei confronti dei nostri dirimpettai
d'oltreoceano, sarebbe per lo meno superficiale PRESCINDERE da essi. Volenti
o nolenti, spesso siamo costretti a farci i conti e, se la tattica migliore
è quella di conoscere i nostri antagonisti, allora Pastorale Americana è
una asso nella manica poiché sprigiona America alla quint'essenza. Quattrocento
pagine che attraverso la parabola del protagonista raccontano la storia, le
promesse, i sogni e le contraddizioni dell'ultimo secolo di questo paese ingenuo
ma anche estremamente rabbioso. Infatti un uomo come Seymour Levov, biondo e
atletico ragazzone ebreo detto lo Svedese, non si era mai posto domande sul
perché delle cose ma, ad un certo punto, anche lui sarà costretto a fare i conti
con la realtà: e lo farà quando la sua amatissima figlia, in lotta contro la
guerra americana in Viet Nam ma anche contro tutto e contro tutti, si perderà
defintivamente. Sarà allora che Levov lo Svedese si risveglierà da quel sogno
americano a cui aveva creduto ciecamente. Pensa infatti lo Svedese: "Tre
generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato.
Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate
dell'America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano
trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione
del loro mondo". Pastorale americana è come un canto -tutt'altro
che bucolico- suddiviso in tre gironi: il Paradiso Ricordato, la Caduta, e il
Paradiso Perduto ed è una storia che ha molto a che fare con le radici, la memoria
e, talvolta, l'intollerabilità della memoria. Si tratta di un romanzo non semplicissimo,
che richiede una certa dose di attenzione al lettore ma che, in cambio, restituisce
anche molto in termini di consapevolezza e riflessioni che, a volte, si tramutano
in vere e proprie rivelazioni. Come quelle che muteranno per sempre l'atteggiamento
ingenuo dello Svedese quando, in maniera improvvisa, smarrirà la propria innata
innocenza. "Aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare:
che non c'è un senso. E quando capita una cosa simile, la felicità non è più
spontanea. E' artificiale e, anche allora, comprata al prezzo di un ostinato
estraniamento da se stessi e dalla propria storia." D'altra parte lui non
era preparato a tutto questo: "Come avrebbe potuto sapere, con tutta la
sua bontà, che il prezzo per una vita obbediente era tanto alto? Ci si rassegna
all'obbedienza per abbassare il prezzo ... L'aveva realizzata per davvero la
sua versione del paradiso.... E poi tutto cambia e diventa impossibile. Ma chi
è pronto ad affrontare l'impossibile?" Non lo Svedese, e nemmeno chiunque
altro perché "non bastiamo. Nessuno di noi basta" di fronte al trionfo
della rabbia, del caos e dell'irrazionalità dell'adolescente America.
Indicazioni utili
Usa bene la tua libertà
Walter e Patty sono i coniugi Berglund che, all’inizio del romanzo, ci vengono presentati in una situazione estremamente incresciosa per due rappresentanti della middle class americana. Dalle pagine del New York Times pare infatti che Walter sia responsabile di una grave truffa nei confronti dello stato. Senza affrontare i dettagli, Franzen ci mostra la famiglia Berglund che, oltre ai coniugi, comprende due figlie: Joey e Jessica. Questa famiglia nasce dall’amore non corrisposto di Patty per il giovane migliore amico di Walter, Richard Katz. Pur essendo attratta da lui, Patty capisce che non gli offre futuro e allora sposa Walter. Parrebbe di essere nel più trito e banale dei plot da romanzo d’appendice, un madame Bovary rivisitato. Ma la capacità di scrittura di Franzen rende tutto sorprendente e inatteso, le vite dei figli si intrecciano e sviluppano con notevole indipendenza dai genitori – libertà – e le vite dei genitori crescono in complessità Ad un certo punto l’amore assoluto di Walter non basta più e la famiglia inizia a sfaldarsi, Patty tenterà di ritornare sui suoi passi ma questo renderà il tutto ancora più insopportabile.
Intanto Walter, integerrimo difensore della costituzione americana e dei diritti dei cittadini, ha scelto di scendere a patti con una grossa compagnia per riuscire a fare qualcosa per l’ambiente. Sarà questa concessione al mercato a fregare il buon Walter e a farlo apparire sulla cronaca del giornale di New York.
Entrambi i coniugi sono ormai delusi della propria vita e cercano, ciascuno a modo suo, di rimediare agli errori. Dopo un po’ di anni di solitudine, unica condizione per potere imparare ad usare la libertà, con tutti i dolori e piaceri che questa comporta, i due cercheranno una strada percorribile che possa soddisfare entrambi.
In questo disteso e pacificante romanzo Franzen riesce a inserire i punti di forza di due suoi romanzi precedenti – Zona disagio e Forte movimento – che molto meglio del tanto osannato Le correzioni esprimono la sua passione per la difesa dell’ambiente e la sua capacità di esaminare le tensioni delle famiglie. In questo romanzo le due tematiche, affrontate separatamente nel thriller (Forte movimento) e nel romanzo intimista (Zona disagio) si fondono grazie, probabilmente, alla maggior consapevolezza dei propri mezzi che questo scrittore ha raggiunto.
Il riassunto non è che in minima parte capace di restituire lo spessore di una storia che, con un tono mai pedante o didascalico, offre una possibile visione d’insieme della vita in generale, con i suoi errori e le sue gioie, con le libertà che è necessario prendersi per vivere e le rinunce alla libertà che è necessario compiere per non condannarsi a morire.
Indicazioni utili
Non si domandi pertanto al poeta ciò che ha pensat
Il celebre poeta portoghese Fernando Pessoa, considerato uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, resta ancora oggi una figura affascinante e sconcertante allo stesso tempo, anche per la creazione dei cosiddetti eteronimi. A differenza degli pseudonimi, che sono semplici soprannomi che un artista può decidere di darsi, l’eteronimo è una figura a tutto tondo, con una biografia, una personalità definita e uno stile di scrittura peculiare. Pessoa si creò vari alter ego, tra i quali uno dei più complessi e completi resta certamente Ricardo Reis, immaginato come medico espatriato in Brasile nel 1919 e poeta di gusto classicistico. Siccome Pessoa, a differenza che per gli altri eteronimi, non aveva attribuito a Ricardo Reis un anno di morte, lo scrittore portoghese futuro premio Nobel José Saramago (Azinhaga, 1922 – Tías 2010) ne approfittò per colmare la lacuna con la sua fervida fantasia nel romanzo L’anno della morte di Ricardo Reis.
Ricardo Reis ha lasciato la patria nel 1919 dopo la guerra civile e la restaurazione della repubblica. Torna a Lisbona, ormai alle soglie dei 50 anni, alla fine del 1935, quando il Paese è sotto la dittatura fascista di Salazar. Ricardo Reis si stabilisce nella capitale, prima in albergo poi in un appartamento, finché la morte lo coglie in una calda giornata del 1936. In questi mesi l’uomo vive una vita piuttosto solitaria, attirando anche i sospetti della polizia che comincia ad indagare su di lui. Nelle sue giornate però, e nei suoi pensieri e nelle sue fantasie, entrano anche due donne, Lídia e Marcenda, e l’ombra di Pessoa (morto nel 1935), che nei momenti e nei luoghi più diversi va a trovarlo e a dialogare con lui.
José Saramago racconta gli ultimi mesi di vita di Ricardo Reis, disegnando un personaggio assolutamente realistico; inoltre fa di questo uomo schivo, nostalgico, non privo di meschinità un testimone passivo degli eventi epocali di quegli anni: la dittatura di Salazar, la rivoluzione e il successivo scoppio della guerra civile spagnola. Sullo sfondo, un’Europa in cui dilaga il fascismo.
La posizione politica di Reis è diversa da quella di Saramago: da moderato, il personaggio rifiuta tanto il fascismo con la sua tronfia, grottesca retorica e l’inaccettabile soppressione di tutte le libertà quanto il comunismo, che gli appare un’esplosione di energie anarchiche incontrollabili; la simpatia dell’autore per i resistenti comunisti emerge invece evidente, soprattutto nella seconda parte del romanzo e in particolare quando si racconta lo sfortunato ammutinamento delle navi sul Tago. La compresenza di due punti di vista rende la lettura più complessa, ma anche certamente più ricca.
Il romanzo diventa dunque anche, come sempre accade in Saramago, e qui più che altrove, un pretesto per discutere di storia e di politica, con particolare riferimento ad eventi cruciali della patria Portogallo: al contrario del suo personaggio, apatico osservatore degli eventi, lo scrittore non esita ad esprimere i suoi giudizi battaglieri, severi e sferzanti, ostili ad ogni dittatura fascista chemassifica e umilia l’uomo, privandolo della libertà e della dignità.
Dei tanti romanzi di Saramago L’anno della morte di Ricardo Reis non è probabilmente dei più felici sotto il profilo artistico: soprattutto la prima parte ha un ritmo tanto lento da risultare quasi esasperante. È un difetto, se mai di difetto si può parlare per un genio della scrittura, che, in misura inferiore, si riscontra anche in altri romanzi, ma che in questo caso rende particolarmente pesante la lettura.
D’altro canto non mancano i tocchi inconfondibili del maestro: introdurre ad esempio il fantasma di Pessoa, con il quale il protagonista discute di politica, di vita e di morte, conferisce a certi passaggi un’atmosfera surreale e onirica che nulla toglie al realismo della narrazione nel suo complesso (tanto che qualcuno ha parlato di romanzo storico) e che anzi aggiunge una nota ulteriore ad una già ricca sinfonia di toni e motivi. E tra tutte resta impressa la figura di Lídia, la serva amante, una delle figure più umane della narrativa di Saramago: assolutamente vera nella sua semplicità, nella sua spontaneità, nella sua intelligenza, nella sua sensibilità, nella sua presa di coscienza progressiva e sofferta della necessità di proiettarsi oltre, verso un futuro più giusto – nonostante il prezzo che sarà necessario pagare.
Indicazioni utili
Vita sregolata
“Nelle pagine seguenti racconterò la storia del mio amico, compagno d'armi e di idee, Franz Tunda”
così scrive nella premessa Joseph Roth.
In realtà questo stratagemma consente allo scrittore di distanziarsi dalla materia trattata, di dialogare con il suo personaggio e con la sua storia. Personaggio e storia che lo stesso Roth avrebbe riconosciuto riflettere “in gran parte” la sua stessa esistenza di nomade e l'implacabile destino del “disperso”, che sintetizza nel bellissimo titolo “Fuga senza fine”.
Franz Tunda, infatti, percorre la vita senza mai arrestarsi, in una fuga continua. Tenente dell'esercito austriaco nella grande guerra, fatto prigioniero dai russi nell'agosto del 1916, riesce a fuggire e si rifugia in un solitario, triste casolare in Siberia, ai margini di una foresta, fino al 1919. Quando scopre che la guerra è finita, parte, attraversa la Siberia, arriva in Ucraina, nei pressi di Kiev, viene preso dapprima come spia bolscevica, diventa poi rivoluzionario, crede di innamorarsi, finisce sul Mar Nero a Baku, fino a ritornare nell'impero che non c'è più, in una città sul Reno, poi a Berlino e infine a Parigi...
E' un romanzo veloce, che attraversa un'epoca turbinosa come un fulmine: dalla rivoluzione russa, vista con gli occhi della lontananza, alla crisi non solo dell'impero asburgico, ma dell'antica cultura europea. Nel dialogo con il fratello, direttore d'orchestra di successo, sacerdote dell'arte, come egli lo definisce, Tunda mostra i mille buchi che sostituiscono nella vita quotidiana una cultura borghese ammuffita: i Buddha, i cuscini, i larghi e profondi divani, i tappetti orientali, le danze negre...
Joseph Roth ha una scrittura sintetica e asciutta, riflessiva e, a volte, potentemente satirica. I personaggi preferisce generalmente descriverli, non farli nascere attraverso i fatti. Si veda il bellissimo ritratto fisico-psicologico della rivoluzionaria ucraina, Natasa. La descrizione dettagliata che Roth fa del volto della ragazza rivela pure l'ideologia, di cui è, incosapevolmente, imbevuta: ella nega, infatti, la sua bellezza, sfida i maschi con il suo coraggio, deride i valori borghesi, ma sceglie Tunda, perché borghese, senza accorgersi neppure dell'amore degli altri uomini che, invece, la venerano: marinai, operai, contadini senza istruzione e innocenti come animali.
E' un romanzo intenso. Un'intensità tenuta a distanza e quasi nascosta dal succedersi vorticoso dei fatti, che poi, delusione dopo delusione, si fa intima, disperata “in una storia”, come scrive Alfredo Giuliani, “di una progressiva spoliazione”. Franz Tunda vive, infatti, senza mai scegliere, lasciandosi trasportare dai fatti e dagli incontri: la fidanzata, la guerra, la fuga e la perdita di identità, la rivoluzione che diventa prassi burocratica, “disciplina senza sentimento”, le donne con le quali non scatta mai una scintilla vera e profonda, l'alta borghesia intellettuale e aristocratica reazionaria, senza sapere di esserlo, piena di pregiudizi e di certezze, che vive senza sapere di essere morta. “A volte apparivano a Tunda come dei vermi, il mondo era la loro bara, ma nella bara non c'era nessuno”.
E' qui, nel finale, che “Fuga senza fine” diventa affascinante, il fascino di una indifesa, dolente nudità. Franz Tunda, uomo libero e dalle esperienze estreme (le notti rosse, il bianco intenso infinito del ghiaccio siberiano, il silenzio minaccioso delle foreste, la fame lancinante) viene trovato da Joseph Roth “sano e vivace, un uomo giovane e forte, dai molti talenti, nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo”.
Non ci sono speranze, non c'è accettazione. Rimane solo la nudità dell'essere tuttavia libero, non gregario di qualcuno.
Indicazioni utili
IRRIVERENTE
Barney Panofsky è un ricco ebreo canadese, figlio di un poliziotto corrotto, produttore di serial TV molto molto commerciali, ma che rendono bene. Ha un passato da raccontare di una vita dissoluta, che continua nonostante abbia sessantotto anni. L’opportunità di scrivere la sua autobiografia gli viene dall’uscita del libro del suo amico-nemico Terry McIver, “Il tempo, le febbri”, dove lo stesso racconta la storia della loro vita dissoluta a Parigi, della loro compagnia dissennata, dedita all’alcool, all’abuso di droghe, senza un soldo, sempre a vivere di stenti e poco altro. Della compagnia facevano parte oltre a Terry e Barney, Clara Charnofsky, pittrice e poetessa, che diventerà in seguito la moglie di Barney e avrà una sua grande notorietà, anche se postuma, e Bernard “Boogie” Moscovitch da tutti considerato un astro nascente, ma che non riuscirà mai a scrivere nulla se non storielle. Sul libro di McIver vengono tutti messi alla berlina, soprattutto Barney, che si vedrà costretto, quindi, a dare una sua “versione” dei fatti. Nel corso della stesura delle sue memorie tuttavia, i ricordi di Barney diventano via via confusi: gli episodi del suo passato si intrecciano indissolubilmente con gli avvenimenti del suo presente, così che l’intero romanzo risulta essere una serie di flashback disordinati: i racconti delle giornate del “vecchio” Barney (acciaccato, abbandonato dalla moglie e alcolista irrecuperabile), si mescolano alla girandola dei ricordi di una vita ricca di avvenimenti e incontri straordinari. Il romanzo è strutturato in tre parti, una per ognuna delle mogli di Barney, anche se a causa delle continue digressioni, episodi concernenti a tutte e tre le donne saranno presenti in tutte e tre le parti. La prima moglie, la pittrice e poetessa Clara Charnofsky, morta suicida a Parigi (verrà incolpato anche di questo), la ciarliera seconda Signora Panofsky, di cui non conosceremo mai il nome, che Barney sposa senza troppa convinzione e dalla quale divorzierà presto, e Miriam, il suo unico grande amore, la madre dei suoi figli Mike, Saul e Kate, con cui ha un rapporto conflittuale. Barney non ha rispetto per nessuno, soprattutto per se stesso. Tutti verranno presi di mira. Dagli ebrei, che sono messi alla berlina, ai francofoni, agli scrittori celebri, a svariati altri gruppi etnici, e anche i lifting verranno collaudati con una ditata sulla guancia: “volevo vedere se restava l’impronta!”. Ma soprattutto il libro, che verrà pubblicato postumo dal figlio Mike (con le sue note a piè di pagina a correggere gli errori paterni), deve spiegare al mondo intero il più grande cruccio di Barney, quello per cui nessuno è disposto a giurare sulla sua innocenza. La morte del suo amico Boogie, secondo molti ucciso in un impeto di gelosia (lo ha trovato a letto con la seconda signora Panofsky), di cui il cadavere però non è mai stato ritrovato. In trent’anni nessuno è riuscito a far luce sulla verità e Barney alle sue bugie ci tiene: “La prima volta che ho detto la verità sono stato accusato di omicidio. La seconda ci ho rimesso la felicità.” Il suo motto è negare, negare sempre, ma quando si mette a scrivere la sua versione dei fatti Barney, arruffone e logorroico, giura che sarà affidabile e sincero. A minare le sue buoni intenzioni c’è però l’Alzheimer che costringe il poveretto a faticose ricerche per la parola giusta, si ripete in continuazione chi sono i sette nani senza mai ricordarlo, scorda spesso i nomi di semplici attrezzi, come il mestolo e via dicendo. Disincantato, arruffone, pieno di parolacce, ma bello e vero, come risulta essere il suo protagonista. Ho amato Barney Panofsky per quello che era da giovane, e per come aveva preso la sua vita da vecchio, gli ho voluto anche un po’ bene. Alla fine si è goduto la vita molto più di altri. Un protagonista irriverente, per un libro altrettanto irriverente.
Indicazioni utili
Sempre grande Marai
Il trentottenne magistrato Kristof Komives è chiamato ad esaminare la causa di divorzio fra il giovane medico Imre Greiner e Anna Fazekas.
Il giudice ricorda di aver conosciuto entrambi anni prima: il medico è un suo coetaneo e con Anna egli ha avuto un incontro terminato con l'impressione che la donna avesse qualcosa da dirgli. Poi il magistrato, fidanzatosi prima e sposatosi poi, aveva completamente dimenticato quel lontano episodio.
In realtà la causa di divorzio non avrà luogo.
Questo romanzo, è un'anticipazione del il successivo capolavoro "Le Braci". Mi è piaciuto molto e mi ha dato ulteriori elementi per apprezzare la forza evocativa dei due grandi romanzi già letti (Le braci e La donna giusta).
Kristof, il protagonista, riflette sui costumi del suo tempo, sui valori tramandati che lui stesso osserva scrupolosamente, con convinzione, come se la vita fosse una missione, un dovere da compiere, e naturalmente nel migliore dei modi.
E', in realtà tormentato dai dubbi, e le nevrosi si somatizzano sotto forma di improvvise vertigini, che lo rendono fragile, di cui si vergogna come fosse un segno di debolezza. Kristof, nonostante tutto però non può che ammettere che la vita è più complessa e contraddittoria di quanto non la si possa incanalare nelle rassicuranti guide del diritto e del dovere.
E poi, ecco, l'irruzione nella sua vita di un ex compagno di studi, di un'amicizia più volte sul punto di nascere ma mai compiuta, e di una ragazza che una sera sembrava volesse dirgli qualcosa ma non la disse. Frammenti di vita che si cristalizzeranno, condizionando tutti loro in un triangolo amoroso dove la passione ricacciata, repressa, mai vissuta porterà ad un drammatico epilogo.
Indicazioni utili
Romanzo piacevole
Classico romanzo da comodino molto amato dalle donne in vena di romanticismi e, generalmente, altrettanto schivato dagli uomini a causa della perenne etichetta di ‘Romanzo d’amore’.
Camera con vista è un romanzo che ha per protagonista la tipica donna inglese dell’età edoardiana, divisa tra due uomini diametralmente opposti e oppressa dalle convenzioni dell’epoca e dai tentativi di plagio delle donne di famiglia. Ma Camera con vista è anche il trampolino di lancio di un mostro sacro del modernismo quale Edward Morgan Forster, conosciuto al grande pubblico come autore del romanzo in questione e nient’altro (tranne, forse, Casa Howard), ma autore anche, si pensi un po’, di testi molto più pregni da un punto di vista storico e sociale come ad esempio Passaggio in India o Maurice.
Lucy Honeychurch, giovane di famiglia benestante in viaggio in Italia con la bigotta e nubile cugina Charlotte che le fa da chaperon, non è molto entusiasta del suo arrivo alla pensione Bartolini, a Firenze: la padrona, infatti, sebbene le avesse promesso due camere con vista sul Lungarno, provvede loro due sistemazioni più modeste del previsto. L’imperdonabile condotta degli Emerson, a tavola, la mette nelle condizioni di dover accettare uno scambio moralmente sconveniente: Mr. Emerson, infatti, ha offerto loro di sistemarsi nella camera sua e del figlio, con ampie finestre sulla vista desiderata dalle due donne.
Un approfondimento della conoscenza con i due signori rivela il carattere anticonformista dell’anziano inglese, che ha trasmesso i suoi principi al figlio George: gli Emerson sono schietti, atei, e hanno sempre sulla lingua opinioni originali su ogni cosa e persona: sono, insomma, estromessi dalla società benpensante dell’epoca. Uno sventurato accadimento avvicina Lucy e George, e quest’ultimo, durante un picnic sulle colline del Fiesole, si lascia andare a un comportamento vergognoso nei confronti dell’ingenua ragazza, che, spinta dalla cugina, decide di partire immediatamente da Firenze con destinazione Roma. Tornata in Inghilterra, Lucy accetta la proposta di matrimonio di Cecil, l’esatto opposto di George: quadrato, conformista, sprezzante nei confronti della famiglia di lei, acculturato ma senza alcuna apertura mentale. Lucy dimostra un temperamento vivace soffocato dalle persone che la circondano (non ultimo Cecil) che si ravviva quando George e il padre si trasferiscono casualmente poco distanti dal suo villino.
Camera con vista è un romanzo breve e non esattamente pregno di avvenimenti o di spiccate introspezioni; i personaggi non sono particolarmente indimenticabili e certo non vi si possono leggere grandi passioni d’amore comprensibili a un pubblico contemporaneo; è invece un buon romanzo che aiuta a comprendere la posizione delle ragazze di buona famiglia in un periodo in cui le suffragette (mai nominate nel romanzo, ma la cui ombra aleggia minacciosamente) stavano iniziando a incatenarsi alle ringhiere e a dare fuoco alle cassette postali per ottenere il diritto di voto. Lucy, che per tutto il romanzo è bocca di pensieri altrui (quelli della cugina; quelli della madre; quelli di Cecil e infine quelli degli Emerson), e che riesce a esprimere se stessa solo attraverso la musica, infine affronta le convenzioni sociali e familiari per rifiutare un matrimonio conveniente e sceglierne invece uno d’amore.
Il romanzo è interessantissimo per un altro aspetto: presenta l’Italia d’inizio Novecento vista dagli occhi di un inglese, sia pure anticonformista come Forster: in un luogo di passioni e di libera espressione, così lontano dalle imposizioni e dalla rigidità del mondo inglese, Lucy appare prima scioccata e poi conquistata dalla spontaneità degli italiani. E’ il suo viaggio in Italia che causa in lei i cambiamenti tali da poter ravvisare i limiti dell’Inghilterra (perché, si sa, un viaggio non è un viaggio se non permette di tornare a vedere con occhi nuovi il luogo di partenza) e, soprattutto, tali da poter comprendere e amare i colori dell’animo di George Emerson. Forster denuncia così le ipocrisie sociali dell’Inghilterra edoardiana, così come farà con le ipocrisie imperialiste in Passaggio in India.
Un ultimo appunto sullo stile di Forster: situandosi appena prima dell’epoca modernista (1908), il romanzo è molto classico (ancora ottocentesco) nello stile e nella forma. Accurato, ricercato, di tanto in tanto persino poetico: se non per la trama, consiglio questo romanzo per lo splendido effetto che fa se letto in poltrona con una tazza di tè, o, ancora meglio, su un prato assolato con un cestino da picnic
Indicazioni utili
21 risultati - visualizzati 1 - 21 |