Opinione scritta da viducoli
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Un’opera minore che non ci aiuta a capire
'L’amico ritrovato' è senza dubbio l’opera più celebre di Fred Uhlman, autore tedesco naturalizzato britannico, sorta di scrittore dilettante (la sua professione principale essendo quella di avvocato) attivo nella seconda metà del secolo scorso.
Nato nel 1901 a Stoccarda in una agiata famiglia della borghesia ebraica, Uhlman lasciò la Germania pochi mesi dopo l’avvento al potere del nazismo, approdando dopo varie peripezie a Londra nel 1938, dove tra l’altro fondò una associazione culturale tedesca di cui fecero parte tra gli altri anche Oskar Kokoschka e Stefan Zweig, associazione da cui si discostò quando assunse connotati comunisti. Fu anche un apprezzato pittore e grande collezionista di arte africana. L’amico ritrovato uscì nel 1971, divenendo negli anni un piccolo classico della narrativa inerente il nazismo: è un breve romanzo, o meglio una lunga novella, primo capitolo della 'Trilogia del ritorno', comprendente anche 'Un’anima non vile' e 'Niente resurrezioni, per favor'e.
Va subito detto che il mio giudizio critico sull’opera è forse monco, perché essa andrebbe probabilmente letta e valutata insieme al secondo capitolo della trilogia, che narra le stesse vicende viste con gli occhi del secondo protagonista, Konradin von Hohenfels.
La novella narra dell’amicizia tra due ragazzi sedicenni nella Stoccarda del 1932: Hans Schwarz, figlio di un medico ebreo, e appunto Konradin von Hohenfels, giovane rampollo di una delle più nobili ed antiche famiglie tedesche. Hans, dietro il quale è facile scoprire l’autore, narra in prima persona della sua amicizia giovanile con Konradin, quando negli anni ‘60 ormai da decenni vive a New York essendo diventato un affermato avvocato.
Nel febbraio del 1932 Konradin entra nella classe del liceo frequentato da Hans. Entrambi i ragazzi sono timidi e non legano con gli altri compagni di classe, troppo rozzi o troppo affettati per suscitare il loro interesse. Hans è affascinato da ciò che Konradin rappresenta, dalla storia quasi millenaria della sua famiglia, e cerca di attirare in vari modi la sua attenzione: finalmente un giorno fanno insieme la strada verso casa e diventano amici, scoprendo di condividere la passione per il collezionismo di monete e reperti antichi. Per alcuni mesi i due ragazzi si limitano a vedersi a scuola, poi un giorno Hans invita Konradin a casa sua: mentre la madre di Hans accoglie l’amico del figlio con una spontanea tenerezza materna, il padre, veterano e decorato della prima guerra mondiale, si rende ridicolo trattando Konradin con un inopportuno cameratismo militaresco da cui traspare un evidente senso di inferiorità sociale e gerarchica nei confronti del rampollo della famiglia illustre.
Intanto sulla Germania si fanno sempre più cupe le nubi politiche, anche se a Stoccarda, vivace capitale del ricco e culturalmente avanzato Württemberg, la vita scorre apparentemente tranquilla e delle prevaricazioni naziste giungono solo echi attutiti. Anche nella famiglia di Hans sono convinti che il nazionalsocialismo rappresenti una malattia passeggera, e che il popolo di Schelling, Hölderlin, Hegel e Beethoven non possa cadere preda della barbarie nazista: Hans si sente ”prima svevo, poi tedesco e infine ebreo”, la sua famiglia è di fatto agnostica e come detto il padre ha combattuto valorosamente per la sua patria, senza mai sentire la sua origine ebraica come elemento di differenziazione sociale, tanto da disprezzare il movimento sionista.
Hans però nota che Konradin per lungo tempo non ricambia l’invito ad andare a casa sua, salutando sempre l’amico sulla soglia dell’arcigno palazzo Hohenfels; quando infine viene invitato dall’amico a entrarvi i genitori di Konradin sono assenti, e così pure le volte successive.
In quello che si può considerare il capitolo centrale della novella, Hans si reca a teatro con i suoi genitori, dove scorge Konradin con la famiglia, oggetto dell’attenzione generale: nel foyer Konradin, che sfila accanto ai genitori per salutare regalmente gli astanti, ignora Hans. Nella drammatica spiegazione tra i due che segue, Konradin confessa che sua madre, di origini polacche, odia gli ebrei, e che anche suo padre non vede di buon occhio la sua amicizia con Hans.
Gli eventi intanto precipitano: nel liceo arriva un professore antisemita, ed anche molti compagni iniziano a tormentare Hans in quanto ebreo. I genitori di Hans, ormai consci della gravità della situazione, ritirano il figlio dal liceo e nel gennaio del 1933 Hans parte per New York, dove potrà studiare e vivere presso alcuni parenti. Prima di partire riceve una lettera nella quale Konradin gli dice di aver aderito al nazismo come argine al comunismo, minimizzando ciò che sta accadendo agli ebrei.
Molti anni dopo Hans, ormai affermato professionista che ha fatto di tutto per dimenticare il suo passato, riceve a New York una richiesta di donazione da parte del suo vecchio liceo per l’erezione di un monumento funebre agli allievi morti in guerra, accompagnata dalla lista dei caduti. Dopo avere represso il primo istinto di gettare subito tutto nel cestino, Hans inizia a scorrere la lista, scoprendo che moltissimi suoi compagni di classe, compresi i nazisti della prima ora, sono morti: non ha però il coraggio di leggere cosa ne sia stato di Konradin, il cui tradimento gli fa ancora molto male al cuore. Finalmente l’occhio si posa sulla lettera H… e qui lascio al lettore di scoprire come termina la novella.
Nella sua brevissima introduzione all’edizione londinese del 1977, quella che decretò il successo internazionale de L’amico ritrovato, Arthur Koestler – scrittore e giornalista ungherese naturalizzato britannico dalla parabola umana e politica simile, benché molto più drammatica, a quella di Uhlman – definisce la novella dell’amico un capolavoro minore, specificando che l’aggettivo ”si riferisce alle dimensioni ridotte dell’opera”. Personalmente credo che l’aggettivo minore debba essere invece esteso al giudizio complessivo che si può dare della novella di Uhlman, sia per quanto concerne il suo contenuto sia per ciò che riguarda gli aspetti formali.
Ho ritrovato infatti in questa novella tutti i difetti che avevo riscontrato negli scritti di un altro scrittore tedesco di origini ebraiche costretto a fare drammaticamente i conti con il nazismo: Stefan Zweig - che peraltro come accennato Uhlman frequentò nei suoi primi anni londinesi - difetti aggravati da almeno due elementi: dal fatto che L’amico ritrovato sia stato scritto nel secondo dopoguerra, quando la riflessione sul nazismo, anche in ambito strettamente letterario, aveva già fornito prove di ben altro spessore, e dallo stile di scrittura di Uhlman, ancora più dimesso e piano (per non dire convenzionale) di quello del già moderato Zweig.
Al fondo della novella di Uhlman c’è infatti a mio avviso, analogamente a quanto accade in molte delle opere di Zweig, un’operazione di nostalgia per il mondo di ieri che si può comprendere solo tenendo presente il milieu sociale cui Uhlman/Hans apparteneva; vi ho scorto inoltre una sottile opera di rimozione delle cause del nazismo, che finisce per limitare fortemente la valenza complessiva dell’opera. Molte pagine sono spese per descrivere la dolcezza del territorio svevo, la vivacità culturale della Stoccarda dei primi anni ‘30, la dolce vita che vi si conduceva, fatta di teatri, musei e trattorie sulle colline di cui Uhlman ci descrive con puntiglio le specialità gastronomiche. Se da un punto di vista umano, considerato sia l’esilio cui l’autore fu costretto sia il fatto che quella Stoccarda fu di fatto rasa al suolo dalla guerra, la nostalgia che gronda dai primi capitoli del libro è comprensibile, non altrettanto si può dire riguardo alla sua oggettività. È infatti una nostalgia che tende a farci apparire Stoccarda e la Svevia come una sorta di isola felice in una Germania nella realtà attraversata da un drammatico scontro sociale e politico, iniziato con la sconfitta nella prima guerra mondiale, con le tremende condizioni di pace imposte dai vincitori e proseguito con la grande inflazione e quindi con i tragici effetti della crisi del ‘29, la disoccupazione di massa e le politiche di austerità del cancelliere Brüning. Di tutto questo non c’è traccia nel mondo ovattato di Hans, se non l’apparizione improvvisa di muri deturpati tanto dalle svastiche quanto dalla falce e martello, sorta di esposizione di una teoria degli opposti estremismi che non ci fa fare alcun passo in avanti nella comprensione di ciò che stava accadendo e che costituisce, come vedremo, a mio avviso una delle tesi di fondo dell’opera. Il nazismo è una malattia, che per di più viene da fuori, dalla Prussia, come emblematicamente rappresentato dal prussiano Herr Pompetzki, il nuovo professore di storia antisemita: da sottolineare che qui tra l’altro Uhlman compie (anche se non so dire quanto consapevolmente) una vera e propria operazione di rimozione, visto che la culla del nazismo non sono stati i freddi e lontani lidi baltici, ma la Baviera, assai più vicina geograficamente e culturalmente prossima al Württemberg.
Konradin von Hohenfels rappresenta, per Uhlman, il distillato di una storia millenaria fatta di gloria e di coraggio, che ci viene descritta analiticamente in uno dei primi capitoli, e che si affianca alla grande tradizione culturale tedesca, anch’essa oggetto di culto da parte del giovane Hans (per la verità accanto alla grande cultura europea). Anche rispetto agli Hohenfels e al loro retaggio storico il nazismo, di cui la novella coglie gli aspetti aberranti esclusivamente in relazione all’antisemitismo, è un fattore esterno: la prima nazista della famiglia è infatti emblematicamente la madre di Konradin, polacca, mentre il padre è più indifferente alla questione, e tradizionalmente solo preoccupato di mantenere alto il buon nome familiare. Quando poi Konradin scrive la lettera con la quale comunica ad Hans di essere diventato nazista si giustifica con la necessità di fermare il comunismo, e significativamente, a mio modo di vedere, Hans non commenta in alcun modo questa scelta, conferendole una sorta di legittimazione che ritroveremo nel finale. Traspare infatti, nei pochi passi esplicitamente politici della novella, una sostanziale equiparazione tra nazismo e comunismo, ad esempio quando Hans ricorda che la madre ”aveva troppo da fare per preoccuparsi dei nazisti, dei comunisti o di altra gente di quella risma”, locuzione che di fatto equipara i due opposti schieramenti.
In sostanza, ci dice Uhlman, esisteva una Germania colta e tollerante, della quale gli ebrei erano da secoli parte integrante, e di cui la Svevia era la punta di diamante. All’improvviso, non si sa bene perché, questa Germania felix fu infettata dai virus del nazismo e del comunismo, entrambi distruttivi seppure contrapposti, ed in qualche modo la società, anche nella sua parte più nobile, si trovò costretta a scegliere tra due mali assoluti, spesso senza rendersi conto del vero volto del nazismo, scoperto quando ormai sarà troppo tardi, come dimostra la vicenda di Konradin. Sappiamo invece come le cose siano andate in modo sostanzialmente diverso, e come le classi dominanti tedesche non si siano trovate a scegliere, ma abbiano attivamente sostenuto il nazismo come strumento per il superamento a destra della crisi e di annientamento del movimento operaio ai fini della conservazione dello status-quo economico, analogamente a quanto avvenuto in Italia una decina di anni prima.
Non sorprende quindi a conti fatti l’unanime entusiasmo con cui 'L’amico ritrovato' è stato accolto in occidente, entusiasmo del quale la quarta di copertina dell’edizione Feltrinelli da me letta dà conto citando fonti come il New Yorker, il Financial Times o Le Monde, ovvero il clou della stampa internazionale ufficiale, liberal o conservatrice: 'L’amico ritrovato' è infatti l’opera perfetta per acquietare le nostre coscienze borghesi, che ci permette di esecrare il nazismo senza fare davvero i conti con le vere cause della sua ascesa, cui non furono affatto estranee le classi dirigenti che più tardi, ma solo molto più tardi, gli si scagliarono contro per distruggerlo; anzi, va sottilmente più in là, ammiccando quasi ad una sua giustificazione di fondo, almeno iniziale, in funzione anticomunista, esattamente quella che sposarono quelle stesse classi dirigenti.
Resta da dire che anche dal punto di vista formale 'L’amico ritrovato' è un’opera minore: lo stile di scrittura di Uhlman è infatti come detto piatto e convenzionale e, a mio avviso, non riesce a trasmetterci appieno né l’atmosfera della Stoccarda anteguerra né le vere emozioni dei protagonisti, perdendosi a volte in descrizioni verbose (gli antenati di Konradin, le specialità culinarie di Stoccarda, gli oggetti delle collezioni dei due ragazzi): se da un lato la scrittura di Uhlman facilita la lettura (non per nulla Le Monde lo consiglia dai dodici anni in su) dall’altro è l’espressione formale della sensazione di superficialità che mi ha lasciato questa novella, tipica rappresentante di una buona parte della letteratura mainstream del secondo dopoguerra.
Indicazioni utili
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Una tragedia borghese che ci racconta...
... i limiti dello scrittore
Dopo La novella degli scacchi e Il mondo di ieri eccomi di nuovo alle prese con Stefan Zweig, ed ancora una volta ad esprimere le mie perplessità su questo autore peraltro tanto amato ancora oggi dai suoi lettori.
Amok è una novella pubblicata nel 1922, quando la popolarità di Zweig a livello internazionale stava crescendo, quando il suo mondo di ieri si era già sgretolato e alla durezza di quello di oggi, risultato dell’immane ecatombe bellica, l’autore opponeva l’ideale di una cultura europea salvifica, capace di unire i popoli e le nazioni che sino a pochi anni prima si erano scannati sui campi di battaglia.
Mi sono già dilungato, nei commenti alle precedenti opere di Zweig da me lette, sui limiti che attribuisco a questa sua posizione politica, a questo suo cosmopolitismo ingenuo e miope di origine altoborghese, che gli avrebbe impedito di capire ciò che realmente stava accadendo attorno a lui, ingenuità e miopia che a mio avviso si riflettono anche nel suo modo di scrivere, preciso e piano, uno stile moderato che si pone in netta opposizione allo sperimentalismo che caratterizzava le più alte espressioni artistiche di quella tumultuosa epoca di drammatici cambiamenti, uno stile che in fondo è pienamente funzionale al suo essere scrittore di successo. Leggendo Amok ho di fatto ritrovato tutti questi limiti della personalità letteraria di questo scrittore, tutta la sua inadeguatezza culturale.
Al fine di analizzare il contenuto della novella è necessario innanzitutto illustrare brevemente cosa sia l’Amok che le dà il titolo. Come già fatto rilevare da numerosi commenti alla novella, Amok è una sindrome culturale tipica del sud-est asiatico, caratterizzata da una improvvisa esplosione di violenza che spinge chi ne è colpito a uccidere prima i familiari e poi, correndo all’impazzata, tutti coloro che incontra sulla sua strada; la violenza può essere scatenata da una qualche perdita familiare o da insulti subiti. Per sindrome culturale si intende, secondo la relativa voce di Wikipedia, ”un quadro clinico che unisce disturbi somatici e psichici, con un significato particolare e tipico di un certo spazio culturale o gruppo etnico”. È proprio questo aspetto che ritengo particolarmente significativo rispetto all’interpretazione della novella, vale a dire il fatto che Zweig scelga come suo titolo una sindrome in grado di scatenare una violenza cieca, irrazionale e incontenibile che ha origine nella cultura stessa di un gruppo sociale. Cercherò di sviluppare questo punto più oltre.
La vicenda si svolge su una nave, l’Oceania, che da Calcutta sta tornando verso l’Europa. Il narratore racconta i fatti anni dopo che sono accaduti, trasportandoci nel 1912, quando viaggiò sulla nave. Dato che gli era stata assegnata una torrida cabina vicina alle caldaie, non riuscendo a dormire, in una calda e stellata notte tropicale passeggia per il ponte, sistemandosi a prua per godere della magica atmosfera notturna. Poco dopo si rende conto che nei pressi è seduta un’altra persona, di cui scorge solo il rosso della pipa accesa. I due si scambiano pochi convenevoli in tedesco, ma prima di lasciarsi lo sconosciuto prega il narratore di non rivelare la sua presenza, perché a causa di un lutto non vuole incontrare nessuno.
La notte successiva il narratore torna a prua, dove nell’oscurità ritrova il suo nuovo conoscente che, spinto dal bisogno di confidarsi ed aiutato da una bottiglia di whisky, racconta la sua tragica vicenda. Il racconto durerà sino all’alba occupando gran parte della novella.
Lo sconosciuto è un medico tedesco, che a seguito di una malversazione ha dovuto abbandonare una promettente carriera, firmando un contratto decennale con il governo olandese e trasferendosi in una piccola e remota località coloniale, dove per otto lunghi anni ha esercitato la sua professione isolandosi sempre più anche rispetto ai pochi europei, inaridendosi e aspettando solo di poter tornare in Europa, traendo conforto dal whisky e dagli occasionali rapporti con le donne del luogo che si concedono facilmente ai bianchi.
Un giorno riceve la visita di una gran signora giunta in automobile dalla lontana città, che con fare altero e sprezzante gli fa capire di essere incinta e gli chiede di farla abortire, offrendogli una somma rilevante come compenso per il reato. Colpito dalla bellezza della signora, immaginando la sua sensualità, volendo umiliare la sua alterigia ed eccitato dall’avere vicino dopo anni una donna bianca, il medico le lascia intendere che avrebbe praticato l’operazione solo in cambio di un rapporto sessuale. Sdegnata, la donna rifiuta e se ne va, inutilmente inseguita dal medico, subito pentitosi dalla sua proposta indecente.
Venuto a sapere che la signora è la la moglie inglese di un ricchissimo commerciante olandese, in Europa da cinque mesi e in procinto di tornare, il medico capisce il pericolo di essere quantomeno disonorata che la signora corre, e da quel momento si pone l’unico obiettivo di salvarla, mettendosi a sua disposizione. Corre quindi in città abbandonando la sua condotta e cerca di rimettersi in contatto con la signora. A causa sia del suo essere maldestro nei tentativi di contatto sia dell’odio che la signora prova per chi ha cercato bassamente di approfittare della sua situazione, vi riesce solo dopo che la signora è ricorsa ai servigi di una mammana, non potendo tuttavia salvarla dalla morte per emorragia. Prima di morire la signora gli chiede di fare in modo che nessuno conosca le cause della morte, così, quando il marito torna, egli è riuscito a far stilare dall’ufficiale sanitario un certificato che ne attesta la morte per paralisi cardiaca. Sconvolto da ciò che è accaduto e dal senso di colpa il medico abbandona tutto ciò che ha e si imbarca sull’Oceania, dove però scorge il marito della signora e il carico della bara nella stiva: sospettando che il marito voglia fare eseguire una autopsia sulla salma della moglie in Europa, sa che il suo compito, preservare l’onore della morta, non è ancora terminato, ed anche per questo motivo si arrovella di notte in compagnia della bottiglia. Il lungo racconto del medico come detto si conclude all’alba, e la novella avrà il suo tragico epilogo dopo poche pagine.
Per alcuni dei commenti che ho reperito in rete, quelli più critici, Amok ha i tratti del melodramma, ed in effetti il fatto che si tratti di una vicenda di adulterio che si conclude tanto tragicamente avvicina la novella a tematiche ottocentesche e le conferisce un’aura melodrammatica. Si tenga presente, al proposito, che Zweig in quel periodo era, come detto, uno degli scrittori europei più letti, un autore in un certo qual modo di cassetta, e la necessità (o l’intento) di rivolgersi ad un pubblico vasto era parte integrante della sua scrittura: quale modo migliore di rispondere a questa necessità che far leva sugli elementi classici del dramma borghese? La donna di classe, altera e superba, tragica vittima di un momento di debolezza, pronta a difendere il suo onore personale e sociale di fronte a tutto e a tutti, pronta a sacrificare la sua stessa vita pur di non perdere il suo status è una sorta di eroina negativa in grado indubbiamente di toccare corde profonde dei lettori dell’epoca (ed anche di quelli di oggi). Lo stile stesso di scrittura, che come detto è quello tipico di Zweig, nel quale la convenzionalità si traduce anche nell’inutile enfasi con la quale viene descritta la notte tropicale, come pure nell’impacciato modo di rendere le esitazioni e l’angoscia che caratterizzano il racconto del medico, concorre a darci l’idea di un racconto scritto con l’occhio attento al suo successo al botteghino.
Al netto di questo, tuttavia, la novella è a mio modo di vedere costruita in modo tale da rivelare facilmente il suo essere pienamente immersa nel novecento, ed in particolare in quel drammatico periodo che seguì, specie nei paesi sconfitti, la fine della prima guerra mondiale, con la perdita di ogni certezza sociale ed anche individuale, con la consapevolezza del tradimento delle classi dirigenti che avevano provocato la catastrofe, con l’incapacità di costruire una prospettiva diversa da un lugubre ritorno all’ordine che avrebbe preparato di lì a poco una seconda catastrofe.
Come ho affermato più volte, Zweig vive oggettivamente da protagonista questo clima, ma è inadeguato a comprenderlo, si rifugia nel suo elitarismo altoborghese, ha nostalgia di un mondo di ieri nel quale è stato inoculato il virus del disordine e della confusione, nel quale per motivi imperscrutabili la barbarie ha preso il sopravvento. Molti elementi di questa visione del mondo a mio avviso traspaiono dalla vicenda narrata in Amok, quando la si guardi come una piccola metafora delle vicende europee dell’inizio del ‘900.
Prendiamo lo spunto da alcuni dati oggettivi ripercorrendo la vicenda e chiedendoci innanzitutto perché Zweig la ambienti in un mondo lontano ed esotico. In fondo la piccola storia di un adulterio avrebbe potuto essere più semplicemente ambientata a Vienna o in una qualsiasi città europea. La risposta più ovvia a questa domanda attiene alla necessità dello scrittore popolare di conferirle un’aura esotica così da renderla intrinsecamente più attraente. Forse però vi è un motivo più sottile: questa ambientazione, paradossalmente, permette a Zweig di dare alla vicenda una connotazione pienamente Europea. Il medico è tedesco, la signora è inglese ed ha sposato un olandese. Tre nazioni, delle quali due nemiche ed una neutrale, quindi gli schieramenti della guerra appena conclusa riassunti nei due protagonisti assoluti. È evidente che una ambientazione austriaca o in generale europea avrebbe reso più ardua una simile internazionalità dei protagonisti rispetto alla libertà che offre all’autore l’ambiente coloniale.
In tale ambiente remoto si svolge un dramma che riguarda l’élite sociale. I due protagonisti mancano entrambi ai loro doveri: il medico è stato un truffatore, e di fronte alla richiesta di aiuto della signora di fatto la ricatta; la signora si è macchiata di una colpa che pensa di cancellare con il denaro, facendo così trasparire da un lato la sua venalità e dall’altro il suo disprezzo per il medico che ritiene certa di poter comprare.
Il medico è quindi preso dall’Amok, una frenesia distruttiva che lo porta a sbagliare tutte le mosse, a perseguire la sua redenzione avvalendosi di mezzi stupidi, che non fanno che peggiorare la situazione e rendere inevitabile la tragedia: esemplare, a questo proposito, il suo comportamento durante il ricevimento, quando i tentativi di avvicinare la signora non fanno altro che allontanarla definitivamente, essendo socialmente disdicevoli. L’amok di cui egli è preda è una malattia, anzi è una sindrome culturale, come abbiamo visto, di cui il medico si libererà solo quando, troppo tardi, proverà a curare la signora, devastata dall’intervento della mammana.
La novella quindi, a mio avviso, può anche essere letta come una metafora della sindrome culturale che ha colpito l’Europa e che ha portato alla guerra, imputata da Zweig al venir meno da parte delle classi dominanti ai propri doveri morali, e la piccola tragedia privata con la quale si conclude può essere intesa come l’unica conseguenza possibile di tale tradimento.
Avvalorano questa possibile interpretazione alcuni ulteriori elementi: innanzitutto il fatto che la vicenda si svolga nel 1912, vale a dire nel periodo precedente la guerra. L’amok che colpisce il medico non sarebbe altro, in questa ottica, che il prodromo del grande Amok che avrebbe di lì a poco colpito tutti i popoli europei. Vi è poi il fatto che il racconto si svolga su una nave, ambientazione che significativamente Zweig avrebbe ripreso nel suo ultimo racconto, La novella degli scacchi. In questo caso l’Oceania, che torna verso l’Europa, simboleggia il ritorno alla normalità delle relazioni e della vita dopo la malattia della guerra, che emblematicamente viene chiusa definitivamente in quello che può essere considerato, tanto più dal mitteleuropeo Zweig, un luogo di avvicinamento all’Europa come il porto di Napoli.
In definitiva a mio avviso questa novella, considerato il periodo in cui è stata scritta, intende raccontarci qualcosa di più della tragedia privata, peraltro piuttosto banale, che ci espone. Se ciò, vista anche la limitatezza dell’indagine psicologia dei personaggi, attiene come ritengo alla tragedia che aveva attraversato l’Europa, esso è gravemente condizionato da ciò che considero la inadeguatezza intellettuale dell’autore, per il quale una sorta di oscura ed irrazionale malattia esotica ha colpito la borghesia europea portandola sull’orlo dell’autodistruzione. Zweig insomma non è in grado di trasporre nella sua arte le vere cause della tragedia, rifiutandosi ostinatamente, da buon borghese moderato, di ammettere che le cause della crisi non stavano nella degenerazione ma nella stessa essenza dei rapporti economici e sociali.
Resta da aggiungere che nella novella mostra la sua vera natura anche il solidarismo cosmopolita dell’autore, che appare limitato alla cerchia dell’intelligencijia europea e della borghesia di cui è parte: il modo in cui il buon Zweig tratta i pochi personaggi indigeni (il boy della signora, la mammana) che appaiono nella vicenda rasenta il razzismo, rendendo perfettamente l’idea di quale fosse l’unico mondo per lui degno d’interesse e considerazione. Così Amok finisce innanzitutto per raccontarci gli invalicabili limiti culturali del suo autore.
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L’altra metà di Simenon
La sterminata produzione letteraria di Georges Simenon è ancora oggi, nel nostro immaginario collettivo, indissolubilmente legata alla figura del suo più celebre personaggio, il commissario Jules Maigret. Già a partire dagli anni ’30, però, Mondadori aveva iniziato a pubblicare un buon numero degli altri romanzi di Simenon, pubblicazione che era proseguita sino agli anni ’60. È però essenzialmente merito di Adelphi se, da circa trent’anni a questa parte, l’autore belga è uscito dalla qualifica di scrittore di genere cui lo aveva relegato l’ingombrate successo del commissario parigino, per divenire uno scrittore a tutto tondo anche a gli occhi del pubblico italiano: sono ormai una cinquantina infatti i romanzi senza Maigret ad oggi pubblicati dall’editore milanese nella prestigiosa collana Biblioteca Adelphi, e la lista continua ad allungarsi.
Uno dei primi romanzi che ha segnato la ripresa di interesse per Simenon è questo 'Le finestre di fronte', edito nel 1985 in una nuova traduzione rispetto all’edizione mondadoriana del lontano 1934, (il cui titolo, con una traduzione più letterale di quella originale, era 'Quelli di fronte'); dell’edizione Adelphi ho letto la versione, sicuramente più povera quanto a veste editoriale ma identica quanto a contenuto, stampata su licenza da Bompiani qualche anno dopo.
L’edizione originale di 'Le Gens d’en face' risale all’autunno del 1933: Simenon pochi mesi prima ha compiuto un viaggio nel sud dell’URSS, soggiornando a Odessa, circumnavigando il Mar Nero e rientrando via Istambul. Ha trovato una situazione nella quale la carestia, causata da fattori ambientali ma soprattutto dalle tragiche scelte di Stalin, ha ridotto buona parte della popolazione alla fame. Sono infatti gli anni della collettivizzazione forzata delle campagne, dell’annientamento dei kulaki in quanto classe deciso da Stalin; milioni di capi di bestiame sono stati abbattuti per non consegnarli allo Stato, i raccolti di grano dell’Ucraina e delle altre regioni cerealicole dell’URSS sono andati in gran parte perduti per la siccità e la disarticolazione del sistema produttivo. Soffrono soprattutto le popolazioni sud-occidentali dell’Unione Sovietica, tra cui quelle affacciate sul Mar Nero. Chiaramente Simenon non ha un quadro complessivo della situazione – la portata della carestia e le sue reali conseguenze si conosceranno solo negli anni della glasnost gorbachoviana – e neppure ne conosce compiutamente le cause, ma si trova di fronte ai segni tangibili di una tragedia, che descrive e interpreta sia con il reportage 'Peuples qui ont faim', che uscirà nel 1934, sia con questo romanzo.
Le finestre di fronte narra le vicende di Adil bey, giovane console della Repubblica Turca a Batum (Batuni), importante porto oggi in Georgia. La città dista pochi chilometri dal confine turco, ed all’epoca era il terminale dei pozzi petroliferi della regione caucasica circostante, dati in concessione alla compagnia statunitense Standard Oil. Adil bey giunge a Batum perché il suo predecessore è improvvisamente morto, per cause non conosciute. Nella città è completamente solo: ci sono altri due consolati, quello di Persia e quello italiano, ma il diplomatico italiano non nasconde il suo disprezzo per la Turchia e quello persiano è dedito a loschi traffici di contrabbando: entrambi inoltre lo considerano uno sciocco. Egli quindi si rinchiude nella squallida dimora consolare, dove riceve chi si rivolge a lui, per lo più contadini e poveracci di origine turca che vogliono tornare in patria (la regione, musulmana, sino alla fine della prima guerra mondiale apparteneva all’Impero Ottomano) o che gli sottopongono questioni che egli non è in grado di risolvere. È assistito da Sonia, una giovane segretaria russa messagli a disposizione dalle autorità sovietiche. La sera esce a passeggiare verso il porto, in una città sporca, dove l’elettricità viene tolta a mezzanotte, senza negozi e senza locali, nella quale la gente lo evita, dove sembra di fatto non esistano relazioni sociali, dove il degrado e la miseria si sommano ad un clima di indifferenza e paura collettiva.
Dalla sua camera senza tende vede una finestra del palazzo vicino, alla quale si affaccia spesso una giovane coppia,che a volte sembra osservarlo. Scopre in breve che si tratta del fratello di Sonia, membro della GPU portuale, e della moglie, e che anche Sonia dorme in quella stanza, parte di una kommunalka, un appartamento collettivo.
La realtà in cui vive lo deprime sempre più: scopre la cronica penuria di viveri, i poveri salari che a malapena permettono agli abitanti di vivere, la miseria di chi è costretto a cercare cibo nell’immondizia, mentre chi possiede valuta straniera può trovare ogni sorta di merce nei Torgsin, bere champagne e trovare prostitute nel locale notturno per soli stranieri. Scopre anche il volto oscuro ed ambiguo del potere sovietico, che dietro una formale cortesia non dà mai risposta alle sue richieste di diplomatico, che gli sequestra i dischi che ha fatto arrivare da Istambul perché ”alcuni erano in spagnolo e in città nessuno parla spagnolo”, che – come gli fanno capire i suoi colleghi diplomatici – controlla tutto tramite una fitta rete di spie. Subisce, di fatto, una relazione con la disinvolta moglie del console persiano. Il rapporto con Sonia è più complesso: la segretaria è una convinta sostenitrice del regime, e ha una risposta pronta e ufficiale a tutte le obiezioni che Adil bey le fa riguardo alle condizioni materiali di vita in città. Adil bey rimane affascinato dalla minuta e scialba Sonia, sino a giungere ad essere geloso per il fatto di averla vista in compagnia di un giovane e di avere notato che quella notte non era rientrata nella sua stanza a dormire: poco dopo Sonia diviene la sua amante.
Intanto però Adil bey inizia a sentirsi spossato, a non dormire la notte, a sudare copiosamente: sospetta di essere vittima di un lento avvelenamento e da alcuni indizi ritiene che la sua avvelenatrice sia Sonia, che presume essere una spia al servizio del potere sovietico.
Il romanzo è quindi strutturato come una sorta di poliziesco, nel quale la suspense gioca un ruolo importante, ed è indubbio che l’autore intendesse rivolgersi ad un pubblico vasto e popolare, catturando la sua attenzione con una sapiente architettura quasi da giallo.
Le finestre di fronte è però al contempo un’opera molto sfaccettata, densa come lo sono tipicamente le opere di Simenon, autore di razza che riesce, avvalendosi di una prosa scarna e da molti giudicata limitata, ad accumulare strati narrativi che conferiscono a questo romanzo un indubbio spessore.
Simenon, il cui giudizio complessivo sull’esperienza sovietica è indubbiamente condizionato da un viscerale anticomunismo, ha tuttavia il merito di fare entrare il lettore nell’atmosfera ad un tempo cupa, tragica e decomposta rispetto agli entusiasmi post-rivoluzionari, che caratterizza gli anni del consolidamento della leadership di Stalin e che precedono il periodo delle grandi purghe della seconda metà degli anni ’30; per fare ciò si affida ad una serie di piccole notazioni, quasi certamente derivanti dalla sua esperienza diretta, volte a definire il quadro di un contesto ambientale desolato, nel quale le persone si muovono quasi come fantasmi. La città di Batum diviene così la grande protagonista della storia, l’espressione prima, concreta, della distanza tra l’ufficialità del regime e la realtà quotidiana. Un elemento significativo in questo senso sta proprio, a mio parere, nella scelta di questa città come luogo dell’azione: Simenon durante il suo viaggio aveva visitato città senza dubbio più importanti e conosciute, in primis Odessa, eppure sceglie di ambientare il romanzo nella semisconosciuta Batum, proprio perché è suo interesse descriverci l’estrema periferia dell’impero, dove la rivoluzione non è stata fatta, ma in qualche modo si è sovrapposta ad un mondo antico, affatto diverso per storia e cultura rispetto a quello di Mosca o Pietrogrado. La Batum descritta da Simenon è di fatto una città morta, di più, una non-città nella quale i soli punti di riferimento sono il porto, in cui stazionano le poche navi straniere che caricano il petrolio, la statua di Lenin – descritto come un ometto qualunque – e la casa dei sindacati. Le altre parti della città sono solo vicoli sporchi e scuri, in cui scivolano le ombre degli abitanti, spesso descritti con tratti quasi caricaturali, con teste rasate e vestiti logori. Anche il clima contribuisce a definire questo senso di desolazione e di disagio: Batum è sempre troppo calda o troppo fredda, spesso piove a dirotto, e mai il protagonista vi si trova a suo agio. I rari elementi naturali, quali il mare, sono sempre descritti come sporchi, in qualche modo contaminati dalla miseria della città. Nel romanzo abbondano poi metafore e immagini che acuiscono il senso di sospetto e di desolazione che lo caratterizzano: le finestre di fronte del titolo, dalle quali gli altri possono osservare la vita delle persone sin negli aspetti più intimi, chiara metafora della capillarità poliziesca del potere staliniano, oppure l’immagine forte del cavallo morto che Adil bey incontra in una delle sue solitarie passeggiate cittadine. Vi è anche la descrizione di due momenti ufficiali, un funerale all’inizio del romanzo e le manifestazioni per l’arrivo in rada di unità della flotta militare, che servono a Simenon per rimarcare la distanza che a suo modo di vedere queste cerimonie hanno assunto rispetto ad analoghi riti del mondo occidentale.
In questa non-città Adil bey incontra solo personaggi ostili o ambigui, la cui ambiguità non è in molti casi sciolta dall’autore, che pur narrando in terza persona rinuncia ad essere onnisciente per consegnarci una storia della quale molti lati rimangono oscuri. Così non sapremo mai il ruolo effettivamente giocato nelle vicende da John, l’americano addetto commerciale della Standard Oil, e possiamo solo intuire chi sia veramente Nejla, la moglie del console persiano. Ma soprattutto non sapremo mai veramente se Sonia fosse realmente una spia e quale effettivamente sarà il suo destino.
Il personaggio di Sonia (il cui nome Simenon mutuò da quello della sua guida russa durante il viaggio e, conoscendo i suoi rapporti con le donne, c’è da credere che non abbia mutuato solo il nome…) è insieme a Batum il vero protagonista del romanzo, che l’autore caratterizza conferendole una carica di ambiguità risultato delle diverse pressioni cui è drammaticamente sottoposta: la pressione di un potere pervasivo che penetra sin nella sua famiglia, nel quale tuttavia da un certo punto di vista ella crede e di cui (forse) è complice, contrapposto alla pressione data dall’evidenza dell’incommensurabile distanza tra gli slogan e la realtà. Sonia non può sopportare che Adil bey le sbatta in faccia la realtà delle cose, e finché può reagisce rifugiandosi dietro il muro delle risposte ufficiali, rifiutandosi di confrontarsi davvero con la realtà; più tardi, quando questo muro difensivo si sgretola, non può che cercare di annientare chi lo ha sgretolato, perché il dolore e la rabbia che prova per ciò che finalmente non può non vedere è insopportabile, ma anche a causa del sentimento di sufficienza e superiorità con cui Adil bey tratta lei e il mondo in cui vive. Il sentimento di amore/odio che Sonia nutre per Adil bey è speculare al sentimento di amore/odio che nutre per la società in cui vive, capace di suscitare gli ideali più gloriosi per tradirli del tutto nella quotidianità. Sonia è quindi il personaggio nel quale si amalgamano più drammaticamente i due piani principali lungo i quali è costruito il romanzo: quello più propriamente politico, di descrizione dal di dentro della realtà di miseria di quella parte dell’URSS, che per Simenon diviene occasione di denuncia del modello, e quello più legato alle conseguenze esercitate da quella realtà sui singoli, sui loro sentimenti, sulla loro vita: in ciò, nella fatica che fa il lettore a comprendere ed accettare la psicologia di Sonia, costretta a tentare di uccidere le cose che ama, è a mio avviso il punto più alto del romanzo, e non a caso Adil bey inizia ad amare davvero Sonia proprio nel momento in cui lei gli confessa di avere cercato di avvelenarlo.
'Le finestre di fronte' è quindi qualcosa di più e di diverso di un romanzo di denuncia delle condizioni di vita nella periferia dell’URSS dei primi anni ’30. Azzardando un improbabile confronto, si può dire che riveli strane affinità con il grande romanzo che Boris Pasternak scriverà qualche decennio dopo; è infatti anche una drammatica storia d’amore, nella quale Simenon è riuscito a scavare, avvalendosi della sua prosa scarna, nella coerente contraddittorietà dell’animo umano, vittima del rapporto inestricabile tra ciò che lo circonda e ciò che sente dentro di sé, donandoci il piccolo, grande, enigmatico personaggio di Sonia, il cui mistero resta impresso nella mente del lettore, mentre lo stupido Adil bey, sulla nave che lo riporta in Turchia, già non riesce più a pensare a lei.
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Distopie a confronto: Nabokov versus Kafka
Il lettore di Invito a una decapitazione, romanzo scritto da Vladimir Nabokov nel 1934, è in genere portato a scorgervi chiari rimandi ai due principali romanzi di Franz Kafka, Il processo e Il castello, entrambi editi una decina di anni prima. Troppo evidenti appaiono alcune analogie tra il romanzo di Nabokov e le opere kafkiane: dall’ambientazione – una impenetrabile fortezza alta su una collina, isolata dalla città, simbolo di un potere oscuro e crudele – alla imperscrutabilità delle accuse mosse al protagonista, alla sua condanna a morte, alla scelta di dare allo stesso un nome seguito dalla sola iniziale del cognome.
Tuttavia, nella prefazione alla edizione statunitense del libro, tradotto dal figlio Dimitri sotto la supervisione dell’autore e pubblicato nel 1959, Nabokov nega qualsiasi ascendenza direttamente kafkiana del suo romanzo, ricordando che all’epoca della sua scrittura: ”… non conoscevo il tedesco, ignoravo del tutto la letteratura tedesca moderna, e non avevo ancora letto traduzioni, francesi o inglesi, delle opere di Kafka.” Poco più avanti, negando di credere all’esistenza di affinità spirituali tra autori, ammette però che se dovesse indicare uno spirito affine a questa sua opera la sua scelta cadrebbe su Kafka, piuttosto che su G.H. Orwell (altro autore cui Invito a una decapitazione è stato spesso associato) ”… o su altri popolari dispensatori di idee illustrate e di narrativa dal taglio pubblicistico.”
Oltre all’implicito giudizio negativo che Nabokov esprime su Orwell, queste frasi – se accettiamo quanto in esse affermato – ci restituiscono l’affascinante idea che due grandi scrittori, diversissimi l’uno dall’altro per radici culturali e modalità di produzione letteraria, abbiano in qualche modo immaginato la medesima metafora di fondo per descrivere la società in cui vivevano e l’oppressione che essa esercitava sul sentire e sulle aspirazioni degli individui, per trasmetterci il senso di angoscia, solitudine, impotenza e incomunicabilità in cui il singolo si trovava immerso in Europa nei primi decenni del XX secolo.
Se molte sono le analogie, altrettante però sono le diversità che possono essere rinvenute. Nabokov scrive il suo romanzo come detto nel 1934, per di più a Berlino. Da più di dieci anni abita nella capitale tedesca, frequentando attivamente – non senza contrasti – i circoli dell’emigrazione russa, di cui ci offre un vivido ritratto ne Il dono, vero manifesto della sua identità intellettuale, opera che interromperà momentaneamente proprio per scrivere Invito a una decapitazione. Il suo viscerale antibolscevismo, il suo rifiuto di matrice liberale dell’esperimento sovietico ha avuto quindi modo di arricchirsi drammaticamente dell’esperienza diretta dell’ascesa di un nuovo totalitarismo, quello hitleriano, ormai trionfante nella Germania del 1934. A differenza che in Kafka, per il quale il contrasto tra l’individuo e la società moderna è in qualche modo insanabile, essendo connaturato alle assurde ed alienati regole di quest’ultima, per Nabokov bolscevismo e nazismo sono due aberrazioni, cui si può contrapporre, come vedremo, l’arma della libertà interiore ma anche quella di altri modelli sociali, nei quali tale libertà interiore non sia conculcata e repressa. Da questa differenza sostanziale ne consegue un’altra, a mio modo di vedere non meno importante, che si riflette direttamente sullo stile, sul tono generale del romanzo di Nabokov quando lo si confronti con quello dei capolavori kafkiani. In Kafka l’assurdità, l’imperscrutabilità delle regole e dei comportamenti con cui il potere si materializza è resa attraverso la loro normalità, la loro descrizione piatta e in qualche modo asettica, il fatto che essi non vengono mai messi in discussione. È in questo modo che Kafka dota le sue opere di una potenza inaudita: se il potere, le assurde regole che lo connotano e che egli ci descrive non hanno alternative, allora queste rappresentano la normalità, e chi cerca di opporvisi e ne è vittima è anormale, in qualche modo portatore di una inaccettabile e inutile eccentricità. Kafka nelle sue opere ribalta il senso comune per farci meglio percepire la forza coercitiva dei meccanismi del potere e la loro capacità di generare alienazione. All’opposto in Invito a una decapitazione, come detto, l’alternativa esiste, ragion per cui l’autore può limitarsi a proporci uno schema narrativo classico: il protagonista , che al pari di Josef K. o dell’agrimensore K. è la vittima, lo è però di un particolare sistema di potere, che noi possiamo subito riconoscere come cattivo anche in virtù della rappresentazione che ce ne dà lo scrittore. Per poter approfondire questo aspetto, che ritengo dirimente al fine di collocare in una giusta prospettiva il problema del rapporto tra il romanzo di Nabokov e le opere di Kafka, è però necessario a questo punto accennare, sia pur per sommi capi, alla trama di Invito a una decapitazione.
Il romanzo si apre con la condanna a morte del protagonista, Cincinnatus C., un insegnante trentenne, a causa della sua turpitudine gnostica e del suo essere opaco rispetto alla traslucidità delle altre persone, i cui pensieri si fanno attraversare dalla sollecitudine pubblica. Cincinnatus è stato un diverso sin dall’infanzia: figlio illegittimo, non ha conosciuto i suoi genitori, è cresciuto in solitudine, amando la letteratura russa del XIX secolo (Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj), e sposando intorno ai vent’anni la volgare Martha, che lo tradisce continuamente, avendogli dato tra l’altro due figli non suoi, ma che lui continuerà ad amare appassionatamente. La sua diversità lo porterà ad essere denunciato e quindi alla condanna.
Cincinnatus viene trasferito in una cella della fortezza cittadina, dove nessuno gli dice quando la sentenza sarà eseguita. Il grottesco direttore del carcere, che apparentemente si prodiga per rendere gradevole il soggiorno del protagonista, gli fa conoscere un altro detenuto, M’sieur Pierre, che cerca di divenire amico di Cincinnatus con giochi e battute e scavando nella sua intimità. Cincinnatus però diffida dei due, palesemente in combutta, e passa il tempo in silenzio, leggendo e scrivendo sui pochi fogli che ha a disposizione, angosciato di non sapere quando la sua vita avrà fine. Dopo pochi giorni riceve la visita della moglie, che però si presenta accompagnata da tutta la famiglia e del nuovo amante: il tanto atteso incontro con Marthe si risolve perciò in un nuovo dolore per Cincinnatus.
Una sera percepisce il rumore di qualcuno che sta scavando un cunicolo dietro le pareti della cella, e ritrova la speranza di poter essere salvato. I rumori si avvicinano sempre di più, ma quando il muro della sua cella cede dal cunicolo escono il direttore e M’sieur Pierre, che hanno inteso unire in questo modo le celle dei due detenuti. Cincinnatus trova comunque un varco nel cunicolo che lo porta fuori dalla fortezza, ma Emmie, la piccola figlia del suo carceriere, lo riaccompagna al suo interno.
Infine il giorno dell’esecuzione viene fissato: M’sieur Pierre si rivela essere il boia, che per una legge umanitaria deve divenire amico del condannato perché questi non venga decapitato da uno sconosciuto. Nel finale aperto la soluzione del dramma di Cincinnatus evoca la possibilità di un crollo del sistema che lo ha condannato e dell’esistenza di un altrove dove … c’erano esseri simili a lui.
Questi elementi della storia ci consegnano un romanzo a mio avviso dotato di un tasso di convenzionalità sconosciuto alle opere di Kafka, e che per molti versi, checché ne pensasse l’autore, lo avvicinano più alle opere di un autore come Orwell che a quelle dello scrittore praghese. Intendiamoci, la mia non vuole essere una stroncatura di un romanzo senza dubbio molto bello e che fa riflettere a fondo anche su aspetti del totalitarismo non scontati (tanto più nel 1934), quali il conformismo degli individui e delle masse, ma intende essere un piccolo, e del tutto personale, contributo all’analisi comparata della distopia in Nabokov e Kafka.
In questo senso credo davvero che dirimente sia la prospettiva politica nella quale si colloca Nabokov, che con Invito a una decapitazione vuole da un lato descriverci l’essenza, ma anche la stupidità, del totalitarismo (sovietico o nazista non credo faccia molta differenza in questa sede, anche se personalmente avrei molto da dire sulle differenze tra i due sistemi), e dall’altro indicarci comunque una possibile via di fuga basata sulla coscienza individuale e soprattutto intellettuale.
Nella caratterizzazione dei tratti essenziali dei membri della società di cui Cincinnatus C. è vittima abbondano, verrebbe da dire inevitabilmente, tratti caricaturali e satirici, che spesso traggono origine dalla grande tradizione russa (Gogol’, per citare l’esempio più eclatante) sapientemente mescolati con la lezione espressionista assimilata da Nabokov per esperienza diretta. Così, nel primo capitolo ci viene detto che il pubblico ministero e l’avvocato difensore del processo al protagonista erano ”… entrambi truccati e molto somiglianti tra di loro (la legge richiedeva che fossero fratelli uterini, ma non sempre era possibile, e allora si ricorreva al trucco) …”: quale modo più conciso ed efficace di descrivere una giustizia a senso unico? Un passo ci informa che, costruita una biblioteca galleggiante sul fiume, ci si accorse che i libri si inumidivano, cosìché le autorità provvidero a … deviare il fiume. Gli effetti satirici raggiungono sicuramente l’acme nelle due figure di Rodrig Ivanovi?, il direttore della prigione, e M’sieur Pierre, molto caratterizzati anche dal punto di vista fisico e il cui compito è quello di trascinare il protagonista verso una resa incondizionata della coscienza, attraverso l’uso sapiente veri e propri atti di tortura psicologica mascherati da atteggiamenti amichevoli ed applicazione di norme volte apparentemente a garantire i diritti del condannato. Si tratta forse dei due personaggi più riusciti del romanzo, nei quali Gogol’ e l’espressionismo, superficie clownesca e crudeltà di fondo sono amalgamate in una miscela irresistibile. Sicuramente più convenzionale è la figura della moglie Martha, che nelle sue brevi apparizioni è connotata come interessata solo ai suoi amori e al fatto che la disgrazia del marito non si riverberi su di lei. Questa sua preoccupazione è comunque condivisa da tutta la famiglia, che si reca in visita a Cincinnatus in una scena dai tratti quasi felliniani, divenendo il paradigma di quel conformismo sociale che è l’humus indispensabile di ogni totalitarismo ma anche, potremmo dire con il senno di oggi e sicuramente discostandoci in questo dal pensiero di Nabokov, della perpetuazione dei meccanismi del potere al di là dell’aspetto formale che questo assume.
Se questi, assieme a molti altri rinvenibili nel romanzo, sono i punti focali della critica sociale di Nabokov, ad essi l’autore contrappone la figura di Cincinnatus, lo gnostico, l’illuminato, colui che sa, e che quindi, pur tra mille paure, angosce e tentennamenti mantiene dritta la barra della sua coscienza e non cede alle lusinghe e alle minacce del potere. Egli deve la sua vita alla sua mente e al suo pensiero, tanto che una sera in cella può pensare di smontare il suo corpo, descritto peraltro come minuscolo e insignificante. Lo sdoppiamento di corpo e pensiero, la superiorità indiscussa di quest’ultimo, la possibilità di rimanere intellettualmente integri nonostante l’aggressione esterna sono il portato concreto, in questo romanzo, della concezione aristocratica dell’intellettuale tipica di Nabokov, che ritroviamo espressa in dettaglio nel lungo scritto/confessione di Cincinnatus che occupa il capitolo 8 del romanzo. Essa è come detto la sola via di fuga dalla società totalitaria che l’autore ci indica, come diverrà ancora più chiaro nel finale, non essendovi per lui alcuna possibilità di una presa di coscienza e di una azione collettiva, anzi aborrendo egli tutto ciò che ha a che fare con la collettività.
La distopia di Nabokov in Invito a una decapitazione è a mio avviso una distopia doppiamente minore rispetto a quelle kafkiane (ammesso che nel caso dei grandi romanzi e racconti di quest’ultimo si possa parlare in senso stretto di distopia). Essa mette infatti a nudo i meccanismi della società totalitaria, lasciando però trasparire che un altro mondo è possibile, cosa invece sconosciuta nell’universo kafkiano: basterà per rendersene conto confrontare il finale di Invito a una decapitazione e quello de Il processo: alla grande scenografia di cartapesta dell’esecuzione di Cincinnatus, con la sua folla e il crollo finale si contrappone la crudele intimità, l’ineluttabilità minimalista della fine di Josef K., che lascia tutto come prima. Come logica conseguenza di ciò, la distopia presentataci in Invito a una decapitazione non assume un carattere universale: se Cincinnatus in una società diversa non sarebbe sicuramente stato processato e condannato, possiamo dire che il destino di Josef K. sarebbe rimasto sempre lo stesso, perché per Kafka il problema di indicarci una società diversa semplicemente non esiste. Kafka non si fa paladino del liberalesimo aristocratico che informa la visione del mondo di Nabokov, e ciò che scrive mantiene intatta la sua validità anche rispetto alla società dell’oggi, falsamente democratica.
In conclusione, a mio avviso, sono anche queste differenze di fondo che ci permettono di apprezzare un ottimo libro come Invito a una decapitazione ma di tenerlo distinto, quanto a valore assoluto, dai capolavori di Kafka.
Indicazioni utili
Il Processo e il Castello di F.K.
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L’ideale dell’ostrica a Brooklyn
Bernard Malamud è considerato uno dei padri della letteratura ebraico-statunitense del secondo dopoguerra, accanto a nomi come Saul Bellow, Norman Mailer, J.D. Salinger e altri, cui seguirono autori ancora attivi quali Philip Roth, Chaim Potock e Paul Auster, tanto per citare i più noti.
Tra la fine degli anni ’40 e il decennio successivo gli Stati Uniti vissero, in seguito alla vittoria della guerra e a tutto ciò che questo comportò in termini economici, lo straordinario boom che avrebbe cambiato per sempre la società: furono anni in cui venne confezionato il sogno americano di una nazione in grado di offrire a tutti una possibilità. Questo sogno era però basato, esattamente come ora, sull’esaltazione della competizione, sulla colpevolizzazione e sull’abbandono di chi non ce la faceva, oltre che sull’instillazione scientifica della paura del diverso, soprattutto del comunista, al fine di esercitare un rigido controllo politico volto a estirpare qualsiasi voce che mettesse in discussione seriamente il sistema.
Anni esaltanti, per certi versi, ma anche crudeli per una parte non indifferente della popolazione. Il disagio sociale e esistenziale che quel modello di società – in tumultuosa evoluzione e basato su un darwinismo sociale appena mitigato dalle nascenti politiche di welfare – creava, colpiva maggiormente quelle componenti del melting pot provenienti da aree diverse e legate a tradizioni culturali non identificabili con quella dominate, di matrice anglosassone.
Non è un caso, quindi, che proprio in questo periodo – dopo sporadici antefatti quali 'Chiamalo sonno' di Henry Roth (1934) o le opere di Nathanael West – si sviluppi una specifica letteratura ebraico-statunitense i cui autori, quasi sempre emigrati o figli di emigrati dall’Europa, hanno in comune il tema dell’analisi delle contraddizioni che la società nordamericana apre rispetto all’essere ebreo, tema esplorato ovviamente a partire dalla diversa sensibilità e con le svariate modalità espressive di ogni autore. Ovviamente il fatto che questa generazione di autori si trovi a scrivere pochi anni dopo la shoah non è irrilevante nel determinare il tono complessivo della loro opera.
Bernard Malamud si inserisce in questa corrente narrativa con una propria, pacata specificità. La sua opera, fatta di alcuni romanzi e numerosi racconti, non presenta la profondità analitica di Saul Bellow o la visionaria violenza di Norman Mailer: si caratterizza piuttosto per un realismo desolato che rifiuta qualsiasi sperimentalismo espressivo e mette in scena attraverso una prosa piana e attenta ai dettagli storie di ordinaria solitudine e desolazione, storie di vinti dalla società ma anche storie di possibilità di una redenzione, legata per lo più al riconoscimento e all’accettazione della propria condizione.
In questo senso 'Il commesso', secondo romanzo dell’autore, edito nel 1957, è a mio avviso un’opera paradigmatica della poetica di Malamud, e può essere letta in continuità con i suoi maggiori racconti, non a caso scritti negli stessi anni.
Il romanzo narra di Morris Bober, ebreo immigrato decenni prima dalla Russia zarista, che ormai sessantenne è proprietario di un negozio di alimentari in un quartiere popolare di Brooklyn abitato quasi solo da gentili. Il negozio, piccolo e poco fornito, va molto male, perché nei dintorni ne sono stati aperti di nuovi, tanto che Bober pensa di venderlo, anche se sa che vi ricaverebbe ben poco. Bober ha una moglie, Ida, che lo aiuta nella gestione del negozio, e una figlia ventitreenne, Helen, frustrata sia perché deve fare la segretaria per aiutare la famiglia, mentre vorrebbe andare all’Università, sia perché sente il tempo scorrerle via senza riuscire ad avere una vita sentimentale degna di questo nome.
La situazione peggiora ulteriormente quando Bober viene rapinato da due giovani mascherati, uno dei quali lo colpisce alla testa ferendolo seriamente. Pochi giorni dopo, tornato giocoforza in negozio seppure ancora debole e fasciato, Bober conosce un giovane vagabondo che da poco frequenta la zona, un venticinquenne italiano di nome Frank Alpine, proveniente dall’ovest. Nei giorni successivi scopre che Frank dorme nella cantina del negozio, rubandogli latte e pane per fare colazione. Frank, per farsi perdonare, si offre di lavorare gratis in negozio, e Bober accetta nonostante la diffidenza della moglie, commosso dalla povertà del ragazzo e dalla sua volontà di riscatto.
Frank si dimostra un ottimo commesso, affabile e competente, tanto che gli affari del negozio vanno meglio. Ida però continua a diffidare di lui, sospettando che miri ad Helen, prospettiva a cui è nettamente contraria essendo il giovane uno spiantato e per di più un 'goy'.
In effetti, dopo un periodo di indifferenza da parte di Helen, alle prese con un senso di colpa per una sua precedente relazione, tra i due nasce una amicizia che presto si trasforma in qualche cosa di più profondo.
Quando gli affari del negozio ricominciano ad andare male, a causa della concorrenza di un nuovo esercizio, Frank si sfinisce di lavoro per ridurre le perdite, rivelandosi però incapace di gestire sia la relazione con la fragile Helen sia il rapporto di fiducia con Bober, per cui viene scacciato dal negozio.
Bover, ormai disperato, cerca di svendere il negozio e di trovare un nuovo lavoro, senza riuscirvi: in breve tempo muore di polmonite. Frank, dopo essere stato al suo funerale, si reinstalla nel negozio, da dove Ida e Helen non hanno il coraggio di scacciarlo di nuovo. Gli affari vanno un po’ meglio e Frank, ancora innamorato di Helen, cerca di riallacciare il rapporto, scontrandosi con il suo rifiuto. Nel repentino finale, Helen riconsidera ciò che è accaduto tra lei e Frank, e quest’ultimo prima si fa circoncidere poi si converte all’ebraismo. Non sapremo mai se i due si rimetteranno davvero insieme.
Sono stato costretto, come altre volte, a raccontare la trama, sia pure elidendo quanto possibile, perché senza alcuni elementi della storia non è possibile commentarla e analizzarla facendo intendere ciò che ritengo essere i tratti essenziali del romanzo.
A mio avviso 'Il commesso' è essenzialmente la storia di una 'redenzione' che avviene, se così posso dire, per convergenza unilaterale.
Il romanzo ruota infatti attorno ai due personaggi principali: Morris Bober e Frank Alpine.
Morris è un vinto, e la sua condizione esistenziale ci è rivelata sin dal nome: Bober, in yiddish, significa infatti persona da poco. Ha perso tutte le battaglie della vita: costretto ad emigrare dai pogrom della Russia zarista, avrebbe voluto fare il farmacista ma si è dovuto sposare, divenendo commerciante; ha perso il figlio maschio; verremo a sapere che ha perso molti soldi venendo truffato da un socio in affari, ed ora sta perdendo il suo negozio e la precaria sicurezza economica a causa del cambiamento della struttura del commercio, con l’esplosione dei supermercati e dei negozi di lusso. Emblema del suo fallimento, ma anche del suo orizzonte esistenziale, è lo squallore, evidenziato da Malamud con tocchi da maestro, del negozio – con il suo gelido retrobottega nel quale Bober passa la gran parte del suo tempo – e della casa in cui abita, situata sopra il negozio; egli simbolicamente non esce praticamente mai da questo spazio chiuso, se non quando va a cercare un altro lavoro, trovando solo porte chiuse; da notare che significativamente Malamud conclude il capitolo dedicato a questo unico, inutile peregrinare di Morris Bober con uno dei rari interventi diretti dell’autore nel testo: la notazione "Ecco l’America".
Morris però è vinto perché non ha rinunciato alle sue basi morali. Innanzitutto è di una integerrima onestà: rifiuterà la proposta di Frank di adottare trucchetti usuali nel commercio, e con i clienti si comporta sempre in modo irreprensibile. È anche buono e tollerante, come dimostra tutto il suo atteggiamento nei confronti di Frank ed anche il fatto che ha ormai perdonato l’ex socio in affari che lo ha truffato. Muore per un atto di generosità, spalare la neve dal marciapiede per i cristiani che vanno a messa. Sono proprio queste sua qualità che hanno determinato la sua sconfitta sociale, come pensa lucidamente Helen al suo funerale: ”Che valore aveva la sua onestà se non gli permetteva di esistere in questo mondo? […] Povero papà. Era onesto per natura e non credeva che per gli altri essere disonesti è una cosa altrettanto naturale. […] Non era un santo. In qualche modo era un debole”.
Per molti versi contrapposto a Morris è Frank Alpine. Oltre ad essere giovane, quindi con una prospettiva di vita diversa rispetto a Morris, è un 'goy' italiano (quindi presumibilmente cattolico, come si può dedurre dalla sua ammirazione per San Francesco), ma soprattutto non è onesto, anche se la sua disonestà è conseguenza della povertà: ha dimestichezza con il crimine, e anche nei confronti dello stesso Morris, nonostante le opportunità che questi gli offre, non si comporta irreprensibilmente. È però conscio della necessità di cambiare, e più volte, nel corso della narrazione, si descrive come uno che ci ha provato, sbagliando però qualcosa quando era vicino al traguardo.
Vive quindi l’opportunità che gli fornisce Morris come un ulteriore, definitivo tentativo di redenzione, e tutta la sua vicenda nel romanzo è il racconto dei suoi passi avanti e degli errori che compie sulla via di questa redenzione esistenziale, prima ancora che sociale. Il suo amore per Helen è in questo senso la prova più impegnativa a cui si sottopone, perché farsi accettare da lei significa essere disposto ad entrare in un mondo nuovo, a lui del tutto sconosciuto, come ben testimonia l’episodio dei libri ella gli presta e che lui fatica a capire. Nonostante tutti i tentativi e la buona volontà Frank sembra però fallire ancora una volta, venendo scacciato sia da Morris sia da Helen: prevalgono infatti in lui gli 'istinti ancestrali', che lo fermano sulla soglia del traguardo, costringendolo per l’ennesima volta a ricominciare daccapo.
Nel finale aperto il percorso di redenzione di Frank si completa, e quello che era stato un cammino, sia pur accidentato e con molti rinculi, di avvicinamento di Frank a Morris, ai valori espressi da Morris, diviene immedesimazione: Frank diventa Morris, come si può intuire anche dall’episodio (forse l’unico impregnato di humor ebraico del libro) della sua caduta nella fossa aperta al cimitero; diventa Morris perché lo sostituisce, ormai di nuovo accettato dalla famiglia, in negozio. È significativo infatti che l’ultima mattinata nel negozio descritta nel libro ripeta le medesime situazioni della prima: la polacca che compra le sue poche cose, Nick Fuso che vergognandosi va a fare la spesa in un altro negozio: nulla è cambiato, tranne il fatto che dietro al banco non c’è più Morris ma Frank. Ma Frank diventa Morris soprattutto perché si fa ebreo, condizione necessaria per essere davvero redento. Non sapremo, come detto, se questo sarà sufficiente a fargli riconquistare l’amore di Helen ma, anche se tutto lascia supporre di sì, non è forse questo l’importante. L’importante è che il vinto Morris Bober diviene alla fine il vero vincitore, perché i valori su cui ha basato la propria vita, non compresi neppure all’interno della sua famiglia, rivivono in un altro-da-sé che è divenuto di fatto lui. La sua vittoria non è sociale – il negozio presumibilmente continuerà ad andare male – ma morale, perché ha potuto trasmettere a Frank sé stesso.
La convergenza unilaterale di cui parlavo sopra è quindi quella di Frank, che partendo da posizioni sociali ed umane lontanissime si avvicina sempre più al mondo di Bober sino ad entrarvi completamente. Morris, come tutti gli altri personaggi del libro, rimane uguale a sé stesso per tutto il romanzo: l’unico che cambia è Frank, convergendo unilateralmente verso Bober, verso un vinto che però esprime un universo valoriale ricco anche se misconosciuto.
Ecco quindi che secondo Malamud lo scontro con la società della competizione e del successo a tutti i costi non deve essere combattuto con le sue stesse armi, ma opponendole un sistema di valori che egli individua nell’essenza dell’ebraismo, fatta soprattutto di accettazione serena del proprio destino (“Cadde senza un grido. […] Era il suo destino, altri ne avevano uno migliore”, dice di Morris quando viene colpito dai rapinatori). È una posizione che potrei definire, con una mezza bestemmia, analoga all’ideale verghiano dell’ostrica, e che se ha il pregio di evidenziare il valore di una sorta di resistenza passiva da mettere in atto contro una società ingiusta e crudele evidenzia a mio avviso lo stesso grado di problematicità della concezione verghiana quanto a capacità di fornire risposte efficaci ai problemi che pone. Prova ne sia che Ecco l’America possiamo dirlo, con ancora maggior sgomento, anche oggi.
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I romanzi di Verga
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Ambiguità ed equivoci che svelano la stupidità
'Avventure di un giovane ufficiale in Polonia', pubblicato nel 1932 quando Lernet-Holenia era trentacinquenne, è il secondo romanzo dello scrittore austriaco.
È un romanzo dal cui tono apparentemente leggero e scanzonato si potrebbe dedurre una distanza sostanziale rispetto alle prove più celebrate, quali ad esempio Lo stendardo, che pure è di pochi anni successivo e 'Marte in Ariete', del 1941, considerato il suo capolavoro. Per questi motivi è ritenuto un testo minore, in qualche modo immaturo, dell’autore. Eppure ad una attenta lettura questa quasi-commedia, ambientata durante la prima guerra mondiale, da un lato rivela tutta la maestria letteraria di Lernet-Holenia, dall’altro si presenta di una estrema complessità interpretativa e preannuncia alcune delle tematiche fondamentali che costituiranno l’ossatura delle sue opere posteriori.
La prima cosa da dire è che 'Avventure di un giovane ufficiale in Polonia' è un breve romanzo estremamente gradevole da leggere e particolarmente divertente. Narra le avventure di un giovanissimo ussaro tedesco, il sottotenente Keller, che durante una carica di cavalleria del suo squadrone contro i russi sul fronte polacco viene disarcionato e sviene. Pochi giorni dopo, braccato dai cosacchi, si rifugia in una misera casa di un villaggio polacco, dove vivono un certo Hartlieb e l’ex ufficiale russo Lavrent’ev, ormai inabile alle armi avendo perso un braccio, i quali sotto la minaccia della pistola di Keller lo nascondono. Scampato il pericolo dei cosacchi, che perquisiscono inutilmente la casa, tra Keller e i due che lo ospitano nasce una sorta di complicità, e Lavrent’ev narra all’ussaro la sua triste storia di ufficiale degradato per colpe altrui e della conseguente perdita della moglie e delle due figlie. Keller chiede ad Hartlieb dei vestiti civili per poter fuggire: quelli che lo mimetizzano meglio sono di una contadina rutena, in quanto grazie alla giovane età e alle fattezza delicate Keller, con un fazzoletto in testa, può sembrare una donna, tanto più che sin da piccolo gli è sempre piaciuto indossare abiti femminili.
Dopo un breve e rischioso impiego del giovane ussaro travestito presso un capitano russo, Hartlieb propone a Keller di farlo assumere come serva nella tenuta dei ?ubie?ski, abbastanza lontana dal fronte e dove c’è scarsità di manodopera a causa della guerra. Così il sottotenente Keller diviene Katharina Radmacher, detta Kasia, contadina di etnia tedesca che parla male il polacco, e viene assunta come addetta alle stalle dei ?ubie?ski. La famiglia padronale è composta, oltre che dalla signora e dal bizzarro signore, che quando c’è il sole ha la mania di appendere gli abiti alle finestre per fargli prendere aria e che cerca invano di smettere di fumare, da due figlie in età da marito.
Kasia-Keller inganna tutti sul suo sesso, e diviene subito oggetto di attenzioni da parte del personale maschile della tenuta e di ufficiali russi che passano per di là. Dopo poco diviene la cameriera personale delle due ragazze, delle quali la meno giovane e innocente, Duszka, ha probabilmente intuito qualcosa sulla vera natura di Kasia.
La storia si dipana, leggera ed a tratti esilarante, tra pretendenti di Duszka e conseguenze degli equivoci derivanti dal vero sesso di Kasia, sino a che la guerra non vi irrompe di nuovo con prepotenza sotto forma di un comando d’armata russo che si installa nella casa dei ?ubie?ski. L’identità sessuale e militare di Keller verrà alla fine scoperta, ma egli finirà per essere, di fatto per puro caso, l’artefice della disfatta russa, e quindi un eroe. Non svelo altro della trama perché le sorprese che riserva questa sorta di commedia bellica degli equivoci sono parte integrante della sua piacevolezza complessiva, che va gustata ad ogni pagina.
Contrariamente a quanto sono solito fare, prenderò le mosse, per tentare di analizzare il romanzo e riportare le mie impressioni di lettura, dal linguaggio letterario di Lernet-Holenia, che a mio avviso ne costituisce uno dei tratti peculiari e ne marca il respiro complessivo. Una prima cosa che colpisce il lettore è il netto stacco che la storia subisce tra i primi due capitoli e il resto della vicenda. L’inizio del romanzo è infatti estremamente drammatico: nel primo capitolo è descritta la carica degli squadroni di cavalleria austriaci e tedeschi, di uno dei quali faceva parte Keller, alle postazioni russe, mentre il successivo è in buona parte dedicato all’irruzione dei cosacchi nella casa di Hartlieb alla ricerca del sottufficiale tedesco e alla quasi miracolosa capacità di quest’ultimo di sottrarsi alla cattura; è sempre in questo capitolo che Lavrent’ev narra a Keller la sua tragica storia. Nei successivi capitoli la scena si sposta lontano dalla guerra, nella tenuta dei ?ubie?ski, e qui prevale nettamente il tono da commedia, generato dalle conseguenze del travestimento di Keller, dai suoi equivoci rapporti con la famiglia ?ubie?ski, da quelli tra i vari componenti della stessa e tra questi e i loro conoscenti. Il dramma riappare all’improvviso nel capitolo X, poco prima dell’epilogo del romanzo, che comunque termina con un sarcastico e beffardo happy end.
Lernet-Holenia gestisce questi scarti d’atmosfera del romanzo facendo ricorso a modalità espressive molto diverse tra di loro. Nel primo capitolo, secondo me tra i più belli, la carica della cavalleria viene descritta con una tecnica che oserei dire cinematografica (l’autore in seguito avrebbe effettivamente scritto anche sceneggiatore per il cinema): è come se una steadycam fosse posizionata nel cuore degli squadroni all’assalto e il lettore potesse seguire la carica per così dire dall’interno. Nel secondo capitolo, il lungo dialogo tra Keller e Lavrent’ev durante il quale quest’ultimo narra le sue vicende pregresse è fatto di un serrato dialogo diretto; per cinque pagine il narratore in terza persona quasi non interviene, ed il ritmo della conversazione contribuisce ad accentuare la drammaticità della storia di Lavrent’ev. Nei capitoli centrali del libro, quelli in cui prevale la commedia di costume e degli equivoci, Lernet-Holenia fa ricorso ad un puntiglioso, quasi pedante racconto indiretto, fatto di brevi frasi, grazie al quale l’azione avanza quasi meccanicamente, a scatti, accentuando efficacemente gli aspetti sarcastici del racconto e i lati a volte grotteschi dei personaggi. Il racconto indiretto caratterizza anche il drammatico capitolo X, ma nel momento culminante a questo si sostituiscono i pensieri di Lavrent’ev, così che il lettore può scavare nelle motivazioni psicologiche ed esistenziali delle scelte compiute da quest’ultimo. Insomma, il romanzo, da un punto di vista del linguaggio, è un piccolo campionario di varie tecniche narrative, usate con sapienza dall’autore per sottolineare le varie fasi delle vicende narrate. Ciò contribuisce indubbiamente a rendere la lettura di Avventure di un giovane ufficiale in Polonia estremamente piacevole, e sottolinea le capacità narrative del giovane autore, che avrebbero trovato conferma nelle successive opere.
A questa struttura varia e complessa, rintracciabile sotto la pelle di una prosa apparentemente leggera, corrisponde una stratificazione di contenuti altrettanto sfaccettata.
Ovviamente il tema che emerge è quello della critica del militarismo. È questo a mio avviso il fil rouge che percorre tutto il romanzo, e che Lernet-Holenia sviluppa per così dire per contrasto, con l’aristocratico garbo che lo contraddistingue ma che assume oggettivamente una connotazione oltremodo radicale. Quale infatti maggiore messa in discussione della virilità, del machismo su cui si fonda l’essenza stessa del mondo militare, della storia di un ussaro che si traveste da donna, e che proprio grazie a questo travestimento diviene (oltretutto per caso) un eroe militare, insignito della decorazione 'Pour le Mérite'? Oltre a questo elemento di fondo si ritrovano qua e là nel romanzo molti altri momenti in cui lo stupido formalismo tipico del mondo militare è messo alla berlina dall’autore: esemplari da questo punto di vista le pagine dedicate alla preparazione della carica del primo capitolo ma anche l’enigmatico episodio del Barone Korff, con un intero stato maggiore che va verso il disastro proprio a causa della incapacità di riflettere, dell’accettazione passiva degli ordini.
La stupidità dei militari è comunque in buona compagnia. Con l’eccezione delle due figlie ed in particolare della scaltra e determinata Duszka, cui va indubbiamente la simpatia dell’autore, tutti i personaggi della piccola nobiltà rurale polacca che incontriamo nella vicenda sono caratterizzati dall’essere degli stupidi, se non addirittura degli emeriti idioti. Sicuramente da questo punto di vista il personaggio più esilarante è il padre di Duszka, vittima della necessità di maritare bene la figlia, che sfoga le sue frustrazioni sociali e genitoriali attraverso la nevrosi del far prendere aria ai vestiti ma soprattutto illudendo sé stesso circa la sua capacità di smettere di fumare, particolare questo (ma solo questo) che lo avvicina singolarmente allo Zeno Cosini di Svevo. La galleria di personaggi è comunque notevole, andando dal bancarottiere parassita al giovane pretendente idiota costantemente rifiutato.
Militari e civili, poi, esprimono plasticamente la loro comune stupidità non accorgendosi che Kesia è in realtà un uomo, anzi facendone l’oggetto del loro desiderio, anche se l’autore ci avverte subito di come, nonostante il travestimento e le fattezze, Kesia non sia particolarmente avvenente, e nonostante non manchino certo – almeno ai non pochi che tentano con lei approcci fisici – concrete possibilità di accorgersi del suo vero sesso. Chi si accorgerà quasi subito della vera natura di Kesia saranno Duska e la sorella più giovane, che sapranno volgere abilmente la situazione a loro favore, per così dire. Il travestimento di Keller diviene quindi nel romanzo, proprio per la sua inverosimiglianza, lo strumento attraverso cui l’autore evidenzia tutto il suo sarcasmo nei confronti del mondo militare ma anche delle ipocrisie sociali su cui si regge il mondo dei ?ubie?ski e delle altre famiglie.
Se questi ed altri sono gli aspetti di satira sociale e di costume che permeano il romanzo, vi è però a mio avviso un tema, centrale nella letteratura di Lernet-Holenia, che emerge, sia pure con precise peculiarità, anche in questo romanzo: il tema del fato.
Nei romanzi maggiori dell’autore, ad esempio in 'Marte in Ariete', il fato e la sua ineluttabilità rappresentano il tema centrale della narrazione: in questo romanzo giovanile la tematica è trattata in modo più laterale e in qualche modo offuscato, ma tuttavia occupa uno spazio letterario preciso, legato soprattutto alla vicenda di Lavrent’ev, di cui sono costretto a rivelare qualche particolare.
Come ho detto sopra, Lavrent’ev è un ex capitano dell’esercito russo che, dietro promesse di compensi materiali e morali, si lasciò degradare al posto di un principe che voleva evitare uno scandalo, ritrovandosi invece deportato in Siberia e con la famiglia morta di stenti. L’odio per l’esercito del suo paese lo porterà a vendicarsi fornendo agli austriaci, per il tramite di un disertore, importantissime informazioni militari ricevute da Keller, senza che quest’ultimo peraltro se ne sia reso conto. Scoperto, non rivelerà la natura delle informazioni passate al nemico, e per questo verrà impiccato.
Il vero eroe, colui che ha permesso la vittoria degli austriaci, è quindi Lavrent’ev, che però nessuno può riconoscere in quanto tale, visto che nessuno sa quanto ha fatto, eccetto noi lettori; ufficialmente quindi l’eroe sarà Keller, che in realtà si è limitato ad avvolgere la sua uniforme in un involucro abbastanza resistente perché non si lacerasse.
Il fato dunque in questo caso non è ineluttabile ma è sicuramente beffardo, attribuendo la gloria a chi non l’ha cercata e tanto meno meritata e lasciando per sempre nell’oblio chi invece, sia pure per spirito di vendetta personale, è stato il vero deus ex machina degli avvenimenti.
È questo l’ennesimo equivoco del romanzo, quello più drammatico ma anche quello che consente all’autore di chiudere il romanzo con il beffardo finale nel quale emergerà ancora una volta la pomposa stupidità militaresca.
Un ulteriore strato interpretativo che a mio modo di vedere può essere evidenziato è quello per il quale Keller-Kasia rappresenta l’ambiguità umana, comune in varie forme a tutti noi, che in quanto tale non può però essere riconosciuta da un mondo fatto di certezze, di dogmi e di convenzioni, per il quale egli prima deve essere una donna, quindi deve essere un eroe, senza essere in realtà né l’uno né l’altro. È su tale registro di ambiguità forzatamente misconosciuta che il romanzo si chiude, con l’autore che ci dice: ”Se in abiti femminili Kasia aveva avuto l’eleganza di un sottotenente degli ussari, adesso, nell’uniforme da ussaro, aveva l’avvenenza di una ragazza.”
Leggendo 'Avventure di un giovane ufficiale in Polonia' si sorride molto, ma a tratti il sorriso si fa amaro e si tramuta anche in pianto. È un romanzo ambiguo, che fa dell’ambiguità e dell’equivoco la chiave di lettura della stupidità della società nelle sue espressioni ufficiali: è un romanzo da gustare e sul quale riflettere.
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Il realismo fiabesco di un romanzo consolatorio
***Attenzione: anticipazioni sulla trama ***
'L’imperatore di Portugallia' è il primo romanzo di Selma Lagerlöf che leggo, e non essendo, a detta di molti critici, il suo capolavoro, può darsi che la sua lettura non sia sufficiente per articolare complessivamente un giudizio sull’autrice. Tuttavia pare che questo romanzo sia pienamente ascrivibile alla poetica della scrittrice svedese; se così fosse mi sento di affermare sin da subito che Selma Lagerlöf rappresenta, nel panorama della letteratura europea del primo ‘900, una autrice minore, se non secondaria.
'L’imperatore di Portugallia' viene pubblicato nel 1914, cinque anni dopo l’attribuzione all’autrice del premio Nobel per la letteratura, prima donna a riceverlo. Questa data assume quasi un valore simbolico, essendo l’anno della deflagrazione del primo conflitto mondiale. Da almeno un ventennio le varie forme di espressione artistica stanno subendo una sorta di irreversibile rivoluzione, dovuta alla consapevolezza della crisi di valori e della crescente ingiustizia sociale che caratterizzano lo sviluppo della società industriale. L’ottimismo di facciata della Belle Époque in un progresso tecnologico e morale che avrebbe condotto inevitabilmente l’umanità verso la felicità, che trovava la sua espressione teorica nel determinismo positivista, aveva ormai da tempo lasciato spazio ad una visione angosciosa ed angosciante della società, nella quale prevalevano elementi disgregatori e la coscienza dell’alienazione come cifra dell’esistenza. Il movimento operaio, la prospettiva di una trasformazione radicale della società in senso egualitario era vissuto dalla società borghese come un incubo in grado di demolire i privilegi della classe dominate, e gli stessi socialisti (almeno i più avvertiti tra di loro) erano consci delle difficoltà e dei sacrifici che la rivoluzione avrebbe comportato. Il capitalismo delle grandi potenze si era evoluto in imperialismo, e venti di guerra per il dominio delle risorse africane ed asiatiche erano all’ordine del giorno. La nascita della psicanalisi fornisce nuovi strumenti per la conoscenza del comportamento umano e delle pulsioni profonde che lo condizionano, evidenziando il ruolo primario della sessualità, grande tabu della società ottocentesca.
L’arte, la grande arte, interpreta questa coscienza della crisi a vari livelli in tutte le forme della sua espressione. In pittura movimenti come l’espressionismo tedesco e il cubismo rappresentano una autentica rottura con ciò che li precede, tentando di visualizzare l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno e la poliedricità della realtà in cui è immerso. La composizione musicale esplora nuove regioni del suono, cercando di rendere i ritmi della società industriale e le sue intrinseche dissonanze. La letteratura abbandona sia il naturalismo positivistico sia il decadentismo estetista 'fin de siècle' per esprimere, anche attraverso l’uso di inusitate tecniche narrative, la crisi dei valori e la disumanizzazione della società.
I grandi scrittori e poeti del primo novecento affrontano la crisi di petto, alcuni riconoscendone ed evidenziandone i tratti costitutivi a livello sociale, altri scavando in profondità l’effetto che essa produce sulla vita di gruppi di uomini o di singoli personaggi; alcuni si limitano all’analisi della crisi, altri indicano, nelle loro pagine, possibili strade per il suo superamento. Ciò che li accomuna è che essi comunque scrivono della crisi e nella crisi, non la nascondono, anzi ne fanno l’elemento essenziale della loro opera. È per questo, al di là della loro capacità di scrittura, della forma che essa concretamente assume, che a mio avviso possiamo definirli grandi, perché interpretano – ciascuno a modo suo – il tempo in cui vivono.
Anche all’inizio del ‘900 c’erano ovviamente altre tipologie di scrittori: quelli che scrivevano rifacendosi all’800, al romanticismo, al naturalismo, o semplicemente non si rifacevano a nulla ma scrivevano per guadagnarsi da vivere assecondando – o contribuendo a formare – il gusto del pubblico della nascente industria culturale. Di essi non ci è rimasto molto: quando ancora oggi ci imbattiamo in uno di questi scrittori è perché ha creato qualche personaggio che è entrato nell’immaginario collettivo oppure perché, a volte, l’inadeguatezza di contenuti è in qualche modo compensata da una particolare abilità nella forma della scrittura.
Tra questi due estremi si colloca però a mio avviso anche una 'terra di mezzo letteraria' composta dagli scrittori che, trovandosi di fronte alla crisi valoriale del primo ‘900, in qualche modo cercano di negarla, o di superarla, proponendo il recupero di una qualche forma di società o di rapporti sociali arcaici, ancestrali, ricercando in piccoli eden passati ed idealizzati o in prospettive palingenetiche la negazione dell’angoscia esistenziale e sociale proposta dal presente. Questi scrittori, tra i quali ve ne sono anche di eccellenti, sono pienamente immersi nella crisi, ma invece di affrontarla nei loro scritti cercano di esorcizzarla, facendo ricorso ai valori che l’evoluzione sociale generatrice della crisi ha spazzato via oppure immaginando una capacità autorigeneratrice dell’umanità che da sola sarà in grado di portarla verso un futuro migliore.
Per quello che emerge dalla sua lettura ritengo di poter affermare che 'L’imperatore di Portugallia' possa essere considerato uno dei romanzi paradigmatici di questo atteggiamento intellettuale.
Al fine di giustificare questa affermazione, che per la mia sensibilità nei confronti della letteratura assume una accezione negativa, è necessario riassumere la trama del romanzo.
Jan Andersson di Skrolycka è un non più giovane bracciante che vive nelle Askedalar, remote valli della Svezia centrale. Ha sposato da non molti anni Kattrinna, e con lei vive in una casetta isolata che ha costruito grazie ad una concessione del padrone.
Quando alla coppia nasce una figlia Jan si accende di amore per lei: la chiama Klara Fina Gulleborg (Chiara, Bella e d’oro, detta Klara Gulla) e ne segue con trepidazione la crescita, descritta in brevi capitoli del libro che riguardano il battesimo, la vaccinazione, la scarlattina, i primi successi a scuola, insomma l’infanzia della piccola, cui il padre dedica tutto l’amore di cui è capace idealizzandola come un essere perfetto.
Quando la ragazza è diciassettenne, ed è ormai una vera bellezza, accade un grave imprevisto. Il genero del buon padrone di Jan, nel frattempo morto in un incidente sul lavoro, mette in discussione la proprietà della casa e del terreno del bracciante, non essendovi documenti che la provino, e pretende, per non far sloggiare la famiglia, il pagamento di duecento scudi entro pochi mesi, somma del tutto al di fuori delle possibilità di Jan.
Klara, che da tempo sogna di uscire dall’ambiente isolato delle Askedalar, si offre per andare a servizio a Stoccolma, dove con un po’ di fortuna potrebbe guadagnare la somma necessaria. Il padre finisce per dare il suo doloroso consenso quando si rende conto dei desideri della figlia: così la ragazzina un giorno viene accompagnata al molo del grande lago da cui parte il traghetto che porta a Stoccolma. Dopo qualche settimana giunge una sua lettera nella quale dice di essersi infine sistemata ed entro il termine previsto la somma necessaria giunge alla famiglia tramite un deputato locale.
In seguito Klara non fa più avere notizie, ma da allusioni di giovani che sono stati a Stoccolma si viene a sapere che è una prostituta.
Jan si rifiuta di accettare questa realtà, e la sua mente sconvolta si rifugia in un mondo immaginario nel quale Klara è l’imperatrice di Portugallia, una terra in cui non ci sono miseria e ingiustizia, di cui lui è l’imperatore in esilio, in attesa del ritorno di Klara che porterà i genitori con sé nel suo regno.
La pazzia di Jan, che si orna di un alto cappello, di un bastone e di alcune onorificenze di carta, ne fa ovviamente lo zimbello della comunità, anche se egli è circondato da un qualche alone di rispetto perché ha la capacità di vedere il futuro, capacità che viene riconosciuta quando predice la tragica morte del suo nuovo padrone, non senza colpe nella morte del suocero.
Per anni Jan si reca sul pontile dove attracca il traghetto, certo del ritorno di Klara, finché dopo quindici anni, un giorno in cui Jan non c’è, la figlia torna davvero. È segnata dalla vita, ma ora ha un impiego rispettabile e vuole portare con sé i genitori. Quando però si rende conto della pazzia del padre non accetta che questa sia stata generata dal suo amore per lei e lo maltratta, sino a progettare di andarsene con la madre, abbandonandolo. Kattrinna si piega a malincuore alla decisione della figlia ed un giorno, mandato Jan lontano per una commissione, prendono il traghetto. Mentre questo si stacca dal molo vedono Jan che giunge trafelato e si butta in acqua. Tornate indietro, le due donne apprendono che il corpo di Jan non è riemerso. Klara affitta una casetta nei pressi del pontile e per mesi ogni giorno si reca al lago sperando nel ritrovamento del cadavere del padre: è convinta che solo dopo che sarà sepolto potrà liberarsi del suo ricordo e del senso di colpa nei suoi confronti.
Quando viene a sapere che la madre sta morendo va ad assisterla, incontrando un amico che le narra come avesse incontrato Jan il giorno della partenza, e lo avesse accompagnato con il carro al molo: Jan gli aveva detto di aver sentito che Klara era in pericolo e che qualcuno gliela stesse portando via. Klara Gulla può quindi liberarsi del senso di colpa, perché il padre non si era suicidato, ma si era buttato in acqua convinto di poterla sottrarre al pericolo: illuminata da questo episodio capisce anche l’immenso amore che il padre aveva per lei.
Katrinna muore e quando il feretro, accompagnato da poche persone, giunge fuori della chiesa, trova tutta la comunità, che sta accompagnando un’altra bara: il corpo di Jan è stato ritrovato e tutti vogliono rendergli l’onore che merita. Sulla bara di Jan vengono posti il cappello e il bastone imperiali e i due vengono seppelliti insieme.
Una storia commovente, quindi, piena di un sentimento religioso di amore, pietà e comprensione per gli umili che trae le sue origini, oltre che dalla figura intellettuale dell’autrice, anche dal suo attaccamento alla terra delle origini, il Värmland, regione della Svezia centrale fatta di foreste, laghi e piccole comunità contadine. Una storia che va analizzata attentamente per cercare di andare oltre i sentimenti che provoca e cercare di comprenderne le basi strutturali e ideologiche.
Centrale a mio avviso a questo proposito è l’ambientazione. La piccola comunità rurale delle Askedalar è il mondo idealizzato in cui si svolge questa fiaba per adulti. È un mondo in cui esistono delle differenze sociali, dove ci sono i ricchi e i poveri, ma dove tutti in fondo cooperano per il bene comune: il pastore, il sacrestano, i buoni vecchi padroni di Jan, tutti sono portatori di valori positivi e di solidarietà umana. Al massimo ci può essere qualche piccola invidia, qualche fraintendimento subito ricomposto. Nel romanzo c’è solo un personaggio negativo: il giovane padrone che – essendo genero del vecchio Erik di Falla non appartiene alla famiglia e, sembra di capire, neppure alla comunità – non esita a favorire la morte del suocero per accaparrarsi la proprietà, cadendo vittima della giustizia non umana, ma divina. Il male, la disgregazione dei valori, è al di fuori di questo mondo, e la giovane Klara Gulla ne sarà subito vittima, cadendo in una condizione che – nella rigida concezione luterana di Selma Lagerlöf – rappresentava non solo il paradigma della degradazione morale, ma anche la conseguenza inevitabile della ricerca della modernità e dell’apparenza, se è vero che tutto nasce da un vestito rosso e dal suo venditore. Il 'piccolo mondo antico' quindi come rifugio consolatorio rispetto alla violenza e alle tentazioni del mondo moderno, che non a caso non appare mai nel racconto ma è solo evocato indirettamente. Un piccolo mondo antico le cui immutabili regole, perturbate dall’irruzione della modernità, si ricompongono nella redenzione finale, e che è capace di riconoscere la grandezza dell’amore anche quando si traveste da pazzia. Proprio il tema della pazzia di Jan e come questo viene trattato costituisce, a mio avviso, l’elemento di maggior interesse di questo romanzo, forse l’unico che gli conferisca un appiglio per farcelo sentire in sintonia con i tempi in cui fu scritto. Le migliori pagine sono infatti secondo me quelle in cui l’autrice descrive lo iato che esiste tra il pensiero dell’imperatore Jan, la sua interpretazione dei fatti, e la loro realtà, pagine che denotano una acuta capacità di analisi psicologica del personaggio.
Negli stessi anni in cui Selma Lagerlöf scriveva i suoi romanzi quelle terre esprimevano il genio di August Strindberg, e poco più a ovest si stava spegnendo Henrik Ibsen. Senza ricorrere a grandi scrittori di altre parti d’Europa credo che il semplice confronto con questi due scandinavi sia piuttosto impietoso per questa sorta di realismo fiabesco della scrittrice svedese, almeno per quanto emerge da questo romanzo.
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Munitevi di carta e penna, signori...
... ma prima levatevi il cappello!
'L’adolescente' è un romanzo estremamente complesso, che a volte, anche a causa dell’edizione nel quale l’ho letto, mi è parso un po’ confuso, coerentemente con lo stile dostoevskijano. L’edizione BIT che posseggo, oggi forse introvabile, non è fatta per agevolare la lettura di questo ponderoso romanzo: le pagine sono composte da un carattere piccolo, che soprattutto per chi come me è ormai afflitto da presbiopia, rende difficoltosa la lettura, e non consente di concentrarsi appieno nel seguire lo snodarsi della storia. Ho fatto quindi una certa fatica a venirne a capo, frammentando la lettura in oltre un mese e rischiando di perdere il filo; filo che è di per sé molto sottile, anche perché l’autore affida la narrazione al protagonista, che dichiara sin dalla prima pagina di non essere un letterato e quindi di scrivere in modo disordinato e senza l’uso di “orpelli letterari”.
L’uso della prima persona è un tratto costante nella narrativa di Dostoevskij, ma qui l’autore esaspera sicuramente il dilettantismo del narratore, al fine di conseguire un risultato di realismo cronachistico che è senza dubbio uno dei tratti salienti del romanzo, ed anche come espediente per creare suspance, come dirò in seguito.
La storia è quella di Arkadij Dolgorukij, ventenne figlio illegittimo di Versilov, signorotto pietroburghese con una tenuta in campagna dove ha sedotto la madre di Arkadij facendola poi sposare al “servo” Makar Dolgorukij. Arkadij ha sempre vissuto lontano dalla madre, in collegio e all’università, ed all’inizio del romanzo si trasferisce da Mosca a Pietroburgo conoscendo per la prima volta davvero i suoi parenti e le persone che li frequentano. La sua smania di riscatto nei confronti del padre naturale lo farà interferire con le complesse relazioni sociali e personali che si sviluppano tra i vari personaggi, generando situazioni ad alto contenuto drammatico: il citato dilettantismo artistico del narratore è uno strumento che l’autore utilizza con grande maestria per aumentare la suspance: molte volte infatti i fatti vengono parzialmente anticipati oppure spiegati a posteriori, creando un clima di sorpresa che disorienta. Come in altri romanzi di Dostoevskij il vero protagonista non è però il narratore, ma ancora una volta l’uomo di mezza età, in questo caso Versilov. Ho trovato molte analogie, infatti, tra Versilov e il principe Valkovsky di Umiliati e offesi, che paiono l’uno il negativo dell’altro. Entrambi sono personaggio che dire sfaccettati è dir poco: sono contraddittori, sono nella realtà profondamente diversi da come ci vengono presentati all’inizio. Valkovskij sembra generoso e altruista, mentre nella realtà si rivelerà meschino, volgare e spietato calcolatore; Versilov sembra freddo e pronto a sacrificare i sentimenti alle sue esigenze personali, in realtà si rivelerà capace di grandi slanci affettivi e patriottici. Ancora una volta l’immenso Dostoevskij riesce a darci, in un solo personaggio, un ritratto a tutto tondo delle contraddizioni in cui si dibatteva la classe dominante russa della sua epoca.
Non entro nel merito delle vicende del libro perché ci vorrebbero pagine su pagine (la breve trama reperibile su Wikipedia può aiutare ma non rende assolutamente la complessità del romanzo). Basti dire che (anche qui come sempre in Dostoevskij) alle vicende che segnano l’evoluzione del rapporto tra Arkadij e Versilov se ne affiancano molte altre, con alcuni personaggi veramente straordinari – molto russi e del tutto Dostoevskijani – quali Makar Dolgorukij, che da contadino si è trasformato in pellegrino-santone, e Lambert, oscuro ricattatore che allunga i suoi tentacoli sull’ingenuo Arkadij.
Che dire ancora? Sicuramente un affresco ovviamente straordinario dell’animo umano sullo sfondo della apparentemente cristallizzata – in realtà ribollente – società russa della metà del XIX secolo, da leggere possibilmente in altra edizione rispetto alla mia. Un consiglio comunque voglio darlo. A meno che non siate dotati di una memoria eccezionale, munitevi di carta e penna, e quando appare un personaggio annotatene nome, caratteristiche e relazioni con gli altri personaggi; può essere utile nel corso del romanzo, per evitare la domanda che mi sono a volte fatto durante la lettura: E questo chi è?
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Le vite sbagliate di un mondo in sfacelo
Tra i numerosissimi autori mitteleuropei del primo novecento Eduard von Keyserling non è senza dubbio il più noto. Discendente da una famiglia di antica nobiltà dell’area baltica (la cittadina in cui nacque con il titolo di conte ora si trova in Lettonia), sul finire del secolo, quarantenne, si trasferì a Monaco di Baviera, dove scrisse gran parte delle sue opere letterarie, morendo di sifilide, da cui era affetto da decenni, nel 1918, un paio di mesi prima della fine del conflitto mondiale.
Scrisse romanzi, novelle e racconti, nonché alcuni drammi teatrali ormai dimenticati; le sue tematiche predilette, se si escludono le prime prove – ancora influenzate da echi naturalistici – vertono sull’analisi della decadenza della nobiltà rurale baltica e sui drammi psicologici e umani legati alla fine di quel mondo: per questo è stato definito il Fontane baltico, anche se numerosi tratti, a partire da una maggiore levità nella descrizione dei sentimenti e delle pulsioni umane, tra i quali l’erotismo, che nella sua prosa risulta sottilmente sublimato, lo distinguono dall’autore di Effi Briest. Keyserling viene anche spesso definito autore impressionista, per la sua capacità di descrivere il paesaggio e la natura del nord con pennellate ricche di colori, spesso tenui ma a volte carichi, e di farli divenire elementi essenziali delle storie che racconta.
'Principesse' è la sua ultima opera, edita un anno prima della morte, e forse non è il suo capolavoro, ma è sicuramente un romanzo intenso e struggente, una delle sue peculiari 'storie del castello' in grado di restituirci il sapore della fine di un’epoca.
Lo scenario in cui si svolge la vicenda è quello del feudo di Gutheiden, in cui si è ritirata dopo avere vissuto per anni a corte, rimasta vedova di un marito che l’aveva resa infelice, la ancora piacente principessa Adelheid Neustatt-Birkenstein con le tre giovani figlie. La maggiore, Roxane, sta per sposare un principe russo, quindi si trasferirà presto a Pietroburgo. Eleonore è destinata a fidanzarsi con un cugino, rampollo della famiglia regnante. La più piccola, Marie, è poco più che adolescente e di salute cagionevole.
Le finanze della tenuta non vanno granché bene, ma la situazione è tenuta sotto controllo, oltre che dall’amministratore, anche dal conte Donalt Streith, anche lui ex dignitario della corte, ritiratosi in un vicino castello di caccia per stare vicino alla principessa, di cui è innamorato da anni senza che i loro rapporti abbiano mai oltrepassato quelli di una fiduciosa amicizia.
Nella prima parte del breve romanzo assistiamo all’evoluzione del rapporto tra la principessa madre e il conte Streith, che sembrano avvicinarsi all’inevitabile matrimonio; parallelamente la giovane principessina Marie scopre i primi turbamenti sentimentali, innamorandosi di Felix Dühnen, figlio un po’ ribelle di un conte che vive in un castello vicino a Gutheiden. Il suo innocente rapporto con Felix, che non va oltre qualche bacio, porta Marie alle prime trasgressioni rispetto alla rigida e sterile vita da principessa, scandita da istitutrici pedanti e noiose lezioni private, monotone uscite giornaliere in calesse sempre lungo lo stesso tragitto e rare, cerimoniose feste dalle famiglie vicine, durante le quali deve comportarsi comme il faut. Nella sua ingenua e astratta voglia di ribellarsi, dovuta anche al fatto che le restrizioni impostele dalla madre sono particolarmente severe a causa della sua salute malferma, Marie trova un modello in Hilda, figlia poco più grande di lei di una baronessa, che si atteggia a donna emancipata. La solitudine di Marie si accentua dopo la partenza delle sorelle e di Felix, divenuto allievo ufficiale, tanto che la principessina si ammala gravemente e la madre decide di portarla al mare in Italia.
La seconda parte si apre dopo un salto temporale di due anni, e nulla sembra cambiato. Le due sorelle maggiori, tornate per un breve periodo a Gutheiden, sono ormai assuefatte all’infelicità della loro vita coniugale; tra la principessa madre e il conte Streith corrono sguardi, furtive strette di mano e frasi non dette che ormai lasciano presagire il prossimo fidanzamento, mentre Maria ritrova Felix che, ormai tenente, flirta ancora con lei.
È a questo punto che entra in scena un nuovo personaggio e il protagonista del romanzo diviene il conte Donalt Streith. Il nuovo personaggio è una ragazza, del tutto estranea al chiuso mondo del castello all’interno del quale la vicenda si è sinora sviluppata. Britta è figlia di una donna borghese che, a causa di una storia con un americano, un funzionario delle assicurazioni, come naturalmente tutti sanno in paese, si è separata dal marito ed è venuta a vivere in una casetta al margine del bosco di proprietà di Streith. Britta entrerà nella vita del conte sconvolgendola, e nel frattempo anche Felix dimostrerà tutta la superficialità del suo sentimento per Marie. Non rivelo altri particolari, perché questo romanzo sapientemente costruito va gustato pagina dopo pagina, ed i piccoli e grandi avvenimenti che si succedono sino alla fine sono parte inscindibile del piacere della lettura. Basti dire che nessuno dei personaggi riuscirà ad uscire dai binari in cui le loro vite sono incanalate, secondo una metafora che compare ad un certo punto nel testo.
Romanzo breve ma di grande spessore, 'Principesse' offre parecchi spunti interpretativi. Ovviamente il più immediato è quello relativo al destino individuale dei protagonisti. Nel brevissimo, unico commento a questa scarna edizione Adelphi, Alfredo Giuliani dice che «Principesse è una storia delicata e insieme impietosa di vite sbagliate…», e questo è sicuramente vero (io direi di non-vite). Sbagliata è la vita della principessa Adelheid, prima moglie tradita poi madre che condanna alla medesima infelicità le sue due figlie maggiori; sbagliata è la vita di Streith, che insegue per anni l’amore della principessa non cogliendolo quando lo raggiunge; sbagliata è la vita delle due figlie maggiori della principessa, spose la prima in un paese lontano dove emblematicamente perderà il figlio in fasce, l’altra di un principe idiota che la tradisce il giorno stesso del fidanzamento; sbagliata è la vita della piccola Marie, che affida la sua amicizia e il suo primo amore a persone che non lo meritano; sbagliate sono anche le vite di Britta e della sua volgare madre, costrette all’emarginazione dai pregiudizi sociali, e sbagliate sono infine le vite dei personaggi minori, come Felix e Hilda, succubi della loro inadeguatezza etica e morale.
Questa interpretazione non è però a mio avviso in grado da sola di farci comprendere lo spessore del romanzo, il suo fascino: è necessario quindi allargare lo sguardo, e calarsi nel contesto letterario e storico in cui fu scritto.
Come detto, le storie del castello sono una costante pressoché assoluta dei romanzi di Keyserling, quasi tutti ambientati nell’estremo nord-est dell’impero tedesco ed in un tempo che, seppure non esplicitato, è quello della contemporaneità dell’autore. I suoi romanzi, che secondo alcune interpretazioni potrebbero essere quasi visti come una storia unica, ripetuta continuamente con poche varianti, parlano di un mondo che sta scomparendo, un mondo che, come dice Eva Banchelli nella preziosa prefazione ad un altro romanzo del nostro, forse il suo capolavoro, Onde (Sugarco, 1988), è stato ”… incapace… di attingere nuova linfa facendosi coinvolgere dai meccanismi del potere politico del Reich guglielmino”; la stessa studiosa, più avanti, inserisce l’opera di Keyserling nell’ampio solco della letteratura della crisi di inizio novecento, quella della ”…dissoluzione della bonne societé come più ampia metafora del congedo dal modello antropologico e culturale ottocentesco nell’urto col grande capitalismo monopolistico e con le spinte democratiche e rivoluzionarie provenienti dal basso”.
Le vite sbagliate di 'Principesse' assumono allora il significato di mondo sbagliato, entro il quale la vita del singolo è sbagliata perché impossibile. È significativo in questa ottica che in 'Principesse' non vi sia alcuna indulgenza o nostalgia verso questo mondo, pur da parte di un conte baltico quale Keyseling era. Le sue radici naturalistiche, che si fanno sentire sin da subito, dalla prima scena in cui la Principessa discute con il suo amministratore delle difficoltà finanziarie del feudo, gli consentono di assumere un tono distaccato rispetto ai comportamenti e ai sentimenti dei personaggi, che è di per sé un atto di accusa verso la loro aridità o la loro impotenza. È questo un elemento di realismo del romanzo che, lungi dal contrapporsi al suo decadentismo, lo rafforza, nel senso che accentua drammaticamente il senso di decadenza progressiva e definitiva del mondo da cui l’autore proveniva, conferendogli forza. Anche l’impressionismo di Keyserling, la sua capacità di descrivere il paesaggio, l’ambiente, è funzionale alla grande tesi centrale del romanzo, quella di un mondo ormai senza una vita propria. Sostanzialmente infatti l’autore ci guida in due ambienti contrapposti: quello dei giardini dei castelli, in cui tutto è coltivato ed artificializzato, dove le rose sono tutte classificate, gli altri fiori sono perfettamente disposti nelle loro aiuole, ci sono panchine in cui sedersi, le piante servono come ornamento o per dare frutti; e quello esterno ai muri che cingono questi giardini, in cui ci sono i pericoli, c’è il disordine, ma dove i due protagonisti devono addentrarsi per cercare di sottrarsi alla non-vita che li attanaglia: Marie per incontrare Felix e Streith per stare con Britta.
Marie e Britta, i due soli personaggi a cui l’autore guarda con simpatia, sono in qualche modo agli antipodi: mentre infatti Marie vorrebbe uscire dal mondo in cui è costretta, sentendo la sua condizione come una non-vita, Britta, subendo il fascino di Streith, vorrebbe entrarci, sentendo la sua condizione di selvaggia come emarginazione sociale. Significativamente, a mio avviso, le due non si incontreranno mai, limitandosi a un sorriso da un palco all’altro a teatro, ed entrambe vedranno frustrate le loro confuse aspirazioni. Se quindi per Kayserling il mondo della morente aristocrazia baltica era il luogo della non-vita, esso era anche un mondo impenetrabile, e qualsiasi tentativo di intrusione, sembra dirci l’autore, provoca da un lato il respingimento e dall’altro il crollo.
Un altro aspetto estremamente importante di questo romanzo è l’ironia dell’autore, che a tratti raggiunge vertici di assoluta perfidia. L’episodio più strepitoso in questo senso è a mio avviso quello della visita del principe ereditario Joachim von Neustatt-Birkenstein a Gutheiden, prodromo del fidanzamento ufficiale con la cugina Eleonore. Oltre che quando lo descrive fisicamente, alto e stretto di spalle, di aspetto malaticcio, capelli color rame con un’impeccabile scriminatura, miope e con labbra rosse e umide agitate da una strana inquietudine , il vertice della perfidia Keyserling lo raggiunge quando ci dice che il principe, visitando le stalle di Gutheiden, ”… si interessò ai nomi delle mucche e a quelli delle contadine”: una piccola frase in cui, a mio avviso, è racchiusa una intera visione del mondo. Analogamente meraviglioso è l’episodio in cui il principe costringe tutta la brigata ad osservarlo mentre pesca, svegliando gli ovviamente assopiti spettatori con la sua arrabbiatura perché i pesci non abboccano. In poche pagine Keyserling ci consegna il ritratto di un perfetto idiota, destinato a diventare re.
Un secondo picco di ironia dissacrante riguarda la visita della anziana principessa Agnes, zia di Marie, che giunge a Gutheiden sostanzialmente per censurare un possibile nuovo matrimonio della cognata (una principessa sposando un conte in qualche modo si sarebbe degradata). Ella prospetta alla nipote una vita fatta di comitati di beneficenza, di scuole di cucito e di cucina per i poveri, presiedendo le quali non è però necessario ”… andare nei tuguri dei poveri, dove si prendono solo malattie e pidocchi.” La filosofia della principessa Agnes, anche qui esposta in poche pagine, da sola rende conto di come Keyserling fosse perfettamente conscio della fine delle basi morali su cui quel mondo si era per secoli fondato.
Come detto, Keyserling scrive Principesse a guerra iniziata, eppure la guerra è totalmente assente dal romanzo, che però è ambientato nella modernità (ad esempio, vi si accenna ad automobili). Questa assenza si può forse spiegare con una sorta di estrema volontà dell’autore di rimanere fedele a sé stesso e alle sue storie del castello, senza introdurre elementi nuovi in una visione che comunque presagiva lo sfacelo. C’è però un punto del romanzo in cui l’ironia di Keyserling colpisce, con una perfidia più sottile di quella conclamata vista sopra, la retorica patriottarda tedesca: è quando, durante una delle vacue passeggiate collettive dei notabili del posto, qualcuno propone di cantare 'Deutschland über alles', ed a quel punto ”… il canto si levò così alto dal prato che dall’altra parte, al castello, i cani cominciarono ad abbaiare.” Lo sfacelo si stava estendendo rapidamente dal Baltico verso ovest.
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Troppa carne al fuoco del Realismo Magico di Grass
Credo sia giusto, prima di parlare di questo suo romanzo, rendere omaggio a Günter Grass con una delle sue ultime opere, il breve poema Ignominia d’Europa, che dimostra come questo intellettuale che ha attraversato il volgere del millennio, pur con tutti i limiti che si possono addebitare alla sua letteratura ed anche alla sua azione politica, sia stato comunque in grado – se non forse di percepire fino in fondo le cause profonde delle dinamiche socio-economiche che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora la nostra epoca – almeno di additarne al pubblico senza infingimenti gli effetti. Quanti intellettuali europei, di fronte al massacro economico (e non solo, visto il tasso di suicidi) di un intero popolo per proteggere i profitti di istituti bancari che hanno agito in modo scellerato, hanno fatto sentire la loro voce? Tra l’altro, visto che nel mirino della UE (non dell’Europa, che è cosa diversa, e questo è un appunto che si potrebbe fare a Grass) oggi ci siamo noi, questi versi conservano una straordinaria attualità.
Ignominia d’Europa
Prossima al caos, perché non all’altezza dei mercati,
lontana sei dalla terra che a te prestò la culla.
Quello che, con l’anima hai cercato e consideravi tuo retaggio,
ora viene tolto di mezzo, alla stregua di un rottame.
Messo nudo alla gogna come debitore, soffre un Paese
al quale dover riconoscenza era per te luogo comune.
Paese condannato alla miseria, la cui ricchezza,
ben curata, orna i musei: preda che tu sorvegli.
Coloro che, in divisa, con la violenza delle armi funestarono il Paese
ebbro d’isole, tenevano Hölderlin nello zaino.
Paese a stento tollerato, di cui un tempo tollerasti
i colonnelli in veste di alleati.
Paese privo di diritti, al quale un potere che i diritti impone,
stringe sempre più la cintola.
Sfidandoti, veste di nero Antigone e dovunque lutto
ammanta il popolo di cui tu fosti ospite.
Eppure fuori dai confini il codazzo dei seguaci di Creso
ha ammassato tutto ciò che d’oro luccica nelle tue casseforti.
Trangugia infine, butta giù! gridano i claqueur dei Commissari,
ma Socrate ti restituisce irato il calice colmo fino all’orlo.
Malediranno in coro gli Dei ciò che possiedi,
quando il tuo volere esige di spossessare il loro Olimpo.
Priva di spirito deperirai senza il Paese
il cui spirito, Europa, ti ha inventata.
Scrittore "politico" quindi, Günter Grass, e questa sua essenza emerge appieno anche ne 'La Ratta', pubblicato nel 1986 ma ambientato in gran parte nel 1984. Questo romanzo non è certo conosciuto e celebrato come Il tamburo di latta, anzi all’uscita in Germania fu oggetto di pesanti stroncature, tanto che Grass con la moglie si trasferì per un anno in India, ed anche la sua uscita in Italia passò quasi inosservata, come ci ricorda Michele Sisto nel bell’articolo '«Die Rättin» – La crisi dell’illuminismo nell’anno di Orwell' al quale rimando soprattutto per la compiuta analisi della struttura del romanzo. Questa accoglienza ostile si può spiegare in molti modi, e credo che soprattutto in Germania essa rifletta in parte il fatto che alla metà degli anni ’80 – quando la BRD aveva ormai riacquistato tutto il suo potere economico e di conseguenza si avviava ad uscire definitivamente dalla condizione di sudditanza politica cui l’aveva relegata la disfatta – venisse vissuta con fastidio la delegittimazione della genesi stessa della Repubblica Federale (ma anche della DDR) che Grass espone in questo romanzo. D’altra parte ritengo sia giustificata anche oggi una critica rivolta alla distanza che si avverte tra le ambizioni che lo scrittore ha posto nella scrittura de 'La Ratta' e il risultato ottenuto.
Indubbiamente 'La Ratta' è un romanzo molto ambizioso, sia per struttura sia per contenuti. Non conosco direttamente le altre opere di questo autore, ma mi pare di poter dire, per quel poco di documentazione cui ho attinto, che si tratti del tentativo di scrivere un romanzo totalizzante che recupera e contestualizza rispetto ai tempi nuovi alcuni elementi (e personaggi) chiave della sua precedente produzione letteraria e inoltre contiene non pochi rimandi filosofici, letterari (le fiabe romantiche dei Fratelli Grimm) e storici (la vicenda del pittore Lothar Malskat e del Pifferaio di Hamelin), il tutto nella cornice dell’olocausto nucleare e delle sue imprevedibili conseguenze.
A tale articolazione di contenuti corrisponde quella strutturale, che rende il romanzo di non facilissima lettura. Esso infatti è composto di sei storie che si inseguono durante tutto il testo.
La prima è quella del narratore che, dopo aver ricevuto in dono per natale, su sua richiesta, un ratto, inizia a sognare di essere in orbita nello spazio e di dialogare con una ratta che lo informa di come l’umanità sia scomparsa a seguito di un conflitto nucleare scatenatosi per errore e di come i ratti siano i nuovi dominatori della terra.
La seconda è quella di cinque donne che, su una piccola nave, esplorano il Baltico cercando di misurare la densità delle meduse, indicatrici dell’inquinamento del mare; in questa storia compare il Rombo, protagonista dell’omonimo romanzo femminista di Grass del 1979, e le donne – amate da Grass in tempi diversi – cercheranno di scoprire la localizzazione di Vineta, mitica città anseatica sprofondata in mare dove vigeva il matriarcato.
La terza storia ha come protagonista Oskar Matzerath, il nano de 'Il tamburo di latta'. Ora egli è un affermato sessantenne, ha una casa di videoproduzione (ha anche prodotto dei pornofilm, ci dice Grass) e riceve una cartolina che lo invita a recarsi in Polonia, precisamente in Casciubia, per il centosettesimo compleanno di sua nonna, Anna Koljaiczek.
La quarta storia è la sceneggiatura di un film che il narratore sta scrivendo per il produttore Matzerath: è una tragica fiaba ecologista nella quale i figli del cancelliere federale, scappando dai genitori, si trasformano in Hänsel e Gretel e, con l’aiuto di altri personaggi delle fiabe dei fratelli Grimm, cercano di salvare il bosco dalla moria provocata dalle piogge acide: tutti insieme riescono a fare di Jacob Grimm il cancelliere, ma la reazione del potere economico, militare e religioso spazza via cruentemente il governo delle fiabe.
La quinta storia è la trasposizione romanzata di un episodio incredibile ma avvenuto veramente. Nel 1951 venne inaugurato, alla presenza di Adenauer, il restauro della chiesa di S. Maria a Lubecca e di un prezioso ciclo di affreschi gotici venuti alla luce a brani dopo un bombardamento alleato. L’occasione parlava della rinascita della Germania e della sua cultura, e gli storici dell’arte vedevano un maestro di Lubecca e un inedito gotico del nord. Dopo pochi giorni un oscuro pittore, Lothar Malskat, confessò spontaneamente di essere l’autore dei dipinti: aveva lavorato alle dipendenze dell’appaltatore del restauro ed invecchiato gli affreschi con spazzola e cipria. All’inizio non fu creduto, quindi – quando la truffa fu evidente – venne condannato a 18 mesi di galera. Emerse che anche nell’anteguerra aveva falsificato altri affreschi gotici, e che il fatto che in uno di questi apparissero dei tacchini, anziché rendere palese l’anacronismo, era stato interpretato dai critici d’arte nazisti come la prova che l’America era stata raggiunta prima di Colombo da navigatori ariani. Anche questa storia è la sceneggiatura di un possibile film, intitolato 'I falsi cinquanta'.
L’ultima storia riguarda le interpretazioni che l’autore dà della notissima fiaba (sempre raccolta dai Grimm) del pifferaio magico. In realtà non i ratti sarebbero stati allontanati dal paese ma 130 bambini, emigrati o seppelliti vivi dai loro genitori per il loro comportamento non consono rispetto alle convenzioni.
Come detto, per una analisi più dettagliata delle singole storie rimando all’articolo di Michele Sisto.
Nei dodici capitoli in cui il romanzo è suddiviso ciascuna di queste storie appare e scompare; inoltre in ciascun capitolo vi sono uno o più brevi poemi. Tutto ciò, come ho già accennato, rende non agevole la lettura: soprattutto all’inizio il lettore si sente disorientato, per poi abituarsi a questo continuo va-e-vieni del resto tipico di Grass.
Nei sogni in cui il narratore immagina di dialogare con la Ratta (ma non è chiaro se non sia invece la Ratta a sognare di lui) l’umanità è sparita in seguito ad un attacco nucleare tra le due superpotenze causato da topi che hanno rosicchiato i computer militari. I ratti, (Rattus norvegicus, giunto in Europa all’inizio dell’era moderna) sono sopravvissuti nelle loro tane, ed hanno quindi fondato una loro società nella quale, esaurite le scorte e le immondizie umane, hanno elaborato una rudimentale forma di agricoltura. La loro società è molto più solidale di quella umana, e dopo un primo periodo di guerre di religione ora le varie comunità vivono pacificamente. Quella di Danzica occupa gli edifici storici risparmiati dalle bombe al neutrone. Grass sceglie il ratto perché rappresenta nel nostro immaginario tutto ciò che riteniamo nocivo e degradante: lo riteniamo sporco, vive nelle fogne nutrendosi di immondizia. Eppure il ratto – che non è affatto sporco – vive in stretta simbiosi con l’uomo, che lo ha diffuso sul pianeta con i suoi commerci, ed ha una organizzazione sociale molto complessa, basata davvero su una sorta di solidarietà intracomunitaria. È la specie perfetta per sostituirci.
Le donne che navigano alla ricerca delle meduse e poi di Vineta rappresentano l’esperimento di società femminile vagheggiata durante gli anni ’70 e letterariamente espressa da Grass ne 'Il rombo'. Le loro motivazioni sono quindi sia ecologiste sia più strettamente politiche. Quando però giungono a scorgere sul fondale la città sommersa la trovano invasa dai ratti e subito vengono spazzate via dalle esplosioni nucleari: l’olocausto atomico fa svanire quindi anche la prospettiva di una società più giusta fondata sul potere femminile.
Oskar Matzerath, metafora della deformità originaria della Germania ne 'Il tamburo di latta', è ora produttore di video, e con la sua Mercedes 190 rappresenta la nuova Germania ed il potere dei nuovi media (siamo negli anni ’80), che si spinge sino a voler preconfezionare il futuro. Non può però evitare di confrontarsi con il passato, con una terra – la Casciubia – anch’essa profondamente cambiata rispetto alla giovinezza di Oskar, ora soggetta al totalitarismo ma in cui già si affacciano prepotenti le crepe che porteranno alla dissoluzione il regime: c’è infatti nella storia un esplicito riferimento a Solidarnosc fuorilegge, anche se a Grass non sfugge la tendenza al compromesso che caratterizzava l’epoca.
Le due storie sulle fiabe dei Grimm e di Lothar Malskat sono quelle più strettamente politiche e tedesche. In particolare in quest’ultima Grass come detto delegittima le radici stesse dei due stati tedeschi, che hanno potuto darsi una patina di democrazia ad ovest e di socialismo ad est perché ha fatto comodo ai loro protettori usarli contro l’altra parte. Così la falsificazione di Malskat diviene la metafora della grande mistificazione tedesca: passare da vinti a vincitori, poter rialzare la testa senza dover più fare i conti con il passato. In fondo il povero Malskat confessa il suo falso, mentre Adenauer e Ulbricht non lo faranno mai.
Moltissimi altri temi possono essere estratti da questo complesso romanzo: il fatto che sia stato scritto nel 1984 fa pensare ad un omaggio ad Orwell, ed in effetti nella specie di ratto-uomini (i 'watsoncrick') che tentano di soggiogare i ratti verso la fine del libro si può trovare qualche eco de 'La fattoria degli animali'; vi si trovano richiami all’illuminismo e alla sua degenerazione tecnicista, la cui critica costituisce come accennato per Michele Sisto la chiave di lettura fondamentale; l’apparizione dei Puffi (si, proprio loro) allude al degrado della cultura e del linguaggio.
Grass mette quindi tantissima carne al fuoco del suo realismo magico: forse troppa. Inevitabilmente, a mio modo di vedere, un romanzo così complesso non può che avere cadute di tono anche pesanti, visto che l’autore è sicuramente un ottimo scrittore ma non un genio assoluto. Così molti passaggi appaiono fin troppo didascalici e forzati. Esemplare da questo punto di vista la storia delle fiabe dei Grimm, che a mio avviso si salva solo per il potente, tragico finale. C’è poi una certa dose di autocompiacimento autoriale nel riprendere vicende e personaggi de 'Il tamburo di latta' e de 'Il rombo', quasi a dire al lettore: se vuoi capire sino in fondo leggi quanto ho già scritto. Resta, secondo me, soprattutto la storia di Malskat, in cui una vicenda vera si trasforma nella metafora della falsificazione della Storia, falsificazione che – possiamo dire a oltre trent’anni di distanza – costituì il necessario antefatto della mai sopita ansia di egemonia di una nazione che oggi persegue – sia pur per ora con altri mezzi – gli stessi obiettivi perseguiti cento e ottanta anni fa, contro i quali – come visto all’inizio – Günter Grass non ha smesso di scagliarsi sino alla fine.
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Scoprire il più russo degli scrittori inglesi
William Gerhardie è stato un autore molto noto in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre. Il suo primo romanzo, 'Futilità', è del 1922, e venne salutato come una delle opere letterarie più importanti di quell’epoca (è da notare, al proposito, che nello stesso anno furono pubblicati l’Ulisse di Joyce e Terra desolata di T.S. Eliot): dopo una produzione letteraria piuttosto intensa, nel 1939 si isolò dal mondo, affetto da depressione, per la scrittura di un nuovo romanzo, che però non vide mai la luce. Morì ottantaduenne, dimenticato da tutti, nel 1977. Scarsa è ovviamente la sua fortuna editoriale in Italia: l’unica opera pubblicata mi risulta sia proprio 'Futilità', edita prima da Einaudi sul finire degli anni ’60 e quindi – nella stessa traduzione di Gianni Celati – da Adelphi nel 2003. La casa editrice di Milano peraltro annunciava in quella occasione la prossima pubblicazione di due sue altre opere, tra cui 'The polyglots', del 1925, considerato dai più il suo capolavoro, ma ciò non è purtroppo avvenuto.
Prima di addentrarci nell’analisi della sua opera d’esordio, è opportuno dire qualcosa in più della biografia dell’autore, perché questa può aiutare a comprendere meglio la genesi e i contenuti di 'Futilità'.
Gerhardie infatti nacque nel 1895 a San Pietroburgo, rampollo di una famiglia di industriali di origine belga, e lì visse sino al 1913. Tornò nella sua città natale durante la prima guerra mondiale, come addetto all’ambasciata britannica, e assistette alle rivoluzioni del 1917. Negli anni successivi fu inviato in Siberia al seguito della spedizione militare con la quale le potenze occidentali tentarono di rovesciare il nascente stato sovietico.
Gerhardie aveva quindi una profonda e diretta conoscenza della Russia, della sua cultura e della sua società, anche se di quest’ultima probabilmente limitata alle classi sociali che frequentava.
Non sorprende quindi che sostanzialmente russo sia il suo romanzo d’esordio, scritto a Oxford poco dopo il suo rientro definitivo in Gran Bretagna. Futilità non è solamente un romanzo ambientato in Russia, ma è – come vedremo – impregnato di cultura e di letteratura russa, tanto che il suo autore viene spesso definito anglo-russo.
'Futilità' narra le tragicomiche vicende della famiglia di un patriarca della piccola aristocrazia russa, Nikolaj Vasil’evi? Bursanov, negli anni che vanno dall’anteguerra al periodo della guerra civile. L’io narrante è un giovane di cui non sappiamo molto, se non che si chiama Andrej Andreevi?, che è in qualche modo inglese ma si trova a San Pietroburgo qualche anno prima della rivoluzione, che vi ritorna – dopo essere andato a Oxford – nel 1917 come militare addetto all’ambasciata britannica, e che ancora dopo viene inviato a Vladivostok nelle retrovie della guerra civile. Nonostante gli evidenti riferimenti autobiografici, Gerhardie ci informa subito, in una nota che precede il testo, che "l’io di questo libro non è l’autore".
Andrej Andreevi? frequenta i Bursanov perché è innamorato, inizialmente forse corrisposto, di Nina, la seconda delle tre giovani figlie (all’inizio del romanzo hanno 16, 15 e 14 anni) di Nikolaj Vasil’evi?. La situazione della famiglia è estremamente articolata. Nikolaj Vasil’evi? convive con una donna di origine tedesca, Fanny Ivanovna, dopo essersi separato dalla prima moglie, madre delle tre ragazze, che a sua volta vive con un dentista ebreo (il quale probabilmente è il padre di Vera, l’ultima ragazza). Ora però si è innamorato di Zina, una diciassettene con una famiglia allargata fatta, oltre che dei genitori, di fratelli, zii e anziani nonni, e vorrebbe sposarla: per questo ovviamente i rapporti tra Nikolaj Vasil’evi? e Fanny Ivanovna sono tesi, anche se egli non ha intenzione di abbandonare la compagna, ma semplicemente di aggiungere Zina al ménage. La casa dei Bursanov, oltre che da Andrej Andreevi?, è frequentata dal barone Wunderhausen, fidanzato di Sonja, la prima figlia, e dal Kniaz, un presunto principe in disgrazia che conduce una silenziosa esistenza da parassita.
Nikolaj Vasil’evi? mantiene tutti: ha un cospicuo patrimonio ed è proprietario di alcune miniere d’oro in Siberia, che sino ad allora non hanno reso nulla ma dalle quali si aspetta a breve importanti profitti. Così, oltre che della sua famiglia e dei suoi ospiti, si fa carico della famiglia tedesca di Fanny Ivanovna, di quella di Zina e della ex moglie, che intende divorziare avendo accalappiato un ricco austriaco.
Nella seconda, breve parte del romanzo, Andrej Andreevi? torna a San Pietroburgo poco prima che scoppi la rivoluzione: riallaccia i rapporti con i Bursanov, la cui situazione si è ancora complicata. Fanny Ivanovna, essendo tedesca, rischiava di essere rimandata in patria: per questo ha sposato un signore malato, che naturalmente si è installato in casa; l’ex moglie del patriarca non ha sposato il suo austriaco, cui l’autorità ha confiscato tutti i beni, mentre Sonja ha sposato il barone Wunderhausen, che non avendo un soldo vive nella casa. Per il resto nulla è cambiato, se non che la guerra e la rivoluzione allontanano ulteriormente la prospettiva di un utile dalle miniere. Gerhardie descrive la rivoluzione di febbraio prima e quella di ottobre poi come un grottesco periodo di confusione totale, nel quale neppure i protagonisti, soldati, operai, borghesi, sanno bene cosa stia succedendo e come comportarsi. Traspare da parte dell’autore un atteggiamento fortemente scettico nei confronti dei grandi sommovimenti sociali di quel periodo.
Nella successiva parte, che occupa quasi la metà del romanzo, la scena si sposta a Vladivostok, dove Andrej Andreevi? giunge al seguito delle autorità militari inglesi. Qui ritrova inaspettatamente i Bursanov, che hanno lasciato Pietrogrado per tentare di prendere possesso delle mitiche miniere d’oro. Naturalmente insieme alla famiglia si è spostata tutta la corte dei mantenuti da Nikolaj Vasil’evi?: ancora una volta nulla è cambiato, se non per il protagonista, che comprende che il suo amore per Nina non è stato in realtà mai corrisposto. La scena si fa ancora più corale, in quanto vi compaiono generali bianchi, ammiragli inglesi, autorità dei vari governi che si susseguono in città, marinai statunitensi che corteggiano le tre sorelle. In una città fangosa e squallida, in un clima che si fa più surreale via via che diventa sempre più evidente che l’armata rossa sta vincendo, l’unico punto fermo è la certezza di Nikolaj Vasil’evi? di poter riprendere possesso delle sue miniere, certezza ovviamente frustrata dagli eventi.
Il giorno della partenza degli inglesi, quando tutta la famiglia Bursanov (meno Nina) si reca al molo per salutare Andrej Andreevi?, alla domanda: ”che cosa farà?” Nikolaj Vasil’evi? risponde :”beh… aspetterò […] Non credo che ci vorrà molto, ora”.
Nel breve epilogo, Andrej Andreevi? torna qualche tempo dopo a Vladivostok, occupata dai giapponesi, per amore di Nina, ma trova le tre sorelle in procinto di andare a Shangai, dove le avrebbero raggiunte i marinai americani loro corteggiatori (Wunderhausen, rivelatosi un falso barone, se ne era andato). Nina rivela ad Andrej Andreevi? di non averlo mai amato e a quest’ultimo non resta che vederla partire dal molo, mentre Nikolaj Vasil’evi?, con tutto il resto della ciurma, rimane in città sognando ancora di recuperare le sue miniere.
La prima parte del romanzo, nella quale cominciamo a comporre il complicato puzzle composto dai Bursanov e sodali, è intrisa, come si può facilmente arguire, di rimandi alla letteratura russa che Gerhardie amava di più. Se la situazione generale della famiglia e il tono del racconto possono essere definiti in qualche modo un mix di Gogol’ e Gon?arov, è sicuramente ?echov a farla esplicitamente da padrone, sin dal titolo di queste pagine: Le tre sorelle. A parte i richiami più o meno letterali (ad un certo punto i protagonisti vanno a teatro a vedere proprio il dramma ?hecoviano) ?echov è il riferimento precipuo del romanzo in quanto due aspetti precisi della sua poetica stanno alla base dell’opera di Gerhardie: il fatto che ?echov sia il cantore dell’attesa della vita che in realtà non arriva mai perché la vita consiste proprio in quell’attesa, e che per dare forza a questa sua idea si avvalga di un luogo narrativo che è al confine tra commedia e tragedia.
Ma, come dice Nina durante un litigio con Andrej Andreevi?, che aveva accusato la famiglia proprio di sembrare uscita da una pagina di ?echov, egli ora è morto. Siamo infatti in pieno ‘900 e, pur prendendo le mosse da ?echov, Gehardie è pienamente consapevole che non è più possibile scrivere come lui. Subito dopo, infatti, dice, per bocca di Andrej Andreevi?: ”E infatti quest’è il problema della letteratura moderna: un romanzo non è un buon romanzo se non è verosimile, e d’altronde non c’è vita degna d’essere raccontata, se non è una vita fuori dall’ordinario; ma essa apparirà poi improbabile come un romanzo”. L’autore sceglie quindi l’unica via che gli rimane per fare letteratura: raccontarci futilità, il nulla, e raccontarci come questo nulla alligni nel periodo più convulso che la storia ricordi, nel paese dove queste convulsioni raggiungono il massimo grado di frenesia. Così, i drammatici contorcimenti causati dalla rivoluzione e dalla guerra sono anch’essi futilità, e fanno da contraltare solo apparente alla immutabile situazione di attesa dei Bursanov, perché, come rileva Fanny Ivanovna verso la fine del romanzo riferendosi agli anni di Pietroburgo: ”Sentivamo che la crisi non poteva durare ed attendemmo l’esplosione. Ma non vi fu mai esplosione. La crisi si trascinò trasformandosi in crisi cronica; […] E nulla accade, Non accadrà nulla. Nulla accade…”. Non siamo di fronte alla necessità che tutto cambi perché tutto rimanga come prima, ma alla negazione di un prima e di un dopo, alla cronicità della crisi come dato strutturale, che impedisce qualsiasi visione in prospettiva. Una metafora di questo stato di cose, che appare molte volte nel romanzo, è quella del ballo, cui i protagonisti si dedicano anche nelle situazioni più disperate. Una radicalizzazione della posizione di ?echov, quindi, una sua piena trasposizione al ‘900, la coscienza che le sue analisi esistenziali possono essere applicate non solo alla provincia russa ma allo stato del mondo. In questo, essenzialmente, sta la modernità di Gerhardie, e forse la necessità di una sua piena riscoperta. Di converso, se un appunto si deve muovere a questo romanzo, è proprio dato dall’aver ridotto anche un avvenimento che avrebbe sconvolto il mondo, l’ondata rivoluzionaria del 1917, a episodio quasi folcloristico, fatto di autocarri di proletari in gita di piacere, di soldati ubriachi e di rivoluzionari che per sbaglio cantano un inno allo Zar. Gerhardie da buon inglese ricco parteggia apertamente per la rivoluzione borghese di febbraio, mentre – come emerge anche nelle pagine ambientate a Vladivostok – non ha alcuna idea di cosa sia il comunismo e di cosa vogliano i bolscevichi, che vede solo come dei pazzi assetati di sangue.
Uno degli elementi di grande fascino del libro, che lo ammanta di una ambiguità altrettanto moderna che il senso della crisi, è dato dal fatto che Gerhardie ci consegna un messaggio così disperante in un involucro leggero e ironico, che è costituito da una riuscita miscela di humor inglese (parlando di un ammiraglio britannico dice ad un certo punto: ”mi dispiacque separarmi da quel vecchio. V’era in lui qualche cosa che lo rendeva quasi umano”) e vis umoristica russa. L’autore ha assorbito in profondità la lezione dei grandi maestri russi dell’800 (soprattutto come detto Gogol’ e Gon?arov) e ne fa uso a piene mani sia per descriverci i personaggi e l’atmosfera che circonda il clan Bursanov sia in alcune situazioni riguardanti la mentalità russa – che Gerhardie guarda indubbiamente con un filo di aristocratico razzismo tipicamente inglese – e l’incompetenza dei funzionari governativi. Un altro personaggio gogoliano è Zio Kostja, un parente di Zina, considerato dalla famiglia l’intellettuale del gruppo perché, alzandosi tardi la mattina, non fa altro che scrivere, pur non avendo mai pubblicato nulla. Al di là del risvolto satirico il personaggio permette a Gerhardie di sottolineare incisivamente l’inutilità della letteratura.
La futilità del titolo è perciò per l’autore totalizzante, nel senso che tutto è futile: futile è la vita, dalla quale non dobbiamo attenderci nulla che non sia ciò che è; futili sono gli sforzi per cambiare la società, che altro non portano se non crisi, confusione e dolore; ma futili e finanche comici sono anche i tentativi di andare contro questi cambiamenti, assommando crisi alla crisi; futile è infine scrivere cercando di dare un senso a questa attività. Si può non essere d’accordo, ma è indubbio che Gerhardie ci pone, facendoci sorridere, questioni su cui riflettere attentamente, anche alla luce dei quasi cento anni passati da allora. Chissà se avremo modo di leggere altro di lui: me lo auguro.
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I Vitelloni in Fiandra, durante la guerra
Il Belgio è un paese di cui tutto sommato sappiamo poco. Bruxelles, Bruges, le birre e il cioccolato, per quelli della mia età il fatto che arrivasse invariabilmente ultimo a Giochi senza frontiere, ogni tanto il sentore di problemi tra francofoni e fiamminghi, riportati dai quotidiani spesso in chiave quasi folcloristica.
Quanti sanno che è stato il protagonista di una delle più brutali e crudeli pagine del colonialismo europeo in Africa, quella del Congo sotto Leopoldo II? Quanti ancora ricordano che nell’immediato dopoguerra fu una delle mete principali della nostra emigrazione, che grazie a un patto scandaloso garantiva all’Italia una certa quantità di carbone per ogni uomo mandato a lavorare nelle miniere del Pays noir e che portò, tra l’altro, alla tragedia di Marcinelle?
In campo artistico, spesso tendiamo ad attribuire artisti e prodotti belgi agli ingombranti vicini. Così la grande arte fiamminga del XV e XVI secolo riteniamo sia essenzialmente olandese, mentre in genere sono per noi francesi autori come Magritte, Simenon, Yourcenar (belga per ascendenze), come pure alcuni dei più conosciuti fumetti, quali Tintin, Luky Luke, i Puffi.
Tra i grandi intellettuali belgi del secondo dopoguerra va annoverato sicuramente Hugo Claus, autore di poesie, opere teatrali e di una quindicina tra romanzi e novelle, che nel nostro paese è tuttavia conosciuto quasi esclusivamente per quella che è ritenuta la sua opera più importante, 'La sofferenza del Belgio'.
Si tratta di un bildungsroman largamente autobiografico, che narra l’adolescenza e la prima giovinezza di Louis Seynaeve, rampollo di una famiglia della piccola borghesia fiamminga, nel periodo compreso tra la primavera del 1939 e l’immediato dopoguerra.
Incontriamo Louis, undicenne, in un collegio di suore cattoliche, dove vige una rigida e formale disciplina, e in cui nessuna suora, tranne una, sembra avere sentimenti, se non d’amore cristiano, almeno d’affetto per i ragazzi. L’educazione viene impartita a colpi di paura per le punizioni divine, odio per i comunisti atei che vogliono conquistare il mondo e patriottico amore per il cattolico Belgio e il suo re. Louis è un ragazzo tranquillo: per resistere all’asfissiante atmosfera del collegio ha fondato, con alcuni altri ragazzi tra cui l’amico del cuore Vlieghe, il gruppo degli Apostoli, sorta di setta segreta con accenni cattolico-esoterici dotata di propri rituali e codice d’onore. Il gruppo compie piccole ed innocenti trasgressioni al regolamento, tra le quali l’epica visita notturna agli inviolabili appartamenti delle suore per visitare una di esse, Sorella Sint Gerolf, isolata da anni per la sua demenza. Sin da queste prime pagine del libro emerge la fantasia di Louis, che spesso (come ogni ragazzo, del resto) immagina avventure fantastiche e sogna di essere un eroe; non di rado ricorre a bugie per schivare punizioni o millantare la sua conoscenza del mondo. Immagina in particolare il mondo dei Miezers, piccoli esseri che rappresentano il confuso desiderio di Louis di evadere da una realtà che sente come opprimente.
Durante le vacanze di pasqua e poi quelle estive Louis torna a casa, nella cittadina fiamminga di Walle, e così veniamo a conoscere la sua famiglia. Il patriarca dei Seynaeve è Peter, il nonno di Louis, che si è costruito un cospicuo patrimonio con il commercio di articoli per la scuola. Accanito donnaiolo, ha abbandonato la moglie per vivere di fatto con l’anziana amante. Suo figlio Staf è il padre di Louis: ha una tipografia, ma la sua debolezza caratteriale non ne fa un uomo votato agli affari, che infatti vanno piuttosto male, tanto che il padre lo disprezza sottilmente ed è costretto a soccorrerlo finanziariamente. La madre di Louis, Constance Bossuyt, è una donna piacente e dotata di una sua peculiare energia, anche se molto attenta alle apparenze, frivola e pettegola. La nonna materna di Louis, Meerke, è vedova, e vive a Bestegem, un’altra cittadina fiamminga, dove Louis va a passare parte delle vacanze estive del 1939. Completano il parentado una serie di zie e zii di Louis, sposati e no. Staf Seynaeve è un fervente, anche se innocuo, nazionalista fiammingo: negli anni ‘30 infatti nelle Fiandre Belghe si svilupparono movimenti di stampo fascista o filonazista che rivendicavano la secessione da uno stato considerato filo-francese e la riunificazione con le Fiandre olandesi e francesi, ovvero l’unione con il Reich tedesco in nome del comune germanesimo. Anche nonno Peter è nazionalista, ma, al contrario di Staf, sta molto attento che queste simpatie non danneggino i suoi affari. Affiora anche, nella famiglia (così come del resto negli insegnamenti delle suore) un deciso antisemitismo, cosicché uno dei grandi scandali familiari è il fatto che zia Bérénice, sorella della madre di Louis, abbia sposato un ebreo bulgaro.
Gli eventi incalzano, e all’iniziale ottimismo, condito da una diffusa ammirazione per Hitler soprattutto, come detto, tra i nazionalisti fiamminghi e nella famiglia di Louis, fa seguito, dopo la rapida vittoria dei tedeschi in Polonia, la coscienza che la guerra toccherà direttamente il Belgio: il collegio viene chiuso per precauzione e Louis ritorna a Walle dai genitori. Quando iniziano le ostilità sul fronte occidentale, nella primavera del 1940, il Belgio viene invaso e crolla in pochi giorni: Walle, non lontana dal confine, viene occupata inizialmente dai francesi e il povero Staf è costretto a darsi alla macchia per non essere arrestato in quanto filotedesco. Presto però anche la Francia crolla e a Walle arrivano i tedeschi.
Louis intanto ha iniziato a frequentare il locale ginnasio, e tra i suoi nuovi insegnanti particolarmente importante è la figura di Evariste de Launey, che gli alunni chiamano La selce, un gesuita che cerca, attraverso l’amore per la letteratura e la cultura classica, di risvegliare il senso critico del ragazzo e di fargli comprendere la brutalità dell’occupazione tedesca.
La madre di Louis intanto ha iniziato a lavorare come segretaria in una locale fabbrica di armamenti; diviene l’amante del direttore generale potendo, grazie a ciò, influire sulle deportazioni dei lavoratori in Germania. Ancora una volta Staf dimostra la sua inadeguatezza, fingendo di non sapere come stanno realmente le cose ed accettando supinamente il tradimento della moglie. Louis, attratto dallo spirito organizzativo e vincente dei tedeschi, entra nell’equivalente fiammingo della Hitlerjugend, andando per questo anche a passare un periodo presso una famiglia del Mecklemburgo; suo nonno, però, temendo di perdere le commesse che gli vengono dalle scuole cattoliche, costringe il ragazzo a lasciare l’organizzazione. È anche il periodo dell’iniziazione sessuale di Louis, nonché di quella letteraria: in uno scantinato di Bruxelles egli infatti trova una intera biblioteca di autori proibiti dal nazismo, ed inizia a leggerli avidamente.
Nel frattempo giungono voci sulle sconfitte dei tedeschi in URSS, e iniziano ad essere attive le prime organizzazioni della resistenza: lo scenario si fa sempre più cupo, con uccisioni e deportazioni: anche La selce, che aveva aderito alla resistenza, sparisce nel nulla.
Mentre i bombardamenti alleati si fanno sempre più frequenti ed intensi, la madre di Louis perde le sue altolocate protezioni, sinché, dopo lo sbarco in Normandia e l’avanzata alleata in Francia, i tedeschi se ne vanno ed inizia un periodo confuso e di ristrettezze, durante il quale il padre di Louis viene arrestato come collaborazionista e anche altri parenti hanno dei seri problemi. Louis inizia a scrivere una sorta di racconto autobiografico che, nel clima dell’immediato dopoguerra, tra occupanti americani e primi tentativi di rinascita civile, viene accettato per la pubblicazione da una prestigiosa rivista letteraria. Questo racconto, intitolato La sofferenza, è la prima parte del libro che abbiamo letto.
Questa, in larghissima sintesi, la trama del romanzo, che pur essendo centrato sulla figura del giovane Louis Seynaeve (che in buona misura rappresenta l’alter ego dell’autore) è però un romanzo corale – come si può desumere anche dalla lunghezza, oltre 650 pagine – formato per cerchi concentrici sempre più ampi, coinvolgendo la sua famiglia, i parenti paterni e materni, gli amici ed i compagni di scuola, gli abitanti di Walle e Bestegem, le Fiandre e il Belgio, l’Europa in guerra. E proprio questa è secondo me la grande capacità narrativa di Claus: quella di spiegarci un’epoca drammatica e un popolo attraverso una serie di piccole storie individuali, tenute insieme dallo sguardo sognante e contraddittorio di Louis, segnate dalla grande Storia in cui si trovano ad essere immerse. Per quello che ci narra, per il progetto narrativo che lo caratterizza è un romanzo che oserei dire ottocentesco, nel senso che affonda le sue radici nella grande tradizione realistica del XIX secolo; per come questo progetto ci viene narrato, il romanzo è invece pienamente immerso nel novecento, e fa tesoro delle modalità espressive che hanno caratterizzato la letteratura del XX secolo.
Analizzando questo ultimo aspetto, deve essere notata innanzitutto la struttura del romanzo, che è composta da due parti distinte: la prima, intitolata 'La sofferenza', è suddivisa in 27 capitoli e ci accompagna durante i giorni di Louis in collegio, sino alla primavera del 1940; la seconda, più ampia, si intitola 'Del Belgio' e non è suddivisa in capitoli numerati. Lo stile di scrittura non cambia sostanzialmente, anche se si fanno più rari i passaggi dalla narrazione in terza persona a momenti in cui, senza soluzione di continuità, è direttamente Louis a pensare, o a sognare, in prima persona, ed anche se procedendo verso la fine del libro l’autore aumenta sensibilmente l’impiego di serrati dialoghi diretti. Il motivo di questa strana struttura narrativa ci viene peraltro svelato alla fine del libro, quando come detto scopriamo che Louis sta pubblicando il suo primo libro, che si intitola proprio La sofferenza: che sia proprio ciò che abbiamo letto è testimoniato dal fatto che la prima parte termina con la parola Fine e una data, Novembre 1947. Tutto ciò che viene dopo quindi prepara la narrazione di ciò che viene prima: la prima parte è ufficialmente narrata da Louis, mentre la seconda parte è da lui ufficialmente vissuta, e ci si trova così di fronte ad una sorta di paradosso narrativo. La scissione del titolo tra le due parti si può attribuire al fatto che mentre la prima parte del romanzo ci narra essenzialmente la sofferenza del giovane Louis, nella seconda parte entrano in scena drammaticamente i destini di un’intera nazione. È però soprattutto da rilevare la maestria narrativa di Claus, capace di alternare una prosa lucida e precisa, che spesso si carica di una chirurgica ironia, a momenti di monologo interiore ed onirico nei quali ci si immerge nella psicologia del giovane Louis, a una prosa colloquiale non priva di trivialità ed oscenità che esplodono improvvise come fuochi artificiali e che sorprendono non poco il lettore. Tutto ciò rende la lettura estremamente piacevole e succosa.
Sicuramente, tuttavia, la forza del romanzo sta nel suo contenuto, nella critica feroce che è in grado di consegnarci sull’atteggiamento assunto dalla popolazione fiamminga, o almeno dalla classe sociale cui appartiene Louis, rispetto al dramma storico che stava vivendo.
La descrizione e le storie dei componenti delle famiglie Seynaeve e Bossuyt, ma anche di molti altri dei personaggi di contorno, è spietata: piccoli borghesi provinciali, boriosi o dimessi, attenti esclusivamente ai propri interessi, molto spesso inadeguati anche rispetto al loro perseguimento, riescono proprio grazie a questa inadeguatezza a galleggiare in ogni situazione, non prendendo mai una posizione conseguente, essendo costituzionalmente incapaci di prenderla. Vivono nell’ipocrisia delle convenzioni sociali, professandosi buoni cattolici ma avendo quasi tutti pesanti scheletri morali ed etici negli armadi della loro coscienza. Claus tuttavia ci descrive questo mondo non facendo uso di maschere deformate alla Ensor, ma attraverso l’umanità di un ragazzo, che non può che guardare ai suoi parenti ed amici con affetto e bonomia. Ne esce un quadro che potrebbe, anche per il tono come detto spesso ironico del narratore, essere paragonato a quello del felliniano I vitelloni: i protagonisti agiscono però in un contesto molto più drammatico di quello della provincia italiana degli anni ‘50; il contrasto tra questo contesto e le personalità dei personaggi rende questi ultimi ancora più inadeguati.
Alla fine lo sguardo dell’autore si protende verso il dopo, ed anche in questo caso non vengono fatti sconti: le pagine finali, con il fatuo colloquio tra gli intellettuali che si intrattengono a cena con il giovane autore sono un piccolo capolavoro, che ci fa capire come sarebbe andata. ”Si vedrà. si vedrà. Malgrado tutto”, sono le parole che chiudono il libro. Claus, che scrive il romanzo nei primi anni ‘80, aveva purtroppo già visto.
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Ovviamente quello delle ultime cose...
... è un altro paese
**Attenzione: anticipazioni sulla trama**
Paul Auster pubblica 'Nel paese delle ultime cose' nel 1987, subito dopo 'La trilogia di New York', l’opera che lo portò all’attenzione del pubblico e della critica. Si tratta di un romanzo per certi versi anomalo rispetto alla produzione dello scrittore statunitense, soprattutto perché si cimenta con un genere, quello della letteratura distopica, che – almeno per il momento – lo scrittore non ha più affrontato, ed anche perché, contrariamente alla quasi totalità della sua opera narrativa, non è ambientato a New York e neppure negli Stati Uniti.
All’interno di questa cornice inusuale troviamo però in questo romanzo alcuni dei temi tipici della letteratura di Auster: il rapporto tra il linguaggio e l’oggetto della rappresentazione semantica (le cose), la struttura sociale come leviatano che costringe l’uomo ad una incessante lotta per l’esistenza, il caso come fattore determinante il corso della vita, la funzione dello scrittore e della scrittura come strumenti della memoria collettiva.
Dico subito che a mio avviso queste tematiche, indubbiamente di grande rilevanza, vengono trattate da Auster in maniera inadeguata e confusa, conferendo al romanzo un alone di superficialità, di attenzione al meccanismo della scrittura, di ossessione per l’effetto, per la bella pagina più che per il suo contenuto, che mi è capitato di riscontrare anche nelle altre opere dello scrittore statunitense che ho letto.
Aggiungendo il fatto che – come vedremo – Auster affronta il tema della società distopica da una prospettiva esterna, con un intento generale che dal mio punto di vista porta il lettore occidentale a ritrarsi in una dimensione consolatoria, ne deriva un personale giudizio di perplessità sia rispetto alla costruzione del romanzo sia rispetto al suo intento politico, a dispetto delle tante critiche entusiastiche che si trovano in rete e non solo.
Il romanzo si compone di una lunga lettera che la protagonista, la giovane Anna Blume, scrive ad un amico (il vecchio fidanzato?) da una anonima città in cui si è recata alcuni anni prima per cercare il fratello giornalista, scomparso subito dopo essere stato inviato dal suo giornale per mandare reportage sulla situazione politica, sociale e culturale del paese di cui la città è la capitale. Nel paese infatti si sono succedute rivolte e colpi di stato, e la situazione economica è precipitata.
Anna nelle prime pagine descrive lo stato di degrado, di anarchia e di violenza in cui si trova la città, quindi ripercorre con la memoria la sua vita dal momento in cui è arrivata via mare in città, dopo avere incontrato il direttore del giornale per cui lavorava il fratello – che cerca di dissuaderla dall’andare là – dicendole tra l’altro che ha mandato un altro reporter, tale Samuel Farr, sulle sue tracce.
La città è una sorta di girone infernale, abbandonata a sé stessa dal governo, nella quale tutte le basi del contratto sociale sono scomparse o sono sovvertite. Non esistono più servizi pubblici, le derrate alimentari sono scarse, fiorisce il mercato nero e gli abitanti soffrono una tremenda fame; la maggior parte di essi non ha lavoro né casa e si aggira per strade piene di cadaveri che vengono immediatamente depredati dei vestiti e raccolti da squadre di spazzini, al fine di essere cremati per produrre energia elettrica. Per guadagnare pochi gloti (la moneta locale) molta gente raccoglie immondizie per le strade usando i carrelli dei supermercati e conferendole ai centri di raccolta che le brucia sempre per produrre energia, visto che le scorte di petrolio e carbone sono finite. Altri raccolgono gli oggetti più disparati, che possono essere venduti ai Restauratori che li riciclano. Le strade sono controllate da bande pronte a derubare il prossimo, e su tutto aleggia un fetore di cadaveri in decomposizione ed escrementi. In questo violento sfacelo non mancano alcuni passi di ironica leggerezza narrativa, come quelli nei quali Anna ci parla dei gruppi che escogitano le modalità più inverosimili per darsi la morte, considerata l’unica prospettiva di liberazione dalla tragica realtà.
Anna è giunta in città alcuni anni prima: non trova il fratello, perché l’indirizzo a cui lo cerca semplicemente non esiste più, essendo stato l’intero quartiere distrutto. Non potendo ritornare a casa – in quanto dal porto non partono più navi e gli aerei non si sa più cosa siano – inizia per sopravvivere a raccogliere oggetti dormendo all’addiaccio. Giunta ormai allo stremo conosce Isabel, una anziana signora che la ospita nella casa in cui vive con il marito Ferdinand, un ex grafico pubblicitario paranoico la cui unica occupazione è ora costruire modellini di nave in bottiglia sempre più piccoli. Quando, a seguito di complicate vicende, è costretta a lasciare la casa di Isabel, si rifugia nella biblioteca centrale della città, dove vivono alcune comunità intellettuali tollerate dal governo. Qui incontra Samuel Farr, che sta scrivendo un libro sulla città ed ha idee su come scappare, e i due si innamorano. Un drammatico episodio interromperà però il loro idillio, e Anna si ritroverà gravemente ferita a Casa Woburn, una clinica che un ricco filantropo ha fondato per aiutare i poveri e gli ammalati. Rimessasi, ritrova la serenità e anche l’amore con Victoria, la titolare, che la fa lavorare per la clinica. Un giorno per caso ritrova Sam, ed anche lui inizia a lavorare lì. Anche questo periodo di tranquillità è però destinato a finire presto, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie della Casa. Anna, Sam e Victoria decidono quindi di tentare di uscire dalla città, grazie a documenti falsi procurati da un ambiguo personaggio di nome Boris Stepanovich, utilizzando la vecchia automobile della clinica. Negli ultimi giorni prima della partenza Anna inizia a scrivere la lettera che è il romanzo che stiamo leggendo.
Come si può vedere da questo riassunto, estremamente sommario e lacunoso, Auster mette nelle 170 pagine del romanzo tantissima carne al fuoco: troppa. Del resto la quarta di copertina dell’edizione Einaudi che ho letto (desolatamente priva di qualsivoglia contributo critico alla lettura) rivela la intenzione provocatoria di Auster: ”scrivere il romanzo del ventesimo secolo, le tappe di un viaggio infernale con i suoi moderni dannati”. Non so se Auster avesse veramente tale intenzione, oppure se questa gli è stata messa in bocca dal curatore del volume al fine di colpire il possibile lettore: sta di fatto che se tale era l’ambizione, l’autore ha a mio avviso fallito l’obiettivo, del resto smisurato, e mi sento di dire – dopo avere letto tre delle sue opere maggiori – che ha fallito perché concretamente non può andare oltre i suoi oggettivi limiti espressivi, che contrastano pesantemente con una ambizione letteraria derivante da un ego intellettuale ipertrofico.
In quello che dovrebbe essere il romanzo del XX secolo ci troviamo immersi in una città che è il concentrato dei luoghi comuni letterari e cinematografici su cui si basano molte opere distopiche, si tratti di capolavori o di opere di genere. Vi si possono ritrovare richiami più o meno evidenti (almeno per ciò che ho potuto percepire io) a '1984', a 'Fahrenheit 451', a 'Blade Runner' e al romanzo di Dick da cui è tratto il film, a '1997: Fuga da New York' di John Carpenter. Ora, non mi disturba tanto il gioco delle citazioni, che spesso è parte essenziale della modalità di esprimersi di un autore, quanto il fatto che qui divenga in certo qual modo l’unica cifra della costruzione dell’atmosfera della città, il che ne fa – come detto – un luogo comune. Auster non ci mette nulla di veramente suo, tranne l’ironia con cui tratteggia i gruppi degli aspiranti suicidi (in cui si può forse vedere un amaro sarcasmo nei confronti delle nuove tendenze culturali newyorkesi nell’epoca dell’edonismo reaganiano) ma si limita a saccheggiare un armamentario già visto, a tratti vagamente grand-guignolesco. Come mi pare gli accada spesso, rimane poi alla superficie delle storie, perdendo straordinarie occasioni per approfondire caratteri e situazioni. È il caso di momenti chiave del racconto, quali il rapporto di Anna con Isabel e Ferdinand prima e quello con Sam poi, che vengono letteralmente tirati via. Di converso, introduce elementi – quali l’amore lesbico tra Anna e Victoria – che non hanno alcuna funzione nell’economia della vicenda, inducendo il sospetto di una particolare attenzione verso le esigenze del lettore.
'Nel paese delle ultime cose' vorrebbe essere il romanzo del XX secolo anche e soprattutto perché utilizza l’ambientazione distopica per raccontarci come le parole stiano perdendo di significato, come impercettibilmente ma costantemente la società si dimentichi dell’esistenza delle cose e – poco dopo – anche del significato delle parole che queste cose descrivono. Detto per inciso che di questi temi la letteratura del XX secolo si è già ampiamente occupata, e che quindi la riflessione sul rapporto tra significante e significato, sulla perdita di senso del linguaggio e sul ruolo della scrittura in questo contesto non mi pare fosse una assoluta novità nel 1987, credo che anche in questo caso Auster si limiti a fare i compitini, con risultati largamente al di sotto delle sue ambizioni. Nel più importante passaggio dedicato a queste tematiche, Anna parla con un funzionario chiedendo se non possa andarsene in aereo, e quello gli risponde che gli aerei non esistono, che non sono mai esistite macchine volanti. Seguono un paio di pagine con considerazioni sulla memoria, sulle parole e le cose, che non brillano a mio avviso né per profondità di analisi né per felicità dell’esposizione, particolarmente scolastica, nelle quali la tesi di fondo è che i cambiamenti sociali ed economici provocano la continua sparizione di oggetti fisici, cui si associa poco dopo la sparizione delle parole che li descrivevano. Non tutti però dimenticano le stesse cose nello stesso momento, e questo genera difficoltà di comunicazione. ”Come puoi parlare con qualcuno di aeroplani, per esempio, se questa persona non sa cosa sia un aeroplano?”. Da qui, ci suggerisce Auster con questa opera, la necessità e l’urgenza che Anna scriva sul suo quaderno blu, che Sam scriva il suo libro: anche se non saranno letti da nessuno (in realtà il quaderno di Anna sembra essere letto dal suo vecchio amico) fisseranno comunque per sempre le cose anche dopo la loro sparizione. Questo ed altri passaggi in cui affiora questo tema sono comunque letteralmente sommersi dall’azione del romanzo, dalle pagine dedicate alla descrizione della città e delle vicende di Anna, finendo per ritagliarsi un ruolo marginale a dispetto del titolo del romanzo.
Restano da analizzare i risvolti 'politici' del romanzo. La letteratura distopica indubbiamente ha come finalità essenziale quella di descriverci società apparentemente lontane, nel tempo o nello spazio, dalla nostra, ma che in qualche modo rappresentano gli aspetti estremi od evolutivi della società in cui viviamo. Spesso queste società sono il risultato dell’evoluzione tecnologica disumanizzante, oppure dell’instaurarsi di regimi totalitari, oppure ancora si generano a seguito di disastri planetari. Nella migliore letteratura di questo genere ci immergiamo quindi in mondi che evidenziano le possibili, terribili conseguenze della proliferazione di germi già presenti nella nostra attualità.
Rispetto a questo assunto di base della letteratura distopica 'Nel paese delle ultime cose' rivela una fondamentale distanza, che si traduce a mio avviso in un fattore di estrema debolezza, in un assunto consolatorio venato da una precisa ideologia.
In questo romanzo, infatti, non è il mondo che si è trasformato, si è inverato in distopia, ma è un paese, un pezzo di mondo: Anna viaggia per dieci giorni in mare per raggiungerlo, e dall’altra parte ci sono ancora il suo amico, la sua casa, la sua tranquilla esistenza borghese e spensierata. Non è quindi la società in cui Anna è vissuta che ha generato lo sfacelo e la violenza in cui è immersa, ma l’altra parte del mondo. Essendo stato scritto negli anni ‘80, non è difficile capire a quale altra parte Auster si riferisca: la città e il paese, sia pure mai chiamati per nome, non sono gli Stati Uniti, tanto che si raggiungono dopo un lungo viaggio e hanno una moneta diversa (il cui nome, guarda caso, somiglia molto a quello della moneta di un paese allora comunista). Esistono quindi un mondo buono e uno cattivo, che Auster ci descrive davvero come l’impero del male teorizzato dal vituperato Reagan. Emerge anche in Auster a mio avviso la sindrome del giusto che caratterizza buona parte della cultura statunitense, e che si può riassumere così: al nostro interno abbiamo tante contraddizioni, ma quando ci rapportiamo agli altri siamo sempre nel giusto. In Go(l)d we trust.
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Un “romanzo fallito”: perché?
Nadia Fusini, nella sua bella introduzione alla vecchia e pregevole edizione Mondadori a Shirley di Charlotte Brontë che ho letto, lo definisce un romanzo “fallito”.
Questa apparente stroncatura mi trova d’accordo quando si guardi al risultato complessivo del romanzo rispetto alle aspettative e al taglio che l’autrice intendeva dargli, mentre non è sicuramente valida qualora si riferisca alle capacità di scrittura e di articolazione della storia e dei personaggi che Charlotte Brontë dimostra, in particolare nella prima parte dell’opera.
Quale sia il profilo che intende dare al romanzo l’autrice ce lo rivela sin dalla prima pagina, laddove dice: ”Se da questo preludio, o lettore, pensi che ti si ammannisca qualcosa di romantico… ebbene, non ti sei sbagliato di più! Pregusti sentimentalismo, poesia, sogni ad occhi aperti? Ti vai immaginando passione, emozione e melodramma? Calmati e riporta le tue speranze a un livello inferiore. Ti sta davanti qualcosa di assai concreto, di freddo e solido. E di così poco romantico come può esserlo un lunedì mattina per chi va a lavorare e si sveglia con la coscienza di dover uscire dal letto e per giunta anche di casa.”
L’intento dichiarato di Charlotte Brontë è scrivere un romanzo sociale, nel quale le materiali condizioni economiche del nord industriale dell’Inghilterra all’inizio del XIX secolo, caratterizzate dalla miseria della classe operaia acuita dalle frequenti crisi da sovrapproduzione, siano non lo sfondo astratto della storia, ma la cornice concreta entro la quale si muovono i vari personaggi, determinandone il comportamento e in qualche modo il destino.
Il romanzo è quindi ambientato in un contesto storico e territoriale attentamente definito nei primi capitoli. Siamo in un angolo appartato dello Yorkshire, nei cui piccoli villaggi si sono insediate fabbriche tessili nelle quali è impiegata la maggior parte della popolazione. Il periodo è quello delle guerre napoleoniche, ed in particolare quello successivo all’emanazione degli Orders in Council del 1807 e 1809, con i quali, in risposta al blocco operato dai francesi sul commercio britannico, la Gran Bretagna decretò il controblocco, che di fatto impediva alle potenze continentali il commercio con i francesi e i loro alleati. Una conseguenza di queste misure fu una diminuzione drastica delle esportazioni britanniche, in particolare dei prodotti dell’industria tessile, con conseguente rallentamento della produzione e licenziamenti in massa.
Un altro motivo di scontro sociale è dato dalla crescente introduzione di macchinari nel ciclo produttivo, con la conseguente diminuzione della necessità di manodopera: come noto, una delle risposte a questo mutamento delle condizioni della produzione fu il movimento luddista, che praticava la distruzione delle macchine come forma estrema di protesta contro la disoccupazione e i bassi salari.
In questo contesto incontriamo i protagonisti del romanzo, che nella sua prima parte sono essenzialmente due. Il primo è Mr Robert Gérard Moore, giovane industriale tessile con scarsi capitali, trasferitosi in quei luoghi solo da un paio d’anni: è per metà belga, - di Anversa – ed ha preso in affitto il malandato opificio di Hollow’s Mill rendendolo produttivo. Moore è freddo e determinato, duro con gli operai che non esita a licenziare quando gli affari vanno male, ed ha come unico obiettivo di vita incrementare i suoi guadagni, aumentando la produzione attraverso l’introduzione delle macchine più moderne. Per questo si è indebitato, ed ora il blocco del commercio lo sta mettendo in difficoltà. Anche perciò si riconosce nei Whigs, il partito della borghesia produttiva, che chiede la pace con Napoleone e la fine del blocco commerciale.
L’altra protagonista è Caroline Helstone, una diciassettenne, quasi parente di Robert Moore. Caroline ha una dolorosa storia familiare: la madre l’ha abbandonata a causa della violenza del padre, che l’ha lasciata orfana sin da piccola. Vive con lo zio vedovo, parroco (rettore) di Briarfield, che – pur essendo profondamente misogino – vuole a suo modo bene a Caroline. La ragazza è segretamente innamorata di Robert, del quale ammira la virilità e il fascino esotico pur percependo bene la sua durezza di carattere e mancanza di umanità. Razionalmente non si fa illusioni, accontentandosi del loro rapporto di amicizia ed essendo cosciente che in quanto donna e povera ben difficilmente potrà avere un futuro diverso da quello di istitutrice nubile; nell’animo però soffre per l’indifferenza di Robert e gradualmente piomba in una sorta di malinconica apatia che rischia di minarne la salute.
Fa da contraltare a Caroline il personaggio di Shirley Keeldar, che abbastanza misteriosamente – a mio avviso - dà il titolo al romanzo ed entra in scena dopo parecchi capitoli. Di qualche anno più vecchia di Caroline, rappresenta il suo alter ego per contrasto: è la ricca proprietaria della mansion di Fieldhead, vissuta a lungo lontana, anch’essa orfana, spigliata e solare quanto Caroline è riflessiva e timida. Le due divengono molto amiche, pur non arrivando mai a confidarsi i propri veri sentimenti nei confronti dell’altro sesso (come si conviene del resto a due ragazze bene dell’inizio del XIX secolo): Caroline si convince così che Shirley finirà per sposare Robert, il quale effettivamente dimostra un certo interesse per la giovane ereditiera: la sua lealtà verso l’amica e la coscienza dell’impossibilità del suo amore per Robert la spingono ad accettare questa eventualità, a sentirla anzi, sia pure con intima sofferenza, come giusta per la felicità dell’amica e dell’innamorato.
Nel frattempo è comparso sulla scena anche Louis Moore, fratello di Robert, che è stato istitutore di Shirley, di cui è segretamente innamorato. Se Shirley è l’alter ego di Caroline, Louis lo è di Robert: è colto, romantico, gentile d’animo, anche se meno bello del fratello.
Come si può constatare dalla succinta descrizione dei personaggi principali e delle relazioni che intercorrono tra di loro, non mancano elementi di una certa convenzionalità romantica, proprio quella che Charlotte Brontë ha dichiarato sin dalla prima pagina di voler evitare. Tuttavia sino alla metà del romanzo questi elementi sono compressi, limitati dalla capacità dell’autrice di far prevalere gli aspetti corali della storia, l’affresco sociale che intende dipingerci. Le vicende dei personaggi principali sono infatti accompagnate, a tratti determinate e a volte soverchiate dalle vicende complessive della piccola società di cui i personaggi fanno parte, che a sua volta è lo specchio della società britannica dell’epoca.
I primi capitoli, in particolare, sono dedicati anche e soprattutto a descriverci la crisi economica e lo scontro tra gli industriali tessili e gli operai, di cui l’autrice ci descrive con puntigliosità le cause. Una serie di personaggi di contorno giocano un ruolo essenziale al fine di connotare le sfaccettature e l’articolazione delle compagini sociali che compongono le comunità dello Yorkshire in cui il romanzo è ambientato. Hanno così voce gli operai, con la loro miseria e le loro rivendicazioni; esponenti della chiesa anglicana, verso la quale il giudizio della scrittrice non è certo tenero (anche qui, come nel più noto Jane Eyre, si può a questo proposito rintracciare l’eco della tremenda esperienza vissuta dalle sorelle Brontë nel collegio per figlie di preti in cui furono letteralmente recluse da giovanissime); industriali più saggi di Robert Moore, che sanno meglio comprendere le legittime aspirazioni degli operai ad una vita più dignitosa, vari personaggi femminili ciascuno dotato di una propria spiccata personalità. L’autrice rappresenta vividamente e con una buona dose di realismo la miseria delle famiglie di operai, le azioni di rivolta contro le macchine e la crudele controffensiva dei padroni, come pure i momenti di festa e organizzazione del consenso nella comunità (molto belli i capitoli sulla processione di Pentecoste), avvalendosi anche di una notevole dose di sottile ironia che contribuisce non poco alla leggerezza e al fascino della sua pagina: la stessa abbondanza di citazioni e rimandi biblici che caratterizza il romanzo è da leggersi a mio avviso in senso ironico. In queste pagine, tra l’altro, la scrittrice interloquisce spesso direttamente con il lettore, interrompendo la narrazione per guidarlo argutamente lungo i meandri del piccolo mondo dello Yorkshire e il carattere dei suoi personaggi.
Certo, si può ravvisare nel suo atteggiamento verso il conflitto sociale una notevole dose di paternalismo, da cui affiora una sostanziale affinità con l’ideologia del "volemosse 'bbene" dell’amica e biografa Elizabeth Gaskell. Così, le rivolte sono fomentate da caporioni ed ubriaconi che spingono gli ingenui lavoratori allo scontro violento piuttosto che al dialogo con il padrone, caporioni che finiscono per essere giustamente e inflessibilmente puniti dall’ordine costituito o dalla vendetta privata dei proprietari, mentre l’operaio bravo e capace che non cede alle lusinghe della violenza ed espone la sua tremenda condizione di disoccupato a Moore diverrà, per intercessione di quest’ultimo, stimato giardiniere dei signori locali. Così, ancora, dopo lo scontro notturno tra i luddisti che intendevano assaltare la fabbrica e i padroni, aiutati dall’esercito, l’attenzione dell’autrice sarà molto maggiore per la ferita riportata da Moore che per i morti e feriti tra gli operai, registrati quali solo a fini cronachistici.
Detto questo, siccome non credo si possa pretendere che l’autrice, per la sua storia personale e per l’ambiente culturale da cui proveniva, potesse avere una solida coscienza di classe, è comunque da rimarcare lo sforzo di obiettività e di precisione storica con cui affronta argomenti e situazioni non certo troppo vicini alla sua esperienza di vita, così come il fatto che la durezza del padrone Moore viene stigmatizzata anche come subordinazione assoluta della sfera emotiva al desiderio di ricchezza, con la conseguente incapacità di provare sentimenti veri nei confronti degli altri e della stessa Caroline.
Un elemento che caratterizza il romanzo – almeno nella sua prima metà – e che informa del resto l’intera opera della scrittrice, è il suo femminismo. Le due protagoniste femminili, pur non avendo la forza delle eroine di Jane Eyre o di Villette, sono comunque notevoli ritratti di giovani ragazze che, soprattutto se pensate nel contesto della Gran Bretagna vittoriana, dimostrano indipendenza di giudizio, passionalità, capacità di valutare criticamente il contesto e le convenzioni sociali in cui sono immerse, accanto ad elementi di fragilità che le rendono molto umane.
Nel capitolo XIX, che segna esattamente la metà del romanzo, avviene il già citato cruento scontro notturno tra gli operai che assaltano la fabbrica di Robert Moore– guidati come detto da caporioni venuti da fuori – e i padroni che si sono organizzati per difendere la proprietà. Da questo momento il romanzo si spegne, e diventa sostanzialmente un altro. Non intendo entrare nei dettagli del suo svolgimento, per non diminuire il gusto della lettura, ma sta di fatto che la storia narrata perde progressivamente il carattere di coralità che la caratterizzava, ed al mix equilibrato di vicende personali e collettive che costituiva il suo sottile fascino si sostituisce l’evoluzione dei rapporti personali tra i quattro personaggi principali: alle vicende della collettività succedono le vicende del cuore, e se come detto nella prima parte gli elementi di convenzionalità romantica, pur presenti, restavano confinati, adesso occupano tutta la scena: lunghe malattie d’amore, madri ritrovate, sospirose pagine di diario, amori nascosti persino a sé stessi che esplodono in tutta la loro forza la fanno da padrone. È come se il romanzo a un certo punto si rovesciasse, e il lettore dovesse andare a cercare con difficoltà le poche pagine dotate del brio della prima parte (il rapporto di Shirley con i parenti Sympson, ad esempio) in un mare di melassa, nella quale anche la scrittura si fa più didascalica, più scontata.
Perché succede ciò? Perché Charlotte Brontë tradisce così palesemente il suo dichiarato intento di darci un romanzo sociale? La spiegazione forse ce la fornisce Nadia Fusini nell’introduzione. La scrittura del romanzo avvenne in due momenti, interrotti dalla morte nei pochi mesi tra il settembre 1848 e il maggio 1849 del fratello e delle due sorelle Emily e Anne. La Charlotte che termina il romanzo non è più quindi quella che lo ha iniziato: non può più permettersi di flirtare con il lettore, non riesce più a seguire coerentemente il filo delle vicende collettive e personali che aveva cominciato ad annodare. Il senso di morte che aleggia sulla famiglia è troppo greve, e la conseguenza – a mio avviso – è la necessità di rifugiarsi nell’ovvio, nel convenzionale, nella consolazione. Questa seconda parte del romanzo, insomma, se da un lato ci lascia perplessi, dall’altro ci racconta – per negazione – l’insostenibile pesantezza dell’essere di una donna già fortemente provata dall’esistenza, che solo dopo alcuni anni di decantazione di questo dolore avrebbe trovato di nuovo la forza di raccontare sé stessa e il mondo, in quel capolavoro che è Villette.
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Esegesi minima e inadeguata di un monumento
Ho esitato a lungo prima di decidermi a scrivere qualcosa su Cime tempestose, sia perché la lettura di questo romanzo ha scatenato in me una vera e propria orgia di sentimenti e di emozioni nei quali ho faticato a fare ordine, sia perché su questo straordinario romanzo credo sia stato davvero detto e scritto tutto, e quindi, ancora più che in altri casi, sento tutta la mia dilettantistica inadeguatezza nell’accostarmi, per tentare di analizzarlo, ad un simile monumento. Una cosa è certa: di fronte a quest’opera non mi ritraggo dall’utilizzare termini iperbolici, perché davvero la ritengo uno dei capolavori assoluti della letteratura di ogni tempo (perlomeno della letteratura di cui ho una qualche cognizione).
In Cime tempestose c’è tutto: l’epica, la tragedia, la spietata analisi dell’animo umano – condotta con un approccio che oserei definire psicanalitico oltre un cinquantennio prima che la psicanalisi fosse inventata, la sottile ma implacabile critica alla costruzione sociale, l’ironia e molto altro ancora.
È dalla forma di questo romanzo che vorrei prendere le mosse, perché a mio avviso da un lato essa ci svela molte cose del contenuto, e dall’altro costituisce il primo indizio della grandezza di questa scrittrice, il segno della sua consapevolezza, la prova che nulla nella scrittura di Emily Brontë è lasciato al caso.
Cime tempestose è composto da 34 capitoli: le vicende della prima generazione, nelle quali prevale il tema dell’amore, si concludono esattamente a metà, dopo 17 capitoli, mentre i rimanenti, in cui prevale la vendetta, sono dedicati alla seconda generazione. Ancora: i primi tre capitoli sono una sorta di prologo, durante i quali il primo narratore, Lockwood, prende contatto con i luoghi e i personaggi dell’azione; è dal quarto capitolo che Nelly Dean (la seconda narratrice) inizia a raccontare le vicende degli Earnshaw e dei Linton, di Heathcliff e di Catherine. Specularmente, gli ultimi tre capitoli costituiscono l’epilogo della vicenda, narrato ancora da Nelly Dean a Lockwood dopo alcuni mesi di assenza. La corrispondenza tra i primi tre e gli ultimi tre capitoli è sottolineata dal fatto che i due blocchi iniziano entrambi con la notazione dell’anno cui si riferiscono le vicende che narrano. Una perfetta simmetria narrativa, quindi, che lascia intendere la costruzione di un progetto perfettamente formato nella mente dell’autrice, ma che soprattutto – a mio avviso – costituisce uno dei grandiosi codici cifrati di cui il romanzo è intriso. Prima però di tentare di esporre come questa simmetria delle pagine si colleghi al contenuto (ai contenuti) del romanzo, vorrei porre l’attenzione su un altro aspetto non solo formale di Cime tempestose: la sua struttura narrativa a matrioska. Gli avvenimenti del romanzo non sono narrati da un io onnisciente: come detto esiste un primo narratore, Lockwood, giovane londinese un po’ fatuo che affitta la mansion di Thrushcross Grange. Nei primi tre capitoli, ambientati verso la fine del 1801, narra del suo arrivo e di come conosca il suo padrone di casa, Heathcliff, che vive, insieme ad alcuni parenti e alla servitù, a Wuthering Heights, una proprietà vicina, situata in una porzione più elevata della brughiera. Dopo una visita a Wuthering Heights sotto una tempesta di neve, durante la quale ha subito le conseguenze dello sgradevole clima di paura e malcelato odio reciproco che intercorre tra gli abitanti della casa, cade malato, venendo assistito dalla governante, Ellen (Nelly) Dean, che ha servito gli Earnshaw e i Linton per tre generazioni. È lei che, su insistenza di Lockwood che cerca una spiegazione per gli strani avvenimenti e per l’atmosfera che ha trovato a Wuthering Heights, narra la storia delle due famiglie, partendo da trent’anni prima: la sua narrazione, registrata da Lockwood, occupa praticamente per intero il romanzo, fatto salvo il prologo, visto che è ancora lei a raccontare al giovane l’epilogo. Nelly narra quasi sempre in quanto testimone diretta dei fatti, ma in alcuni casi deve ricorrere a sua volta ad altre fonti (una lunga lettera di Isabella Linton, le confidenze di Zillah, un’altra domestica). Così, in generale i fatti sono narrati da Nelly a Lockwood il quale li narra a noi, ma le cose si complicano ulteriormente quando qualcun altro li narra a Nelly, che li narra a Lockwood che li narra a noi.
Infine, un altro elemento di originalità del romanzo sta nella sua organizzazione temporale: come detto, la narrazione inizia alla fine del 1801, con l’arrivo di Lockwood nella brughiera; dal quarto capitolo inizia il lunghissimo flashback narrato da Nelly a Lockwood durante i pochi giorni della sua convalescenza, che prendendo le mosse, come detto, dal 1771, ci porta gradatamente e linearmente all’attualità del 1801. Guarito, Lockwood lascia Thrushcross Grange per tornare a Londra, ritornandovi alcuni mesi dopo, nel settembre 1802: Nelly riprende il ruolo di narratrice e racconta ciò che è successo negli ultimi mesi.
Questa serie di elementi strutturali costituisce a mio avviso uno degli elementi di maggior fascino del romanzo, perché, come accennato sopra, ad essi corrispondono alcuni messaggi che l’autrice ci trasmette sul significato della storia narrata. La domanda che è necessario porsi è infatti: perché Emily Brontë costruisce in questo modo il suo romanzo, che all’epoca della sua pubblicazione fu aspramente criticato proprio perché confuso?
Riprendiamo il tema della simmetria del romanzo: essa a mio avviso corrisponde ad un’altra simmetria-chiave propostaci dall’autrice: quella esistente tra le due famiglie protagoniste. Gli Earnshaw di Wuthering Heights e i Linton di Thrushcross Grange sono famiglie antiche: la prima volta che Lockwood varca la soglia di Heights nota sull’architrave la data “1500”, e Nelly poco dopo gli dice che anche i Linton sono signori di Grange da secoli. Si presume perciò che sino ad allora le due famiglie abbiano avuto rapporti di buon vicinato, cementati dal comune status di possidenti terrieri: forse anche in passato vi sono stati matrimoni incrociati, anche se nulla ci è detto in proposito. La simmetria tra le due famiglie nel 1771 è comunque perfetta: in entrambe troviamo due genitori con due figli adolescenti o bambini, un maschio e una femmina. Questa simmetria, specchio della tranquillità e del consolidato potere della piccola nobiltà agraria su cui si è fondata per secoli la società inglese, è rotta dall’entrata in scena di Heathcliff. Anche se alcuni commentatori si sono spinti ad ipotizzare che Heathcliff fosse in realtà figlio illegittimo di Mr. Earnshaw, egli è tuttavia totalmente avulso alla piccola, apparentemente cristallizzata società in cui viene catapultato a sette anni, come testimonia emblematicamente il fatto che sia dotato di un solo nome, che funge anche da cognome: l’autrice ce lo descrive come uno zingaro, scuro di pelle e bruno di pelo, che all’inizio si esprime in un dialetto incomprensibile. Viene da Liverpool, la città simbolo del mercantilismo inglese che proprio alla fine del ‘700 stava vivendo l’inizio della prima grande rivoluzione industriale che avrebbe per sempre sconvolto proprio il piccolo mondo rurale incarnato dagli Earnshaw e dai Linton. Heathcliff rappresenta quindi a mio avviso – oltre ad altre mille cose, essendo uno dei personaggi letterari più straordinari che sia mai stato concepito, che affonda le sue radici nella tradizione shakespeariana – la nuova società industriale e borghese che avanza, che si incunea sempre di più nel piccolo mondo antico delle Midland, sconvolgendone i rapporti sociali e finanche il paesaggio fisico, e portando con sé un carico di sofferenze umane inimmaginabili. Emily traspone nel suo romance le angosce, le paure, il senso di ingiustizia che le sorelle provano di fronte a questa nuova organizzazione sociale (esattamente come contemporaneamente stava facendo Charlotte – con esiti peraltro molto meno alti – scrivendo il novel sociale Shirley), angosce, paure e senso di ingiustizia che si sommano a quelle derivanti dalla loro vicenda esistenziale. Heathcliff è odiato e viene espulso dal mondo in cui era entrato, che lo ritiene un selvaggio e un usurpatore; viene annichilito nel suo amore totale per Catherine, ma torna ricco (appunto!), e da quel momento la sua vendetta consisterà nell’appropriarsi dei beni materiali delle due famiglie (di nuovo, appunto!).
L’autrice quindi, con una finesse letteraria meravigliosa, si serve di una struttura narrativa perfettamente simmetrica per raccontarci la rottura tragica di una simmetria sociale ed etica, simmetria che sembra ricomporsi nel finale.
Venendo ora al ricorso alla narrazione a più voci concentriche, è indubbio che si tratti di un’altra grandissima trovata letteraria. Infatti Emily affida apparentemente la narrazione ad un soggetto totalmente estraneo alla storia (ed anche un po’ stupido, presuntuoso e tardo nel capirla sino in fondo), che però in realtà si deve affidare a chi (Nelly) non solo ne è stata coprotagonista, ma in alcuni casi, anche attraverso entrate a gamba tesa, ne ha determinato l’andamento. Noi lettori dobbiamo fidarci di Nelly, ma Nelly ha le sue simpatie e le sue idiosincrasie, è parte in causa: siamo sicuri che le cose siano andate proprio come Nelly ce le racconta? La risposta è no, ed il dubbio è ancora più forte per quelle parti in cui la stessa Nelly si affida ad altre fonti. La storia del breve matrimonio tra Isabella Linton e Heathcliff è narrata da una lettera di Isabella: può mai Isabella essere imparziale? Tutto nel romanzo è mediato dal punto di vista dei vari narratori, che – a parte il povero Lockwood – sono al tempo stesso attori e comprimari. Questa parzialità di giudizio, che attraversa tutto il romanzo, è fortemente voluta, e ci è suggerita dall’autrice proprio all’inizio quando, al primo incontro con Heathcliff, Lockwood prova una viva simpatia per lui e ne apprezza la misantropia, salvo poi ricredersi presto.
Proprio Heathcliff, in assoluto il protagonista del romanzo, è descritto nella prima parte come un selvaggio, e nella seconda come un essere votato alla vendetta, senza che mai possa prendere direttamente la parola per darci la sua versione. Oltre a fatti conclamati che ci possono portare a condividere questa opinione sostanzialmente negativa su di lui, l’autrice mette però in campo altri fatti, che ci fanno riflettere: come detto, egli viene espulso dalla famiglia, alla morte del vecchio Mr. Earnshaw , dal fratellastro Hindley, che lo odia e ha iniziato da subito a umiliarlo. Viene relegato tra la servitù, addetto ai lavori pesanti. Heathcliff sopporta però stoicamente i soprusi, perché forte del suo legame con Catherine. Più tardi, quando si rende conto che anche Catherine lo tradirà, dandosi a chi appartiene al suo rango sociale, se ne andrà per il mondo. Tornato dopo tre anni, si accontenta di essere amico di Catherine, ma viene di nuovo scacciato dal marito di Lei, peraltro a seguito di una vera e propria soffiata malevola di Nelly. Sulla base di questi ulteriori elementi, che giudizio possiamo farci di Heathcliff? È davvero il feroce e spietato individuo di cui ci parla Nelly o è la vittima di una crudele discriminazione di classe?
A proposito di Catherine, l’altro grande personaggio del libro (ma che dire di Nelly o di un personaggio minore come il domestico Joseph?), come non rilevare, nella contraddizione tra il suo amore romantico e assoluto per Heathcliff (”io sono Heathcliff!” dice) e la sua incapacità di sfuggire alle convenzioni sociali, come non vedere nelle giustificazioni alle sue scelte nel famosissimo dialogo con Nelly, una straordinaria capacità dell’autrice di andare oltre l’amore romantico delineando con chiarezza i meccanismi del senso di colpa e dei suoi antidoti?
La struttura narrativa, la parzialità con cui veniamo a conoscere la storia, le sue ambiguità (ce ne sono moltissime nel testo) costituiscono uno degli elementi di grandissimo fascino di questo romanzo, nel quale i giudizi sono espressi da chi ha un preciso ruolo nell’azione, rendendoli così quantomeno controversi, oppure non vengono espressi. In questo senso Cime tempestose può davvero considerarsi un romanzo dotato di una sua peculiare modernità – colta non a caso nel primo novecento – e di una potenza che irretisce anche il lettore contemporaneo.
Resta da dire del finale, di quella struggente (perché a-morale o premorale, secondo una definizione di Mario Praz) fine di Heathcliff, che ci restituisce una parte essenziale della grandezza assoluta del personaggio. Ritengo che una fine così, seppure un po’ sminuita da quella pettegola di Nelly, sia paragonabile a quella degli eroi. Sono solo gli eroi che capiscono quando sono stanchi, quando ciò che fanno non ha più senso: sono solo gli eroi che sanno quando è giunto il momento di andarsene. Anche la nuova simmetria insita nella ritrovata armonia tra gli Earnshaw e i Linton sarà sghemba, perché i fantasmi di Catherine e Heathcliff continueranno a vagare nella brughiera, checché ne pensi il povero Lockwood (che come al solito ha capito poco).
Ci vorrebbero altre decine di pagine ed una competenza che non ho per approfondire alcuni altri dei temi esistenziali, sociali e letterari che Cime tempestose ci propone. Come dice Gabrilu, questo è un romanzo che va letto, riletto e straletto, certi che ogni volta ci regalerà qualcosa di cui stupirci.
Indicazioni utili
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Dottor Jekyll e Mr Hyde scrittori a New York
“I libri sono oggetti misteriosi […] e una volta che cominciano a circolare può succedere di tutto. Possono causare misfatti di ogni genere, senza che tu possa farci un accidente di niente.” È questa una delle prime sentenze di 'Leviatano', romanzo di Paul Auster pubblicato originariamente nel 1992 ed in Italia nel 1995 da Guanda. È proprio vero: può infatti succedere che nella successiva edizione Einaudi (2003), ci si imbatta nella prima pagina del romanzo in questa frase: ”Il passo successivo sarebbe dovuto essere il rilevamento delle impronte digitali, ma in questo caso non c’è n’erano dal momento che le mani dell’uomo erano state completamente distrutte dalla bomba.” Lo strafalcione grammaticale e mezzo contenuti in questa singola frase segnalano plasticamente uno degli aspetti più negativi di questa edizione del romanzo: la generale sciatteria della traduzione di Eva Kampmann, accompagnata da non infrequenti errori di battitura: se si può essere indulgenti nel caso di volumi pubblicati da Club del Libro, credo che una traduzione come questa – acquistata in blocco da Einaudi dalla precedente edizione italiana del romanzo – sia indegna di quella che dovrebbe essere la più prestigiosa casa editrice italiana, perché di sicuro non contribuisce a farci conoscere davvero un autore ed un libro certamente – pur con tutti i limiti che personalmente attribuisco loro – importanti.
'Leviatano' è la storia dello smarrimento dell’intellettualità radicale statunitense, e newyorkese in particolare, nel periodo cruciale che ha segnato la fine delle utopie libertarie degli anni 60/70 del secolo scorso e il successivo trionfo del neoliberismo, incarnato negli Stati Uniti dalla presidenza di Ronald Reagan.
Auster ci narra questo periodo in maniera scopertamente autobiografica, scindendosi in due personaggi: Peter Aaron, la voce narrante, e Benjamin Sachs, il suo migliore amico, entrambi scrittori.
Il libro, sapientemente costruito, inizia il 4 luglio del 1990, con la lettura sul giornale da parte di Aaron – ormai scrittore affermato – della notizia che un uomo pochi giorni prima si è fatto saltare in aria con una bomba sul ciglio di una strada. La polizia non conosce l’identità dell’uomo, del cui corpo sono rimasti pochi brandelli, ma Aaron si convince subito che si tratti di Ben, di cui da tempo non ha notizie. Il suo convincimento diviene certezza quando, pochi giorni dopo, l’FBI si reca a casa sua: nel portafoglio della vittima è stato trovato un biglietto con le sue iniziali e il suo numero di telefono. Aaron non parla di Sachs alla polizia ed inizia a scrivere la storia della sua amicizia con lui, per ”…spiegare chi era e raccontare la verità sul perché si trovava su quella strada del Wisconsin del Nord”, in modo da contrastare false ricostruzioni e la distruzione di una reputazione ad opera dei media quando si conoscerà l’identità della vittima.
Aaron sa che per raccontare la vita di Sachs dovrà scavare anche nei momenti difficili e dolorosi nella propria, essendo le loro storie strettamente intrecciate, ma sa anche che lo deve fare, in memoria dell’amico.
Inizia quindi un lunghissimo flashback, che ci riporta all’inverno del 1975, quando i due, giovani squattrinati che ambiscono ad affacciarsi sulla scena culturale di New York, si conoscono ad un reading nel Village e divengono immediatamente amici. Capiscono subito di avere una forte comunanza di interessi intellettuali, anche se apparentemente sono diversissimi: tanto normale nell’aspetto si intuisce sia Peter Aaron quanto stravagante, o meglio conforme allo spirito dei tempi, Ben: alto ed eccessivamente magro, si presenta al reading con lunghi capelli e barba, cappottone tarlato, berretto da baseball e sciarpa annodata lungo il viso per proteggere le orecchie dal freddo: ”sembrava uno con un terribile mal di denti, pensai, oppure un soldato russo mezzo morto di fame abbandonato nei dintorni di Stalingrado.” Le differenze non sono però solo fisiche: Sachs ha pubblicato pochi anni prima un romanzo storico, Il nuovo colosso, che ha suscitato un acceso dibattito ed è stato accusato dalla critica conservatrice di antiamericanismo, mentre Aaron ha al suo attivo solo alcuni racconti e traduzioni; Sachs ha però ormai abbandonato la narrativa, che per lui non ha più senso, per dedicarsi a un eclettico lavoro di saggistica, mentre Aaron è in procinto di scrivere un romanzo; Sachs è uno scrittore instancabile, cui le pagine escono di getto, mentre Aaron scrive soffrendo la pagina; Sachs è stato in galera per avere rifiutato l’arruolamento nella guerra del Vietnam, mentre Aaron è stato riformato, avendo potuto così evitare di mettere alla prova i suoi ideali; Sachs si è sposato molto giovane, mentre Aaron è al momento ancora scapolo. Per molti versi i due sono quindi l’uno il negativo dell’altro, si completano a vicenda, e nel corso del romanzo apparirà sempre più chiaro a mio avviso che mentre Aaron rappresenta la faccia ufficiale di Auster, quella a cui attribuisce – sia pure in forma cifrata – il proprio nome e molti degli avvenimenti reali della sua vita, Ben incarna il suo lato oscuro, ciò che avrebbe potuto essere se fosse stato più radicale, ciò che avrebbe potuto divenire se avesse letto con maggiore coerenza la realtà che lo circondava e se il caso – elemento sempre presente nelle vicende umane che Auster ci racconta, soprattutto nella prima fase della sua produzione letteraria – avesse deviato la sua esistenza verso altri lidi. Azzardando un confronto letterario, nelle figure di Peter e Ben ho ravvisato una sorta di riproposizione da parte di Auster del dualismo Jekyll-Hyde, riferito alla personalità artistica dell’autore.
Il legame tra i due si annoda anche per alcuni imperscrutabili segni del destino: su tutti il fatto che Aaron aveva conosciuto la moglie di Ben, Fanny, ai tempi dell’università, innamorandosi di lei nonostante avesse notato la fede al dito. Nel corso della storia, nella quale le vicende sentimentali ed erotiche dei protagonisti giocano una parte non secondaria, Aaron avrà una relazione con Fanny: Ben tuttavia accetterà il tradimento da parte dell’amico, che si era spinto sino a chiedere a Fanny di lasciare il marito per sposarlo, proposta che comunque Fanny rifiuta, troncando presto la relazione. In un colloquio chiarificatore Ben arriverà a dire che ciò che è successo è stato un bene, perché ha ridato a Fanny fiducia in sé stessa. Credo che anche in questo episodio e nella sua soluzione si possa ravvisare, in trasparenza, la sostanziale identificazione tra i due personaggi.
I primi due dei cinque lunghi capitoli in cui il romanzo è suddiviso narrano dei primi anni dell’amicizia tra i due, tra il 1975 e il 1980 e, come spesso nei suoi romanzi, Auster è estremamente preciso e puntuale nel registrare i tempi e i luoghi dello svolgimento delle vicende che narra. Durante questi cinque anni la vicenda si incentra prevalentemente su ciò che accade a Peter (che in gran parte coincide con ciò che accadde all’autore): le ristrettezze economiche, il primo matrimonio e la nascita del figlio David, il divorzio, la vita da nuovo scapolo sessualmente vorace, i primi successi letterari accompagnati da una nuova stabilità economica, il secondo matrimonio. Risalgono a questo periodo la relazione con Fanny ma anche l’entrata in scena di due personaggi chiave per il prosieguo della vicenda: Maria Turner e Lillian Stern. La prima è una giovane artista della scena off newyorkese, le cui opere accoppiano fotografia e testi, nella cui figura Auster ritrae la sua amica e collaboratrice Sophie Calle; la seconda è una stravagante amica di Maria. Peter diverrà per due anni l’amante, o meglio l’alleato sessuale di Maria, e tramite lei verrà a conoscere la storia di Lillian.
Dal terzo capitolo Ben ridiventa il protagonista assoluto. Questa parte del libro si apre con l’inizio dell’era Reagan,ed in una bella pagina Auster riassume efficacemente il drastico cambio di clima politico ed intellettuale che gli USA subirono all’epoca. Mentre Peter è ormai uno scrittore affermato ed inserito, Ben viene sempre più marginalizzato, raggiungendo un pubblico sempre minore. Un grave incidente lo porta ad isolarsi sempre più dal mondo, sino a rompere unilateralmente il solido legame con Fanny. Peter, preoccupato per la deriva dell’amico che dichiara di non voler più scrivere, fa in modo che la sua agente letteraria richieda a Ben di riunire in volume i suoi articoli, e questo sembra ridargli fiducia: si rinchiude per mesi in una casa isolata nel Vermont dove inizia anche un nuovo romanzo, che pensa di intitolare 'Leviatano', le cui prime pagine – lette da Peter durante una visita – fanno presagire il capolavoro.
Un giorno però ”…all’improvviso la terra lo inghiottì.” Ben scompare misteriosamente, lasciando la casa aperta e nella macchina per scrivere la pagina che stava scrivendo. Per quasi due anni nessuno ha notizie di lui. Quando improvvisamente riappare, nella casa nel Vermont ora utilizzata da Peter per scrivere, gli racconta le sue incredibili vicende, svanendo ancora nel nulla dopo pochi giorni.
Un tragico e casuale evento ha determinato il drammatico sviluppo della vicenda umana di Ben, con il concorso determinante prima di Maria Turner poi di Lillian Stern. Nei due capitoli finali del libro seguiamo quindi, sempre attraverso il racconto di Peter, gli ultimi due anni di vita di Ben, quelli che lo hanno portato dalla possibilità di ricominciare a scrivere alla tragica fine, e il libro si chiude nel momento in cui, visto che l’FBI ha ormai identificato il morto del Wisconsin e ricostruito parzialmente la sua vicenda, Peter gli consegna il manoscritto che ha appena terminato, e che ha chiamato Leviatano.
Come ho detto all’inizio, 'Leviatano' è un libro importante; forse però sarebbe meglio definirlo ambizioso, perché ad esso Auster consegna la sua ambizione di fare i conti con il suo ruolo di intellettuale in un periodo in cui sono stati spazzati via gli stessi paradigmi sociali e culturali su cui si basava l’intellettualità statunitense della sua generazione, nel momento in cui l’intelligencija artistica cui appartiene si rende conto di non rappresentare più il sentimento culturale e politico dominante. Per esemplificarci questa crisi Auster si sdoppia narrandoci, tramite il personaggio di Ben, cosa gli sarebbe potuto accadere se per lui le cose fossero andate diversamente, se avesse rifiutato di entrare nei meccanismi del sistema e gli imperscrutabili meccanismi del caso avessero agito diversamente. I due partono appaiati, e come detto si completano a vicenda. Poi, soprattutto dopo la data simbolica dell’elezione di Reagan, alla progressiva conquista della sicurezza sociale ed economica di Peter fa da contraltare la caduta progressiva di Ben, generata essenzialmente dal suo essere incapace di adattarsi al nuovo clima. Ben si concede comunque una possibilità, prova a risalire la china tuffandosi nella lotta intellettuale contro il Leviatano, ma nel momento in cui le 'sliding doors' dell’imprevisto glielo impediscono si ritrova risucchiato in un vortice che lo porta inevitabilmente all’autodistruzione. Il fallimento nel suo ruolo di artista civile lo porta a cercare una illusoria compensazione attraverso la distruzione del simbolo sommo della stessa identità statunitense.
Austen è scrittore indubbiamente dotato, e condisce la sua storia con una serie di richiami metaforici (su tutti quello alla Statua della Libertà come simbolo stesso dell’America, simbolo che torna puntualmente nei momenti chiave del racconto) e alla realtà dell’epoca narrata, utilizzando uno stile di scrittura giornalistico e ossessivamente preciso quanto a tempi e luoghi, nel quale l’unica vena di sperimentalismo è lasciata all’improvvisa intrusione nel racconto indiretto in prima persona di lunghi dialoghi diretti senza interruzioni; conferisce inoltre realismo alla vicenda ispirandosi direttamente, per alcuni personaggi, a parenti, amici o protagonisti della cronaca nera dell’epoca.
Il romanzo presenta però a mio avviso anche degli evidenti limiti quanto a capacità di trasmetterci davvero il clima intellettuale di un’epoca e il suo repentino mutamento, essendo forse troppo ripiegato sull’autocompiacimento dell’autore per il meccanismo della storia e per la sua abilità nel raccontarcela. L’elemento politico del libro, che – come molti passi del romanzo confermano, a partire dalla scelta del titolo – era sicuramente uno dei piani che l’autore intendeva sottolineare, tende di converso a rimanere sottotraccia, facendo a mio avviso perdere forza complessiva alla storia, declassandola a oscura vicenda esistenziale: la vita di Benjamin Sachs non ha senso se non nel contesto sociale e culturale in cui è immersa, ma siccome questo contesto non emerge con sufficiente chiarezza e sembra quasi dato per scontato, come se la storia fosse raccontata a chi quel periodo l’ha vissuto facendo parte della (ristretta) cerchia cui anche l’autore appartiene, il rischio è quello di non riuscire a comprenderla appieno.
Se la chiave di lettura che ho cercato di fornire è plausibile, allora il romanzo può essere letto anche un tentativo di autoassoluzione di Auster per il suo essere ormai ingranaggio del sistema che critica: è come se ci dicesse che non ci sono alternative a scendere a compromessi, che scelte diverse lo avrebbero portato all’annientamento di sé e della propria voce intellettuale, ad un metaforico sbrindellamento del suo io sul ciglio di una strada del Winsconsin del Nord.
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Un prodotto carino e ben confezionato
Opera prima di Simonetta Agnello Hornby, edito nel 2002, La Mennulara è stato un vero e proprio best seller, essendo tradotto in svariate lingue, ricevendo numerosi premi e giudizi critici in generale molto positivi. Dal mio punto di vista, questo romanzo rappresenta invece perfettamente l’ambigua funzione che oggi svolge gran parte della letteratura "di qualità", quella pubblicata dalle case editrici mainstream e progressiste (in questo caso Feltrinelli), case editrici che in passato hanno contribuito a formare la coscienza culturale collettiva di questo Paese e che ormai sono in gran parte ridotte, sia per il completo assoggettamento alle logiche del mercato, sia forse per l’oggettiva carenza di materia prima letteraria, ad essere pezzi più o meno importanti di un’industria culturale il cui solo fine ultimo è il profitto.
La Mennulara è indubbiamente un ottimo prodotto di questa industria, ed il suo successo editoriale lo dimostra: è infatti scritto utilizzando un linguaggio ecumenico, piano ed accessibile a tutti, è congegnato in modo da appassionare il lettore attraverso il progressivo disvelamento dei piccoli e grandi misteri che costellano la storia, ed è condito da quel pizzico di analisi sociale e di costume necessaria per tranquillizzare la coscienza del lettore impegnato, che in questo modo può convincersi di non avere tra le mani un romanzo d’evasione. Questi fattori rappresentano però a mio avviso i limiti strutturali del romanzo, quelli che ne fanno un’opera carina, che sta ad un romanzo bello come certi centri storici di area germanica, con le loro vie pulitine e i gerani alle finestre, tutti uguali, stanno ai centri storici dei borghi italiani, maestosamente belli anche perché carichi di quell’inevitabile tasso di degrado che segnala la loro vitalità.
Le vicende narrate dal romanzo si svolgono nel 1963, durante il mese che segue il giorno della morte della Mennulara, cameriera di casa Alfallipe, una delle famiglie più in vista dell’immaginaria cittadina siciliana di Roccacolomba. La Mennulara non è solo stata per decenni cameriera, ma anche oculata amministratrice dei beni della famiglia, che stava per andare in rovina. Ha misteriosamente accumulato una considerevole ricchezza, ed ogni mese consegnava ai tre rampolli una discreta somma di denaro. In famiglia c’è chi la ammirava e chi la odiava ritenendola una usurpatrice, ed anche in città le opinioni su di lei sono le più disparate. Il mistero su questa serva-padrona aumenta quando al suo funerale si presenta anche il temutissimo boss locale di Cosa Nostra. Nel corso del romanzo verremo a sapere, soprattutto tramite colloqui tra i vari personaggi e i pettegolezzi di paese, le vicende della vita della Mennulara, la sua povertà in gioventù, la sua intelligenza, le ragioni del suo rapporto con la mafia.
Per analizzare il contenuto del romanzo inizierei dal contesto in cui ci viene narrata la storia della Mennulara: siamo come detto nella Sicilia del 1963. L’inizio degli anni ‘60 non è un periodo qualsiasi per l’Italia: il cosiddetto boom economico sta cambiando in profondità il paese, facendo emergere una nuova borghesia arrogante ed arraffona, che basa le sue fortune sul sacco edilizio delle città e sullo sfruttamento della manodopera a basso prezzo strappata alle campagne. Affiora una nuova Italia, le cui contraddizioni sono state magistralmente raccontate da Dino Risi nell’indimenticabile film Il sorpasso. In Sicilia lo sviluppo economico è guidato prevalentemente dall’intervento statale, attraverso la costruzione di grandi infrastrutture e complessi industriali (proprio nel 1963 si avvia la costruzione del petrolchimico di Gela) e dagli investimenti delle industrie del nord. Le grandi lotte per la terra che avevano caratterizzato il primo dopoguerra lasciano il posto alla necessità, per le classi popolari siciliane, di confrontarsi con la nascente realtà industriale. L’antica mafia agraria si adegua rapidamente alla nuova situazione, diventando la mafia degli appalti e dei trasporti, prima di divenire quella globalizzata del commercio di droga: figura simbolo di questo periodo sarà il corleonese Luciano Liggio. È quindi un mondo in rapido cambiamento quello in cui è ambientata La Mennulara e, come detto, il romanzo non rinuncia a registrare questo cambiamento, attraverso alcune figure chiave del romanzo: il vecchio boss mafioso Don Vincenzo Ancona, il notabile Pietro Fatta, l’attivista comunista Gaspare Risico, le stesse vicende dei rampolli di casa Alfallipe. Si tratta però a mio avviso di una visione edulcorata, maternalistica, dall’alto, in definitiva superficiale dei drammi e dei sommovimenti, anche di mentalità collettiva, che la Sicilia viveva in quel periodo. Esemplare da questo punto di vista è come l’autrice ci descrive la mafia e il ruolo che esercita nella società. Don Vincenzo Ancona, il vecchio mafioso legato alla terra, è descritto come un uomo davvero d’onore, spietato ma giusto, sia pure con un senso di giustizia che gli deriva dal potere assoluto e violento: non esita ad esiliare il figlio ed erede che ha trasgredito il codice mafioso, mantiene in maniera assoluta gli impegni che prende, è pronto ad uccidere chi può minacciare il suo potere. Il figlio, responsabile di uno sgarro che ha una funzione importante nel romanzo, verrà mandato a Milano a laurearsi e sarà un esponente della nuova mafia, quella dei colletti bianchi, ma sostanzialmente anche lui da un certo punto in poi svolge un ruolo positivo nel romanzo, occupandosi coscienziosamente delle finanze della Mennulara. Uno sguardo leggero sulla mafia, quello dell’autrice, fatto di una bonomia che sembra ammiccare alla buona vecchia mafia di una volta, che contribuiva a mantenere un ordine sociale immutabile, in cui le regole erano certe, seppur crudeli.
Molto stereotipata mi è parsa anche la figura di Gaspare Risico, l’impiegato postale militante comunista, che parla per frasi fatte e viene paternalisticamente ammirato ed ammonito dal notabile locale Pietro Fatta, rappresentante della vecchia borghesia liberale in via di estinzione. Molti altri sono i personaggi che compaiono nel romanzo, ciascuno detentore di un pezzo di conoscenza della vita della Mennulara, ma ciascuno tratteggiato in superficie, senza che mai l’autrice si addentri davvero nella loro psicologia, nel loro carattere, neppure quando ce ne descrive le contraddizioni. Tutti sono caratterizzati da una sicilianità un po’ di maniera, peraltro contraddetta in qualche modo dal loro esprimersi in un italiano amorfo.
La protagonista della vicenda, Maria Rosaria Inzerillo, detta la Mennulara dal lavoro di raccoglitrice di mandorle che svolgeva da piccola, è fisicamente assente dal romanzo, che come detto inizia con la sua morte, ma è intorno a lei e al rapporto che con lei hanno avuto che ruotano tutti gli altri personaggi. È sicuramente il personaggio più convincente del romanzo, nel cui dramma esistenziale – che in alcuni passaggi sembra per la verità troppo letterario – si possono forse rintracciare accenni che definirei antiverghiani, visto che di fatto è una vincitrice che riesce ad uscire dal suo status sociale di appartenenza, pur conservandone le apparenze. Simbolo plastico di questa vittoria sociale della Mennulara, non a caso contestato fermamente dagli stupidi giovani Alfallipe, è rappresentato dal fatto che la signora Adriana, restata vedova, sia andata a vivere nel suo appartamento. Forse la vittoria finale della Mennulara è per l’autrice anche la vittoria della donna sulla maschilista società siciliana del tempo,
Anche la Mennulara manca però a mio avviso della potenza necessaria per farne un personaggio letterario indimenticabile: l’impressione è che sia stata costruita un po’ troppo a tavolino, ricorrendo a episodi narrativi che ne inficiano come detto a tratti la credibilità e la fisicità. È insomma secondo me la figura di una popolana siciliana vista dall’occhio di chi (certo non per colpa sua) popolana non lo è mai stata, e come detto guarda con una buona dose di maternalismo letterario una realtà che non ha mai conosciuto direttamente, e che ben altra forza espressiva meriterebbe per essere davvero credibile.
Un elemento che contribuisce a conferire una certa originalità al romanzo è la sua struttura narrativa. Come detto, la storia si apre al momento della morte della Mennulara, il 23 settembre 1963, e si chiude esattamente un mese dopo. In questo lasso di tempo nove capitoli raccontano gli avvenimenti di una singola giornata; ciascuno è suddiviso in più capitoletti di poche pagine che concentrano l’attenzione sui singoli personaggi. È una struttura che permette all’autrice di presentarci gli attori della vicenda e le loro azioni in spazi chiusi, quasi indipendenti gli uni dagli altri, ciascuno dei quali aggiunge una tessera al mosaico apparentemente confuso e inesplicabile della vita della Mennulara. Il romanzo assume quindi quasi le forme del giallo, nel quale per capire è necessario arrivare alla fine, ed è proprio nei capitoli finali, come in ogni buon giallo che si rispetti, che il mosaico si ricomporrà interamente e si capirà come sono andate veramente le cose nella vita della Mennulara.
Alla struttura narrativa originale (anche se non bisogna dimenticare che i racconti per giornate vantano nella letteratura italiana, e non solo, illustri precedenti) fa da contraltare lo stile di scrittura, piano sino ad essere piatto, spesso intriso di intenti quasi didattici – sintomatico a questo proposito è l’uso delle parentesi nel discorso diretto – non scevro da ingenuità e qualche banalità. Si legga ad esempio la lettera di Orazio Alfallipe a Pietro Fatta, verso la fine del romanzo, nella quale vengono chiariti i rapporti tra il primo e la Mennulara: la descrizione delle nuvole e del vento che gonfia i panni stesi che accompagna il primo incontro tra i due è a mio avviso una caduta di stile notevole, degna di un libro Harmony.
In generale l’uso di una lingua piatta e impersonale è uno degli elementi che a mio avviso toglie maggiormente credibilità al romanzo: ma come, siamo in Sicilia, nel 1963, incontriamo mafiosi, contadini, impiegati postali, popolane e tutti parlano un perfetto italiano? Praticamente l’unica parola dialettale che compare è crianza, che sta per cameriera. Non sono un fautore di una sorta di neo-neorealismo in letteratura, ma credo che l’occasione narrativa fosse ghiotta per sperimentare forme espressive che andassero al di là del compitino ben scritto. Anche qui secondo me si rivela la distanza tra i mezzi espressivi di cui l’autrice è dotata e il mondo che vuole rappresentare: se è vero che Agnello Hornby è di origine siciliana, si deve pur dire che una distanza siderale separa questo romanzo, quanto a capacità di descrivere quella terra e quella società, dal capolavoro di un altro aristocratico siciliano, Tomasi di Lampedusa, o dai grandi romanzi di fine ottocento.
È necessario tuttavia pensare che l’autrice non avesse simili ambizioni, ma solo quelle di scrivere un libro onesto, e credo di poter dire che rispetto a tanta roba che circola ci sia riuscita. Tutto sommato oggi un libro è essenzialmente un prodotto, che per essere venduto deve rispondere a precise regole di mercato, per il cui rispetto esiste la figura dell’editor, non a caso sperticatamente lodato nei ringraziamenti finali. Se Agnello Hornby si fosse lanciata in un qualche sperimentalismo linguistico, oppure avesse davvero scolpito la personalità dei suoi personaggi e il contesto in cui si muovevano, probabilmente avrebbe pubblicato con molta maggiore difficoltà, e sicuramente non presso un grande editore. Così invece il suo romanzo ha ricevuto molti premi, è stato tradotto in molte lingue e soprattutto è stato apprezzato sia dai lettori occasionali sia da quelli impegnati di fede renziana, che nelle lunghe serate estive di Capalbio hanno potuto consigliarlo agli amici desiderosi di una lettura attenta al sociale, un sociale di cui per la verità non si occupano più se non per lodare il jobs act e stigmatizzare gli scioperi selvaggi. Come in politica, anche nella letteratura commerciale è stato necessario che tutto cambiasse perché tutto restasse come prima.
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SE STIFTER DÀ IL PEGGIO DI SÉ
Vagando in rete ho trovato un giudizio tranchant formulato su Stifter, oltre un secolo dopo la morte, da uno dei più grandi scrittori austriaci del secondo novecento: Thomas Bernhard. Eccolo: ”Stifter è insopportabilmente loquace, ha uno stile scadente e, ciò che è più riprovevole, uno stile trascurato; è, inoltre, l’autore più noioso e ipocrita della letteratura tedesca. La prosa di Stifter, ritenuta precisa e concisa, in realtà è vaga, impotente e irresponsabile, di un tale sentimentalismo e di una tale pesantezza piccolo-borghesi che (…) viene il voltastomaco.
Devo dire che le precedenti letture di questo autore non mi avevano portato ad un giudizio così negativo sulla sua opera, anzi in alcuni casi, in particolare nel racconto L’antico sigillo, avevo ravvisato i canoni del piccolo capolavoro. Più indietro nel tempo mi ero cimentato nella lettura di alcuni dei suoi racconti più noti, facenti parte della raccolta Pietre colorate, dei quali avevo comunque apprezzato lo stile minimalista, pur rilevando evidente l’intento pedagogico di esaltazione dei valori semplici della ruralità, intesa come contesto ambientale nel quale si esprimono i buoni sentimenti di una società piccola, in armonia con la natura, rinchiusa su se stessa in una sorta di autosufficienza morale.
L’ultima lettura dell’autore boemo, le Storie della Vecchia Vienna, aveva confermato questo mio sentimento ambivalente: da un lato l’indubbia capacità di scrittura, dall’altro la bonomia, il paternalismo con il quale egli descrive il mondo in cui vive, quello della restaurazione post-napoleonica, del tentativo dell’aristocrazia di andare contro il corso della storia riconquistando quel potere assoluto che le armate francesi avevano messo in discussione. Espressione di questo contraddittorio periodo, destinato a terminare con le rivoluzioni del 1848, è lo stile Biedermeier, di cui Stifter fu uno degli esponenti letterari più organici. Rimando a quella recensione per un breve approfondimento rispetto agli stilemi del Biedermeier nei vari campi delle arti, anche applicate.
Insomma, avevo in mente uno Stifter da prendere con le pinze, sicuramente portatore di una visione reazionaria della società, ai cui sussulti reagisce rifugiandosi negli idilli campestri, ma tutto sommato dotato di una capacità di scrivere e di innervare le sue storie anche di tratti di problematicità ed enigmaticità, quei tratti che lo hanno fatto apprezzare da intellettuali al di sopra di ogni sospetto, quali Nietzsche, Mann ed un lontanissimo – letterariamente parlando – Franz Kafka.
La stroncatura di Thomas Bernhard mi sarebbe quindi apparsa ingiusta, ancorché perfettamente nello stile del grande dissacratore della sua terra, se non avessi letto questo Due sorelle, che posso pensare essere stato una delle cause principali dell’anatema Bernhardiano.
Il breve romanzo è del 1846, appartenendo quindi alla fase più feconda della produzione di Stifter, quella della quale fanno parte gli Studi e le Pietre colorate, di poco posteriori, ma a mio modo di vedere si distacca nettamente in negativo dalla sua migliore produzione, accentuando in maniera quasi caricaturale i citati limiti culturali e politici dell’autore. Sembra del resto che lo stesso Stifter sia cosciente della posizione in qualche modo minore che quest’opera occupa nel panorama della sua produzione, del suo essere portatrice di un intento pedagogico ancora più evidente di quello presente in ciò che ha scritto sino allora, perché nella brevissima prefazione che precede la storia ci dice: ”Presenteremo nelle pagine seguenti non una di quelle storie semplici che ci è piaciuto raccontare fino a qui, ma qualcosa di ancor più tenue”. L’introduzione, oltre a fornirci l’intento programmatico dell’autore, serve ad informare il lettore che i fatti sono accaduti ad un amico dello scrittore, che glieli ha narrati senza infiorettature e abbellimenti di sorta, e che lui si è limitato a trascrivere la narrazione, anche se le sue parole non possono serbare la freschezza e l’originalità di chi quella vicenda ha vissuto in prima persona. I successivi capitoli, nei quali si dipana la vicenda, sono narrati in prima persona dal protagonista, tranne il brevissimo epilogo, nel quale torna in campo lo scrittore.
La vicenda narrata è come vedremo più che tenue, e per certi versi anche sconnessa, e per comprenderlo è necessario narrarne il sunto.
Durante un viaggio in diligenza il protagonista, un giovane viennese che scopriremo solo verso la fine chiamarsi Otto Falkhaus, divide i posti con un anziano signore dall’aria mesta e vestito di nero, che egli scherzosamente chiama per il suo aspetto Paganini, e con due giovani ragazze accompagnate da una silenziosa governante. Qualche tempo dopo i due alloggiano nello stesso albergo di Vienna, divenendo amici pur senza rivelare quasi alcunché di sé, ed Otto assiste l’anziano durante un periodo di malattia. Una sera vanno a teatro ad un concerto delle sorelle violiniste Milanollo che scoprono essere le ragazze con cui hanno condiviso la diligenza: il signore anziano si commuove sino al pianto. Dopo alcune settimane Franz Rikar, l’anziano, che ha perso la causa che lo tratteneva a Vienna, riparte, invitando Otto ad andare a trovarlo a Merano, dove abita.
Negli anni successivi Otto diviene ricco grazie all’eredità di una zia, e trasforma la tenuta ricevuta in una redditizia azienda agricola. Decide quindi di intraprendere il viaggio in Italia a lungo sognato, e di fermarsi prima a Merano per far visita a Rikar, di cui non ha più avuto notizie. Lì giunto, scopre che è piombato in estrema povertà e ora vive a Riva del Garda. Decide quindi di cercarlo sul lago e lo trova in una casa sperduta tra i monti sopra Riva, dove vive con la moglie e due giovani figlie. Non è affatto in miseria, vivendo dei prodotti agricoli dei terreni circostanti, che la figlia maggiore, Maria, coltiva molto razionalmente. Spinto dall’amicizia della famiglia si ferma a lungo presso Rikar, ed un giorno questi gli racconta la sua storia: per la causa persa a Vienna aveva perso tutto il patrimonio, tranne quella casa isolata tra i monti, che però era quasi diroccata. Si prospettava una nera miseria, ma Maria aveva avuto l’idea, apparentemente folle data la scarsa fertilità dei terreni, di coltivare fiori e frutti, rivendendoli sul lago. L’aiuto di un giovane amico, Alfred Mussar, anch’egli agricoltore poco lontano, le aveva fatto conoscere le tecniche di miglioramento agronomico ed in poco tempo gli affari avevano cominciato ad andare bene, permettendo di risistemare la casa, comprare mobili nuovi e ampliare le coltivazioni assumendo salariati.
L’altra figlia di Rikar, Camilla, è al contrario di Maria un temperamento artistico: suona il violino bene come le sorelle Milanollo, si consuma per l’arte ed è innamorata di Mussar. Quando questi rientra da un lungo viaggio a Parigi chiede però la mano di Maria, che rifiuta, confessando ad Otto che lo fa per non dare un dolore fatale alla sorella. Otto prosegue il suo viaggio in Italia quindi rientra in patria, ma torna dopo due anni, deciso a chiedere la mano di Maria, della quale l’hanno molto colpito l’energia e lo spirito pratico. Trova Camilla sposata felicemente con Alfred ma non ha il coraggio di dichiararsi, rientrando mesto alla sua tenuta e terminando il suo racconto dichiarando di accettare il suo destino solitario. C’è però, come detto, un epilogo in cui ricompare come narratore lo scrittore che ha trascritto la vicenda di Otto: egli ci informa che quest’ultimo tornerà a Riva e salirà alla casa della brughiera, sposando Maria ed avendo poi una schiera di floridi bambini.
Credo che da questo sunto si capiscano già molte cose. Siamo di fronte ad una vera e propria fiaba per adulti, nella quale ci sono solo buoni sentimenti e personaggi totalmente positivi. Il protagonista si affeziona a Franz Rikar e lo assiste amorevolmente durante la malattia a Vienna; Rikar accoglie come un fratello Otto nella casa della brughiera; la moglie ama teneramente Rikar e si profonde in lodi per l’ospite e non lo vuole più lasciare andare via. Maria è l’artefice del benessere della famiglia e si sacrifica con il sorriso lasciando Alfred alla sorella; Camilla eccelle nel violino e si rivela un’ottima moglie; Alfred è generoso e leale: riempie di regali da Parigi la famiglia e accetta serenamente il no di Maria. Persino i personaggi di contorno, su alcuni dei quali torneremo, sono sempre sorridenti e lieti. Insomma, questa piccola comunità rurale è una sorta di paradiso in terra, conquistato però grazie al lavoro ed allo spirito di intraprendenza: il male può venire dall’esterno – la causa persa da Rikar gli era stata intentata da un lontano parente – ma l’iniziativa individuale può far riconquistare la serenità, il cui presupposto è sempre la prosperità economica. Colpiscono a questo proposito i passi economici del romanzo, quali la descrizione delle tecniche di coltivazione introdotte da Maria grazie ai consigli di Alfred e la cura con cui Stifter ci informa che venivano coltivati i prodotti più richiesti dal mercato e che questi vengono commercializzati come i prodotti del Monte San Gustavo. Stifter affianca ai valori del mondo rurale in cui crede ciecamente quelli dell’intraprendenza borghese: si noti che Riker e la moglie sono nati a Milano, figli della borghesia commerciale, ma solo in questo isolamento, in questa piccola comunità tra i monti, nel giusto rapporto con la natura hanno trovato serenità e prosperità. È quindi evidente il tentativo di Stifter di conciliare lo spirito dei tempi, la coscienza dei nuovi valori borghesi, con la conservazione dello spirito di piccola comunità che costituisce per l’autore l’ossatura del mondo austriaco, il tentativo (vano) di esorcizzare l’inevitabile scontro tra questi due mondi valoriali.
La natura gioca un ruolo centrale nel romanzo: nel piccolo mondo di Stifter la natura selvaggia, quella che Otto attraversa per giungere la prima volta alla casa di Rikar, non è più la grandiosa rappresentazione tangibile dell’assoluto romantico: essa, sia pur decritta con l’amore del pittore paesaggista quale in effetti Stifter era, è scialba, minima (il torrente chiamato Acqua dell’Inferno è in realtà un insignificante rivoletto, un solo stentato albero cresce su un sasso) ma soprattutto è vuota, inutile, sinché non è resa produttiva dalla sapienza dell’uomo (in questo caso di una donna). Quando Otto torna dopo due anni la prima cosa che ammira sono infatti i nuovi terreni messi a coltura.
Un altro elemento d’interesse del romanzo è la sua ambientazione italiana. Siamo nel 1846, quindi non solo il Trentino, ma anche Lombardia e Veneto sono austriaci. I pochi italiani che compaiono nel romanzo hanno ruoli subalterni e sono fortemente stereotipati, essendo bruni, con i capelli arruffati, poveri, loquaci e allegri. Il solo barcaiolo Gerardo svolge un certo ruolo nella vicenda, divenendo amico di Otto, che però all’inizio lo sospetta di essere un ubriacone. Quando lo lascia in riva al lago per salire da Rikar lo rivede da lontano già disteso in fondo alla barca: ”Si godeva allegramente in questo modo il dolce riposo che per le persone del suo ceto e del suo Paese rappresenta, dopo il nutrimento del corpo o forse addirittura prima di quello, il sommo bene”. Quando lo rivede a Riva ci tiene a sottolineare che la casetta in cui vive con la sorella è molto pulita, come fosse un’eccezione.
Le due sorelle che danno il titolo al romanzo non sono, come parrebbe in un primo tempo, le violiniste Milanollo, che spariscono nel nulla in questa storia come detto un po’ sconnessa, ma ovviamente Maria e Camilla, che altrettanto ovviamente vorrebbero rappresentare la contrapposizione tra lo spirito pratico e lo spirito artistico: senonché nel mondo armonioso di Stifter entrambe vivranno felici e contente, anche grazie alla facilità con cui il generoso Alfred passerà da una all’altra. Per completare la fiaba, Stifter si preoccupa nell’epilogo di stemperare anche l’unico elemento problematico della storia, l’insuccesso di Otto con Maria: sembra quasi abbia avuto paura di offuscare l’aura di assoluta serenità che promana dalle pagine del romanzo.
La storia è narrata con una scrittura minuziosa attenta ai dettagli, che se in altre opere rappresentava uno dei valori della prosa di Stifter, qui sfocia in una sorta di pedanteria fine a sé stessa, che accentua il quasi nulla di cui composto il romanzo.
Limitando la lettura di Stifter a questo romanzo si potrebbe concordare con la stroncatura di Bernhard citata all’inizio: fortunatamente l’autore ci ha fornito anche prove che un critico definirebbe più convincenti, pur situate nell’alveo di una ideologia di fondo fortemente consolatoria e reazionaria.
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No, non è la gelosia…
“Io non sono quel che sono”, dice Iago all’inizio della tragedia, e a parer mio questa sentenza è la chiave del dramma del Moro di Venezia. Otello è infatti la tragedia di come i fatti possano essere resi diversi da ciò che sono, grazie al potere mistificatore del linguaggio ed all’incapacità di percepire i fatti come realmente accadono quando qualcuno si assume il compito di interpretarli per noi. Otello è anche il dramma di chi, per insufficiente capacità critica, si lascia soggiogare dalle opinioni altrui, anche quando queste sono palesemente contrarie all’evidenza e portano all’autodistruzione. Otello non è quindi solo un dramma della gelosia: direi anzi che la gelosia è solo un pretesto, un argomento utilizzato da Shakespeare, in quanto sentimento facilmente comprensibile dal pubblico, per esemplificare i danni che l’uso distorto e fazioso del linguaggio può provocare all’uomo e alla società.
Shakespeare scrive Otello nei primi anni del XVII secolo, dopo avere già creato opere come Giulio Cesare e Amleto e subito prima di Re Lear e Macbeth. Siamo nel pieno della maturità artistica del Bardo, nel cuore dei drammi dialettici, caratterizzati dall’indagine dell’agire umano e di come questo sia condizionato da concreti fattori sociali, relazionali e psicologici. Siamo nel pieno di quella fase produttiva che ci consegna un autore ormai andato ben al di là della pure brillantissima interpretazione del teatro elisabettiano per approdare alle rive della modernità, nella quale i personaggi agiscono come individui, immersi in un corpo sociale e relazionale con cui si confrontano dialetticamente, piuttosto che essere soggetti passivi dell’agire del fato.
Ritengo opportuno ribadire che questa evoluzione della poetica shakespeariana non avviene – a mio avviso – per una astratta evoluzione dell’estro artistico del poeta, ma è il frutto diretto ed inevitabile dei convulsi cambiamenti della società in cui il poeta viveva, caratterizzati dalla spinta sempre più forte della borghesia per assumere il potere, spinta che di lì a pochi anni avrebbe portato alla rivoluzione cromwelliana. L’individuo, con le sue capacità di fare e di decidere il proprio destino è, come possiamo constatare ancora oggi, il caposaldo principale dell’ideologia capitalistica borghese, che all’inizio del XVII secolo in Gran Bretagna stava spazzando via i resti della decrepita organizzazione sociale e culturale feudale: la assoluta grandezza di un autore come Shakespeare sta essenzialmente nell’aver saputo interpretare questo passaggio, cogliendone anche in anteprima, se così si può dire, le contraddizioni, divenendo di fatto uno (forse il maggiore) dei padri nobili della letteratura della crisi di trecento anni posteriore.
La trama di Otello è nelle sue grandi linee universalmente conosciuta, probabilmente anche perché è stato facile divulgarla sotto forma di drammone della gelosia. Sembra comunque utile riassumerla brevemente. Otello, il Moro, abile comandante militare, ha sposato in segreto Desdemona, molto più giovane di lui e figlia di un potente senatore della Serenissima. Quando Cipro è minacciata dai turchi Otello viene nominato governatore dell’isola, sulla quale si trasferisce con la giovane sposa e i suoi stretti collaboratori. Tra questi vi è Iago, che lo odia perché Otello ha nominato come luogotenente il giovane Cassio, lasciandogli il posto meno prestigioso di alfiere. Tutti si fidano ciecamente di Iago, considerato saggio e fedele. Quest’ultimo inizialmente trama per far cadere in disgrazia Cassio presso Otello, quindi concepisce il piano per distruggere lo stesso Moro: instillargli abilmente il dubbio che Desdemona lo tradisca con Cassio. La prova sarà quella, celeberrima, del fazzoletto regalato da Otello a Desdemona. Mentre la minaccia dei turchi viene meno perché la loro flotta ha fatto naufragio nella tempesta, il dramma si compie ed un Otello accecato dalla gelosia strangola l’incolpevole Desdemona: Emilia, moglie di Iago, che è stata l’inconsapevole protagonista dell’affaire del fazzoletto, a quel punto capisce la perfidia del marito, e lo denuncia alle autorità veneziane giunte a comunicare la nomina di Cassio a governatore e ad Otello l’ordine di rientrare in patria: prima di essere arrestato Iago uccide la moglie, mentre Otello, resosi conto del terribile tranello in cui è caduto, si suicida.
È quindi davvero un drammone, dall’impianto esteriore oggettivamente d’appendice, giustificato dal fatto che Shakespeare viveva di teatro e con il teatro, dovendo giocoforza mettere in scena opere che piacessero al pubblico, che potessero attirarlo con la forza dei grandi sentimenti. Questo fatto, lungi dall’essere un limite, rappresenta a mio avviso un altro elemento di grandezza dell’autore, capace – come solo i grandi artisti sono in grado di fare – di costruire le sue opere a diversi livelli, così da catturare il pubblico dell’epoca con gli elementi triviali e al contempo indurlo a riflettere attraverso i messaggi subliminali di cui la tragedia è infarcita.
Come detto all’inizio, il linguaggio svolge una parte centrale nella tragedia, tanto che Agostino Lombardo, curatore della bella edizione Feltrinelli che ho letto, la definisce “la messa in scena della tragedia della parola”. Il tema del potere del linguaggio non è nuovo in Shakespeare, tanto che già nel Giulio Cesare il fulcro della tragedia può essere identificato nella diversa efficacia che hanno sul popolo romano i discorsi di Bruto e di Antonio, ed in particolare in come quest’ultimo usi il linguaggio per ribaltare l’apparente rapporto lineare tra significante e significato. In Otello il tema del linguaggio diviene dominante in senso assoluto, e può essere scomposto in vari filoni d’analisi.
Un primo aspetto fondamentale da considerare è infatti l’uso che Shakespeare fa del linguaggio per caratterizzare, per dare il tono della tragedia. È infatti un mix di linguaggio aulico e triviale che scandisce i vari momenti della tragedia. Esemplari riguardo a ciò sono i monologhi e le battute di Otello, il quale passa dal tono quasi retorico del primo monologo, nel quale spiega al Senato veneziano il motivo per cui Desdemona si è innamorata di lui, alle espressioni sincopate e sovente volgari usate nei momenti in cui l’insinuante linguaggio di Iago lo convince della colpevolezza della moglie, per tornare ad un tono ufficiale nel monologo che precede il suicidio. Attraverso questi cambiamenti plateali nel linguaggio usato da Otello l’autore riesce a descrivere in maniera perfetta la progressiva alterazione della realtà elaborata dalla mente di Otello, il suo sprofondare negli abissi della gelosia e dell’insicurezza. E’ questo un elemento che attribuisce grande forza espressiva e grande modernità alla tragedia, che per il fatto di essere un’opera teatrale non può essere supportata da descrizioni ambientali o caratteriali, ma deve affidare alle parole direttamente dette dai personaggi l’esplicitazione dell’atmosfera che si respira in ogni scena. Ancora più sofisticato è l’uso che Shakespeare fa del linguaggio di Iago, che mantiene una apparente ed ambigua uniformità per tutta la tragedia, divenendo tuttavia una vera e propria arma di disinformazione ed inganno nei colloqui con il Moro e non solo: Iago si atteggia sempre ad umile e fedele servitore di Otello, e tutti lo credono tale (molto spesso è chiamato, da Otello, Desdemona Cassio, le sue vittime, l’onesto Iago) ed è proprio la sua proprietà di linguaggio, l’uso ambiguo che è in grado di farne a costituire la sua diabolica forza: in alcuni passaggi la sua capacità di insinuare, di far intendere il contrario di ciò che letteralmente dice richiama alla memoria il già citato discorso di Antonio nel Giulio Cesare. Quando viene arrestato e gli viene chiesto perché abbia ordito una tale mostruosa macchinazione contro Otello, risponde: “Non chiedete nulla, quel che sapete sapete. D’ora in avanti non dirò parola”. La parola, il linguaggio, hanno perso per lui ogni significato, sono del tutto inutili ora che non può più utilizzarle come le armi più pericolose.
Notiamo anche, sempre in tema di linguaggio della tragedia, un particolare forse secondario, ma a mio avviso di un certo interesse. Otello non è un’opera completamente originale: Shakespeare si ispirò largamente alla novella Il Moro di Venezia, scritta dal ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio nel 1565, quindi circa quarant’anni prima. Nella novella di Cinzio i personaggi non hanno nome, tranne la giovane moglie del Moro, che già si chiama Disdemona (dal greco, sfortunata). E’ dunque Shakespeare che battezza gli altri principali protagonisti della tragedia, e – stranamente in italiano, ma è possibile che l’effetto possa essere anche maggiore in inglese – si tratta di veri e propri nomi caratterizzanti, quasi appellativi onomatopeici, per i quali il significante corrisponde esattamente al significato. Otello, come vedremo, è un insicuro, che viene completamente circuito dalla doppiezza di Iago, ed il suo nome (che in italiano rivela una strana assonanza con vitello) è perfetto per il suo ruolo in tragedia, come perfetta è la stilettata velenosa che suggerisce il nome Iago. Cassio, che pure non è esente da difetti caratteriali, è un animo essenzialmente nobile, a cui si adatta bene un nome classico. Il vecchio padre di Desdemona, rappresentante del potere costituito della Repubblica, porta l’altisonante nome di Brabanzio, mentre il frustrato ed ingannato socio di Iago si chiama Roderigo.
Shakespeare mostra quindi in Otello la piena coscienza dell’importanza del linguaggio e delle sue ambiguità come strumento di potere, di manipolazione della realtà e di costruzione di false oggettività. Qui egli fa però anche un altro passo in avanti sulla strada del rapporto ambiguo tra segno e realtà: ci avverte che neppure ciò che vediamo con i nostri occhi è oggettivo, essendo sempre filtrato dai nostri schemi mentali (o dai nostri pregiudizi). La scena centrale della tragedia, infatti, è quella in cui Otello, nascosto, assiste da lontano ad un colloquio tra Cassio e Iago, convinto che i due stiano parlando e ridendo della relazione del primo con Desdemona: è la scena in cui compare il famoso fazzoletto, prova certa per Otello della colpevolezza della moglie. L’inganno è totale, perché i due stanno parlando di tutt’altro, quindi neppure vedere dà la certezza delle cose, come Otello scoprirà amaramente quella notte stessa. Anche i cosiddetti fatti devono quindi essere correttamente interpretati, pena la loro mancata comprensione: grande lezione per l’oggi, immersi come siamo in fatti interpretati per noi da altri.
Se Otello è innanzitutto un dramma del linguaggio non va dimenticato il fatto che è anche un dramma della stupidità, secondo l’epiteto che più volte Emilia rivolge al Moro nel finale e infine Otello rivolge a sé stesso. Perché il linguaggio abbia la forza di sovvertire la verità, perché i fatti vissuti possano essere interpretati in modo completamente distorto è necessaria l’inadeguatezza di chi ascolta e vede, la sua stupidità: nel Giulio Cesare stupido è il popolo romano, in Otello stupido è il protagonista. Che sia tale lo si può capire sin dall’inizio, quando nel primo grande monologo dice a Brabanzio ed ai senatori che Desdemona si è innamorata di lui ascoltando le sue storie di battaglie e di eroismo: egli si rapporta a questo amore dai tratti infantili con l’orgoglio del conquistatore, mai in modo veramente adulto, tanto è vero che al primo soffio velenoso di Iago affiorano immediatamente dubbi per la differenza di età e di censo rispetto alla sposa. È stupido ed inadeguato perché questi dubbi lo travolgono, nonostante l’evidenza dell’impossibilità che Desdemona lo tradisca, come gli conferma Emilia, che è sempre con lei: a questi fatti e a questo linguaggio veri egli non dà alcun credito, perché il suo amore per Desdemona non rappresenta per lui altro, di fatto, che la certificazione dello status sociale che crede di aver raggiunto. Che sia inaffidabile ed inadeguato lo testimonia del resto anche la sua rimozione da governatore non appena la minaccia turca svanisce: Venezia lo considera un buon militare, ma non certo un saggio amministratore.
Il personaggio più debole della tragedia è forse la povera Desdemona, poco più che una bambina incolore, petulante nella richiesta di riabilitazione di Cassio, che se ne va, accusata di essere una puttana senza conoscere davvero il significato dell’epiteto, improbabilmente cantando la canzone del salice, lei che forse se fosse vissuta avrebbe davvero, ma molto dopo, tradito lo stupido Moro.
Otello è quindi una tragedia potente, nella quale il tema della gelosia è utilizzato da Shakespeare per mostrarci moltissime altre cose attinenti la coscienza umana e soprattutto come questa possa essere facilmente manipolata quando si trovi di fronte interessi concreti e strumenti adeguati.
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IL BUON ARTiGIANO ORGANICO ALL'IDEOLOGIA INVERATA
Il ventre di Parigi è uno dei titoli più noti della produzione letteraria di Émile Zola: uscito come feuilleton nel 1873, in ordine di pubblicazione rappresenta il terzo episodio del ciclo dei Rougon-Maquart, anche se nell’ordine di lettura suggerito dallo stesso Zola viene collocato molto più avanti, in undicesima posizione. È inoltre il primo romanzo scritto da Zola dopo aver firmato il contratto con il suo nuovo editore, Charpentier, nel quale si impegnava a consegnare due romanzi all’anno, per dieci anni. Zola quindi scrive questo romanzo avendo di fronte a sé la sicurezza di poter portare a termine la sua grande opera, il ciclo che lo avrebbe dovuto avvicinare, nelle intenzioni, al suo riconosciuto maestro, Balzac, e al modello letterario rappresentato dalla Comédie humaine.
Questa sicurezza in sé e nel suo progetto letterario si ritrova appieno nel romanzo, che è quasi completamente impregnato dello spirito positivista e naturalista che caratterizza la narrativa di Zola. Se leggendo L’opera, scritto tredici anni dopo, avevo notato come nel finale emergesse esplicitamente qualche dubbio rispetto all’ideologia scientista che sorregge complessivamente l’universo letterario di Zola, in questo romanzo degli esordi del ciclo la fede naturalista è saldissima, anzi si può dire che Il ventre di Parigi rappresenti una delle opere che probabilmente hanno maggiormente contribuito a fissarne i canoni letterari. Occorre tuttavia subito aggiungere che – sia pur inserito nel coerente quadro, dai tratti programmatici, del romanzo sperimentale e moderno cui Zola si dedicava – Il ventre di Parigi segnala anche la difficoltà intrinseca di mantenere fede in senso assoluto al dogma dell’impersonalità della narrazione, del romanzo come semplice registrazione della realtà. Non mancano infatti, nell’ambito di una struttura complessivamente improntata ad un lirismo minuzioso, descrittivo e piatto, come lo definisce Lamberto Binni nella sua introduzione, da un lato sprazzi di un tardoromanticismo dal tono anche melodrammatico -su tutti a mio avviso l’incipit del romanzo, con l’affamato Florent steso in mezzo alla strada e per altri versi la storia di Marjolin e Cadine, e dall’altro macchie di un colore spesso schiettamente impressionista ma che a volte sfocia in sentori che cromaticamente sembrerebbero ricordare le ultime opere dell’allora amico Cézanne, rinvenibili soprattutto nelle ripetute descrizioni sensoriali delle carni, delle verdure, delle frutta, dei formaggi che ogni giorno inondano Les Halles.
Il romanzo ruota intorno alla figura di Florent, un giovane insegnante che nelle giornate del dicembre 1852, seguite al colpo di stato di Napoleone III, ha difeso la repubblica, venendo per questo condannato ai lavori forzati alla Cayenna. Veniamo a sapere che negli anni precedenti, rimasto orfano, si era sacrificato per allevare il più giovane fratellastro Quenu. Sette anni dopo rientra a Parigi clandestinamente dopo essere evaso dal penitenziario; nel frattempo Quenu, grazie all’eredità di uno zio, ha aperto una salumeria nei pressi dei nuovi mercati generali delle Halles e, in virtù soprattutto al senso per gli affari della moglie Lisa – una Maquart – vive in una gratificante floridezza piccolo-borghese. Florent è accolto con affetto dal fratellastro, che ne aveva conservato il ricordo come di colui che gli aveva permesso di muovere i primi passi nella vita, e dalla moglie, che gli propone di consegnargli la sua parte dell’eredità dello zio: Florent però rifiuta, in cambio dell’ospitalità. Sotto le mentite spoglie di cugino di Lisa, Florent frequenta l’ambiente dei mercati, in cui viene introdotto dal pittore Claude Lentier (futuro protagonista de L’opera). Ottiene anche di lavorare come ispettore dei mercati, entrando in contatto con il mondo, fatto di piccole e grandi meschinità ma anche di (pochi) nobili sentimenti, dei commercianti che si accalcano nel ventre di Parigi, in questa immensa città nella città che tutto fagocita e digerisce per restituirlo alla fame di cibo e piaceri della metropoli.
Mentre l’iniziale affetto del fratellastro e soprattutto di sua moglie si affievolisce e Florent viene sempre più trattato come un estraneo che pesa sul bilancio della famiglia, egli si lega ad un gruppo di repubblicani che progetta una improbabile sollevazione popolare contro l’impero. La cosa, anche grazie alla solerzia pettegola di un gruppo di donne, viene risaputa negli ambienti dei commercianti delle Halles, che fanno fronte comune contro Florent in difesa dei loro interessi economici, tutelati dallo status quo. La stessa Lisa lo denuncia alla polizia – che lo teneva già d’occhio grazie ad informatori infiltrati nel gruppo dei sovversivi – ed il povero Florent viene di nuovo condannato alla deportazione, mentre i mercati ed i loro commercianti ritrovano la loro meschina tranquillità piccolo-borghese.
Il ventre di Parigi presenta, sia pure a mio avviso con modalità parzialmente differenti, i pregi e i difetti che avevo già riscontrato nella letteratura di Zola leggendo L’opera.
Indubbiamente è da rimarcare l’intento di Zola di cogliere lo spirito di un’epoca, quello del secondo impero, trionfante nel momento in cui è ambientato il romanzo (il 1859), attraverso uno dei simboli tangibili di questo effimero trionfo, il complesso dei mercati delle Halles, realizzato pochi anni prima e che sarà in qualche modo il prodromo del più vasto quadro della rivoluzione urbanistica di Parigi attuata da Haussmann. Les Halles e i boulevards haussmanniani segnano infatti probabilmente – a livello urbanistico – l’apogeo dell’ideologia positivista propalata a larghe mani dalla grande borghesia, che pur di soffocare le spinte delle classi sottoposte non aveva esitato a mettersi nelle mani di un mediocre despota che avrebbe portato lo stato alla catastrofe (inaugurando peraltro una opzione politica che avrebbe avuto nel secolo successivo seguiti particolarmente funesti). Les Halles in particolare rispondono all’esigenza della razionalizzazione dell’approvvigionamento di derrate da parte della grande città industriale, come pure al mito ideologico (che ancora oggi ci guida) della concorrenza come fonte di ogni benessere e giustizia, così come i boulevards di Haussmann sono il segno tangibile dell’ordine borghese, del bisogno di vetrine di questa classe nonché lo strumento materiale della possibilità di reprimere rivolte e insurrezioni.
Ambientare Il ventre di Parigi nelle Halles, fare di questo immenso quartiere a tema il vero protagonista del romanzo, significa indubbiamente che Zola aveva ben chiari quali fossero stati i segni identificativi dell’epoca che intendeva descrivere nel ciclo dei Rougon-Maquart. Zola nel romanzo si dilunga spesso – a volte troppo ed anche ripetitivamente – in ampie descrizioni della struttura dei padiglioni, dei suoi quasi misteriosi sotterranei e del suo contenuto di verdure, carni ed altri alimenti; come detto, in queste descrizioni si allontana in genere dallo stile neutrale che dovrebbe caratterizzare la scrittura naturalista, dando spazio a colori, odori, impressioni, anche giocate in una chiave che – se volessi bestemmiare – chiamerei pre-espressionistica, ma forse più propriamente venata di un autocompiacimento quasi decadente. Nella prefazione di Lamberto Binni a questo proposito è citato il passo della descrizione dei formaggi, forse il più forte da questo punto di vista, da cui è utile trarre qualche brano per esemplificare questa affermazione: ”… alcuni formaggi d’Olanda, rotondi come teste mozze, imbrattati di sangue disseccato… Tre Brie, stesi su vassoi rotondi, mostravano una malinconia da luna spenta… anche i Roquefort… si pavoneggiavano come principi, coll’aspetto di facce grasse e marmorizzate, venate di verde e di giallo, come minacciati dalle malattie vergognose di persone ricche che hanno mangiato troppi tartufi…” Gli stessi toni li ritroviamo nei passi relativi al macello degli animali e, anche se a colori meno violenti, ai giochi di luce sulle vetrate dei padiglioni. Significativamente, a mio modo di vedere, la prima guida ai mercati, per Florent e per noi lettori, è quella di di Claude Lentier, pittore post-impressionista la cui parabola artistica, come verremo a sapere ne L’opera, richiama quella di Paul Cézanne. Zola, a mio avviso, tenta di uscire dai limiti della narrativa naturalista, la cui pretesa impersonalità non è in grado di penetrare a fondo l’essenza delle cose, neppure ricorrendo all’immediatezza impressionista: gli è necessario, per darci davvero l’idea di cosa fossero Les Halles, sia pure in senso meramente fisico, ripetere quasi logorroicamente più volte le stesse descrizioni, oppure ricorrere alla sua personale percezione e proporcela. In queste piccole orge di colori, di odori e di sangue si possono forse anche ritrovare richiami ad un altro dei maestri cui Zola fa riferimento: mi riferisco a Flaubert, ed in particolare al Flaubert di Salammbô: come però mi sembra di poter dire che la capacità di Zola di descriverci realmente la società del suo tempo sia lontana anni luce da quella di Balzac di penetrare nelle reali dinamiche sociali, così direi che gli ortaggi e i formaggi di Zola rivelano la loro sbiadita pomposità se affiancati alla cruenta Cartagine flaubertiana.
In questo mondo fisico fatto di vetro, acciaio e legno si muovono i personaggi del romanzo, deterministicamente, quasi lombrosianamente caratterizzati anche in senso fisico rispetto al ruolo che giocano. Così, per rimanere ai principali, il triste e dubbioso Florent è magro e veste sempre di nero, mentre la commerciante Lisa è florida, grassa e dalla pelle lucente, come la sua salumeria, ed anche il fratellastro Quenu è ormai grasso. La magrezza di Florent è identificata dai mercanti delle Halles come segno distintivo della sua anomalia rispetto alle logiche ed ai valori che reggono quella comunità. Anche ciascuno dei numerosi comprimari della vicenda, dalle comari pettegole alla bella Normanna ai sodali politici di Florent, viene caratterizzato dall’autore con tratti fisici che sono diretta espressione del ruolo svolto nella storia. Si tratterebbe indubbiamente di caratterizzazioni interessanti se accompagnate in qualche modo da una introiezione psicologica nei personaggi: come molte delle ambizioni di oggettività di Zola anche questa rimane invece in superficie, dando alla lunga l’idea di una strumentalità poco credibile che sfocia nello stereotipo, come si può verificare anche nell’approccio che Zola manifesta nei confronti della rivoluzione organizzata da Florent e compagni, tanto più inverosimile se si pensa che il romanzo è scritto di fatto all’indomani dell’esperienza della Comune.
Esemplare di questo rimanere in superficie è a mio modo di vedere la storia nella storia di Marjolin e Cadine, i due piccoli selvaggi che vivono senza regole amandosi liberamente nel mondo surreale delle Halles. Non so se Zola avesse trovato i modelli per raccontare questa storia durante le minuziose e prolungate visite ai mercati effettuate con il compito di conoscere la realtà che poi avrebbe dovuto registrare nel romanzo: quello che mi sento di poter dire è che la loro vicenda, che occupa quasi tutto il quarto capitolo del romanzo, ha veramente i tratti dello stereotipo da sociologia spicciola, evidenziato quasi comicamente sin dall’inizio, quando Marjolin neonato viene trovato abbandonato su un mucchio di cavoli… Ancora una volta la pretesa oggettività di Zola mostra tutti i suoi limiti, trasformandosi in questo episodio in poco più di una fiera della banalità tardoromantica e della superficialità.
Insomma non riesco a considerare Il ventre di Parigi un capolavoro della letteratura, e dopo la lettura di due sue opere (anche se forse proprio per questo il mio giudizio può essere parziale) non riesco a considerare Zola un maestro, ma soltanto un buon artigiano. Pertanto faccio mie, in senso critico le parole che scrisse, per elogiarlo, De Sanctis: ”Egli non è un creatore di arte nuova, e neppure un precursore, come si ritiene. È un fenomeno, o se vi piace meglio, un sintomo. È il pittore della corruzione. […] Nuove sono le forme sue dell’arte attaccate al cadavere del contenuto”. Per ciò che ho letto sinora, il realismo di Zola non è in grado di penetrare il reale, perché si limita a registrarne gli epifenomeni, perché non ne conosce le dinamiche e la intrinseca dialettica. È per l’appunto un realismo positivista, figlio di un’ideologia del progresso che la Storia avrebbe smentito di lì a poco, che lo stesso Zola a volte sembra sentire come inadeguata, ma dalla quale non sa e non può staccarsi perché pienamente organico ad essa, sia pure da un versante progressista. Leggere Zola oggi ci può comunque far comprendere meglio il clima culturale e politico di un’epoca molto simile alla nostra: anche allora il pragmatismo, la scienza e la fiducia nel progresso pretendevano di sostituire le ideologie, ponendosi in realtà come unica ideologia inverata. Si sa come finì allora: forse potremo capire come finirà.
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etc. etc.
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La plastica dimostrazione...
...che “Arte per l’Arte” è contraddizione in termini
Il nome di Walter Pater oggi probabilmente non dice molto al lettore italiano. Eppure Pater è autore importante, che si dovrebbe a ragione accostare a molti altri più celebrati scrittori quanto a capacità di essere uno dei maggiori rappresentanti della transizione della produzione letteraria da stilemi e tematiche tipicamente ottocentesche al confuso e contraddittorio magma letterario che segnerà i primi decenni del nuovo secolo. Oscar Wilde, di cui fu amico, lo chiamava grande maestro, e non senza ragione, in quanto Pater fu l’antesignano dell’estetismo in letteratura.
Una delle ragioni della scarsa notorietà di Pater sta nel fatto che buona parte della sua opera è composta di saggi critici sull’arte e sulla filosofia; anche i suoi pochi titoli ascrivibili alla narrativa sono in realtà intrisi di considerazioni di carattere filosofico e critico, e non sono sicuramente una lettura facile. Pubblicò in vita un solo romanzo, Mario l’Epicureo, mentre un secondo (Gaston de Latour) uscì dopo la sua morte, avvenuta nel 1894. Alcuni anni prima aveva pubblicato un volume nel quale erano raccolti quattro racconti, dal titolo Imaginary portraits. Questo volume oggi – come la gran parte delle opere di Pater – non disponibile in libreria, ci propone oltre ai quattro Ritratti immaginari altri due racconti di Pater, dei quali il primo, Apollo in Piccardia, del 1893, mentre l’ultimo, Il fanciullo nella casa, risalente al 1878. Questa scelta, che non rispetta l’ordine cronologico di uscita dei testi – con conseguenze a mio avviso non indifferenti sulla loro interpretabilità complessiva – e che tralascia di proporci altri due testi di Pater assimilabili ai Ritratti immaginari, la dobbiamo alla personalità del curatore, Mario Praz, uno dei più prestigiosi ma anche più controversi anglisti italiani, portatore di una visione elitaria, oserei dire iniziatica dell’opera letteraria e della sua critica. Questa visione, che ben si accompagna alle convinzioni politiche autoritarie di cui Praz era portatore, si ritrova nella decisione di non riportare nel volume, come detto, due ritratti con la seguente motivazione: “… perché non permettono di classificar[li]…, pur così ricchi di pagine sottili e affascinanti, tra le opere più armoniose del Pater.” Con rispetto mi permetto di chiedere se non sarebbe stato meglio lasciar decidere al lettore quali ritratti del Pater reputare più o meno armoniosi. La stessa concezione della letteratura si ritrova peraltro nello stile delle traduzioni di Praz, che sembrano fatte apposta per rendere ancora più difficile la lettura rispetto ai già complessi concetti e rimandi di cui i Ritratti sono composti: vi è un’attenzione alla forma della frase che, se può in parte derivare dall’originale stile di scrittura di Pater, trasuda autocompiacimento formale. Del resto che la forma dell’opera d’arte sia ciò che a Praz interessa maggiormente emerge esplicitamente dalla sua introduzione, nella quale afferma: ”Ma avendo ritrovato – né si richiede per ciò speciale acume – la ricetta del Pater, resta poi da dire – ed è quel che veramente importa – del modo col quale il Pater la traduce in opera d’arte.” Personalmente ritengo che come un’opera letteraria sia scritta costituisca certamente un elemento di giudizio importante, ma che sia di gran lunga più prioritario comprendere perché sia stata scritta.
Va innanzitutto rilevato che è veramente difficile classificare questi scritti, in quanto le storie narrate sono quasi dei pretesti che l’autore utilizza per esporci le sue convinzioni filosofiche ed artistiche; forse la categoria di prose saggistiche suggerita dall’editore è la definizione sintetica più adatta a descrivere il materiale letterario di cui questo volume si compone.
Smentendo la bizzarra scelta di Praz, ritengo che sia necessario, anche nella lettura, prendere le mosse dall’ultimo Ritratto, dal titolo Il fanciullo nella casa, rappresentante un vero e proprio manifesto artistico che ci aiuta non poco a immergerci nella poetica di Pater e ad assaporarne la carica innovatrice.
Il protagonista del racconto, Florian Deleal, aiuta un giorno un vecchio a trasportare un carico lungo una strada. Parlando, il vecchio nomina il paese dove Florian ha vissuto sino a dodici anni: la notte successiva egli sogna la casa in cui viveva, e progressivamente si riaffacciano alla sua memoria le sensazioni di allora. Si rende conto che quella casa, gli oggetti che lo circondavano, le emozioni vissute sono quelle che lo hanno formato, e che richiamandoli a sé potrà ”… notare alcune cose nella storia del suo spirito – in quel processo di formazione mentale pel quale siamo, ciascuno di noi, quel che siamo.” Inizia così uno splendido viaggio all’indietro, alla ricerca di alcuni momenti di vita dimenticati, di alcune sensazioni (la luce sui muri, il rosso improvvisamente notato di un arbusto in fiore, il grido con cui viene annunciata dalla zia la morte del padre lontano) che hanno costituito la base dell’evoluzione spirituale del fanciullo fattosi uomo, gli archetipi emozionali cui ha poi sempre fatto riferimento nelle sue esperienze successive. Oggetto delle riflessioni di Florian sono anche il suo rapporto con la morte e con la religione, quest’ultima vista come espressione sublimata dell’immanenza del sacro in ogni manifestazione umana.
Il racconto ha un forte sapore autobiografico, visto che Pater lasciò davvero la casa dell’infanzia dopo la morte del padre, ma soprattutto a mio avviso propone un modo di concepire il rapporto tra il mondo sensibile e la percezione che ciascuno ha di esso che anticipa il modernismo. Come non vedere nello sforzo di memoria di Florian, suscitato involontariamente da un avvenimento apparentemente insignificante, nel suo tentativo di ricostruire un tempo perduto che gli permette di capire chi egli spiritualmente sia, nella stessa costruzione di alcune frasi (sia pure forse aiutata, come detto, dall’ingombrante presenza di Mario Praz), accenti che si potrebbero definire francamente preproustiani? Come non percepire, in tutto il racconto, i presupposti stessi di un nuovo modo di esprimere il pensiero ed il sentire dei personaggi, che troverà in Woolf ed in Joyce – tanto per restare in ambito anglosassone – i principali interpreti?
Il racconto, dal forte contenuto didattico, rivela moltissime cose di Pater, sulla sua concezione della vita e dell’arte, sugli oggetti ai quali quest’ultima deve porre attenzione, ed in questo senso ci aiuta a meglio contestualizzare e comprendere gli altri testi contenuti nel volume.
Ricominciando la lettura dalle prime pagine si incontrano come detto i quattro racconti facenti parte dei Ritratti immaginari originali. Il primo di questi per la verità non riguarda un personaggio di fantasia, ma il pittore francese Antoine Watteau, artista fondamentale nell’universo culturale di Pater. Watteau è già citato ne Il fanciullo nella casa e, a proposito di connessioni proustiane, non bisogna dimenticare che un suo quadro ha ispirato una novella giovanile dello scrittore francese, L’indifferente. Il Ritratto di Watteau è redatto sotto forma di diario tenuto da una signora di Valenciennes, città natale del pittore, che lo conosce da giovane e ne segue l’intensa e breve parabola artistica, interrotta dalla morte per tubercolosi nel 1721, quando Watteau aveva solo 37 anni; è intitolato quasi antifrasticamente Un principe dei pittori di corte.
Perché Watteau interessa tanto Pater? La risposta ce la dà Mario Praz, quando, riferendosi a tutti i personaggi di Pater afferma che ”appartengono a epoche di transizione, o addirittura sono nati fuori tempo”. Watteau in particolare è figlio di quella porzione di Fiandre divenuta all’epoca francese da poco, dipinge in un periodo sospeso tra l’apparente immobilità della società aristocratica e i primi sussulti dell’illuminismo, e fa del mistero e dell’ambiguità il tratto dominante di opere ufficialmente destinate a celebrare la vita spensierata della nobiltà dell’epoca, come si può osservare in alcune celebri sue opere quali il Pellegrinaggio a Citera o le Due cugine. Pater ci dice che nelle sue opere riproduce un mondo che lo affascina e lo ripugna al contempo, ed in questo mondo introduce a mio modo di vedere tratti che rimandano a quello che quasi due secoli dopo sarà il simbolismo. Pater, pienamente conscio di essere un intellettuale in un’epoca di transizione, non poteva non volgere la sua attenzione a questo grande antesignano.
Denys l’Auxerrois è il primo vero ritratto immaginario della serie. Il protagonista è un giovane, che Pater immagina vissuto verso la metà del XIII secolo ad Auxerre, in Borgogna, il quale porta nella comunità uno spirito nuovo, divenendo di fatto il leader del tentativo di trasformazione della città in libero comune attraverso il risveglio delle coscienze e la rivoluzione delle cristallizzate ritualità medievali. Denys è l’incarnazione dello spirito dionisiaco che riprende il suo spazio dopo i secoli bui del medioevo, come simboleggiato, nelle prime pagine del racconto, dal ritrovamento di un sarcofago greco-romano durante gli scavi per il completamento della cattedrale gotica. L’atmosfera in città però cambia presto, e Denys viene accusato di delitti infamanti. Divenuto tetro e ombroso, si rifugia in un convento, nel quale costruisce un organo che suona per la prima volta durante la cerimonia di riesumazione dei resti di un santo, in un’atmosfera cupamente evocante il ritorno dell’ordine feudale. Denys, che nei momenti di gloria aveva interpretato Dioniso durante una festa popolare, si presta ora ad impersonare l’Inverno, cui verrà data la caccia nell’ambito delle celebrazioni: la cupa festa si concluderà in tragedia, con il corpo di Denys smembrato dalla folla ebbra di sangue.
È questo il ritratto più cupo, nel quale il protagonista paga la sua irregolarità e il suo tentativo di precorrere i tempi, di recuperare una religiosità interiore rispetto alla sclerotizzazione della ritualità medievale ed un’etica individuale e sociale che si rifaccia ai valori dell’antichità classica. Scoperto è il ruolo assegnato all’arte, simboleggiato dalla musica nuova che l’organaro Denys può suonare ai cittadini di Auxerre.
Il ritratto seguente, Sebastian Van Storck, è quello più complesso, intriso com’è di rimandi alla filosofia spinoziana e alla sua interpretazione. Il giovane Sebastian, figlio della buona borghesia del secolo d’oro olandese, rifiuta il futuro pratico prospettato dalla sua condizione sociale, e si rifugia in un solipsismo che, estremizzando la concezione spinoziana del mondo, lo spinge a pensare che l’unica entità esistente sia il suo pensiero di una sostanza fredda, immota, che nessun fattore esterno può perturbare. Si rifugia così in una casa isolata in riva al mare, dove una tremenda tempesta lo fa annegare, non prima però di avere salvato un bambino. Sebastian è figura che, pur leggendo lucidamente l’inanità dei valori sociali, non riesce a trovare un’alternativa, rifugiandosi in un sistema teoretico nel quale non ci sono sbocchi se non l’autoannientamento, parzialmente raddolcito dall’estremo gesto di riconciliazione con il mondo che però segnala anche il suo fallimento filosofico.
L’ultimo vero ritratto immaginario è Carl Duca di Rosenmold, ambientato all’inizio del ‘700 in Germania settentrionale. Il giovane Duca ereditario Carl, che Praz paragona giustamente a Ludwig II di Baviera, vuole portare nel suo piccolo stato la luce dell’arte francese, italiana e greca. Si rende però presto conto di quanto lo spirito tedesco sia ancora lontano dall’arte, ed una volta asceso al trono si disinteressa degli affari dello Stato per amoreggiare con una popolana, l’unica persona che lo avesse sinceramente pianto quando aveva inscenato la sua finta morte. I due, mentre sono in una casa isolata, vengono uccisi da un esercito che sta occupando il paese con la complicità dei dignitari di corte. Carl, a differenza di Sebastian, è ancora una volta un antesignano, vive in un mondo che si sta rapidamente trasformando e che presto genererà l’illuminismo di Lessing, ma rispetto al quale lui è in anticipo, pagandone le estreme conseguenze.
Il libro presenta infine Apollo in Piccardia, sorta di riproposizione in altre forme di Denys l’Auxerrois, e per questo a mio avviso il racconto meno significativo.
Pater è autore già pienamente figlio della crisi del positivismo che caratterizza la fine del secolo XIX, simboleggiata in Gran Bretagna anche dal lungo tramonto dell’era vittoriana, e a questa crisi risponde teorizzando l’estetismo, l’art for art’s sake, la ricerca della bellezza per sé stessa. È però inevitabile, a mio modo di vedere, che questa risposta si riveli intrinsecamente contraddittoria, perché l’arte, in quanto modo di comunicazione, necessita di appoggiarsi all’oggetto che comunica: comunicando solo sé stessa, cesserebbe di essere arte per divenire vuota forma (ciò che sta accadendo oggi). Anche leggendo le opere di un teorico dell’arte per l’arte ci si accorge, a mio parere, di come per l’artista non esistano alternative a raccontare il mondo in cui vive, per quanto sublimato questo racconto possa essere. Del resto, se così non fosse, Pater non avrebbe certo potuto essere uno dei grandi antesignani del modernismo.
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Un mondo comico irriducibile a letteratura
"Je suis Marxiste, tendance Groucho" è il graffito più irriverente e famoso del maggio francese. Mi piace immaginare che lo abbia scritto lo stesso Groucho, perché l’irriverenza verso i luoghi comuni e le frasi fatte, la capacità di stravolgere l’apparenza logica delle cose attraverso calembours e giochi di parole, mettendo a nudo l’assurdità di ciò che consideriamo scontato, la satira nei confronti delle convenzioni e della costruzione sociale sono i tratti che contraddistinguono la comicità di Groucho Marx, o per meglio dire quella dei Fratelli Marx.
Questo volume Einaudi ha sicuramente il pregio di riproporci un ampio ventaglio della produzione letteraria di Groucho, che comprende alcune delle più famose scene tratte dalle commedie di Broadway e dai film del periodo d’oro dei Fratelli ma anche materiale meno scontato, quali le lettere scritte da Groucho a T.S. Eliot, di cui era amico, oppure gli articoli che nel corso degli anni scrisse per prestigiose riviste e quotidiani, oppure infine una scelta di dialoghi tratti dalla conduzione di You bet your life, la trasmissione prima radiofonica e poi televisiva che gli diede una nuova popolarità nel secondo dopoguerra.
Il libro si scontra però, soprattutto nella prima parte – che propone parti delle sceneggiature di commedie e film – con alcuni ostacoli insormontabili, connessi alla natura stessa della comicità di Groucho e fratelli, che risulta irriducibile ad una decrittazione puramente letteraria.
Il primo è dato dalla pratica intraducibilità dell’effetto comico provocato da molte delle battute e dei monologhi di Groucho: come detto, elemento essenziale di questa comicità sono i giochi di parole, i doppi sensi, i non sequitur; ebbene, la traduzione in un’altra lingua non sempre, anzi quasi mai, riesce a riprodurre appieno il gioco insito negli improvvisi scarti di senso che le battute di Groucho contengono. Come esempio concreto prendiamone una delle più famose: l’originale ”Outside of a dog, a book is a man’s best friend. Inside of a dog it’s too dark to read” perde forzatamente il suo assurdo senso nella traduzione italiana, che non ha alternative rispetto a All’infuori del cane un libro è il miglior amico dell’uomo; dentro un cane è troppo buio per leggere.” Certo, non sempre questo è vero, e ci sono battute che conservano appieno la loro forza anche in italiano (“Non vorrei far parte di un club che abbia me tra i suoi soci”), ma in generale la lettura in italiano delle sceneggiature di commedie e film può strutturalmente restituire solo una minima parte della forza eversiva della comicità di Groucho e fratelli.
Il secondo problema, che si somma al primo, è che l’effetto comico complessivo proviene in buona parte anche da elementi che la parola scritta non ci può restituire, quali la gestualità, l’abbigliamento, l’inflessione e il ritmo delle battute. Nulla, se non la visione dei film, ci può rendere la mimica facciale di Groucho, sottolineata grottescamente dai finti baffoni, e la sua camminata, oppure l’accento da immigrato italiano di Chico, per non parlare (è il caso di dirlo) del ruolo essenziale di spalla muta svolto da Harpo. Nessuna trascrizione, ed anche nessun doppiaggio, per quanto accorto, può restituirci il ritmo inconfondibile con il quale Groucho conduceva i suoi monologhi.
Il consiglio che mi sento di dare, quindi, a chi volesse leggere questo libro, perlomeno per quanto riguarda la prima parte, è di andare in rete e cercare, con un po’ di pazienza, le scene proposte all’interno dei film, guardandole in lingua originale: l’effetto sarà completamente diverso rispetto alla semplice lettura, ed il divertimento sarà assicurato.
Purtroppo questa tecnica di lettura non è applicabile al primo brano proposto nel volume: si tratta dello sketch di Napoleone tratto dal primo grande successo teatrale dei Fratelli Marx: il varietà I’ll say she is! del 1924. Lo sketch è comunque godibilissimo, essendo basato sulla presa in giro dell’autorità e della guerra ma soprattutto sulle allusioni alla dubbia moralità di Giuseppina Bonaparte, la quale spinge l’augusto consorte a partire per la guerra per potersi immediatamente gettare tra le braccia dei suoi amanti. La scena è piena di doppi sensi a sfondo sessuale anche piuttosto espliciti (”Quando guardo nei tuoi occhioni blu, so che sei fedele all’esercito. Spero solo che l’esercito resti in piedi”,oppure ”Sono partito da dieci secondi ed è ancora in posizione verticale, e non c’è nessuno con lei. Ah! Mi ama” dice Napoleone riferendosi a Giusy) che sicuramente per l’epoca costituivano un elemento di novità, anche se non dobbiamo dimenticarci che siamo nel bel mezzo dei roaring twenties, con le loro sfrenatezze (almeno per chi poteva permettersele).
Segue un singolo brano tratto da The Cocoanuts, del 1929, il primo film dei Fratelli Marx, che riprende un musical portato sulle scene in quegli anni: si tratta della surreale asta con la quale Mr. Hammer (Groucho), per risollevare le sorti dell’albergo di cui è proprietario, tenta di vendere lotti di terreno paludoso, dopo essersi messo d’accordo con Chico perché questi intervenga con rilanci per far salire le offerte. Naturalmente lo scarso acume di Chico farà fallire il goffo tentativo di truffa. La scena dell’accordo tra Groucho e Chico può essere seguita nel video integrale del film a partire da circa 33’30”, e l’asta vera e propria segue dopo pochi minuti; la visione permette di entrare appieno nel mondo della comicità surreale dei Fratelli Marx, soprattutto facendoci percepire il senso del ritmo, tipicamente teatrale, di cui erano dotati.
Più spazio è dedicato al successivo Animal Crackers, del 1930, di cui vengono riportate tre scene. Su tutte vale veramente la pena di vedere quella in cui Groucho , improbabile esploratore, dichiara il suo amore contemporaneamente a due donne (ovviamente a fini utilitaristici) prendendo in giro il classicheggiante teatro di Eugene O’Neill, ma anche sbeffeggiando l’attenzione spasmodica al mercato azionario all’indomani dello scoppio della grande depressione.
Seguono scene dai successivi film, tra i quali il più significativo, divenuto nel corso del tempo un film di culto, dato il suo carattere di apologo antimilitarista, è Duck soup (La guerra lampo dei fratelli Marx), del 1933, nel quale Groucho veste i panni di dittatore dello stato di Freedonia (si noti la data di uscita del film per capirne l’attualità rispetto agli avvenimenti dell’epoca). La scena proposta non è in grado di rendere l’atmosfera complessiva del film, che è considerato uno dei capolavori del cinema statunitense, per cui soprattutto in questo caso ne consiglio la visione. Al fine di orientare gli indecisi e di dare una sia pur pallida idea di come la comicità di Groucho, apparentemente priva di senso, sapesse cogliere il nocciolo dei problemi, riporto uno scambio di battute tra l’ambasciatore dello stato di Sylvania e Groucho: ”Sono propenso a molte concessioni pur di evitare la guerra”; “Troppo tardi. Ho già pagato un mese d’affitto per il campo di battaglia.”.
La successiva sezione del volume è dedicata ad un estratto da Le lettere di Groucho, un libro uscito nel 1967 contenente la corrispondenza del comico con numerosi personaggi.
Tra queste le più significative, per il loro sarcasmo perfettamente in stile Groucho, sono quelle indirizzate ai fratelli Warner, che nel 1946 diffidarono i Marx dall’utilizzare il nome Casablanca per il film del loro ritorno in scena dopo la guerra, che nelle intenzioni si sarebbe dovuto intitolare Una notte a Casablanca. Groucho prende carta e penna e scrive ai cari fratelli Warner alcune missive esilaranti, nelle quali mette alla berlina la loro pretesa di avere l’esclusiva sul nome di una città e fa leva sul fatto di essere anch’essi fratelli. La cosa buffa è che dopo queste lettere La Warner Bros. rinunciò all’azione legale e il film dei Marx poté uscire con il titolo originale.
Meno significativa è secondo me la parte dedicata alla corrispondenza tra Groucho e T.S. Eliot, che prese avvio nel 1961 quando il poeta richiese a Groucho, come un fan qualsiasi, un ritratto per poterlo appendere ad una parete di casa accanto a quelli dei suoi amici intellettuali. L’amicizia tra i due fu importante, durò sino alla morte di Eliot nel 1965, e indubbiamente testimonia come l’opera dei Fratelli Marx, e la comicità di Groucho in particolare, fosse già all’epoca considerata importante da molti intellettuali, soprattutto da parte di chi aveva attraversato i convulsi anni delle avanguardie. Tuttavia le lettere qui proposte sono di carattere privato, e si riferiscono alla spedizione della fotografia piuttosto che all’incontro a cena tra i due (con le rispettive mogli) nell’estate del 1964 a Londra. Di questa cena Groucho riferisce in una lettera a Gummo, dove con la consueta ironia descrive il suo imbarazzo nel trovarsi di fronte ad un grande poeta.
Tra le altre lettere, meritano una citazione quelle scritte nel 1957 all’avvocato Joe Welch, artefice della caduta del senatore McCarthy, che testimoniano i sentimenti liberal di Groucho.
Seguono due sezioni del volume dedicate al Groucho scrittore e giornalista. Il Nostro, infatti, che sin da giovane amava la letteratura, scrisse anche otto libri, che non ebbero però grande successo, e collaborò per oltre cinquant’anni, anche se non in modo organico, con numerose riviste e quotidiani, tra i quali Time, Variety e il New York Times. Molti sono gli articoli riportati, che trattano di diversi argomenti, dalla rievocazione degli inizi nel mondo dello spettacolo alle ristrettezze dovute alla grande depressione (a causa della quale Groucho perse un notevole quantitativo di denaro investito in azioni), dallo sforzo bellico del Paese ai problemi con l’insonnia, dalle elezioni presidenziali alla garbata satira del mondo di Hollywood. Gli articoli rivelano molto della personalità di Groucho e del suo approccio ironico alla realtà degli Stati Uniti, soprattutto nei drammatici anni ‘30 e ‘40, di una ironia che però non rinuncia a farsi carico di precise convinzioni e opinioni, anche controcorrente. Emerge a tratti anche l’amarezza per l’emarginazione che Groucho subì dal mondo dello spettacolo dopo i ruggenti anni ‘20 e ‘30, quando la comicità sua e dei fratelli venne ritenuta superata e presto dimenticata.
Da questa emarginazione Groucho riemerse nel 1947, quando iniziò a condurre un programma radiofonico, poi divenuto televisivo, intitolato You bet your life, una sorta di quiz che gli permetteva di interloquire con i concorrenti con battute e improvvisazioni per le quali attingeva al suo infinito repertorio e al suo innato talento. La trasmissione divenne uno dei programmi di punta degli anni ‘50, e un Groucho ormai anziano ebbe una notorietà persino superiore, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, a quella che aveva negli anni ‘30. Nel libro vengono riportati i dialoghi che Groucho aveva con i concorrenti, nei quali, a fronte della risposta ad una domanda qualsiasi sulla loro vita, sfornava i consueti doppi sensi e giochi di parole. Anche qui emerge sicuramente la stoffa del grande comico, in grado di trarre spunto per una battuta da qualsiasi situazione, ma – forse per la brevità dei dialoghi, fatti di poche righe, avulsi dal loro contesto ed a volte comprensibili solo da un pubblico statunitense – sono pochi quelli che portano ad un riso genuino. In rete è possibile trovare molti episodi della trasmissione, che ci mostrano un signore maturo, con baffi veri ed ormai brizzolati, con un gigantesco sigaro e gli occhiali rotondi, nel quale solo a fatica ritroviamo la maschera del grande comico che fu. Lo spettacolo, nonostante la maestria con cui Groucho lo conduce, è ovviamente totalmente piegato alle regole dell’intrattenimento televisivo che anche noi stavamo scoprendo in quegli anni.
Il libro è la traduzione di un’edizione statunitense di pochi anni prima, e sia l’introduzione sia le brevi prefazioni ad ogni capitolo sono a mio avviso una occasione persa per approfondire la conoscenza di questo importantissimo artista, limitandosi a registrare aspetti esteriori della sua vita e della sua produzione. Tuttavia, pur con questi evidenti limiti, il libro ha il pregio di poter suscitare la nostra curiosità verso un grande della scena del ‘900, che non solo ha saputo interpretare attraverso la sua vis comica il mondo in cui è vissuto, ma che ha saputo trasmetterci importanti chiavi per interpretare quello in cui viviamo noi oggi. In questo senso un classico.
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Vita di Seymour Glass, artista-veggente
Il nome di J. D. Salinger è indissolubilmente legato a quello del suo personaggio più famoso, Holden Caulfield, protagonista di 'The catcher in the Rye' e di alcuni altri racconti scritti dall’elusivo autore di New York, che è divenuto uno dei personaggi chiave della letteratura degli ultimi decenni del XX secolo.
Alcuni significativi racconti della relativamente scarna produzione letteraria di Salinger riguardano però un’altra, non meno importante, serie di personaggi: la famiglia Glass, nell’ambito della quale spicca la tragica figura di Seymour, protagonista dei due racconti riuniti in questo volume.
Il fatto che Seymour Glass non abbia la notorietà cui è giunto Holden Caulfield è forse dovuto alla circostanza che Salinger non abbia scritto un romanzo a lui dedicato, ma che la sua vicenda vada ricercata e ricostruita leggendo diversi racconti dell’autore. Ciò non toglie che Seymour sia indubbiamente uno dei grandi personaggi della letteratura statunitense, e non solo, del secondo dopoguerra, e che quindi meriti una speciale attenzione da parte di noi lettori.
E’ forse utile, al fine di contestualizzare letterariamente l’analisi dei due racconti ed anche come guida alla lettura complessiva dei testi di Salinger riguardanti la famiglia Glass, accennare brevemente alla storia dei suoi componenti, come la si può desumere dagli indizi disseminati nei vari racconti, la maggior parte dei quali provengono proprio da 'Alzate l’architrave, carpentieri' e da 'Seymour. Introduzione'.
Less e Bessie Glass sono artisti di varietà in pensione, ed hanno avuto ben sette figli.
Seymour, nato nel 1917, è l’intellettuale del gruppo: a 20 anni è professore di letteratura alla Columbia University. Nel 1942 sposa Muriel Fedder, nonostante l’ostilità dei parenti di lei che lo considerano un pazzo. Partecipa alla seconda guerra mondiale sul fronte europeo, e questa esperienza lo segnerà indelebilmente. La straordinario racconto Un giorno ideale per i pescibanana narra del suo suicidio in Florida, nel 1948.
Buddy è di due anni più giovane di Seymour: è in pratica l’alter-ego di Salinger (anche se molto dell’autore si trova anche in Seymour) e scriverà i racconti che narrano la vicenda del fratello, cui era molto legato.
Boo Boo è la sorella saggia; si sposerà ed avrà tre figli: con uno di questi è protagonista di Giù al dinghy, uno dei Nove racconti.
Walt e Waker sono due gemelli: il primo morirà nel 1945, nel Giappone occupato, in un assurdo incidente raccontato dalla sua ex fidanzata Eloise in Lo zio Wiggily nel Connecticut, un altro dei Nove racconti; di Waker sappiamo solo che si è fatto monaco.
Zooey e Franny, i due fratelli più giovani, sono attori, protagonisti ciascuno di un racconto di Salinger.
Tutti i fratelli sono stati molto precoci, ed hanno partecipato durante l’infanzia, a partire dal 1927, ad una trasmissione radiofonica a quiz intitolata Ecco un bambino eccezionale con i cui proventi si sono pagati il college.
Come detto, le storie della famiglia Glass sono frammentarie e frammentate in diversi racconti: tra le leggende che accompagnano la enigmatica personalità dell’autore vi è anche quella secondo cui Salinger (che non ha pubblicato più nulla dal 1965 alla morte nel 2010) abbia scritto altri racconti o romanzi riguardanti la famiglia: ad oggi tuttavia nulla è stato dato alle stampe dagli eredi.
'Alzate l’architrave, carpentieri' è il racconto che narra del giorno delle nozze di Seymour con Muriel, il 4 giugno del 1942. I due sposi non compaiono nel racconto, che vede Buddy Glass nella veste di narratore. Egli, che è arruolato e di stanza in Georgia, ottiene una licenza per recarsi a New York al matrimonio del fratello: la sorella Boo Boo ha insistito per lettera affinché sia presente alla cerimonia, in quanto nessun altro familiare è in grado di andarci, essendo i fratelli sparsi per il mondo anche a causa della guerra.
Giunto in incognito (nessuno infatti lo conosce) dove si dovrebbe svolgere la cerimonia, si trova coinvolto in un improvviso cambio di programma: tutti i presenti devono recarsi alla casa dei genitori della sposa. Buddy si ritrova in un’automobile in compagnia di una prosperosa amica di Muriel, sua Damigella d’onore, il marito di lei, tenente del Genio, la signora Silsburn, anziana zia della sposa, e un enigmatico vecchietto, che si scoprirà essere un prozio di Muriel, sordomuto.
Buddy glissa sulla sua vera identità, avvertendo un’atmosfera di astio nei confronti di Seymour, e viene a sapere che la notte prima il fratello ha detto a Muriel di non poterla per il momento sposare, perché si sente troppo felice e deve attendere di riacquistare il suo equilibrio. La Damigella d’onore è indignata, e rivela come la madre di Muriel avesse sempre considerato Seymour un pazzo, uno schizoide con tendenze omosessuali. Le deboli proteste di Buddy lo costringono a rivelare di essere fratello di Seymour, facendogli guadagnare la diffidenza degli altri. Frattanto la macchina rimane imbottigliata nella calura di New York a causa di una parata, e gli occupanti si trasferiscono nell’appartamento che lì vicino Buddy condivide con Seymour e la sorella Boo Boo quando si trova a New York. Buddy si chiude in bagno a leggere il diario di Seymour, accidentalmente trovato in casa, nel quale il fratello dichiara che il suo amore per Muriel è una sorta di commozione ed istinto di protezione per il suo (di lei) essere così ingenuamente borghese, così distante dalle sue tensioni ideali ed intellettuali. Buddy beve una generosa dose di whisky mentre la Damigella d’onore telefona a casa di Muriel, venendo a sapere che la situazione si è ricomposta: Seymour ha promesso ai genitori di lei di andare da uno psicanalista e i due sposi sono già partiti per la luna di miele. Buddy, ormai sbronzo, accompagna la coppia e la zia, che intendono andare al ricevimento, all’ascensore, e quando rientra trova il prozio sordomuto, con il quale ha stretto un’amicizia fatta di segni. A lui racconta la vera storia di come Seymour, da piccolo, ai tempi in cui era la star della trasmissione radiofonica Ecco un bambino eccezionale, abbia ferito al volto con un sasso una bambina che sarebbe diventata una famosa attrice, storia che la famiglia di Muriel ha assunto come prova della pericolosità di lui; quindi si addormenta. Quando si risveglia anche il prozio sordomuto se ne è andato; nel posacenere resta il mozzicone del suo sigaro, che Buddy pensa di mandare al fratello come regalo di nozze. Il titolo del racconto deriva da una citazione di Saffo che Buddy trova scritta con il sapone sullo specchio del bagno: è il messaggio con cui Boo Boo augura a Seymour di essere felice.
'Alzate l’architrave, carpentieri' è un racconto pressoché perfetto, e rivela la nota maestria narrativa di Salinger, fatta di uno stile discorsivo che riconosciamo subito come statunitense senza esserlo in maniera tipica e stereotipata, di descrizioni minuziose di particolari apparentemente insignificanti che contribuiscono, a poco a poco, a disegnare un’atmosfera narrativa inconfondibile, di veri e propri lampi di genio letterario. Come si può notare dalla trama, il racconto potrebbe essere definito minimalista, nel senso che nulla di particolarmente eclatante vi accade: c’è una cerimonia di nozze, qualche problema di accettazione dello sposo da parte della famiglia di lei, un lieto fine. Eppure, in questo apparente nulla c’è la descrizione di un mondo, quello degli Stati Uniti nei primi mesi della guerra, non ancora toccati direttamente dal conflitto ed in cui sono prevalenti i semi gettati dal New Deal roosveltiano che anticipano i primi germogli della società dell’affluenza che fiorirà nel dopoguerra; in questo apparente nulla c’è anche la rappresentazione chirurgicamente esatta dell’angustia intellettuale della piccola borghesia urbana statunitense, già pronta a costituire il blocco sociale su cui si appoggeranno la reazione degli anni ‘50 ed il suo epifenomeno più noto, il maccartismo; c’è il disagio esistenziale dell’intellettuale, che pur essendo pienamente conscio della distanza che lo separa da quel mondo sa che deve cercare di accettarlo, anzi di amarlo, se non vuole essere un escluso, sia umanamente sia culturalmente. Non va dimenticato in questo senso che, anche se il racconto è ambientato nel 1942, fu scritto da Salinger nel 1955, quando appunto i semi gettati tra gli anni ‘30 e ‘40 avevano già dato i loro frutti in termini di trasformazione della società statunitense.
La diffidenza, l’odio della Damigella d’onore – che più volte si dice disposta ad uccidere – e della madre di Muriel nei confronti di Seymour sono la diffidenza e l’odio di una intera classe per ciò che non possono comprendere, per chi professa valori che disturbano la loro ansia di normalità: è sintomatico da questo punto di vista che sospettino Seymour di omosessualità latente, e che in un passo del suo diario questi affermi che una delle cause di questa diffidenza stia nel fatto che egli non abbia ancora sedotto Muriel, come sarebbe stato normale.
Questa diffidenza è mitigata solo dal fatto che Seymour sia stato una star della radio. A ciò la signora Silsburn in particolare è molto interessata, perché percepisce la notorietà data dai media come un vero valore, mentre il fatto che Seymour sia un professore universitario non interessa a nessuno.
Il punto più alto del racconto a mio avviso è toccato dalle pagine del diario che Buddy legge in bagno, nelle quali Seymour analizza le cause del suo amore per Muriel, che come detto si basa sulla piena consapevolezza della diversità intellettuale tra i due. Chi ha incontrato Seymour nelle poche pagine di 'Un giorno ideale per i pescibanana' trova qui le cause profonde del suo suicidio, che nel racconto apparivano inspiegabili, essendo criptate nel colloquio iniziale tra Muriel e la madre. Seymour, il pescebanana, con il matrimonio ha accettato di entrare nello spazio angusto, nella grotta che forma il mondo in cui Muriel è immersa, perché l’alternativa era essere escluso dal mondo. Ma sei anni dopo non può uscire da quella grotta e non gli resta che morire di fronte alla coscienza del suo ineluttabile fallimento: il diario scritto sei anni prima (ma nella realtà scritto da Salinger sette anni dopo) ci fornisce la chiave di quel suicidio. Una nota a parte merita lo splendido personaggio del prozio sordomuto, significativamente l’unico con cui Buddy stabilisce una qualche forma di comunicazione vera.
Seymour. Introduzione, scritto da Salinger nel 1959, è un lungo dialogo diretto tra Buddy e il suo lettore, nel quale viene descritta – attraverso episodi di vita vissuta, citazioni e commenti degli scritti lasciati da Seymour, aspetti peculiari del suo carattere e del suo comportamento, le conseguenze della guerra sulla sua psiche – la personalità del fratello suicida. È qui che Salinger attribuisce esplicitamente a Seymour lo status di artista, ci fa entrare nel mondo delle sue centottantaquattro poesie, mai pubblicate, che si ispirano in particolare all’arte cinese e giapponese, e dei suoi altri scritti. Nelle prime pagine, che costituiscono a mio avviso il vero fulcro dell’opera, ed in cui si scaglia contro il mondo della critica letteraria e della psico-sociologia d’accatto che pretende di fare dell’artista un alienato, Salinger chiama Seymour artista-veggente, dicendo tra l’altro: ”Il vero poeta o il vero pittore non è forse un veggente? Non è, in pratica, l’unico veggente che abbiamo sulla terra?”; da questa capacità di vedere l’artista trae il dolore che lo può annientare, non da una astratta Consunzione o Solitudine; conclude Buddy/Salinger: ”affermo dunque che l’artista-veggente, quell’angelico buffone che sa e può produrre la bellezza, è in generale trafitto a morte dai propri scrupoli, le forme e gli accecanti colori della sua coscienza umana”. Seymour. Introduzione può ad una lettura attenta essere considerato quasi come un saggio sulle molteplici radici culturali dell’autore e soprattutto sulla sua concezione del ruolo e della responsabilità dell’arte e dell’artista nei confronti del mondo e della coscienza individuale e collettiva; una concezione che àncora l’arte alla realtà, che fa dell’artista colui che deve usare soprattutto gli occhi, che deve saper vedere quella realtà, anche a costo di pagarne le estreme conseguenze personali. E’ questo suo essere veggente e capace di caricarsi tutta la responsabilità del suo ruolo che fa di Saymour Glass un grande, forse non sufficientemente conosciuto personaggio.
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Franny e Zooey
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La svolta del Bardo verso la modernità
In generale ritengo che leggere opere teatrali sia esercizio più complesso rispetto alla lettura di opere letterarie propriamente dette, in quanto l’opera teatrale è solo in parte un’opera scritta, e per essere gustata appieno deve passare attraverso la mediazione della rappresentazione, cui il testo scritto è funzionale.
Non so se ciò sia completamente vero per le opere teatrali di William Shakespeare, in quanto queste hanno nel corso dei secoli assunto una tale importanza letteraria da acquisire una sorta di autonomia rispetto alla loro rappresentazione in teatro: siamo infatti oggi forse più abituati a leggere Shakespeare che a vederlo a teatro. Indubbiamente, però, le commedie e le tragedie shakespeariane sono nate prima di tutto sulla scena, ed è ancora oggi sulla scena che si possono offrire a noi completamente. Il loro essere tuttavia, quanto a testo scritto, quasi unicamente costituite da dialoghi tra i vari personaggi e monologhi, quindi pressoché prive di indicazioni sceniche da parte dell’autore, da un lato le rende indubbiamente più compatte e dirette nei confronti del lettore, dall’altro accentua le possibilità interpretative di registi ed attori, che sono pressoché liberi di arricchire secondo la loro sensibilità i testi shakespeariani degli elementi di contorno che, oltre al testo, rendono tale un’opera teatrale. Questa libertà interpretativa non può che accentuare il distacco tra il testo e la sua rappresentazione, rispetto a quanto accade per altre opere teatrali, soprattutto moderne, più puntigliose nel fornire elementi scenici che guidino l’interpretazione teatrale.
Per questo autore, quindi – ma credo che ciò valga in generale per gli autori teatrali antichi – ritengo si possa dire che la critica letteraria, se indubbiamente analizza solo una parte della complessità dell’opera come concepita dall’autore, può comunque in qualche modo legittimamente astrarsi dal fatto che l’oggetto cui si rivolge non sia stato destinato dall’autore ad essere letto ma ad essere rappresentato.
Deve comunque assolutamente notarsi che probabilmente la maggiore problematica che il critico dilettante affronta quando intende parlare di un’opera di Shakespeare sta nelle difficoltà oggettive di analisi dell’opera di uno dei massimi intellettuali di tutti i tempi, già sviscerata sotto innumerevoli punti di vista dalle più svariate scuole di pensiero critico. Ma tant’è, questa difficoltà si presenta quasi ogni volta che egli intende scrivere di un classico, e l’unica giustificazione per farlo, peraltro nobilissima, consiste nel fatto che ciò che egli scrive attiene a quello che l’opera gli ha trasmesso, e questo egli intende fissare sulla carta, indipendentemente dal rischio, più che probabile, di cadere nel baratro del già detto e della banalità.
Della lunga teoria di opere shakespeariane che fa bella mostra di sé negli scaffali della mia libreria ho deciso di affrontare per prima una delle tragedie più celebri, il 'Giulio Cesare'.
Shakespeare scrive 'Giulio Cesare' tra il 1598 e il 1599, e questa tragedia rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione della poetica del bardo. Essa segna infatti il passaggio dalle commedie o tragedie cosiddette romantiche e di influsso classico italiano, che avevano caratterizzato la produzione teatrale shakespeariana negli anni ‘90 del XVI secolo, a quelli che verranno definiti i drammi dialettici, al cui centro sono le problematicità dell’agire umano, l’individuo con le sue contraddizioni. Molti critici individuano per questo nel 'Giulio Cesare' il testo con il quale l’opera di Shakespeare entra a pieno titolo nella modernità: più propriamente si può forse affermare che con questa tragedia l’autore, che non dimentichiamo è stato anche un grande manager teatrale, sempre attento a cogliere i mutamenti di gusto del suo pubblico, inaugura un teatro che fa sue le istanze culturali più profonde di quest’epoca di profondo cambiamento nella società britannica, ed espressamente quelle della nascente società borghese, che circa quarant’anni dopo, con la rivoluzione di Cromwell, conquisterà definitivamente il potere nell’isola. Con 'Giulio Cesare' infatti Shakespeare introduce esplicitamente nel suo teatro – soprattutto per mezzo del personaggio di Bruto, che come vedremo gioca un ruolo centrale nel dramma – il tema, tipicamente moderno perché legato alla concezione borghese del mondo, della responsabilità dell’individuo di fronte alle proprie azioni, rompendo così definitivamente con la visione squisitamente medievale del fato come causa ultima degli avvenimenti, che ancora in gran parte caratterizzava una tragedia di poco anteriore come Giulietta e Romeo.
La grandezza di una tragedia come Giulio Cesare emerge soprattutto dalla sua complessità, dal fatto che in essa possono essere rintracciati, oltre a quello già citato, altri temi portanti, tutti testimoni della grandezza dell’autore quanto a capacità di cogliere le problematiche emergenti del tempo in cui viveva.
La tragedia è infatti un’opera dal contenuto fortemente politico, perché trasla al tempo della fine della repubblica romana il clima di incertezza che caratterizzava la società britannica dell’epoca, non solo per l’accennato scontro in atto (anche se ancora latente) tra privilegi dell’aristocrazia e spinte borghesi al rinnovamento socio-politico, ma anche perché il futuro stesso della monarchia inglese era all’epoca incerto: siamo infatti negli ultimi anni di regno di Elisabetta I Tudor, ed è da tempo chiaro che la regina, ormai quasi settantenne, morirà senza eredi. La prospettiva di una guerra civile, di una lotta per il potere era quindi una concreta possibilità nell’Inghilterra del volgere del XVI secolo, ed indubbiamente la tematica scelta da Shakespeare per questa sua tragedia riflette quel clima di incertezza, nell’ambito del quale l’autore si interroga sul conflitto tra tirannia e libertà, rifiutandone peraltro una visione ideologica e calandolo nella concretezza delle problematiche scelte fatte dai protagonisti.
Un altro elemento di modernità della tragedia è dato, a mio modo di vedere, dalla sua stessa struttura, dalla capacità dell’autore non solo di caratterizzare indelebilmente i personaggi principali, ma anche di giocarli sulla scena in un modo che può apparire inusitato ma che è perfettamente funzionale ai messaggi che Shakespeare voleva trasmettere al suo pubblico. Egli compone la tragedia avvalendosi della fonte storica di Plutarco: anche se oggettivamente sono pochi gli elementi che cambia rispetto all’autore delle Vite parallele – anzi, alcuni passi sono ripresi quasi letteralmente – la costruzione dell’opera, il succedersi delle scene e degli atti le conferisce il segno della più grande originalità. La prima scena è in questo senso emblematica: per descrivere l’atmosfera di duro contrasto che si vive a Roma nei giorni in cui Cesare dovrebbe ricevere di fatto la legittimazione imperiale Shakespeare ricorre ai dialoghi farseschi e pieni di doppi sensi tra un ciabattino, un falegname e due tribuni del popolo. Ma il vero perno del gioco di Shakespeare con i suoi personaggi è proprio la figura di Cesare, che pur dando il titolo all’opera non ne è affatto il protagonista, ed inoltre, come fa giustamente notare anche Agostino Lombardo nella sua bella introduzione, viene presentato come un uomo stanco, sordo ad un orecchio, indeciso e sorretto ormai solo dalla sua sconfinata ambizione per il potere.
La sua prima apparizione, nella seconda scena del primo atto, è quasi grottesca: egli, camminando tra la folla, si preoccupa solo che la moglie Calpurnia venga toccata da Antonio mentre questi correrà durante i Lupercali, perché così possa – in base ad un antico detto – perdere la sterilità. Quando torna in scena, nel secondo atto, è in camicia da notte: si lascia inizialmente convincere dalla moglie – che ha fatto un sogno premonitore – a non andare in senato (sono le idi di marzo) ma poi, di fronte alla prospettiva di ricevere la corona imperiale, subdolamente instillatagli da Decio Bruto, uno dei congiurati (da non confondere con il più famoso Marco Bruto), cambia idea. Solo nella prima scena del terzo atto, in cui muore sotto i colpi di pugnale dei congiurati, assurge in qualche modo alla dignità di uomo di stato. Quello che dovrebbe essere il protagonista della tragedia, quindi, compare solo in tre scene, anche piuttosto brevemente, e muore all’inizio del terzo di cinque atti.
Il vero protagonista della tragedia è infatti, a mio avviso, Marco Bruto, di cui Shakespeare riprende, da Plutarco, l’indecisione e gli errori per farne il prototipo dell’uomo moderno. Il Bruto shakespeariano è amato dal popolo, che riconosce la sua autorità morale, (in realtà la carriera politica del Marco Bruto reale fu tutt’altro che limpida) ed ama Cesare, per lui quasi un padre: egli però ama più le istituzioni repubblicane, e per questo si lascia convincere da Cassio e dagli altri cospiratori, dopo un tormento interiore che coinvolge anche la moglie Porzia, ad unirsi a loro per salvare lo stato e al contempo Cesare dalla sua stessa ambizione, uccidendolo. L’errore fatale Bruto lo commette, per un insieme di sopravvalutazione di sé e di incapacità di valutazione degli altri, quando decide che Antonio, fedele luogotenente di Cesare, non debba essere ucciso e gli permette, contro il parere di Cassio, di esporre il corpo di Cesare e di parlare al popolo, sia pure dopo di lui. La celebre orazione di Antonio ("Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo") è un vero capolavoro di retorica e perfidia oratoria, nel quale le parole perdono progressivamente il loro significato letterale per assumere quello opposto, come emerge nella ripetizione quasi ossessiva della frase Bruto è uomo d’onore. Antonio riuscirà con questo discorso a far rivoltare i romani contro i cesaricidi, segnando l’inizio della loro fine. Bruto sarà sempre più tormentato dalle conseguenze di ciò che ha fatto, soprattutto dalla coscienza dell’incapacità di gestire tali conseguenze: la celeberrima scena dell’apparizione dello spettro di Cesare segna il culmine metaforico del suo tormento interiore. I due atti finali descrivono il compiersi del dramma di Bruto e Cassio come una china infernale di incomprensioni tra i due cesaricidi e di incapacità di valutare oggettivamente la situazione, con conseguenti errori e decisioni sbagliate nelle fasi cruciali della guerra civile contro Ottaviano e Antonio.
Altro personaggio chiave della tragedia è proprio Antonio, lo spregiudicato Antonio, che inganna Bruto fingendo di approvare l’assassinio di Cesare, potendo così tessere la sua trama di scalata al potere. Egli rappresenta in qualche modo l’opposto di Bruto: se quest’ultimo ama profondamente Cesare, e lo sacrifica per salvarlo da sé stesso, Antonio in realtà usa Cesare da morto, come lo ha usato da vivo, per raggiungere i suoi fini, per conquistare il potere. Come detto il suo discorso funebre, che con grande sapienza psicologica Shakespeare contrappone a quello pronunciato poco prima da Bruto, è sicuramente uno dei punti più alti dell’intera produzione del bardo. Anche Antonio presenta tuttavia una sua complessità morale, che emerge appieno quando davanti al corpo di Bruto non potrà sfuggire dal riconoscimento del suo valore, dicendo che era il più nobile dei Romani, e che solo lui uccise Cesare non per odio ma per il bene comune.
Antonio del resto è sicuramente un personaggio che affascinò particolarmente Shakespeare, che qualche anno dopo come noto gli dedicò un’altra tragedia, Antonio e Cleopatra.
Cassio, il terzo personaggio chiave della tragedia, ha sicuramente, rispetto a Bruto, una visione più razionale degli avvenimenti: è lui il vero ispiratore della congiura, e lucidamente vede in Bruto un alleato essenziale. Tuttavia sarà proprio questa eccessiva lucidità a perderlo, perché non tiene conto della personalità tormentata e dell’eccesso di umanità di Bruto: in una sorta di contrappasso, si ucciderà per un malinteso, causando di fatto con il suo gesto il disastro finale.
I discorsi funebri di Bruto e Antonio permettono anche di osservare come Shakespeare dimostri poca fiducia nelle capacità critiche del popolo, rappresentato come una folla indistinta che prima assolve Bruto per poi lasciarsi convincere dalle subdole parole di Antonio – significativamente soprattutto quando egli svela che per testamento Cesare ha lasciato alla città soldi e terreni – a scatenare la caccia ai congiurati: l’episodio dello scambio del poeta Cinna per l’omonimo congiurato la dice lunga sui sospetti nutriti da Shakespeare rispetto ai moti popolari.
Grande sapienza teatrale, capacità di descrivere l’uomo e le sue contraddizioni contestualizzandole rispetto al periodo storico in cui viveva, finezza psicologica nel tratteggiare il carattere dei personaggi, importanza data all’elemento onirico, piena coscienza dell’ambiguità del linguaggio e della sua funzione come arma di creazione del consenso sono altrettanti elementi che testimoniano la grandezza imperitura di questa magnifica opera teatrale, che anche se solo letta e non vista ci restituisce appieno tutto il suo splendore.
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Il prezioso documento di una civiltà rurale...
... lontana ma così vicina
Chiunque abbia visitato la Bretagna sarà probabilmente rimasto affascinato dalla peculiarità che assume l’arte religiosa in quella regione così poco francese. Ciò che colpisce a prima vista è soprattutto l’aspetto popolare dei monumenti e degli edifici religiosi. Le chiese, con l’eccezione delle cattedrali cittadine, presentano in genere architetture nelle quali il gotico, che ne è lo stile dominante, assume forme quasi dimesse: raramente vi è lo slancio verso l’alto tipico dell’ortodossia di questo stile, e molte chiese sembrano semplici case di grigio granito cui siano stati incongruamente aggiunti portali e finestre ad arco acuto. L’interno contrasta ancora di più con i canoni del gotico, essendo in genere luminoso e colorato: le navate sono ricche di statue in legno policromo di santi ritratti con fattezze di popolani, accanto a cui spesso si trovano i simboli dei mestieri di contadino o di marinaio. Ma sono i famosi recinti parrocchiali dei villaggi della Bassa Bretagna, al cui interno troviamo gli splendidi calvari brulicanti di figure scolpite, a segnare l’apoteosi dell’arte religiosa bretone. Nel calvario bretone le croci che svettano verso il cielo sono quasi solo un elemento secondario, perché il vero cuore del complesso è il popolo di figuranti scolpito nel granito alla base delle croci: l’immediatezza, l’ingenua espressività di quelle statue, in cui spesso riconosciamo i tratti degli abitanti di quelle terre, ci restituiscono il senso di un’esperienza religiosa che faceva parte di un sentire comune, cui si faceva riferimento per dare un senso ad una condizione materiale segnata dalla miseria e dalla costante vicinanza della morte, e che esprimeva questa partecipazione collettiva anche attraverso le manifestazioni dell’arte, altrove volta a celebrare una divinità distante e idealizzata. Sembra al visitatore che in questa terra la religione, intesa come insieme di credenze e di regole sociali condivise, abbia giocato un ruolo fondamentale nella definizione dell’identità stessa della popolazione, sicuramente più che nel resto della Francia e in altre regioni rurali d’Europa. Quasi sempre infatti, anche nelle terre che hanno espresso forti sentimenti di religiosità popolare (si pensi al nostro meridione o alla Spagna), questi sono espressi attraverso cerimonie e manifestazioni, mentre l’architettura resta latrice di un messaggio ufficiale attraverso cui la Chiesa spiega al popolo in maniera unidirezionale i propri dogmi. In Bretagna sembra di poter dire che il sentimento popolare abbia partecipato attivamente alla costruzione delle forme attraverso cui tale messaggio è stato costruito.
Questo mio modo di sentire la Bretagna, sino ad ora appoggiato solo su quanto ho visivamente ed emotivamente riportato dai due brevi viaggi compiuti in quella terra, mi è stato confermato dalla lettura di questo bellissimo volume edito ormai una quindicina d’anni fa da Sellerio.
Ne è autore Anatole Le Braz, scrittore e folklorista, ovviamente bretone, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua produzione letteraria, non vastissima, si compone di un solo romanzo oltre ad alcuni volumi di racconti e di poesie ambientati in Bretagna, ma soprattutto di opere dedicate alla trascrizione in francese e alla rielaborazione delle leggende e delle storie popolari bretoni. Le Braz in vita fu molto noto in patria, essendo considerato il cantore dell’anima popolare bretone: 'La leggenda della morte', oltre ad essere in assoluto la sua opera più famosa, è anche l’unica tradotta nella nostra lingua.
Il ponderoso volume, di oltre cinquecento pagine, riporta decine di brevi storie, raccolte da Le Braz durante le sue peregrinazioni nei villaggi bretoni, effettuati spesso in bicicletta, che ci restituiscono un vivido affresco del rapporto che la civiltà rurale bretone aveva con il tema della morte.
Come evidenzia molto bene la curatrice del volume, Paola Fornasari, nella prefazione al testo, la morte era molto presente nella civiltà bretone del XIX secolo, come lo era in genere in tutte le civiltà rurali dell’epoca e di quelle precedenti. Il tasso di mortalità infantile era a livelli oggi inimmaginabili (almeno nei paesi ricchi del mondo), si moriva per malattie oggi curabili banalmente o scomparse, si moriva giovani per le fatiche del lavoro; i cimiteri erano in genere ancora al centro del paese, accanto alla chiesa, e anche questo contribuiva a fare della morte un elemento che era, sia pure nella sua drammaticità, paradossalmente parte integrante della vita della comunità. Mentre la modernità ha deciso di risolvere il problema del rapporto con la morte semplicemente esorcizzandola ed occultandola, in quanto negazione de facto del mito dell’efficienza, della produttività e dell’onnipotenza della scienza e della tecnologia su cui si fonda, nelle società rurali e preindustriali il problema della morte doveva in qualche modo essere gestito, perché non era possibile occultarlo. Se la gestione ufficiale del problema era demandata alla Chiesa, che non ha mai mancato di sfruttare questa sua delega, questo suo monopolio della morte al fine di inculcare nei vivi il senso dell’ineluttabilità del destino umano e nello stesso tempo – attraverso i miti della resurrezione e della vita eterna – di rassicurare circa l’inesistenza della morte stessa, esisteva nelle culture rurali un livello più ancestrale di gestione del tema, che a partire probabilmente dal sentimento dell’insufficienza della risposta della Chiesa rispetto all’ingombrante problema, la arricchisce recuperando e rielaborando miti e credenze provenienti dalle epoche antecedenti la cristianizzazione. È di fatto lo stesso schema che porta all’architettura popolaresca di chiese e calvari: alla narrazione ufficiale, perché sia sentita come vera, è necessario associare elementi che derivino dal sentire comune delle comunità.
Il libro di Le Braz, anche nella sua struttura, ha indubbiamente un primario intento scientifico e documentario: egli dichiara infatti di essersi limitato a registrare, mantenendo la loro originalità ed ingenuità, i racconti sentiti di sera, durante le veillées, le veglie comuni accanto al focolare, nelle fattorie bretoni. Lo stesso titolo originale, 'La Légende de la Mort chez les Bretons armoricains' dà l’idea più di un saggio che di un’opera letteraria. In realtà, come fa notare Antonino Buttitta nel lungo e bellissimo saggio posto a chiusura del volume, una serie di elementi provano che le storie riportate ne 'La leggenda della morte' sono il frutto di una, ancorché parziale, rielaborazione dell’autore. Innanzitutto il fatto che all’epoca della raccolta delle storie non esistessero strumenti di registrazione fa pensare che l’autore dovesse necessariamente operare una sintesi di ciò che sentiva, seguita da una rielaborazione a posteriori; è poi indubbio che molte delle storie presentano delle descrizioni dei luoghi e dei sentimenti dei personaggi che non possono che derivare dall’intervento di un autore letterariamente avvertito. Antonino Buttitta analizza compiutamente i rapporti esistenti tra indagine antropologica e letteratura, soffermandosi sulla diversa capacità che questi due strumenti hanno di indagare la realtà e prendendo sorprendentemente partito – vista la sua matrice antropologica – per la letteratura, dicendo tra l’altro: ”Lo scrittore cercando l’uomo trova gli uomini, l’antropologo, ma anche lo storico, il sociologo etc., osservando gli uomini troppo spesso perde l’uomo”. Lasciando alla lettura di questo a mio avviso imperdibile saggio l’approfondimento della questione, da lettore dilettante non posso che notare come l’aspetto letterario di quest’opera di Le Braz , scrittore a tutto tondo oltre che folklorista, contribuisca notevolmente alla sua piacevolezza.
La struttura del libro, come accennato, denota il suo intento documentario: esso è infatti suddiviso in 22 capitoli, ciascuno dei quali è dedicato ad un aspetto del rapporto dell’individuo o della comunità con il mondo dei morti o con la morte stessa. C’è quindi un capitolo intitolato 'I segni premonitori', un altro dedicato a 'Come chiamare la morte su qualcuno', altri a' Prima della morte' e a 'Dopo la morte', altri ancora 'Gli annegati' e a 'Coloro che ritornano' e così via. Ogni capitolo è preceduto da una breve introduzione dell’autore all’argomento trattato ed a come questo si articola nella cultura popolare bretone, seguita da alcune brevi storie, raccolte come detto direttamente dalla voce dei narratori. Ciò che caratterizza queste storie è che per la maggior parte i racconti non riguardano antiche leggende, tempi remoti o personaggi fantastici, ma si riferiscono ad episodi capitati a parenti, a conoscenti – quasi sempre citati per nome e di cui viene indicato il villaggio in cui vivono o vivevano – o allo stesso narratore. L’elemento fantastico, quale può essere il segno premonitore dell’imminente morte o il ritorno di morti che reclamano preghiere per abbreviare la loro permanenza in purgatorio, è in queste storie parte integrante della quotidianità della vita di ognuno, a ulteriore testimonianza di una frequentazione con la concretezza della morte molto diversa da quella che abbiamo noi oggi e nello stesso tempo della necessità, come detto, di gestire la grande contraddizione che la presenza della morte introduce nella vita.
Tra i capitoli a mio avviso più significativi di un libro che lo è complessivamente, uno ci presenta la rappresentazione stessa della morte nella cultura popolare bretone: si tratta dell’Ankou, l’operaio della morte, come ci dice Le Braz nella sua introduzione. Secondo la credenza, l’ultimo morto dell’anno diventa in ciascuna parrocchia l’Ankou per l’anno successivo. Gira di notte per le strade della campagna bretone sotto forma di un uomo scheletrico che guida un carretto cigolante trainato da due cavalli macilenti. Quando lo si incontra, la morte, propria, di un congiunto o di un conoscente, è prossima.
Un’altra figura importante del folklore bretone ruotante attorno al tema della morte è l’Anaon, l’immenso popolo delle anime in pena. Le anime di coloro che devono espiare nel purgatorio i loro peccati circondano i villaggi, vivendo tra i cespugli di ginestre ed entrando spesso nelle case, in particolare di notte: con comportamenti appropriati, legati alla quotidianità, come lasciare un po’ di fuoco sotto la cenere di notte oppure non spazzare le stanze di sera, oppure ancora non fischiare mentre si cammina di notte, è possibile alleviarne le sofferenze. Spesso singole anime si rifugiano nel corpo degli animali, e lanciano messaggi perché i vivi comunichino con loro e favoriscano la loro espiazione. Altre volte sono responsabili di fatti inspiegabili e veri e propri dispetti, che hanno sempre lo scopo di richiamare l’attenzione dei vivi sulla necessità di abbreviare le loro pene. Moltissimi sono comunque i racconti ed i capitoli veramente godibili di questo libro, che lascio alla gioia del lettore.
La natura ibrida di questo libro, a metà tra documento antropologico e opera letteraria, deriva anche dal contesto culturale in cui fu scritto. Siamo come detto verso la fine del XIX secolo: alcuni decenni prima il romanticismo, in particolare quello tedesco, ma non solo – si veda ad esempio l’opera di un grande russo come Odoevskij – aveva per primo teorizzato il recupero della cultura popolare, della spontanea poesia del popolo quale elemento su cui fondare l’identità nazionale. Il recupero della poesia popolare (si pensi ai Grimm ed a 'Il corno magico del fanciullo' di Brentano e Von Arnim) era però avvenuto dall’alto, come rielaborazione letteraria non scevra da manipolazioni di un corpus culturale funzionale ad un preciso disegno ideologico. Il susseguente positivismo aveva posto l’urgenza della sistemizzazione del sapere, della necessità dell’applicazione del metodo scientifico anche rispetto alla conoscenza delle relazioni umane e della cultura popolare. Dall’unione di questi due approcci nasce a mio avviso il fortunato mix di scientificità e di letterarietà di quest’opera di Le Braz, che ne costituisce uno dei fattori di indubbio fascino. Si aggiunga che siamo in un’epoca in cui l’ottimismo razionalista dell’800 è già culturalmente in profonda crisi, e che una delle risposte a tale crisi è l’interesse diffuso per lo spiritismo e il soprannaturale, e si avrà la cornice intellettuale da cui deriva l’opera di Le Braz. Essa è indubbiamente animata da un amore dell’autore per la sua terra e per l’identità di questa, ma non deve essere intesa come operazione culturale rivoluzionaria volta ad affermare la diversità bretone: è invece un’opera soffusa da una certa patina di bonario paternalismo, come emerge anche dal fatto che fu scritta in francese, rivolgendosi quindi più ad un pubblico estraneo alla cultura che descrive piuttosto che ai detentori della fonte di tale cultura.
Nondimeno si tratta di un bellissimo libro, anche perché impreziosito, oltre che dai due saggi citati, da un ponderoso corpus di note che permettono di penetrare in profondità un mondo culturale più vicino a noi e ai nostri portati emotivi di quanto il tempo passato da quando fu scritto e lo spazio che ci separa dalla Bretagna facciano supporre.
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L’enigma di un autore e di un romanzo astratti
Molto scarne sono le notizie che ho potuto reperire in rete su Milán Füst, l’autore di questo ponderoso romanzo edito da Adelphi nel 2002. Nato nel 1888 e morto nel 1967, è considerato uno dei più innovativi autori ungheresi del XX secolo, particolarmente attento ai tratti della letteratura occidentale; nel 1948 ricevette il Premio Kossuth, massima onorificenza artistica del suo paese, e fu candidato al Premio Nobel nel 1965. Della sua produzione letteraria in Italia, ma anche in molti altri paesi, è noto solo questo romanzo, considerato il suo capolavoro. Uscito in Ungheria nel 1942, rimase sconosciuto in occidente sino al 1958, quando Gallimard lo pubblicò in Francia.
Füst per me attraversa quindi quasi come un fantasma la prima metà del XX secolo, un periodo segnato per la sua patria, come per l’Europa intera, da sconvolgimenti epocali: la prima guerra mondiale con la caduta dell’impero austro-ungarico, la breve rivoluzione comunista di Bela Kun, il primo dopoguerra con l’affermarsi del revanchismo magiaro e del regime parafascista dell’Ammiraglio Horthy, la seconda guerra mondiale, l’instaurarsi del regime comunista, la rivolta di Budapest del ‘56 e la successiva destalinizzazione. Durante tutti questi avvenimenti Milán Füst vive in Ungheria, con incarichi accademici sia nel primo sia nel secondo dopoguerra, da quanto ho potuto desumere chiuso in una sorta di isolamento intellettuale, alle prese con la sua salute cagionevole. Come si pone di fronte a questi fatti? Quali ne sono le conseguenze sulla sua vita? Che posizioni assume? Cosa traspone di questi drammi collettivi nelle sue opere? Sono domande che forse potrebbero trovare risposta se venissero edite altre sue opere, in particolare il diario che tenne dal 1904, andato però in larga parte distrutto e le cui parti superstiti non mi risulta siano mai state pubblicate in occidente.
'La storia di mia moglie' di fatto non ci dice nulla rispetto alle questioni che ho posto sopra e che – per la mia personale sensibilità culturale – ritengo elementi chiave nell’interpretazione di un testo: l’unica possibilità analitica che questo romanzo fornisce alle mie limitate capacità critiche è data da ciò che non vi si trova. Poniamo attenzione alle date: il romanzo esce, come detto, dopo sette anni di lavoro da parte dell’autore, nel 1942, quindi in piena guerra: truppe ungheresi stanno combattendo al fianco di tedeschi ed italiani nelle pianure russe, e l’antisemitismo è probabilmente, per l’ebreo Füst, qualcosa di più che un fenomeno lontano. Ebbene, nulla, nemmeno un’eco lontana di tutto ciò si ritrova ne 'La storia di mia moglie', e ciò rende a mio avviso quest’opera enigmatica, del tutto spiazzante ma in qualche modo contemporanea, secondo quanto cercherò di spiegare più oltre.
Il romanzo è la storia di un’ossessione: quella del protagonista, il marinaio olandese Jacques Störr che narra in prima persona, per sua moglie, la fragile e piccola Lizzy, da Störr sempre sospettata di tradimento. Egli la conosce a Minorca, dove frequenta una combriccola di strani personaggi, spie, affaristi e speculatori più o meno falliti, pseudoartisti e gente di spettacolo. Subito sospetta che la vivace e allegra francesina sia anche moralmente leggera; comunque se ne innamora ed i due vanno a sposarsi a Parigi. Dopo poco Störr scopre che uno dei personaggi che a Minorca più aveva ronzato attorno a Lizzy è ora a Parigi, e che i due si vedono. Compare anche sulla scena Paul de Grévy, detto Dedin, che nel corso della storia Störr identificherà come l’amante ufficiale della moglie. La narrazione di Störr prosegue, tra continui flash-back e storie collaterali, con l’ulteriore trasferimento della coppia a Londra, dove il protagonista si mette in affari con l’ambiguo speculatore Kodor. Tra scenate di gelosia nelle quali affiora anche la violenza domestica, controlli ossessivi della corrispondenza e delle abitudini della moglie, abbandoni seguiti da repentini riavvicinamenti durante i quali Störr si rende conto di quanto ami la moglie, è in effetti lui a tradirla, prima con Miss Borton, una giovane irlandese conosciuta anni prima su una nave (che però al momento decisivo gli si rifiuterà) poi con Mrs Cobbet, affascinante amante di Kodor. Durante un ballo mascherato cui partecipa durante un inaspettato rientro a Londra da uno dei suoi viaggi d’affari, Störr ritiene di avere la prova decisiva del tradimento della moglie con Dedin, e quindi chiede ed ottiene il divorzio, avendo un ultimo, drammatico colloquio con Lizzy sul treno che la sta portando via con Dedin. Allontanata la moglie, Störr si dedica totalmente per alcuni anni agli affari in giro per il mondo, sinché ritorna a Londra e poi a Parigi ricco ed in cerca di un nuovo significato per la sua vita. In realtà è ancora ossessionato dal ricordo di Lizzy, e ancora combattuto tra indizi di tradimento e prove di fedeltà. A Parigi si iscrive all’Università, per coltivare la sua vecchia passione per la chimica. Lì incontra due sorelle militanti comuniste, innamorandosi della più vecchia che però lo respingerà nel momento in cui si rende conto che Störr le ha mentito a proposito dei suoi gusti culturali pur di piacerle. La storia a questo punto si conclude rapidamente, con una sorta di colpo di scena finale.
Non ci sono nel romanzo accenni espliciti all’epoca in cui la storia di Jacques Störr e Lizzy si svolge, ma si intuisce dagli indizi sparsi qua e là che dovrebbe occupare ad un dipresso un quindicennio compreso tra l’immediato primo dopoguerra e gli anni ’30. A questo porta infatti la descrizione di Minorca ricettacolo di sbandati e spie che troviamo all’inizio del libro e il dipanarsi dei successivi avvenimenti, anche se il quadro è reso volutamente meno chiaro dalla struttura narrativa del romanzo: è su questa che ritengo valga la pena soffermarsi ora, perché è indubbiamente un elemento che caratterizza fortemente 'La storia di mia moglie'. Come detto la storia è narrata in prima persona dal protagonista. Il romanzo è quindi un unico, grande monologo, caratterizzato da frammentarietà, frequenti flash-back, alternanza di descrizioni e considerazioni di Störr, insomma tutto ciò che caratterizza un modo di narrare tipicamente novecentesco. Non sapremo mai se Lizzy tradisse davvero suo marito, perché neppure Störr lo saprà mai, ondeggiando egli continuamente tra la convinzione di aver raccolto prove decisive – prove che però si rivelano sempre essere semplici indizi facilmente confutabili – e la percezione, derivantegli soprattutto dai colloqui con amici e conoscenti della moglie, dell’assoluta fedeltà di lei e dell’amore che sente per lui. Sospetteremo solo, come lui alla fine, che Lizzy si sia gettata tra le braccia di Dedin proprio a causa dell’atteggiamento del marito. Quello che sappiamo per certo è che Störr ha con le donne, con tutte le donne che incontra nella storia, un rapporto inadeguato rispetto alle loro aspettative. È così con Miss Borton e Mrs Cobbet ed è così anche con Madamoiselle Madeleine, la giovane ricercatrice comunista di cui si innamora alla fine.
Il linguaggio usato dal narratore, estremamente informale e colloquiale, oserei dire dilettantesco, è a mio avviso uno degli elementi spiazzanti del romanzo, in quanto non ha nulla a che vedere con la tradizione narrativa mitteleuropea da cui deriva: è piuttosto un linguaggio che per certi versi potrebbe essere accostato a quello di alcuni narratori statunitensi del secondo dopoguerra, a John Fante e a Jack Kerouac, oserei dire se non temessi di profferire una bestemmia. A supporto del senso di spiazzamento che promana da questo romanzo, della difficoltà della sua interpretazione (almeno per quanto mi riguarda) ci sono comunque ulteriori elementi. Il primo, che si ricollega necessariamente, in qualche modo giustificandolo, al linguaggio utilizzato dal narratore, riguarda la figura stessa del protagonista, ed il mondo nel quale agisce. Jacques Störr è come detto olandese, naviga da capitano sui mari di mezzo mondo, lo incontriamo tra Minorca, Parigi e Londra: meno mitteleuropeo di così… Il secondo elemento è forse ancora più enigmatico, in quanto non sono certo che non riguardi mere coincidenze (ma in letteratura, e non solo in letteratura, le coincidenze forse non esistono): mi riferisco ad alcuni indubitabili tratti di somiglianza tra questo romanzo ed un libro affatto diverso da me (per coincidenza?) letto poco tempo fa: Lord Jim di Joseph Conrad. Ecco l’incipit dei due romanzi, che ci permette anche di assaggiare un piccolo campione del linguaggio del romanzo di Füst.
Lord Jim inizia così nella traduzione di Alessandro Ceni: ”Era di un pollice, forse due, al di sotto dei sei piedi, di corporatura possente, avanzava deciso verso di voi…”.
Ed ecco l’incipit del romanzo di Füst: ”Che mia moglie mi tradisse lo sospettavo da un pezzo. Proprio con quel tipo lì, però… Io sono alto sei piedi e un pollice e peso duecentodieci libbre, insomma sono un vero gigante e se a quello gli sputo in faccia ci resta secco, come si suol dire.”
Una quasi identica sottolineatura della corporeità, quindi, che in entrambi i romanzi è elemento essenziale la profilatura psicologica dei rispettivi protagonisti. Tra l’altro, che bisogno aveva l’ungherese Füst di esprimere altezza e peso dell’olandese Störr nel sistema britannico?
Aggiungiamo che anche Störr ha un incidente mentre è capitano di una nave, un incendio a bordo al quale reagisce in maniera del tutto inadeguato al suo ruolo, e che segnerà, anche se in modo molto meno drammatico rispetto a Jim ed alla vicenda del Patna, il suo futuro professionale ed umano.
Aggiungiamo infine un elemento di contiguità strutturale tra i due romanzi, vale a dire che, a parte lo stile del linguaggio, il modo di narrare di Störr si avvicina moltissimo a quello di Marlow, con tutti quegli incisi, quei rimandi, quella confusione, ed ecco che può baluginare l’idea che Füst, l’occidentale Füst, abbia preso il romanzo di Conrad a modello per il suo 'La storia di mia moglie'. Resta però irrisolto, almeno per me, perché lo scrittore ungherese abbia applicato questo modello ad un romanzo così diverso, quanto a contenuto immediato e mediato, da quello di Conrad, ragion per cui la notazione di queste affinità resta, per quanto mi riguarda, un mero esercizio accademico.
Rimane comunque indubbio un fatto: è difficile trovare, in testi letterari scritti nella prima metà del novecento che non siano finiti nella spazzatura della Storia, una così totale astrazione dall’atmosfera, dal senso dell’epoca. Anche nei testi di chi propugnava l’art pour l’art, direttamente o in trasparenza i caratteri salienti dell’epoca entrano nel testo e in qualche modo lo marchiano; anche nei romanzi di genere si trovano astrazioni che rimandano spesso a sentimenti individuali o collettivi tipici dell’ambiente in cui l’autore viveva. Si badi bene: non sto propugnando il realismo in letteratura: sto propugnando l’idea che la letteratura acquisti valore quando ci permette di capire il mondo in cui viviamo e le nostre relazioni con quel mondo. Füst invece riesce a circoscrivere l’ossessione di Jacques Störr per i presunti tradimenti della moglie esclusivamente nell’ambito del suo mondo interiore, circondato da un mondo esteriore del tutto estraneo anche geograficamente all’autore, che fa da semplice scenario, quasi da quinta visibilmente posticcia ed unicamente funzionale a creare il contesto ambientale che giustifichi il linguaggio e il taglio complessivo dato alla storia.
È come se che in quei sette anni di gestazione del romanzo Füst si fosse isolato totalmente dal mondo che lo circondava, avendo deciso di partorire una storia che con quel mondo non avesse nulla a che fare, che non ci raccontasse null’altro che la stupidità di Jacques Störr e la leggerezza mortificata di Lizzy.
È questo a mio avviso che fa di La storia di mia moglie un romanzo della contemporaneità: anticipa già infatti appieno i periodi successivi, quelli in cui la letteratura perderà gradualmente e consapevolmente la sua capacità di narrare storie universali, di raccontare il mondo, sia pure sussunto nella psiche di un personaggio, per rifugiarsi nel 'particulare', per essere specchio fedele del nulla pneumatico di questo neorococò artistico in cui siamo immersi. Mi sembra quindi che questo romanzo ci consegni un autore grande anticipatore della contemporaneità intesa come svuotamento del senso dello scrivere, che forse proprio in questa sua capacità di astrazione dalla realtà è da ricercarsi la possibilità che ha avuto di attraversare indenne i drammatici periodi in cui ha vissuto, continuando ad insegnare nell’Ungheria di Mátyás Rákosi esattamente come aveva fatto nell’Ungheria di Miklós Horthy.
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Oltre Gogol’, il vero punto di partenza di D.
'Il sosia' è un romanzo giovanile di Dostoeskij: apparve nel 1846, quando l’autore era venticinquenne e si era conquistato da poco tempo una certa fama, sia tra il pubblico sia presso i circoli letterari progressisti, con il suo primo racconto, Povera gente, giudicato come l’opera di un nuovo Gogol’, pienamente inserito nel filone della scuola naturale teorizzata da Vissarion Grigor’evi? Belinskij, il grande filosofo e critico letterario sostenitore della necessità del realismo in letteratura. Dostoevskij all’epoca professava idee progressiste, era amico di Belinskij e degli autori raccolti attorno a lui, manifestava interesse per il socialismo nascente nell’Europa occidentale.
Quando apparve 'Il sosia', tuttavia, Belinskij lo stroncò, accusandolo di essere prolisso e confuso, e soprattutto del fatto che nel romanzo predominerebbe un’atmosfera fantastica in luogo della descrizione realistica della condizione degli umili: ”Il fantastico, ai giorni nostri, può trovare il suo posto soltanto nei manicomi e non in letteratura, e di esso si devono occupare i medici, e non i poeti.” Altri critici, all’opposto, ritennero il romanzo di fatto copiato da Gogol’, ed Il sosia non ebbe una buona accoglienza neppure tra il pubblico.
L’accoglienza della critica del tempo ci serve oggi per segnalare come questa opera seconda di Dostoevskij sia di fatto la prima in cui l’autore cerca una sua strada narrativa originale, che si distacchi dal cliché della scuola naturale e nella quale introdurre quella capacità di analisi della psicologia dell’individuo che caratterizzerà la sua produzione posteriore. In altri termini, proprio gli elementi che la critica del tempo indicò come più problematici sono quelli che fanno oggi de Il sosia un tassello importante della produzione letteraria di Dostoevskij e in un certo senso ne certificano la modernità.
Prima di addentrarci nella vicenda narrata, è ancora necessario sottolineare che l’edizione definitiva del romanzo è del 1866: a distanza di 20 anni dalla prima edizione, Dostoevskij ritornò infatti su Il sosia in occasione della pubblicazione di un volume delle sue opere, intervenendo sulla sua prolissità conclamata con numerosi tagli e cambiando il sottotitolo da Le avventure del signor Goljadkin in Poema pietroburghese. Questo fatto segnala che Dostoevskij, nel pieno della maturità (nel 1866 esce Delitto e castigo), attribuisce una precisa importanza a questo suo romanzo giovanile, tanto da depurarlo degli elementi che ritiene non adeguati rispetto alla sua attuale sensibilità e da conferirgli, attraverso il cambiamento del sottotitolo, un diverso collocamento prospettico, più corale rispetto alla vicenda di un singolo personaggio. È questa edizione definitiva che viene proposta nell’edizione Feltrinelli da me letta: seppure arricchito da una ottima prefazione di Olga Belkina, questo volume sconta quindi il peccato originale di non permettere al lettore di conoscere la prima stesura, e quindi di non consentirgli un incontro con il vero giovane Dostoevskij.
A dispetto del sottotitolo definitivo, la vicenda ha come protagonista assoluto il Signor Jakov Petrovi? Goljadkin. Egli è un modesto impiegato dell’amministrazione statale, che vive a Pietroburgo in un piccolo e squallido appartamento con il suo domestico Petruška. Lo incontriamo un mattino mentre si prepara ad uscire di casa per recarsi ad un pranzo dato da un suo superiore in pensione, e suo antico protettore, in occasione del compleanno della figlia. Goljadkin ne è invaghito (o meglio, vorrebbe sposarla), ma sospetta di avere un rivale in un giovane, nipote di un altro suo superiore, che sta facendo carriera nell’amministrazione. Da subito appaiono gli elementi caratteristici della personalità di Goljadkin: è insicuro, si esprime in modo prolisso e confuso, ritiene di essere una persona retta ed onesta che si mette la maschera solo a carnevale ed è convinto di essere circondato da nemici che tramano per rovinarlo. Nel corso del racconto si scoprirà ciò che è facilmente intuibile da subito, cioè che Goljadkin è in realtà un personaggio meschino, che maltratta il domestico mentre è untuosamente deferente con i superiori, ma anche che questa meschinità è in buona parte indotta dalla scarsissima considerazione che gli altri hanno di lui. Lentamente ma inesorabilmente apparirà sempre più chiaro il suo stato di confusione mentale, che inizia ad emergere dal colloquio con il suo medico, dal quale si reca subito dopo essere uscito di casa in ghingheri, su di una carrozza noleggiata che attira l’attenzione di alcuni giovani colleghi d’ufficio e di un suo superiore.
Quando, dopo alcune altre avventure, giunge nella casa dove si svolge il pranzo, non viene fatto entrare: ritenendo ciò inspiegabile, entra di soppiatto dalla scala di servizio e viene buttato fuori senza troppi complimenti dal maggiordomo. Mentre, distrutto e facendo ragionamenti sconnessi, torna correndo verso casa nella fredda e fangosa notte di Pietroburgo, incrocia un altro passante, che in breve si rivela essere il suo sosia. Questi entra come nulla fosse a casa sua, ed il mattino seguente Goljadkin lo trova in ufficio, venendo a sapere che è stato appena assunto, che proviene dalla sua stessa città ed ha il suo stesso nome. Mentre Goljadkin è sconvolto dalla cosa, i suoi colleghi, che pure hanno notato una certa somiglianza tra i due, non ritengono vi sia nulla di straordinario nella vicenda.
All’uscita dall’ufficio Goliadkin-junior (così lo chiama spesso l’autore) chiede aiuto al nostro eroe, non sapendo dove andare a dormire essendo da poco arrivato in città. Goljadkin lo invita a casa sua per la notte, gli offre la cena e i due mentre bevono abbondantemente si fanno confidenze reciproche e giurano di essere amici.
Già la mattina successiva in ufficio, però, Goljadkin si rende conto che il suo sosia ha un diverso atteggiamento: lo evita e giunge a rubargli una pratica per fare bella figura al suo posto con il direttore. È l’inizio di una serie di avventure che vedono Goljadkin-junior entrare nelle grazie di colleghi e superiori, facendo fare al vero Goljadkin una serie di figure meschine. Invano il nostro eroe cercherà di spiegare ai suoi superiori ciò che sta accadendo: il suo stato di confusione mentale aumenta sempre più, e questi ultimi, che già ne avevano come detto scarsissima stima, si convincono che è un mentecatto: il dramma di questo piccolo uomo si compie così inevitabilmente, e la società lo espelle definitivamente dal suo corpo.
L’elemento portante del romanzo è, come ovvio, quello del doppio. Il tema del doppio in letteratura non era nuovo ai tempi del giovane Dostoevskij, essendo stato usato sin dall’antichità: in genere, però, sin dal Sosia originale, nell’Anfitrione di Plauto, le due facce del doppio servono a separare visivamente aspetti contrastanti della personalità, a rendere conto della sfaccettatura del carattere umano. Ciò è ancora più vero se si pensa ad alcuni dei più celebri doppi della letteratura moderna, quali le figure del Dr Jekyll e Mr Hyde oppure Dorian Gray ed il suo ritratto, oppure ancora le due metà del Visconte dimezzato di Calvino. Nel caso del romanzo di Dostoevskij, ciò non è vero od almeno, secondo la mia interpretazione, è vero solo in parte. Entrambe le personalità di Goliadkin sono infatti fortemente sfaccettate, entrambe sono un mix inscindibile di aspetti positivi (pochi) e meschinità, si assomigliano molto anche come carattere, e se c’è una differenza tra i due è essenzialmente data dal fatto che Goljadkin-junior riesce nelle cose (rapporti sociali, successo professionale, considerazione altrui) a cui Goljadkin aspira maggiormente. Il punto centrale è però che vi riesce utilizzando gli stessi metodi che utilizzerebbe il vero Goljadkin, se ne fosse capace, se avesse la necessaria lucidità mentale. Il sosia è quindi una proiezione della mente malata di Goljadkin, anche se Dostoevskij si diverte a seminare il racconto di indizi che ci inducono a pensare a volte all’esistenza fisica del sosia, altre volte al suo essere solo il parto della fantasia del protagonista. Il sosia è quindi ciò che Goljadkin vorrebbe essere, ma questo suo voler essere diverso non riguarda alcun connotato morale della sua personalità, riguarda solo la coscienza della propria incapacità ed irresolutezza. Dostoevskij questo tratto della personalità di Goljadkin lo sottolinea quasi ossessivamente: in ogni situazione in cui deve prendere una decisione o deve giudicare un fatto od una persona, durante i lunghi e sconnessi monologhi interiori che ci trasmettono i suoi pensieri, Goljadkin oscilla costantemente tra una tesi e il suo opposto, senza mai prendere una posizione netta, e quando agisce si pente immediatamente di ciò che ha fatto, rendendo inefficace la sua azione con un comportamento non coerente. Al contrario, Goljadkin-junior è deciso, coerente e conseguente, e l’odio/amore di Goljadkin nei suoi confronti è dettato proprio dal fatto che quest’ultimo riconosce in lui ciò che vorrebbe essere ma non riesce ad essere.
L’introduzione del doppio, di questo tipo di doppio tutto sommato inusitato, è a mio avviso l’elemento che sgancia il romanzo dal solco della scuola naturale di stampo gogoliano e lo proietta in un universo narrativo che, seppure in nuce, è prettamente dostoevskijano. Al proposito ci ricorda Olga Belkina che quando Dostoevskij lesse a Belinskij i primi quattro capitoli del romanzo, il critico ne fu entusiasta, salvo poi cambiare radicalmente idea all’uscita dell’intero romanzo. Leggendo questi primi capitoli si è infatti portati a pensare, sia per l’ambientazione sia per il tono generale del racconto, che Goljadkin sia un personaggio gogoliano, un umile le cui disgrazie e la cui inadeguatezza derivano in buona sostanza dalle prevaricazioni della società in cui vive. È proprio con l’entrata in scena del sosia nel quinto capitolo che ci rendiamo conto che non è del tutto così, che Goljadkin non è schiacciato dalla società, dal suo essere un piccolo impiegato vessato dai suoi superiori, quanto piuttosto un personaggio schiacciato dalla sua incapacità, in quanto idiota, di adeguarsi al grado di conformismo, alla cattiveria che la società richiede a chi ne voglia far parte. Questa inadeguatezza, che egli vede in tutta la sua gravità dal momento in cui il suo sosia gli mostra come dovrebbe fare, se solo ne fosse capace, lo porta alla pazzia. In altri termini Dostoevskij a mio avviso ribalta il paradigma teorico della scuola naturale: l’umile non è vittima della società perché questa impedisce l’espressione delle sue virtù, ma perché non riesce ad adeguarsi al grado di cinismo ed anche all’esteriorità che richiede. Nel suo primo colloquio con il medico, Goljadkin esprime, come al solito confusamente, questo concetto, laddove dice che nell’alta società bisogna ”saper lustrare il parquet con gli stivali" e si pretendono "i motti di spirito… e i complimenti sdolcinati”: il dramma di Goljadkin è che, malgrado ciò che afferma più volte, lustrare il parquet con gli stivali è la sua massima aspirazione esistenziale.
Questa visione già pienamente dostoevskijana dell’individuo e del suo rapporto con la società è accompagnata da una capacità di trasmettere al lettore la psicologia del protagonista che prefigura i tratti più notevoli e originali della letteratura matura dell’autore. Soprattutto, come detto, l’ampio uso di monologhi interiori, che cresce all’aumentare della confusione mentale del protagonista, il divenire sempre più sconnesso e frammentato dei suoi pensieri, la criticata prolissità che si rivela lo specchio del progressivo distacco dalla realtà di una mente malata, sono altrettanti elementi a mio avviso della modernità del testo, cui fa da sfondo una Pietroburgo fredda, caliginosa, umida, fangosa e oscura, altro elemento importante per la resa dell’atmosfera complessiva della triste storia del Signor Goljadkin.
'Il sosia' rappresenta quindi a mio avviso il vero punto di partenza della letteratura di Dostoevskij ed un romanzo di cerniera tra due epoche ben distinte della grande letteratura russa del XIX secolo. Il giovane autore attraverserà fasi drammatiche ed approderà a lidi ideali affatto diversi da quelli che lo ispirarono nella scrittura di questo romanzo, ma alcuni dei paletti da lui qui posti costituiranno il recinto entro il quale pascoleranno i grandi romanzi della maturità. Si può quindi oggi tranquillamente dire che sbagliava Belinskij criticando 'Il sosia' per il suo essere fantastico: Dostoevskij iniziava invece allora a percepire una realtà diversa ma non meno vera di quella tipicamente 'naturale' di Belinskij.
Indicazioni utili
Povera Gente di Dostoevskij e gli altri romanzi del nostro.
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Postimpressionista o premodernista?...
...Semplicemente un capolavoro a cavallo di due epoche
Per uno strano caso mi sono ritrovato a leggere in sequenza tre libri di letteratura inglese editi in un lasso di tempo piuttosto breve, tra il 1886 e il 1912: oltre al piccolo volume contenente tre racconti di Mary Cholmondeley, infatti, prima di Lord Jim ho affrontato 'Il mondo perduto' di Arthur Conan Doyle. Tutti e tre i libri contengono storie che potrebbero apparire 'di genere': storie che narrano di avventure, di viaggi in paesi esotici e sconosciuti, oppure storie di terrore. Tutti, infine, sono stati originariamente pubblicati su riviste a larga tiratura, anche se il Blackwood’s Edinburgh Magazine, sul quale apparve a puntate tra 1899 e 1900 (raramente date furono più simboliche) 'Lord Jim', era una rivista illustre, che aveva ospitato nel tempo autori del calibro di Shelley, Coleridge e Wordsworth, e non può quindi paragonarsi alle riviste popolari su cui pubblicavano Cholmondeley e Doyle.
Le somiglianze tra questi tre libri, però, finiscono qui. Altrove ho già fatto notare la distanza sia formale sia sostanziale che intercorre tra il romanzo di Doyle e i racconti di Cholmondeley: molta di più è possibile rinvenirne tra le opere di questi due autori e il romanzo di Conrad, a testimonianza della straordinaria ricchezza e varietà della letteratura britannica al passaggio tra XIX e XX secolo, della quale peraltro questa triade di autori rappresenta solo una minima parte. Questa distanza può essere espressa con una formulazione qualitativa, che è bene a mio avviso puntualizzare subito: mentre 'Il mondo perduto' si eleva rispetto al romanzo di genere solo formalmente, e unicamente grazie all’abilità tecnica dell’autore, mentre ancora i racconti della Cholmondeley rappresentano sicuramente opere di un livello letterario molto buono, nel caso di 'Lord Jim' ci troviamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro, ad uno dei (secondo me fortunatamente moltissimi) capisaldi della letteratura di tutti i tempi.
'Lord Jim' è un capolavoro perché dotato di una stratificazione narrativa che permette diversi livelli interpretativi, perché ciascun lettore può trovarvi la 'propria' storia, perché pone interrogativi che tutti ci siamo prima o poi posti (o che ci porremo, nel caso fossimo molto giovani), perché parla di un uomo ('uno di noi', secondo la famosa chiosa dell’introduzione al romanzo scritta di Conrad nel 1917) ma anche di un mondo, che per analogia potrebbe essere il nostro mondo, ed infine (last but not least) perché è scritto in modo meraviglioso. Il linguaggio di 'Lord Jim', forse anche a causa del fatto che per Conrad l’inglese era la terza lingua, è estremamente evocativo, denso di cromatismi, oserei dire postimpressionista; a mio avviso deve molto a colui che può essere considerato il grande maestro di Conrad, Robert L. Stevenson (anche se Conrad faticò a riconoscere tale ascendenza), e forse trova suoi corrispettivi nei quadri di Paul Gaugin (anche per la comunanza di temi) e nella musica di Claude Debussy. Un linguaggio che affonda le sue radici nell’800 al servizio di una storia che come vedremo anticipa il ‘900, ovvero un romanzo al contempo postimpressionista e premodernista: ecco ciò che ritengo uno dei motivi dell’indubbio fascino di questo libro.
Mi rendo conto però di avere mentito, affermando che ciascun lettore può trovare la 'propria' storia in 'Lord Jim': in realtà, come testimoniano le stroncature e gli abbandoni reperibili in rete, ci sono lettori che vengono negativamente spiazzati da questo romanzo: sono quelli che – attratti dall’ambientazione esotica – credono di essere di fronte ad un romanzo d’avventura, scritto da una sorta di Salgari inglese (inglese?) Le loro speranze, provo ad azzardare, rimangono abbastanza salde per i primi quattro capitoli, anche se l’inizio non è proprio quello folgorante che si aspettavano: troppo prosaico che l’eroe del libro venga presentato come un abile piazzista, troppo confusa la descrizione del primo fallimento di Jim, giovane apprendista marinaio, in una notte di tempesta. La storia del Patna, subito dopo, sembra promettere bene: c’è un capitano rinnegato tedesco del Nuovo Galles del Sud ed anche il resto della ciurma è composto da pochi di buono. All’improvviso però, dopo che neppure si è capito bene cosa sia successo, c’è un brusco salto temporale in avanti e ci si trova nel bel mezzo di una indagine a carico di Jim: la confusione narrativa sembra al suo apice, ma la volontà è ancora quella di andare avanti, per vedere 'come andrà a finire'. Tutto sommato una certezza ancora c’è, ed è rappresentata da uno dei fari cui affidarsi in questi casi: il narratore onnisciente, che, se all’inizio ha creato un po’ di nebbia con il suo procedere per salti, saprà certo anche portare la nave del racconto nel porto sicuro della sequenzialità e dell’azione. Ma ecco che, a partire dal quinto capitolo, viene meno anche quest’ultima certezza: al narratore onnisciente si sostituisce Marlow, un marinaio più anziano del giovane Jim, che lo incontra durante il processo che questi subisce per il brutto affare del Patna, che gli diviene amico e che da questo momento parlerà di Jim sia raccontando dei suoi incontri e colloqui con lui, sia riferendo quanto ha saputo sulla sua vita da altre persone. Marlow racconterà le storie di Jim ”… in seguito, molte volte, in lontane parti del mondo… Forse un dopocena, su una veranda adornata da un immobile fogliame e coronata di fiori, nell’oscurità dell’imbrunire punteggiata dalle estremità ardenti dei sigari.” Marlow sconvolge le residue certezze o speranze dei nostri lettori: è infatti un narratore ancora più confusionario del primo, perché non scrive ma parla, e parlando ovviamente salta di palo in frasca, anticipa fatti su cui deve tornare, racconta altre storie nella storia, si dilunga in considerazioni personali. Inoltre Marlow, non essendo onnisciente, non conosce tutta la storia, ma solo dei pezzi, ed anche quelli sono filtrati dalla sua esperienza, dal suo modo di vedere le cose. Insomma, i nostri lettori in cerca di avventure si sentono traditi: la storia 'non decolla', perché accada qualcosa è necessario sorbirsi pagine e pagine di elucubrazioni, e quando qualcosa finalmente accade raramente è l’azione a dominare. Il risultato è l’abbandono del libro o, giunti alla fine, la sua classificazione come 'noioso' o 'confuso', sino al lancio del sommo anatema: romanzo 'lento' (sulla lentezza in letteratura – e non solo – come disvalore si potrebbe aprire un proficuo dibattito socio-filosofico).
Per chi invece non è in cerca di un romanzo d’avventura ma di un’opera nella quale questa sia costituita dalla capacità del narratore di far riflettere, di porre degli interrogativi essenziali, di parlare di un mondo che anche se lontano nel tempo e nello spazio può essere percepito come attualissimo, il vivere di Jim attraverso gli occhi, a volte benevoli, a volte irritati, a volte delusi, a volte commossi di Marlow costituisce uno degli elementi di maggior fascino del romanzo, oltre che essere uno dei connotati che lo proiettano di peso verso il ‘900 letterario. Quello di Marlow non è un vero e proprio 'stream of consciousness', ma qualcosa che gli somiglia molto, lo definirei uno 'stream of chats', che si protrae praticamente ininterrotto per ben 41 capitoli, e rappresenta, come dice benissimo Domenico Starnone nella sua preziosa prefazione, la grande invenzione di Conrad, l’espediente attraverso il quale ci consegna una storia enigmatica e sfaccettata, in cui come detto ciascuno di noi può trovare la propria storia, senza essere costretto ad accettare la verità che il narratore onnisciente per definizione fissa. Non a caso in un altro dei suoi capolavori assoluti, 'Cuore di tenebra', scritto quasi contemporaneamente a Lord Jim, la storia sarà raccontata sempre da Marlow, che peraltro compare anche in alcuni altri romanzi di Conrad.
Ma quali sono gli interrogativi che pone questo grandissimo ed inquietante romanzo? Il primo, e forse quello centrale, riguarda quello che sarà uno dei grandi temi della letteratura novecentesca: l’inadeguatezza dell’individuo rispetto ai suoi compiti morali e sociali.
Jim sin dall’inizio si immagina in grado di compiere grandi imprese, “…salvare persone da navi che affondano, recidere l’alberatura durante un uragano, nuotare tra la spuma dei marosi con una gomena…”, ma già alla prima prova vera, il soccorso ad alcuni marinai in mare dopo una collisione, 'giungerà tardi'. In seguito ci sarà il brutto affare del Patna, uno degli episodi centrali del romanzo e senza dubbio quello che segnerà la vita di Jim. Egli paga il debito con la società per il suo comportamento inadeguato (a differenza dei suoi compari), ma questo per lui non ha importanza: deve riscattarsi, deve avere un’altra possibilità, e sinché questa non arriverà sarà costretto a scappare, inseguito dai suoi fantasmi interiori. L’occasione si presenta grazie all’affetto di Marlow e alla fiducia di Stein, ed egli la sfrutta, divenendo 'Tuan Jim', il signore della comunità indigena di Patusan, saggio e deciso: lì trova anche l’amore, e sembra che i suoi fantasmi siano ormai scomparsi, sinché il fiume non viene risalito dalla nave di Brown. Molti di noi, credo, si ritrovano in Jim, nelle sue paure, nei suoi balbettii e nei suoi sogni: la distanza tra ciò che crediamo di essere e ciò che realmente siamo è esperienza comune di chi almeno una volta abbia provato ad analizzare con schiettezza i propri comportamenti, ed a tutti è capitato di giungere troppo tardi o di abbandonare una nave che sta affondando, cercando poi di riscattarsi.
Per spingerci un po’ oltre questa accezione 'individualistica' della vicenda di Jim possiamo aggiungere però una constatazione: Jim non è codardo (lo dimostra molte volte, specie nel finale), non è furbo: è inadeguato perché le cose, le circostanze, sono maledettamente complicate, e lui non riesce a prendere la decisione giusta. Jim non è in sintonia con il mondo, o meglio il mondo in cui vive funziona secondo logiche che gli sono estranee: le logiche degli affari, dello sfruttamento, della sopraffazione. Le sue decisioni, almeno a Patusan, (detto per inciso: quante somiglianze tra questo remoto insediamento e la base di Kurtz) sono dettate da un profondo senso di giustizia ed anche di fiducia nel prossimo, ma si riveleranno inadeguate rispetto alle regole sociali, generando in chi nell’ambito di queste regole ha costruito il suo piccolo potere il sordo rancore che porterà all’epilogo della vicenda.
Ampliando ancora un po’ lo sguardo possiamo chiederci: chi è Jim, chi rappresenta specificamente? Conrad ci dice che è 'uno di noi', ma chi siamo 'noi'? Io sposo appieno la tesi di Starnone, secondo cui noi siamo tutta la ”gente di buoni sentimenti, anime belle dell’Occidente” che ancora crede nella favola della civiltà superiore, della democrazia da esportare, dei valori delle nostre radici contrapposte a quelle di altri, e non vede come veramente funziona il mondo in cui viviamo. Rileggiamo in questa chiave alcuni passaggi del libro, ed in particolare la parte della storia che si svolge a Patusan: Jim diviene, come detto, Tuan Jim perché libera gli indigeni dalle scorrerie di Sherif Ali e dall’oppressione di Tunku Allang, che si contendevano il predominio dei commerci sfruttando la popolazione, ed esautora il corrotto portoghese Cornelius. L’arrivo di Brown sancirà l’inevitabile fine della ingenua 'democratizzazione' di Patusan, perché Brown rappresenta la vera anima dell’impresa coloniale, l’anima nera, quella della depredazione delle materie prime, della violenza, della schiavitù: Jim non riconosce questa anima e ritiene che Brown, essendo un bianco, agisca sulla base di un codice morale simile al suo: per questo gli concede di andarsene. Ma Brown e Cornelius sanno come funziona il mondo, e per loro sarà semplicissimo ricacciare Jim nel baratro della sua inadeguatezza, che ora gli concederà una sola via d’uscita.
Ho tralasciato tantissime cose di questo splendido libro: le storie dei personaggi minori, l’amore di Jim per Gioiello, le vivide descrizioni di porti, isole, mari e foreste: ho cercato di dire il meno possibile sulla trama, a costo di essere criptico, perché questo è un libro che va letto in prima persona, gustandolo pagina dopo pagina, perché a tutti può lasciare molto, qualcosa, o forse solo la coscienza di essere un libro maledettamente 'lento'.
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La necessaria perpetuazione...
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La fama di Arthur Conan Doyle è indissolubilmente legata a quella del suo personaggio letterario più famoso: Sherlock Holmes. È così oggi, ma è stato così anche vivente l’autore, tanto che questi una volta disse di odiare il detective di Baker street perché era più famoso di lui, facendolo morire per poi essere costretto a resuscitarlo a furor di popolo (e probabilmente di editore).
In realtà Holmes compare in una parte non preponderante della vastissima produzione letteraria di questo autore, che scrisse numerosi romanzi e racconti di genere fantastico, di avventure, del mistero e del terrore, di ambientazione storica e medica (essendo – come il suo alter-ego letterario dottor Watson – laureato in medicina) nonché saggi sullo spiritismo, disciplina di cui si interessò verso la fine della sua vita.
Una gran parte di queste opere non è mai stata tradotta in italiano, e credo che se ne siano perse le tracce anche in Gran Bretagna, ma altre ci permettono di conoscere la produzione relativamente meno nota di Conan Doyle, scritta come detto anche con l’intento di affrancarsi dall’ingombrante detective.
È il caso de 'Il mondo perduto', apparso nel 1912, primo romanzo in cui compare un altro personaggio protagonista di un ciclo narrativo composto da alcuni romanzi e racconti: il Professor George Challenger.
Challenger (il cui cognome programmatico rivela da solo il carattere popolare e didattico della letteratura di Conan Doyle dopo lo strepitoso successo di Holmes) è uno scienziato, uno zoologo, misantropo ed estremamente irascibile, in perenne feroce polemica con il mondo accademico ufficiale che mette in discussione le sue teorie e le sue scoperte. Il suo terribile carattere si riflette nell’aspetto fisico, che l’autore descrive così al momento della sua comparsa in scena: ”Aveva la faccia e la barba di un toro assiro: florida la prima, la seconda così nera al punto da riflessi quasi azzurri, tagliata a ventaglio […] I capelli erano speciali; una folta ciocca schiacciata e liscia delineava una curva spiccata sulla sua fronte massiccia. Gli occhi azzurro-grigi […] erano molto chiari, molto scrutatori e molto imperiosi. Una estesa quadratura di spalle e un petto rigonfio come un barile erano le altre due parti di quel corpo mostruoso […] unitamente a due mani gigantesche, pelose e brune […] e [a] una voce tonante, aggressiva, ringhiosa…”. Come si vede una caratterizzazione sicuramente stereotipata nella sua unilateralità, ed in effetti il Professor Challenger, almeno per come emerge da questo romanzo, è un personaggio indubbiamente molto meno complesso e sfaccettato rispetto a Sherlock Holmes, scevro da ogni ambiguità o mistero: è un personaggio che oggi definiremmo fumettistico o da romanzo d’appendice, ed indubbiamente, come detto, riflette la volontà dell’autore di ripetere il clamoroso successo editoriale di Holmes dando in pasto ai lettori una figura facilmente identificabile nel contesto di una storia di facile consumo.
Il romanzo è narrato in prima persona da un giovane giornalista, Ned Malone. Egli è innamorato della bella e ricca Gladys, che però, di fronte alla proposta di matrimonio, gli dice di avere come ideale gli uomini famosi e coraggiosi. Malone chiede quindi al suo giornale di affidargli un reportage avventuroso e riceve l’incarico di intervistare il terribile dottor Challenger, il quale sostiene di avere scoperto, durante una spedizione nella giungla amazzonica, un altopiano isolato in cui vivono ancora i dinosauri del giurassico. Purtroppo ha perso nel viaggio di ritorno le prove che aveva raccolto e per questo è deriso e ostracizzato dalla comunità scientifica. Il giovane riesce ad entrare nelle grazie del professore e, dopo una infuocata conferenza scientifica, entra a far parte di una spedizione incaricata di trovare le prove di quanto asserito da Challenger, composta da quest’ultimo, dal professor Summerlee, rivale scientifico di Challenger, e da lord Roxton, un intrepido cacciatore.
Gran parte del racconto è affidato alle corrispondenze che Malone scrive dall’Amazzonia mandandole rocambolescamente a Londra, e descrive le drammatiche ed esaltanti avventure del quartetto sull’altopiano, che naturalmente esiste davvero e sul quale l’evoluzione si è fermata a causa dell’isolamento fisico: l’altopiano infatti è inaccessibile, elevato com’è al di sopra di ripide pareti granitiche, e solo l’ingegno dei quattro esploratori permetterà loro di raggiungerlo. Oltre ai dinosauri erbivori e carnivori ed agli pterodattili incontreranno molte altre forme di vita credute estinte, tra i quali una tribù di pigmei in perenne lotta con dei ferocissimi uomini-scimmia.
Dopo alcuni mesi di permanenza sull’altipiano, i nostri eroi riusciranno in modo rocambolesco a lasciarlo e a tornare a Londra, dove saranno portati letteralmente in trionfo.
Questa in breve la trama di un romanzo che letto con gli occhi di oggi non può che apparirci ingenuo, anche se questa tipologia di ingenuità attira ancora il pubblico, come testimonia il successo ottenuto non moltissimi anni fa da un film come 'Jurassic Park', che deve molto, come il romanzo di Michael Crichton da cui è tratto, al libro di Conan Doyle. Del resto molti sono stati, nel corso dei decenni, i film direttamente ispirati al romanzo di Conan Doyle, a testimonianza del suo successo editoriale. Si pensi, del resto, al potere di attrazione che poteva suscitare una storia come questa nel periodo in cui uscì: all’inizio del ‘900 ampie regioni del mondo erano totalmente inesplorate, e tra queste vi era l’immensa foresta amazzonica, ancora pressoché integra. La Gran Bretagna estendeva il suo impero coloniale in plaghe esotiche, da cui giungevano merci e notizie che avevano ancora un che di favoloso, e che ad un tempo giustificavano e occultavano agli occhi dell’opinione pubblica la brutalità dello sfruttamento delle risorse e delle popolazioni locali. Verso la fine del secolo precedente nella foresta venezuelana erano stati scoperti alcuni altipiani, chiamati localmente Tepui, nei quali l’isolamento aveva portato l’evoluzione a generare forme di vita peculiari, e proprio ai Tepui venezuelani si ispira Conan Doyle, documentandosi in maniera scientificamente rigorosa anche per descrivere le specie animali e vegetali incontrate dal professor Challenger e dai suoi compagni d’avventura.
Il romanzo di Conan Doyle si inserisce quindi in un filone letterario, quello dei romanzi di viaggi straordinari che ha il più noto esponente europeo in Jules Verne, e che è figlio diretto del positivismo ottocentesco. Questi romanzi assolvono un compito preciso: spiegare al popolo che sta vivendo nel migliore dei mondi possibili e nell’epoca più evoluta della storia dell’umanità, e che l’inarrestabile progresso scientifico e tecnologico porterà verso un mondo in cui tutti i problemi saranno risolti e tutti staranno bene. Per giungere a ciò la natura deve essere piegata ai voleri dell’uomo, che in quanto unico essere intelligente ha il diritto-dovere di espandere le sue conoscenze al fine di sfruttare a proprio vantaggio le risorse che la terra (e non solo la terra, nel caso di Verne) gli offre. Questo credo positivista può essere divulgato in forma didattica grazie alla crescente alfabetizzazione e alla nascente industria culturale, che permette di raggiungere strati sociali sempre più ampi.
C’è però, rispetto al parallelismo tra Verne e Conan Doyle, un problema: l’autore francese scrive la gran parte dei suoi più noti romanzi di viaggi straordinari tra il 1863 e il 1880, quindi in pieno ottocento, quando il positivismo era, oltre che ideologia dominante, anche se così si può dire senso comune. 'Il mondo perduto' appare come detto nel 1912: Verne è morto da ormai sette anni, ma soprattutto la cultura europea, rispecchiando la crisi dell’interessato ottimismo della società borghese nei confronti delle 'magnifiche sorti e progressive' dell’umanità, ha imboccato ben altre strade. Mancano solo due anni allo scoppio della prima guerra mondiale, che segnerà la fine definitiva delle illusioni progressiste. Come si colloca, quindi, in questo contesto sociale e culturale, un’opera come 'Il mondo perduto'? A mio avviso si colloca da un lato, dal punto di vista più strettamente culturale, in una posizione di retroguardia, essendo un’opera che non aderisce allo spirito dei tempi, ma si rifà ad un modello anche narrativo ormai superato dalla Storia; dall’altro, da un punto di vista dell’ideologia che esprime, aderisce perfettamente alla narrazione del mondo che le classi dominanti hanno interesse a perpetuare, essendo tale narrazione la base della legittimazione del loro potere. E questo interesse è ancora più forte in quel periodo, in cui tutto ormai sta crollando, in cui è necessario rispondere al crescente protagonismo sociale e politico delle masse e dei nuovi modelli di società di cui sono portatrici, in cui bisogna riaffermare la fede nei 'buoni valori borghesi' e nella loro capacità di condurre l’umanità verso un luminoso avvenire. Ecco quindi che Conan Doyle, pienamente organico ad una visione positivista come del resto aveva già dimostrato – sia pure con qualche sfumatura problematica – con il ciclo di Sherlock Holmes, sforna un romanzo, ed in seguito un breve ciclo, che del positivismo rassicurante fa la sua cifra essenziale, nel quale nulla traspare delle inquietudini dell’epoca, in questo associandosi ad altri autori di letteratura popolare, come ad esempio Bram Stoker, che solo un anno prima pubblica un romanzo come 'La tana del verme bianco', nel quale i canoni del genere gotico sono piegati ad una visione positivista della realtà. E proprio i parallelismi con l’ultimo Stoker non sono pochi, e a mio vedere neppure causali, a testimonianza di un progetto culturale comune. Entrambi i romanzi sono infatti frutto di accurate documentazioni (storiche in un caso, scientifiche nell’altro), con il preciso intento di conferire loro attendibilità, elemento essenziale per la loro legittimazione culturale; entrambi sono scritti con un linguaggio semplice e schematico ed entrambi vengono pubblicati su riviste a larghissima tiratura, perché possano assolvere al loro compito di acculturazione delle masse; entrambi, infine, si concludono significativamente con il risarcimento economico dei protagonisti, che al termine delle loro avventure si arricchiranno. Certo, il risultato squisitamente letterario delle due opere è profondamente diverso, essendo quella di Stoker, a differenza de 'Il mondo perduto', un romanzo brutto, ma è indubbio che queste due opere rispondano ad un preciso intento ideologico.
Nel quadro culturale così facilmente identificabile, grazie anche al suo schematismo, di questo romanzo, si inseriscono comunque alcuni elementi secondari che, se non ne mutano l’essenza, contribuiscono comunque a vivacizzarlo e a conferirgli una patina, seppure sbiadita, di sottile ironia. Il primo è la polemica contro la cultura accademica del tempo, che Conan Doyle descrive – sia pure con modalità molto lievi – come bigotta e superficiale, interessata alla polemica più che alla verità scientifica: il professor Challenger è un irregolare, lo sfidante il potere costituito dei circoli scientifici ufficiali, che sino in fondo si rifiuteranno di riconoscere le sue scoperte. L’altro elemento secondo me piacevolmente distonico rispetto allo schema di fondo del romanzo è rappresentato dalla storia nella storia del rapporto tra il narratore, il giovane Ned Malone, e la sua fidanzata Gladys. L’epilogo di questo rapporto, che è stato come detto la molla di tutta l’avventura, è una piccola chicca (forse l’unica contenuta nel romanzo), che lascio alla scoperta del lettore e che, se da un lato indubbiamente può ascriversi ad una certa misoginia di un autore nel quale l’universo maschile è assolutamente preponderante, dall’altro può anche essere letto come una garbata, molto garbata, satira dell’universo familiare altoborghese.
Prima di questo libro di Conan Doyle ho letto e recensito alcuni racconti di Mary Cholmondeley, autrice di genere contemporanea del nostro, notando come fosse ingiustamente misconosciuta. Confrontando la qualità intrinseca dei due autori, almeno come emerge da queste mie letture, non posso che constatare come a volte la fama, anche quella postuma di opere ed autori, a causa dei meccanismi della trasmissione culturale guidata e mediata dalle logiche di mercato, possa prescindere dalla loro qualità intrinseca, come del resto si premura di ricordarci ogni giorno l’odierna industria culturale, della quale le opere che assolvono oggi le stesse funzioni di romanzi come 'Il mondo perduto' costituiscono la quasi esclusiva ragion d’essere
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Il lato oscuro della realtà...
...nei racconti di una scrittrice misconosciuta
Questo piccolo volume di Sellerio (meno di 100 pagine compresa la bella postfazione della curatrice Benedetta Bini) mi ha riservato una piacevolissima sorpresa: quella di conoscere, sia pure attraverso tre soli brevi racconti, una autrice di cui si può dire che si siano perse le tracce, o meglio della quale, almeno nel nostro paese, le tracce non sono mai di fatto comparse.
Mary Cholmondeley (il cognome pare si pronunci all’incirca 'chumdly') non è probabilmente un’autrice imprescindibile, ma sicuramente dalla lettura di questi racconti emerge come scrittrice estremamente raffinata, che potrebbe forse occupare un posto non secondario nell’ambito di quel periodo cruciale per la letteratura britannica, ed in generale per la cultura mondiale, che segna il passaggio dal XIX al XX secolo. Purtroppo questo volumetto è l’unica traduzione di sue opere in italiano, a fronte di una produzione letteraria cospicua.
La sua biografia, così tipica della donna intellettuale del periodo vittoriano, può aiutarci ad avvicinare questa misconosciuta autrice.
Nata nel 1859 nello Shropshire, apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà sassone: suo padre era un alto prelato. Visse sempre in famiglia senza mai sposarsi: sino quasi ai quarant’anni nella tenuta di campagna, occupandosi della madre ammalata e dei numerosi fratelli; dopo la morte della madre si trasferì con il padre pensionato e le sorelle a Londra. Diciottenne, nel 1877, annota nel suo diario: ”Che piacere ed interesse sarebbe per la mia vita scrivere libri: devo indirizzarmi verso qualcosa di nuovo, e se non mi sposerò, (il che è quanto meno improbabile, perché non possiedo né bellezza né charme) dovrei trovare una occupazione precisa, oltre i doveri domestici”.
Il suo primo romanzo, un 'giallo' intitolato 'The Danvers Jewels', fu pubblicato su una rivista nel 1886, e le diede una breve notorietà. Dopo altri romanzi dimenticati, nel 1899 apparve 'Red Pottage', che fu un grande successo editoriale anche negli Stati Uniti ed è ancora oggi edito nei paesi anglosassoni. Il romanzo è una satira della ristrettezza mentale della vita in campagna e dell’ipocrisia ecclesiastica, ed esplora, anche se in modo molto prudente, i temi della sessualità femminile e del ruolo delle donne nell’arte, che saranno gli elementi centrali del dibattito culturale attorno alle 'New Women' all’inizio del nuovo secolo. Fu amica tra gli altri di Henry James e di Edith Warthon ed animò un salotto letterario. Continuò anche nel nuovo secolo a scrivere romanzi e racconti, pubblicati su riviste di grande tiratura; morì a Londra nel 1925.
È quindi, quello di Mary Cholmondeley, il ritratto di una perfetta dama inglese, se non fosse… per la sua letteratura, almeno per quella parte di essa che emerge da questi tre racconti, che ci narrano una storia diversa: quella di una autrice pienamente immersa nel clima di incertezza e di cambiamento, culturale e sociale, che caratterizza il volgere del secolo, e che questo clima riesce ad interpretare attraverso storie spiazzanti, che mettono in risalto il lato oscuro dell’esistenza e scardinano le sicurezze costruite attorno alla istituzione per eccellenza della società vittoriana ed in generale borghese: la famiglia. In questa precisa direzione vanno infatti il primo e l’ultimo dei racconti compresi in questo volume, mentre il secondo, come vedremo, è innanzitutto una satira dell’ambiente borghese con velleità artistiche.
L’autrice in questi racconti utilizza con estrema maestria la suspance e la tecnica del ribaltamento finale della realtà percepita dal lettore, costringendolo, come giustamente dice la curatrice del volume nella sua postfazione, a rileggere i racconti con occhi nuovi.
Il primo racconto, 'La moglie di Geoffrey', fu pubblicato in una rivista nel 1885. Pur essendo un racconto giovanile è forse quello in cui la capacità di scrittura della Cholmondeley emerge maggiormente, anche nel senso di un certo sperimentalismo sintattico: mentre infatti la maggior parte del racconto è scritta utilizzando il passato, nei passaggi più convulsi e drammatici la narrazione passa improvvisamente al presente, invitando in questo modo il lettore ad entrare in scena, ad essere presente nel momento in cui il dramma si sta compiendo.
Il racconto inizia in un modo estremamente idilliaco, tanto da dare l’impressione di una stucchevole convenzionalità. Una giovane coppia inglese è in luna di miele a Parigi. I due sono l’immagine della felicità: belli e solari ”nonostante fossero inglesi”, tutti, nel piccolo albergo in cui alloggiano, sono innamorati del robusto Geoffrey e della minuta e delicata Eva. Finite le due settimane di soggiorno, decidono di fermarsi ancora un paio di giorni per assistere alla grande festa lungo gli Champs Elysées in occasione dell’esposizione universale. Così, la sera, i due si trovano a camminare in mezzo ad una folla immensa che riempie i viali e Place de la Concorde. Devono rientrare in albergo a piedi in quanto le carrozze non circolano più. Improvvisamente il racconto della dolce vita di una giovane coppia in amore si trasforma in un dramma, perché la tensione scoppiata tra la folla e la polizia a cavallo crea una calca che rischia di travolgere i giovani sposini. Non mi addentro oltre nella trama perché il racconto è affascinante in buona parte per la tensione che l’autrice è in grado di creare nel lettore e per il finale a sorpresa. Come detto, Mary Cholmondeley dimostra subito le sue capacità di scrittrice: la storia infatti accumula tensione anche grazie al repentino passaggio da una narrazione basata sul rassicurante passato remoto a brani nei quali viene impiegato un ansiogeno presente. Oltre agli aspetti formali, però, vi sono almeno due elementi sostanziali che fanno a mio avviso di questo breve racconto una piccola chicca. Il primo è il trattamento che l’autrice riserva all’istituzione fondante la società vittoriana, la famiglia, e alla sua narrazione ufficiale. Nelle prime pagine la coppia protagonista ci viene descritta come perfetta, troppo perfetta per essere vera. Sembra di trovarsi di fronte all’incipit di un racconto rosa, come probabilmente ne venivano pubblicati tanti proprio nelle riviste a larga diffusione dell’epoca. Tuttavia, rileggendo il racconto dopo lo sconcertante finale non potrà sfuggire l’intento ironico di quelle pagine, la volontà di descriverci un mondo delle nuvole che dovrà fare i conti presto con la realtà. E la realtà che l’autrice ci descrive è il secondo elemento notevole della storia: il mondo tranquillamente borghese, sciropposo, dell’incipit è spazzato via dall’agire convulso e inconscio della massa, che si muove senza sapere chi o cosa travolgerà sul suo cammino, scandito da un impersonale rumore di fondo più volte richiamato dall’autrice. Credo che analizzando questi elementi alla luce dei sommovimenti sociali che caratterizzavano la fine dell’800, si possa trovare in questo piccolo racconto una metafora estremamente efficace dell’irrompere delle masse come soggetto politico nella apparentemente cristallizzata società vittoriana. Ci sarebbe in realtà anche un altro elemento di estrema importanza nel racconto, che evidenzia ancora più lo scardinamento operato dall’autrice delle certezze familiari della società vittoriana, ma non è possibile accennarne per non svelare troppo della trama.
Il secondo racconto, che dà il titolo al volume, è del 1908, ed è anche quello che si distacca di più dagli altri, per il suo tono meno drammatico e per l’attenuazione del ruolo spiazzante del ribaltamento finale della realtà percepita, che pure in parte sussiste.
La vicenda è narrata in prima persona da una scrittrice che sta terminando una sua opera nella dolce campagna inglese. Uscita nel tardo pomeriggio in cerca di ispirazione, incontra sotto una pioggia improvvisa una signora dai vestiti laceri e fangosi, ed insieme cercano un riparo. Decide di ospitare nella propria stalla per la notte la sconosciuta, che crede essere l’evasa da un vicino carcere di cui aveva sentito parlare. Le offre quindi un bagno e la cena, ascoltandone la lunga storia di progressiva emarginazione dovuta alla dipendenza dalla morfina che cominciò ad assumere assistendo il marito malato, il suo progressivo scendere i gradini della scala sociale sino ad arrivare all’ultimo, quello di vagabonda. La mattina la donna scompare, e più tardi la scrittrice apprende che l’evasa è stata arrestata. Quando, tempo dopo, la narratrice visita il carcere in cui l’evasa è rinchiusa, le viene concesso di visitarla e…
Qui la suspance non gioca un ruolo così essenziale, essendo il racconto in buona parte giocato sul contrasto tra le due figure di donna: da un lato l’ironica (forse autoironica) rappresentazione della scrittrice – narratrice e del modo in cui affronta la situazione, tra ansie per la pulizia dei pavimenti e necessità frustrate di affermare la propria notorietà artistica, e dall’altro il dramma esistenziale ma anche la libertà intellettuale della vagabonda, nei cui tratti si possono rinvenire quelli caratterizzanti le New Women di inizio secolo.
L’ultimo racconto, 'La mano sul chiavistello', fu pubblicato nell’ambito della stessa raccolta del precedente, ma si riallaccia maggiormente al primo in quanto a tematiche trattate e meccanismo narrativo.
E’ ambientato nel nord degli Stati Uniti durante la guerra civile: in una casa isolata nella prateria (una prateria che ricorda molto la brughiera di Hardy) vive una giovane coppia. Lei è originaria di una città del sud e ha seguito il marito, esattore delle imposte, in quel contesto isolato. Soffre la solitudine, anche perché il marito è spesso assente per il suo lavoro, e si tiene occupata con la lettura. Il racconto inizia con la prima neve, che preannuncia la lunga stagione dell’isolamento totale. La protagonista è sola in casa, ma freme perché un avvenimento sta per cambiare la sua vita: è incinta e vuole comunicare la grande novità al marito. Quando questi arriva, subito le dice che deve ripartire all’alba, per andare in città a mettere al sicuro i loro risparmi, che con la guerra rischiano di svanire nel nulla. Starà via una sola notte; la moglie però deve nel frattempo custodire l’ingente somma che il marito ha riscosso con il suo lavoro, e questo lo preoccupa, perché in zona vi sono molti soldati sbandati. Lei, a fronte della preoccupazione del marito, decide di rimandare il lieto annuncio e si dice pronta ad affrontare il rischio di stare una notte sola con tanto denaro in casa. Il marito le raccomanda comunque di non aprire a nessuno, per nessuna ragione.
Il racconto quindi si dipana in un crescendo di tensione sino al drammatico finale, che anche in questo caso ribalta la realtà percepita dal lettore.
Dal punto di vista della tecnica narrativa questo racconto è forse più piano di 'La moglie di Geoffrey', ma ciò non impedisce che il crescere della suspance sia offerto al lettore con la sapienza della scrittrice consumata, tramite un periodare che, anche se è in terza persona, non fa intervenire il narratore onnisciente, guidandoci direttamente nella storia con gli occhi e il pensiero della protagonista, con la visione quindi parziale di una realtà che come detto non è tale.
Anche in questo caso al centro del racconto c’è il nucleo familiare, il contrasto tra l’apparente ordine sociale che in esso vige e l’abisso di orrore che vi si può nascondere.
Mary Cholmondeley si rivela grazie a questo volumetto una scrittrice che a buon titolo frequentava James e Wharton, visto che con questi autori (significativamente entrambi statunitensi europeizzati) condivide le tematiche dell’ambiguità della realtà, del contrasto tra quest’ultima e le costrizioni imposte dalle relazioni sociali, che tentano invano di nasconderne il lato oscuro. È una scrittrice vera, che utilizza al meglio le possibilità espressive tipiche del racconto breve e la capacità di creare tensione e suspance, essendo in grado in poche pagine di sconcertare il lettore e di scardinare alcune delle sue certezze di fondo. In Gran Bretagna il passaggio dal XIX al XX secolo assunse la forma concreta della fine del lungo regno vittoriano, con il suo positivismo ipocrita: molti grandissimi autori (oltre a quelli già visti basti citare Oscar Wilde) seppero essere interpreti di questo passaggio epocale: accanto a loro sarebbe forse giusto riservare un posto adeguato a questa misconosciuta scrittrice.
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L’anima dello shtetl...
...nei racconti di un padre della cultura yiddish
Questo prezioso volumetto della Piccola Biblioteca Adelphi propone tre racconti di un autore poco conosciuto nel nostro paese, ma che, come vedremo, ha avuto un ruolo estremamente importante per lo sviluppo della cultura ebraica nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo.
Sholem Aleykhem (la trascrizione in caratteri latini è variabile, ad esempio si trova anche Shalom Aleichem) è pseudonimo di Sholem Rabinovi?, ed in lingua ebraica significa 'la pace sia con voi' ma viene usato anche colloquialmente come espressione di saluto. Lo scrittore nacque in uno shtetl ucraino, allora parte dell’impero zarista, nel 1859, ed è considerato uno dei padri della letteratura yiddish. All’epoca lo yiddish, parlato da milioni di ebrei in tutta l’Europa centro-orientale, era considerato una sorta di vernacolo, e la letteratura ufficiale impiegava l’ebraico, la lingua alta.
Sholem Aleykhem compie, assieme a pochi altri intellettuali tra i quali bisogna citare Mendele Moicher Sforim, una autentica rivoluzione culturale, utilizzando lo yiddish per raccontare le sue storie, che hanno come protagonisti la vita dello shtetl e i suoi abitanti, visti con un occhio ironico intriso del tipico umorismo ebraico, che spesso contiene anche gli elementi di una satira sferzante. L’impiego della lingua parlata non è solo una questione formale, ma comporta, come sempre (pensiamo ad esempio a Pasolini e ai suoi 'Ragazzi di vita'), la possibilità di connotare in maniera estremamente realistica i personaggi, di evidenziarne con efficacia il carattere e di ottenere effetti comici non di rado sublimi. Purtroppo è inevitabile che molti di questi effetti dell’uso della lingua parlata vadano persi nella traduzione italiana, anche se a mio avviso i traduttori del volume Adelphi hanno compiuto uno sforzo notevole, di cui va dato loro atto, per preservare la freschezza del linguaggio di Aleykhem.
Oltre a scrivere in yiddish più di quaranta volumi di romanzi, racconti, saggi e poesie, Sholem Aleykhem fu un vero e proprio operatore culturale a tutto tondo, fondando riviste letterarie, incoraggiando giovani scrittori e partecipando attivamente ad iniziative per la diffusione della cultura yiddish. La personalità di questo autore emerge in modo plastico dal fatto che la sua prima prova letteraria, composta all’età di 15 anni, fu il dizionario alfabetico delle invettive utilizzate dalla sua matrigna.
Nonostante una vasta popolarità, non ebbe una vita facile: subì rovesci finanziari e nel 1905 fu costretto dai frequenti pogrom a lasciare l’Ucraina, vivendo tra Ginevra e New York. Morì in quest’ultima città nel 1916 e al suo funerale parteciparono più di centomila persone.
La fortuna di questo autore nel nostro paese è relativa: il suo solo romanzo tradotto, 'La storia di Tewje il lattivendolo', edito da Feltrinelli parecchi anni fa, è da tempo fuori catalogo, anche se è facilmente reperibile nel mercato dell’usato, ed oggi solo altri due volumetti della Piccola Biblioteca Adelphi oltre a questo ci permettono di conoscerlo.
Come detto, il volume ci presenta, in poco più di cento pagine, tre racconti, scritti tra il 1901 e il 1907, simili da un punto di vista formale e strutturale, anche se – come vedremo – profondamente diversi quanto a contenuto. Si tratta in tutti e tre i casi di monologhi (originariamente contenuti in una raccolta avente proprio tale nome), nei quali il personaggio principale racconta la sua storia colloquiando con un altro personaggio, che si limita ad interloquire brevemente o sta del tutto zitto. In tutti e tre i racconti, inoltre, il personaggio principale è un abitante dello shtetl, mentre l’interlocutore è in qualche modo un’autorità. Il narratore è quindi il protagonista assoluto dei racconti, e il suo modo di esprimersi, la sua prolissità e il suo continuo divagare, oltre che il contenuto delle storie che narra, creano effetti comici notevoli, soprattutto nei primi due racconti, più leggeri rispetto all’ultimo, che presenta elementi di maggiore articolazione e problematicità.
Il primo racconto è anche quello che dà il titolo al volume. In quest’unico caso la storia è raccontata dall’interlocutore, che è di fatto lo stesso scrittore. Egli, rientrato da un viaggio, viene avvertito che un giovane l’ha cercato più volte nei giorni precedenti. Ritenendo che fosse un giovane autore che volesse sottoporgli un manoscritto, si sente sollevato quando, incontrandolo, comprende che gli viene invece richiesto un consiglio, in quanto uomo istruito e di mondo.
Il giovane inizia quindi a raccontare: vive in uno shtetl vicino, ed ha sposato la figlia unica di un ebreo ricco ed avaro: in pratica è mantenuto dai suoceri. Dopo numerose divagazioni, che iniziano a spazientire l’interlocutore, giunge al punto: sospetta, anzi è certo, che la moglie lo tradisca con il bel dottore del villaggio, cosa di cui tra l’altro si mormora in tutto lo shtetl. Chiede quindi allo scrittore, che 'scrive così tanto, e che per questo deve sapere tutto', il consiglio giusto: deve divorziare? Quando lo scrittore gli risponde che sì, stando così le cose deve senz’altro divorziare, il giovane ribatte che però egli ama la moglie, ma che – soprattutto – è il principe ereditario, il genero del riccone e che tra centovent’anni (la durata della vita secondo la tradizione ebraica) 'è comunque tutto suo, vale a dire, mio'. L’interlocutore conclude che allora è meglio non divorziare e rimanere con la moglie. Il giovane allora riprende a mettere in evidenza gli elementi a favore del divorzio, al che l’interlocutore conclude che allora è meglio divorziare. Il racconto si snoda così con un ritmo che si fa sempre più serrato, mentre il giovane ogni volta sposta la sedia avvicinandosi allo scrittore sino a urlargli praticamente in faccia; ogni volta che quest’ultimo sposa una tesi o quella opposta il giovane la ribalta, sempre più freneticamente e lapidariamente, sino a che alla ennesima contestazione lo scrittore lo piglia per il collo, lo sbatte al muro e gli urla: ”Devi divorziare, bastardo! Divorziare! Divorziare! Divorziare!!!”. Ricompostisi, i due si salutano con il giovane che ringrazia per il consiglio ricevuto. La comicità del racconto è data inizialmente dalla prolissità del giovane, che esponendo il suo dilemma traccia, con innumerevoli incisi, divagazioni ed aneddoti e la ricchezza di una lingua pirotecnica, uno spaccato della vita nello shtetl e del carattere dei membri della sua famiglia allargata, facendoci capire da subito come a lui ciò che interessa è mantenere il suo status di mantenuto nullafacente. In seguito l’effetto comico è assicurato dal progressivo aumento del ritmo dell’interlocuzione tra i due, sino all’epilogo burrascoso. Oltre alla componente genuinamente comica il racconto ne contiene però anche una satirica, non meno importante. All’inizio, quando ritiene che l’importuno sia un giovane autore, lo scrittore lancia i suoi strali contro la cultura ebraica accademica, di cui in poche righe molto efficaci denuncia la vuotezza di contenuti ed il distacco dalla realtà. Ma è nel dilemma esistenziale del giovane che la satira di Aleykhem si scatena, sia contro la ristrettezza delle convenzioni sociali nella comunità dello shtetl sia contro le convenienze materiali della vita, che fanno passar sopra ogni altra considerazione.
Il racconto successivo, 'Il pentolino', è a mio avviso il meno significativo dei tre, senza nulla togliere alla forza comica del testo. Qui la narratrice è una povera vedova, di nome Yente, che si rivolge al rabbino del villaggio, per chiedergli un parere. Inizia quindi un monologo, con il rabbino che non interloquisce mai, durante il quale la vedova la prende larga, come si dice, raccontando di sé, della sua vita, di suo figlio che studia, della famiglia della sua inquilina e di come questa le abbia rotto un pentolino… dopo una ventina di pagine nelle quali il racconto ha percorso mille rivoli del tutto inconcludenti, e durante il quale periodicamente la vedova Yente, per riprendere il filo, dice: ”Già, ma com’è che siamo arrivati a parlare di questo? Ah, si, perché voi dite…”, senza che il Rabbe abbia spiccicato parola, questi sviene, completamente sopraffatto dalla ciarla della vedova. Il punto di forza del racconto è in questo caso esclusivamente la lingua, la capacità di Sholem Aleykhem di rendere l’eloquio della vedova, la garbata presa in giro della chiacchiera fine a sé stessa che costituiva sicuramente uno dei pilastri fondanti la piccola comunità dello shtetl, come avviene del resto anche nella nostra provincia.
Il racconto più lungo, ma anche a mio avviso il più complesso ed articolato, è l’ultimo, 'Tre vedove – racconto di un vecchio scapolo irascibile'. Anche in questo caso si tratta di un monologo, in cui il narratore è uno scapolo di mezza età, benestante, che narra ad un personaggio non meglio identificato, ma comunque colto e cittadino, la storia della sua vita. Da giovane frequentava la famiglia di Pynie, un giovane ricco e colto (autodidatta), e di sua moglie Paye: i maligni mormoravano che i due fossero amanti, ma il narratore nega recisamente la circostanza. Pynie muore presto, lasciando la moglie ed una figlioletta, Roze. Lo scapolo diviene di fatto il tutore della famiglia, assistendo la vedova nelle questioni pratiche e contribuendo anche economicamente alla crescita di Roze. Innamorato della vedova, è sicuro che anche ella ami lui, ma i due non riescono mai a dichiararsi. Quando Roze cresce, si fidanza con Shapiro, un bravo ragazzotto amministratore di una distilleria, sposandolo. Dopo pochi mesi, però, i padroni della distilleria – coinvolti in speculazioni azzardate – fuggono in America lasciando cambiali sottoscritte da Shapiro, che viene accusato di bancarotta fraudolenta e si suicida. Roze, incinta, partorisce una bambina, Feygele, cui lo scapolo fa da padre, accarezzando vagamente l’idea di poter sposare Roze una volta che la piccola sarà cresciuta. Giunta oltre l’adolescenza, Feygele inizia a frequentare tre giovani marxisti e rivoluzionari, sposandosi quindi con uno di questi. Egli però viene subito arrestato in quanto coinvolto in un attentato, quindi impiccato insieme ai compagni. Così, lo scapolo continua a frequentare la casa delle tre vedove, badando a loro e giocando la sera lunghe partite a carte.
Se la lingua usata e la struttura del racconto sono molto simili a quelle dei due precedenti, balza subito all’occhio una differenza sostanziale: nella trama prevalgono elementi drammatici ed anche tragici, che generano un forte contrasto con il tono ancora una volta colloquiale e comico – di una comicità data soprattutto dall’irascibilità del narratore – del racconto. Oltre a questo fatto, ed in stretta relazione con esso, è indubbio, a mio avviso, che a questo racconto Sholem Aleykhem abbia affidato un forte significato metaforico rispetto alla situazione delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. Non dimentichiamoci che il racconto è del 1907, posteriore quindi all’ondata di pogrom del 1905 ed all’esilio dell’autore, che certo si poneva più interrogativi che in precedenza.
Analizziamo il racconto: la prima vedova ha un marito tradizionale, espressione dello shtetl, Roze sposa chi sarà vittima dell’ingordigia capitalistica e Feygele, infine, chi cadrà per le sue illusioni rivoluzionarie. Quindi, sembra dirci l’autore, la specificità ebraica – come non può sopravvivere rimanendo esclusivamente legata ai suoi valori ancestrali, così non può inquinarsi ed accettare supinamente le due ideologie dominanti i tempi nuovi, il capitalismo e il socialismo, perché ciò genera solo lutti. L’autore non ha peraltro soluzioni, perché lo scapolo, anch’egli espressione della tradizionale comunità ebraica, non riesce a dichiarare il proprio amore né a Paye né a Roze, non riesce a prendere in mano la situazione, limitandosi ad un sostegno esterno alla piccola comunità di vedove: in quel finale giocare a carte si riassume benissimo la fine di ogni illusione. E’ uno sguardo disperato, quindi, quello che l’autore rivolge ai suoi shtetl, quasi che presagisse la fine che sarebbe giunta di lì a pochi decenni. Il carattere morale che l’autore attribuisce a questo racconto è sottolineato anche dal ripetuto accenno, da parte dello scapolo, alla necessità di comprendere la realtà basandosi sulle storie vere, e non sulla psicologia.
Veramente un bel libro, quindi, questo 'Un consiglio avveduto', accompagnato da un indispensabile glossario dei numerosi termini ebraici del testo, che ci permette di assaporare i tratti di una cultura che pochi decenni dopo sarebbe stata completamente spazzata via – tanto che oggi lo yiddish è una lingua praticamente estinta – attraverso l’opera di uno dei padri di questa cultura, che meriterebbe sicuramente più attenzione da parte della nostra editoria.
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I mondi di un intellettuale...
...INADEGUATO A COMPRENDERLI
Recensendo la 'Novella degli scacchi' consigliavo di leggere in sequenza anche 'Il mondo di ieri', l’autobiografia scritta da Zweig nell’ultimo anno della sua vita e che pare completò proprio il giorno prima di suicidarsi insieme alla giovane moglie nel rifugio brasiliano. Confermo ora questo mio consiglio, anzi lo amplio, nel senso che la lettura de 'Il mondo di ieri' risulta a mio avviso essenziale per comprendere le fondamenta culturali sulle quali si innalza l’edificio dell’opera letteraria di Zweig.
Il sottotitolo di questo libro è 'Ricordi di un europeo' e, se il suo felicissimo titolo è divenuto nel tempo quasi sinonimo dell’Austria asburgica, credo che il sottotitolo rispecchi meglio il senso complessivo del libro, o perlomeno ciò che oggettivamente quest’opera complessa e sfaccettata ci offre. In primo luogo occorre infatti specificare che il libro non si limita alla descrizione, filtrata attraverso le vicende dell’esperienza umana e culturale di Zweig, della società austriaca nel periodo antecedente la prima guerra mondiale. Solo cinque dei diciassette capitoli del libro si occupano in senso stretto della Vienna asburgica, ed un ampio spazio viene riservato da Zweig alla sua vita e agli avvenimenti storici seguenti il 1918, giungendo il racconto sino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sono quindi tre i mondi che l’intellettuale Zweig si è trovato a affrontare, e di questi almeno uno era drammaticamente il mondo di oggi nel momento in cui veniva fissato sulla carta. Vi è poi il fatto che Zweig si confronta con le vicende che hanno segnato la sua vita da una prospettiva non 'Viennocentrica'. Pur sentendosi profondamente austriaco, come dimostrano i primi capitoli del libro, Zweig si è sempre sentito parte di una comunità intellettuale internazionale, si è sempre aggrappato tenacemente all’idea che la cultura potesse superare ed anche annullare i nazionalismi, venendo peraltro clamorosamente sconfitto dalla Storia. All’epoca in cui scrive, inoltre, non solo non esiste più l’Austria asburgica di cui si sentiva figlio, ma non esiste neppure più l’Austria come entità statale indipendente, essendo stata fagocitata dalla Germania hitleriana. E’ quindi quasi giocoforza che lo Zweig rifugiatosi in Sudamerica non possa che definirsi europeo, anche per lanciare il suo estremo grido di dolore rispetto alla distruzione dell’Europa che in quel momento si stava compiendo.
Detto questo, è fuor di dubbio che le radici culturali e morali (per Zweig i due termini sono quasi sinonimi) che orgogliosamente rivendica sono quelle dell’Austria 'felix', della buona, vecchia 'Kakania' che negli ultimi decenni del XIX secolo sembrava poter gestire i cambiamenti imposti dai tempi nuovi in un modo regolato ed organico, riuscendo a mantenere immutate le strutture portanti della società. Significativamente Zweig intitola il primo capitolo, dedicato alla società austriaca al tempo della sua infanzia, 'Il mondo della sicurezza', ed in questi passi quasi apologetici si dispiegano già appieno i limiti dell’elaborazione teorica di Zweig rispetto ad una vera comprensione della realtà in cui è immerso. Quello di Zweig è infatti lo sguardo nostalgico di chi in quella società è nato e cresciuto come un privilegiato, neppure sfiorando le contraddizioni che in essa si palesavano (anche se vedremo come, nei successivi capitoli, questo sguardo si farà, almeno parzialmente, più criticamente oggettivo). Zweig rimpiange (ancora nel 1941!) l’ottimismo positivista che pervadeva quella società ”in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi”, in cui il progresso, supportato dall’ideale liberale, portava a sempre nuove conquiste a beneficio di tutti, in cui il benessere si stava diffondendo a tutte le classi sociali, in cui, ci dice con una buona dose di paternalismo, "sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l’esistenza del proletariato…" Certo, Zweig è conscio che le certezze di quel periodo si sono rivelate illusioni, ma di quelle certezze egli salva e rivaluta la base ideologica, il liberalismo, da lui inteso come rispetto dei diritti dell’individuo e sovrano distacco dalle cose della politica, senza rendersi conto della piena organicità di tale ideologia, e del progresso tecnico da lui tanto esaltato, rispetto ai tragici sviluppi futuri. Del resto il suo milieu altoborghese, da cui non si sarebbe mai staccato e di cui esalta la sobrietà e l’avvedutezza negli affari, non gli permetteva probabilmente altre opzioni.
Il secondo caposaldo dell’Austria felix è per Zweig l’amore per la cultura, ed in generale per il buon vivere, che caratterizzava l’impero, e Vienna in particolare, e che pervadeva tutte le classi sociali. Sono vivide, anche se probabilmente un po’ di parte, le pagine in cui ci descrive l’importanza assoluta che aveva il teatro nella Vienna fin de siècle. A suggello dell’armonia che regnava in questo mondo, Zweig si sofferma anche sulla perfetta integrazione della comunità ebraica, descritta come vero fulcro economico e culturale della società viennese.
Il tono cambia già dal secondo capitolo, nel quale Zweig descrive la scuola asburgica, con la sua rigidità nozionistica e il suo formalismo, i cui metodi l’autore intuisce essere funzionali al mantenimento dell’ordine sociale costituito. La critica alla scuola serve a Zweig comunque soprattutto per contestualizzare la sua reazione artistica, il maturare la coscienza che la vera cultura si trova fuori dalla scuola, nei nuovi movimenti artistici che nascevano allora a Vienna come in tutta Europa, e che preannunciavano il novecento. Fondamentali sono in questo periodo l’incontro con un giovanissimo Hugo Von Hofmannsthal e con l’opera di Rilke. Sintomatico a mio avviso è il modo con il quale Zweig lega i fermenti culturali con i cambiamenti sociali dell’epoca: “…non ci accorgemmo però che quegli sviluppi in campo estetico erano soltanto prodromi di trasformazioni ben più essenziali, le quali avrebbero scosso e alla fine annientato il mondo della sicurezza, il mondo dei nostri padri.” Tipicamente, per Zweig l’arte, la cultura, precedono le trasformazioni sociali, non ne sono espressione sovrastrutturale. E’ sulla base di questa concezione che sino alla fine si illuderà che con le armi dell’arte si sarebbe potuta evitare la barbarie.
L’inizio della fine viene visto da Zweig nella crescente importanza della politica nella società. L’irrompere delle masse sul palcoscenico sociale, l’organizzazione del partito socialista, le prime manifestazioni vengono viste dal borghese Zweig come uno strano spostamento: quelle stesse masse che ”per decenni avevano docilmente e in silenzio lasciato il potere alla borghesia liberale, divennero d’un tratto inquiete, si organizzarono esigendo i loro diritti.” Manca solo un 'Ohibò!'
Il capitolo successivo, chiamato 'Eros matutinus' è a mio avviso tra i più godibili del libro: Zweig vi conduce una critica lucida e serrata all’ipocrisia dell’epoca rispetto alla morale sessuale, non mancando di sottolineare come anche quella morale fosse pienamente funzionale al mantenimento della struttura sociale. È evidente, nel modo in cui l’autore affronta questo capitolo, la vicinanza di Zweig con la psicanalisi freudiana.
Segue il capitolo sulla sua vita universitaria, da cui emerge da un lato come Zweig potesse economicamente permettersi di dedicarsi alle lettere senza studiare e dall’altro un efficace confronto tra la società tedesca e quella austriaca, dovuto al fatto che Zweig studiò a Berlino. Sono gli anni dei suoi primi successi letterari e del suo incontro con Theodor Herzl, teorico del sionismo e redattore culturale della Neue Freie Presse, il quotidiano liberale con cui il giovane Zweig collaborò. Dimostrando capacità autoironiche, sospetta anche di essere uno jettatore, relativamente ad alcuni episodi che lascio alla scoperta del lettore.
Il successivo periodo parigino di Zweig coincide con il primo contatto diretto con molti artisti francesi, tra i quali Rodin e soprattutto il poeta (belga) Émile Verhaeren, di cui Zweig sarà amico e traduttore. È il periodo in cui Zweig getta le basi di quel cosmopolitismo culturale che lo caratterizza.
Si giunge così all’assassinio di Sarajevo e allo scoppio della prima guerra mondiale, che Zweig non sa spiegarsi se non come l’incapacità delle diplomazie delle nazioni europee di gestire la situazione. Egli descrive peraltro molto bene il clima di euforia che accompagnò la mobilitazione in Austria, e la convinzione diffusa che il conflitto sarebbe durato poche settimane. È in questo periodo che Zweig, impiegato all’Archivio di Stato, vede svanire le sue illusioni circa il ruolo affratellante della cultura e dell’arte: quasi tutti i suoi amici letterati, austriaci, tedeschi, francesi e italiani, si schierano su posizioni belliciste e nazionaliste. Nonostante ciò, Zweig continua a credere nella forza della parola e nel 1917, trasferitosi a Zurigo per la rappresentazione di una sua opera, riallaccia i rapporti con Romain Rolland ed altri intellettuali che dalla Svizzera si battono contro la guerra: tipicamente, Zweig se ne distacca quando ritiene che la politica e l’ideologia abbiano preso il sopravvento su quelli che lui ritiene essere gli ideali puri.
Molto bello e altamente simbolico è l’episodio, cui Zweig assiste da una stazioncina di confine, dell’imperatore Carlo d’Asburgo che lascia l’Austria, segnando la compiutezza della fine dell’epoca asburgica, del mondo di ieri.
Il primo dopoguerra segna il pieno successo editoriale di Zweig, che giunge però dopo gli anni dei sommovimenti postbellici e della grande inflazione che colpisce prima l’Austria quindi la Germania. Quale sia il ruolo giocato da Zweig in quel contesto culturale emerge da una frase tratta dal capitolo Di nuovo nel mondo, laddove dice: ”Espressionisti, attivisti ed esperimentisti erano ormai esausti: la strada per arrivare al popolo era di nuovo aperta ai pazienti e ai perseveranti”. Zweig diviene in questo periodo uno degli scrittori più organici all’illusorio nuovo ordine mondiale che – schiacciate (tranne che nell’Unione Sovietica) le istanze rivoluzionarie dell’immediato dopoguerra – sta allegramente spingendo l’umanità verso la crisi del ‘29 e quello che ne seguirà. Rimane fedele al suo non occuparsi di politica ma riprende a viaggiare e a diffondere il valore unificante della cultura europea. Nel primo viaggio dopo la guerra, in Italia, fa la conoscenza con il fascismo, senza tuttavia dargli troppo peso; un episodio importante nell’economia del libro è il viaggio che nel ‘28 intraprende nella Russia Sovietica, dal quale torna con sentimenti ambivalenti.
Come ogni buon borghese, attribuisce l’ascesa di Hitler, di cui a malapena percepisce gli agganci con il sistema militare ed industriale tedesco, ai risvolti psicologici sull’animo tedesco del periodo della grande inflazione, e non alle politiche di rigore (oggi diremmo di austerità) che seguirono il ‘29. Sintomatico è il fatto che mentre alla grande inflazione dedica numerose pagine, il crollo del ‘29, con il suo seguito di disoccupazione e disperazione sociale, non viene neppure sfiorato.
Vivendo a Salisburgo, città di confine, è testimone diretto del primo affacciarsi del nazionalsocialismo, ma rimane anche simbolicamente arroccato – nel suo castello sulle colline – su posizioni elitarie e di un pacifismo che si dimostrerà ancora un volta velleitario. La sua opposizione ad Hitler è data da motivi culturali e dal suo essere ebreo: nessun vero approfondimento del perché la barbarie sia possibile. Alla drammatica agonia dell’Austria negli anni tra il 1933 e il 1938 oppone ancora una volta la convinzione della superiorità della cultura e dell’intelligenza umana, che rendono impossibili una nuova guerra. Nulla ha imparato dal 1914, come emerge simbolicamente dalle evidenziate analogie tra le due estati, ed ancora alla vigilia del 1 settembre 1939, ormai da tempo a Londra, sarà convinto che la guerra non scoppierà.
Da 'Il mondo di ieri' emerge insomma il quadro di un intellettuale che, sia pur dotato di una grande dirittura morale, si rivela inadeguato ad analizzare e comprendere la realtà che lo circonda, di un intellettuale moderato nei toni e nella sostanza della sua opera vissuto in epoche che richiedevano (come sempre, ritengo) piena coscienza e lucidità. Il mondo di ieri è un ampio affresco, ma è a mio avviso un po’ come quegli affreschi dipinti nell’800 nelle chiese romaniche o gotiche, che ci appaiono stridere con il contesto.
Molti anni prima che Zweig descrivesse Vienna come la città dell’arte, la coscienza critica di quella città, Karl Kraus, disse, riferendosi anche al gruppo della Jung-Wien: "Vienna non era tanto la città dell’arte quanto la città par excellence della decorazione". Kraus era sicuramente 'cattivo', ma questa frase da sola denota una capacità d’analisi sconosciuta al buon Zweig.
Indicazioni utili
Musil, Joseph Roth, Doderer, Lernet-Holenia etc.
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Lo specialista idiota, paradigma del mondo di oggi
** Attenzione, anticipazioni sulla trama **
La 'Novella degli scacchi' è probabilmente, insieme a 'Il mondo di ieri', l’opera più nota di Stefan Zweig, e questi due testi, che a mio avviso dovrebbero essere letti in sequenza perché insieme permettono di comprendere compiutamente la personalità artistica e culturale dell’autore, furono anche gli ultimi da lui scritti prima del suicidio suo e della moglie nell’esilio brasiliano, avvenuto nel febbraio del 1942.
Della figura di Zweig, che nel periodo tra le due guerre mondiali è stato uno degli scrittori più noti e tradotti al mondo, credo sia interessante mettere in rilievo la biografia e in particolare i caratteri del suo impegno civile, perché da questo è possibile contestualizzare, e quindi comprendere meglio, le sue opere letterarie, ed analizzare quindi anche il contenuto della 'Novella degli scacchi'.
Zweig nasce nell’ambiente dell’alta borghesia ebraica viennese: il padre era un importante industriale e la madre figlia di banchieri. Sin da giovanissimo si imbeve di un intenso cosmopolitismo, sia perché la Vienna di allora è il crogiolo delle diverse culture che formano l’impero, sia in quanto il suo status economico e sociale gli permettono di compiere numerosi viaggi in Europa e non solo. L’incontro e l’amicizia con Hofmannsthal sono decisivi nella sua formazione poetica, al pari di quello con Rainer Maria Rilke.
Zweig infatti in gioventù fece parte del gruppo della 'Jung-Wien', i letterati che negli ultimi anni del XIX secolo ruppero con le rigide convenzioni della letteratura accademica austriaca dell’800 approdando ai lidi di un modernismo fortemente pervaso delle scoperte della nascente psicanalisi, e di cui facevano parte personalità artistiche affatto diverse, come Arthur Schnitzler, Jacob Wassermann, Hugo Von Hofmannsthal e Karl Kraus (che però se ne distaccò presto, da autentico eretico quale era). Di questo straordinario ed eterogeneo gruppo Zweig incarna, insieme all’amico Von Hofmannsthal, l’animo più nostalgicamente classicista, che pur essendo pienamente consapevole della crisi del positivismo ottocentesco e del suo corrispettivo letterario, il naturalismo, vi oppone il recupero di una purezza e di una precisione di stile che è l’espressione stilistica del ripristino dei vagheggiati valori morali e culturali sui quali era stata fondata originariamente la società borghese nella sua variante asburgica, quella società che verrà spazzata via dalla grande guerra.
Allo scoppio della prima guerra mondiale trova un impiego all’archivio di stato, e dopo un primo periodo di entusiasmo patriottico, si rende conto dell’atrocità del conflitto e assume posizioni pacifiste: passerà un lungo periodo in Svizzera, collaborando con altri intellettuali europei a riviste nelle quali viene predicata la fraternità universale nel nome della comune cultura europea. Il suo impegno si intensificherà dopo la fine del conflitto, quando, rientrato in Austria, guarderà con distacco alle pulsioni rivoluzionarie del primo dopoguerra per diventare come detto, nei successivi e apparentemente più tranquilli anni, uno degli scrittori internazionalmente più noti: membro particolarmente attivo del P.E.N. Club International, sarà amico di moltissimi intellettuali europei, scrivendo e tenendo conferenze sulla necessità di superare i nazionalismi e fondare un’Europa unita della cultura. Dopo l’avvento del nazismo e l’anschluss sarà costretto all’esilio, prima in Gran Bretagna, quindi negli Stati Uniti ed infine in Brasile.
Come emerge da queste scarne note biografiche, il tratto 'politico' che caratterizza Stefan Zweig è il suo cosmopolitismo, basato sostanzialmente sull’idea che la cultura possa essere il collante di una solidarietà sovranazionale che assuma valenze politiche. Questa concezione ideale, sicuramente nobile ma intrisa a mio avviso di un velleitarismo ideologico derivante dall’estrazione sociale dell’autore, sarà smentita dalla Storia per ben due volte nel corso della vita di Zweig. La prima volta quando, allo scoppio della grande guerra, Zweig vedrà la gran parte dei suoi amici letterati austriaci, tedeschi, francesi, belgi, italiani etc. schierarsi senza se e senza ma sugli opposti fronti nazionali, e la seconda quando la barbarie assoluta del nazismo gli entrerà letteralmente in casa. In nessuno di questi due momenti il borghese Zweig riesce ad elaborare una risposta a ciò che sta accadendo basata su una vera comprensione delle cause profonde della realtà che lo aggredisce: si illude che la cultura, in quanto moralmente superiore, possa da sola estirpare il male, che le élites intellettuali europee possano portare il mondo verso nuovi lidi di pace universale. Quando quest’illusione è spazzata via dal rumore degli stivali della wehrmacht che marciano per i viali di Vienna, quando è costretto ad andarsene lungo una strada foscamente illuminata dai falò dei suoi libri e di quelli di tanti altri scrittori, allora la sua risposta sarà ancora più illusoria e nostalgica: non potendo comprendere il perché del mondo di oggi cercherà di resuscitare idealmente il mondo di ieri, quello dell’Austria felix della sua giovinezza, in questo peraltro trovandosi in discreta compagnia.
La 'Novella degli scacchi' appartiene a questo estremo momento dell’elaborazione culturale dello scrittore viennese, condizionato sicuramente dalla sua condizione di esule: pur essendo ambientata nella contemporaneità, è l’estremo tentativo compiuto dallo Zweig narratore di proporci il suo sistema valoriale derivato direttamente dal vecchio mondo asburgico, contrapposto al mondo del suo oggi, in cui i disvalori e la barbarie hanno preso il sopravvento.
La trama della novella è molto semplice. L’io narrante (Zweig) sta effettuando una traversata atlantica; sulla nave vi è anche il campione del mondo di scacchi, Mirko Czentovic, un giovane slavo che, pur essendo un genio della scacchiera, è ottuso, ignorante e venale, come veniamo a sapere dalla sua vita narrata lungo alcune pagine. Incuriosito dalla personalità contraddittoria del campione, il narratore per accalappiarlo comincia a giocare a scacchi con la moglie, ed in breve sulla nave si forma un piccolo gruppo di giocatori. Tra questi vi è McConnor, un ricco scozzese che riesce, grazie all’offerta di un lauto compenso, a convincere il campione a giocare contro di loro. Dopo la prima facile vittoria di Czentovic, uno sconosciuto suggerisce alcune mosse ai dilettanti, rivelando una straordinaria competenza scacchistica, e la seconda partita finisce in parità. Conosceremo quindi la storia di questo avvocato viennese, il dottor B., la cui famiglia da decenni curava gli interessi particolari della curia e dei principali membri della corte asburgica, anche dopo la fine della grande guerra. Sapremo che egli fu arrestato dai nazisti, e come gli scacchi, giocati solo con il pensiero grazie ad un manuale di cui viene in possesso, lo abbiano tenuto in vita durante la prigionia, ma come lo abbiano anche portato alla soglia della pazzia. Nelle ultime pagine del racconto si svolge la drammatica sfida al gioco tra il campione e il dottor B.
La novella, scritta nel classico stile pacato e preciso di Zweig, uno stile che rende bene il carattere moderato che in molti hanno rinfacciato a questo autore, assume in trasparenza quasi il carattere di una parabola allegorica, nella quale sono personificati gli elementi storici e culturali che Zweig in quello stesso periodo stava fissando in forma autobiografica ne Il mondo di ieri.
Innanzitutto, a mio modo di vedere assume una forte connotazione simbolica l’ambientazione sulla nave in mezzo all’oceano, lungo la rotta da New York va a Buenos Aires. Oltre ad essere stata una delle tappe concrete del viaggio dell’esule Zweig, questa nave rappresenta una chiara metafora dell’Europa che egli conosceva e considerava culla di civiltà e del suo andare alla deriva. I pochi protagonisti della novella sono infatti tutti europei: austriaci, anzi viennesi, il narratore e il dottor B., slavo Czentovic, scozzese McConnor.
Vi è poi, come elemento centrale della storia, la totale contrapposizione di personalità tra Czentovic e il dottor B., dei quali le vicende sono narrate in dettaglio al fine di una loro precisa caratterizzazione come tipi che incarnano i poli opposti della 'buona e vecchia Europa' e di quella 'barbara e nuova'. Notiamo quindi che il dottor B. è viennese, è nato al centro del vecchio impero, mentre Czentovic proviene dal Banato, dall’estrema periferia del dominio asburgico. Il dottore appartiene ad una antica e stimata famiglia austriaca, mentre Czentovic è figlio di uno slavo meridionale, povero in canna, battelliere sul Danubio. Ancora, B. è colto, e il suo cruccio maggiore durante la prigionia è di non avere libri e di non poter scrivere, mentre Czentovic non è capace di scrivere una frase senza errori d’ortografia e ”…la sua ignoranza era parimenti universale in tutti i campi”. Tutti gli aspetti della personalità di Czentovic sono descritti con disprezzo da Zweig: Il suo talento per gli scacchi è meccanico, figlio della sua stessa ottusità; è volgare nel vestire, venale ed avaro e ”si lascia ritrarre sulle réclames delle saponette”. Ancora, mentre il dottor B. non ha praticamente mai giocato a scacchi se non con la mente, Czentovic non è in grado di pensare il gioco, tanto che porta sempre con sé una piccola scacchiera pieghevole con la quale provare le mosse.
E’ una contrapposizione, quella tra i due personaggi, che trovo sin troppo manichea, soprattutto in quanto volta a dimostrare quanto eccellenti fossero le virtù del mondo di ieri, quanto in quel mondo allignassero la correttezza morale e la cultura.
Da un lato, a mio modo di vedere, è infatti sicuramente efficace la figura paradigmatica del mondo e dell’uomo nuovo rappresentata da Czentovic, di cui Zweig sa tratteggiare non solo la volgarità, ma anche un carattere che effettivamente assume estrema importanza nella società del ‘900, e la cui coscienza gli era derivata probabilmente dal periodo trascorso negli Stati Uniti: l’affermarsi della specializzazione. Nel nuovo mondo, nell’era della tecnologia e del capitalismo avanzato, non conta più essere colti; conta essere specialisti. Czentovic è un idiota, ma sa giocare benissimo agli scacchi, per cui ha successo, esattamente come perfetti idioti al di fuori del loro campo sono molti degli specialisti che già ai tempi di Zweig, e ancora di più oggi, occupano posti di rilievo in campo scientifico e nella società in generale.
L’alternativa agli Czentovic che hanno portato il mondo verso l’abisso, però, secondo me non può essere il rifugio nel passato rappresentato dal dottor B.: di ciò peraltro era sicuramente consapevole anche Zweig, come dimostra il finale della novella ma come dimostra anche, molto più tragicamente, il suo suicidio pochi mesi dopo avere terminato la Novella degli scacchi. Il problema a mio avviso è che questa non soluzione dimostra come Zweig non avesse compreso le vere cause di ciò che stava accadendo, visto che la sua unica proposta si chiude entro una nostalgia che egli per primo sa essere impraticabile.
Se quindi si deve il massimo rispetto alla figura morale di questo intellettuale integro, che seppe, a differenza di altri, non scendere a compromessi con il potere montante del nazismo, pagando le estreme conseguenze delle sue convinzioni, non si può non sottolineare come queste stesse convinzioni fossero estremamente deboli, frutto di una estrazione altoborghese ed elitaria da cui non seppe mai liberarsi, non capendo mai che le cause vere delle tragedie che stava attraversando erano interne a quel mondo di cui sognava il ritorno, erano anche i frutti diretti del suo mondo di ieri. Eppure, lui così attento ai simboli avrebbe potuto riflettere sul fatto più drammaticamente simbolico che capitò nella sua vita. A Salisburgo, tra le due guerre, Zweig viveva in una vasta casa situata su una collina da cui dominava la città, e nella quale accumulava i pezzi della sua collezione di autografi degli artisti del passato e di mobili a loro appartenuti. Da lì, da quella posizione di privilegio, vedeva non lontane le montagne dell’Obersalzberg, dove un giorno, alla stessa altezza della sua, fu costruita la casa per le vacanze di un signore chiamato Adolf Hitler. I due si potevano quindi in un certo senso guardare negli occhi, e se Zweig fosse stato più attento, avrebbe potuto notare che tra i numerosi ospiti che andavano a riverire l’inquilino del Berghof c’erano anche molti degli appartenenti a quella borghesia industriale di cui egli era figlio, molti di quelli con i quali sperava di ricostruire il suo mondo andato per sempre in frantumi.
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Lucidità di analisi e fascino poetico
Tra le mie infinite lacune letterarie una delle più clamorose, visto l’amore che porto alla letteratura del primo novecento, è data dal fatto che non ho ancora letto alcun romanzo di Virginia Woolf. Eppure i libri sono lì, in libreria: le opere principali acquistate sin da giovane da mia moglie, ed altri pochi volumi da me in anni recenti; prima o poi dovrò decidermi ad Per finire, ancora una volta non posso che lodare questa ormai scomparsa edizione Newton, che associa ad una ottima traduzione di Maura Del Serra una bella introduzione di Armanda Guiducci.affrontare questa imprescindibile autrice. Non so da cosa sia derivata questa sorta di indifferenza per Woolf: forse dal fatto che ho inizialmente concentrato gran parte della mia attenzione sull’area culturale che più mi affascinava da giovane, quella tedesca, e che delle altre ho per lungo tempo inseguito solo i nomi da me considerati maggiori, come Proust o Joyce; per riallacciarmi al contenuto di Una stanza tutta per sé, il motivo profondo può darsi che si possa rintracciare nel fatto che Woolf è una autrice, e che inconsciamente non considerassi la sua letteratura alla stregua di quelle dei grandissimi autori citati prima. È in ogni caso un dato che per lungo tempo l’unico scritto di Woolf nella mia libreria è stato proprio questo volumetto edito da Newton negli anni ‘90, e che ancora oggi non conosco praticamente nulla della scrittrice: che sia proprio io ad avere paura di Virginia Woolf?
Una stanza tutta per sé, pur non essendo un romanzo ma un Per finire, ancora una volta non posso che lodare questa ormai scomparsa edizione Newton, che associa ad una ottima traduzione di Maura Del Serra una bella introduzione di Armanda Guiducci.breve saggio, è tuttavia un’opera molto nota ed importante, anche perché ha rappresentato un testo chiave della (ri)scoperta di Virginia Woolf in chiave femminista, avvenuta negli anni ‘70. Si tratta della rielaborazione del contenuto di due conferenze che Woolf tenne nell’autunno del 1928 in due colleges femminili, sul tema le donne e il romanzo.
Dico subito che si tratta, a mio parere, di un testo splendido, da cui traspare la cultura e la profonda conoscenza della letteratura (in particolare britannica) che Virginia Woolf possedeva, la sua lucidità analitica, il suo stile e la sua capacità di fare letteratura anche in un contesto saggistico.
In poche decine di pagine infatti l’autrice traccia una storia della letteratura femminile inglese che, se è minima quanto a sviluppo quantitativo, è ricchissima di informazioni e spunti di riflessione, tanto da poter costituire anche un utile vademecum per la possibile scoperta di alcune autrici a noi (meglio, a me) sconosciute; analizza con taglio originalissimo, quasi da materialismo marxiano, le cause della mancanza di una vera letteratura femminile e della subalternità culturale della donna in un mondo al maschile; ci offre infine, a guida, corredo ed esemplificazione delle sue analisi, dei piccoli momenti di vita vissuta (o immaginata) che – rappresentando probabilmente un assaggio della sua capacità di scrittura – mi rendono impaziente di affrontarne i romanzi.
Il titolo del saggio deriva dalla tesi di fondo sostenuta da Woolf in merito alla possibilità per una donna di dedicarsi alla letteratura: perché questo accada è necessario che quella donna possieda del denaro che le permetta di vivere decentemente (l’autrice fa uPer finire, ancora una volta non posso che lodare questa ormai scomparsa edizione Newton, che associa ad una ottima traduzione di Maura Del Serra una bella introduzione di Armanda Guiducci.na cifra precisa: 500 sterline all’anno, cifra che il personaggio narrante che ci accompagna riceve grazie all’eredità di una zia) e uno spazio tutto per sé, una stanza dove poter giungere a quella concentrazione intellettuale necessaria alla creazione dell’opera d’arte senza essere continuamente interrotta dalle necessità familiari. Questa insistenza sulle condizioni materiali che devono sussistere per permettere la produzione letteraria, in questo caso femminile, è come detto uno dei tratti caratterizzanti il testo di cui stiamo parlando, e a mio avviso ne costituisce l’elemento di maggiore fascino intellettuale e di maggiore modernità.
Woolf infatti adotta questo metodo di analisi nell’insieme della piccola storia della letteratura britannica che costituisce la parte preponderante del saggio, non mancando comunque di accompagnarlo ad una analisi più psicologica del rapporto tra i sessi nella storia e nella società a lei contemporanea. Constatando la completa mancanza di donne autrici nell’Inghilterra elisabettiana, la fa risalire al fatto che all’epoca le donne, per quel poco che ne tramandano le cronache e ne confermano gli studi storici, erano completamente soggette alla volontà del patriarca, che stabiliva il loro destino sin dalla culla e non mancava di ricondurle alla ragione con mezzi spesso brutali in caso di ribellione. In un bellissimo inserto letterario e didattico, Woolf immagina che Shakespeare abbia avuto una sorella, Judith, come lui attratta dal teatro e dalla poesia. Cosa le sarebbe accaduto, quale sarebbe stata la sua vicenda? L’autrice ci racconta che, mentre il fratello veniva avviato agli studi, Judith sarebbe rimasta a casa e, adolescente, il padre le avrebbe scelto un marito. Quando Judith fosse scappata a Londra per recitare, come William, sarebbe stata considerata nello stesso ambiente teatrale poco meno di una pazza: probabilmente si sarebbe ritrovata incinta di un benefattore e l’unico epilogo possibile sarebbe stato il suicidio: ”si uccise, una notte d’inverno, e venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle.” In questa breve, amara storia Woolf riassume un mondo, i cui tratti costitutivi sono confermanti anche dal fatto che le prime donne autrici britanniche, quando appaiono nel XVII secolo, sono aristocratiche senza figli, in genere considerate eccentriche dai mariti e dalla società, spesso relegate in case di campagna, che scrivono per hobby. Woolf ci introduce poi la figura di Aphra Behn, la prima romanziera inglese, che visse, anche se stentatamente ed emarginata, della sua letteratura alla fine del ‘600.
Una particolare attenzione, in questa piccola storia della letteratura al femminile, è dedicata alle scrittrici del primo ‘800, Jane Austen, le sorelle Brontë, George Eliot. In esse Woolf vede la nascita di una nuova epoca, seppure ancora limitata dal fatto che a queste autrici fosse comunque impedito di avere le stesse esperienze e la stessa indipendenza economica e sociale dei colleghi maschi, come pure di avere una stanza tutta per sé. Proprio a questo fatto, abbastanza curiosamente, Woolf attribuisce la scelta del romanzo come forma espressiva da parte di queste autrici: mentre la poesia richiede concentrazione assoluta, il romanzo meglio si adatta ad essere scritto nel soggiorno comune. Fra queste autrici, il favore di Woolf va a Jane Austen, che avrebbe creato un vero e proprio stile femminile di scrittura.
E’ significativo, per comprendere la portata complessiva che l’autrice attribuisce alla sua analisi, il fatto che ella riporti il testo di un esteso brano di Sir Arthur Quiller-Couch, il quale, partendo dalla constatazione che quasi tutti i grandi poeti degli ultimi secoli erano colti e benestanti, osserva che le condizioni materiali di vita sono il principale ostacolo allo sviluppo di talenti artistici tra le classi inferiori.
Se nel ‘900 una parte significativa delle limitazioni materiali che di fatto hanno impedito nel corso del tempo alle donne di esprimere il loro talento letterario sono state rimosse (mi sento di poter aggiungere almeno nelle classi elevate e medie di una società evoluta come quella britannica) resta il fatto che la società è ancora prevalentemente maschile nella sua organizzazione e nel suo sentire comune.
Apro a questo punto un inciso: può apparentemente fare abbastanza impressione leggere le considerazioni sulla donna ”intellettualmente, moralmente e fisicamente inferiore all’uomo” e altre dello stesso tenore che Woolf riporta da scritti dell’epoca o di poco precedenti, ma non dobbiamo mai dimenticare che ancora oggi, nel nostro paese, tesi simili, magari formalmente edulcorate, hanno ancora piena dignità politica.
L’autrice attribuisce il maschilismo (termine peraltro da lei non usato) della società direttamente all’esercizio del potere e alle sue implicazioni anche psicologiche: per poter legittimare il potere che esercita verso gli altri uomini, l’uomo ha necessità di sentirsi superiore ad almeno la metà dell’umanità, la metà femminile. Non manca un accenno alla misoginia che caratterizza in genere i detentori di potere assoluto, da Napoleone a Mussolini: al regime fascista viene dedicato un preciso spazio, per stigmatizzare, ridicolizzandola, la pretesa di creare un romanzo fascista propugnata da alcuni intellettuali nostrani dell’epoca.
Nella parte finale del saggio Woolf tratteggia quella che dovrebbe essere la nuova letteratura femminile, e la definisce come una letteratura androgina. Sarebbe infatti un errore creare una letteratura contrapposta a quella maschile dominante, che giocoforza avrebbe, specularmente, gli stessi difetti di questa (i suoi strali si scagliano in particolare contro Galsworthy e Kipling): la grande letteratura del passato è stata prodotta dagli autori che hanno fatto collaborare le due metà della personalità che si trovano in tutti noi, quella femminile e quella maschile: Shakespeare, Keats, Sterne, Cowper, Lamb e Coleridge erano androgini, nel senso che nelle loro opere si ritrovano sensibilità non solo prettamente maschili. Proust, da Woolf amatissimo, era fors’anche un po’ troppo donna. Le letterate, ma anche i letterati, del futuro dovranno, secondo Woolf, caratterizzarsi per questa androginia, per questa collaborazione tra elemento maschile e femminile. A questo proposito giova ricordare, per contestualizzare queste affermazioni, sia la storia personale dell’autrice, sia il fatto che Woolf aveva appena dato alle stampe Orlando, romanzo basato proprio sulla esplicitazione dell’androginia come forza creatrice dell’arte.
Come ho detto all’inizio, questo saggio, pur così analitico, non è l’arido atto di una conferenza, ma è guidato da un forte afflato letterario, che si esprime in alcuni bellissimi momenti narrativi. Woolf parla al suo uditorio per bocca di Mary Beton, Seton, Carmichael o come meglio credete, e all’inizio, per illustrare la condizione della donna, narra di una giornata di ottobre ad Oxbridge (la crasi è palese), dove le viene vietato di camminare in un prato (riservato a professori e studenti) e di entrare nella biblioteca universitaria, non essendo stata presentata da un uomo. Tutta la giornata di Mary è descritta con una grazia apparentemente leggera, ma nella quale ogni particolare percepito, ogni sensazione provata – come si addice ad una delle maestre del monologo interiore – assume un preciso significato per delineare un quadro complessivo, in questo caso di carattere culturale. In altri momenti seguiamo Mary al British Museum mentre consulta testi di storia sociale e della letteratura, ed infine, in quello che è il passo secondo me più bello ed anche significativo dal punto di vista letterario, l’idea della necessaria collaborazione tra maschile e femminile le viene osservando dalla finestra, in un momento di sospensione quasi magica del trambusto londinese, un uomo ed una donna che salgono su un taxi. Come all’adorato Marcel basta una sconnessione del lastricato per avere la certezza della necessità di scrivere la sua opera, a Mary/Virginia basta osservare due giovani che salgono insieme su un taxi per avere la certezza della necessità dell’androginia quale elemento fondante la letteratura.
Una stanza tutta per sé è un testo bellissimo, che non a caso ha rappresentato molto nell’evoluzione del pensiero femminista. E’ un testo in cui, al di là di alcune ingenuità, Woolf esprime la piena coscienza che sono le condizioni materiali di vita a determinare lo sviluppo delle facoltà intellettuali dell’individuo, e non viceversa, come ancora oggi a volte si tende a far credere. Se il sapore politico di questo saggio è quello che lo domina, non è però meno importante il suo spessore poetico, che lascia intravedere le grandi qualità letterarie della scrittrice regalandoci alcune pagine che sono delle autentiche chicche.
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La kakania di Franz Werfel
L’edizione italiana di questo racconto lungo di Franz Werfel, edita da Guanda, racchiude un piccolo mistero. Il racconto in tedesco si intitola infatti 'Das Trauerhaus', che può essere tradotto approssimativamente come La casa del dolore o La casa del lutto: perché questo titolo sia divenuto, nella traduzione di Cristina Baseggio, 'Nella casa della gioia', sovvertendo di fatto il titolo originale, non sono proprio riuscito a spiegarmelo. Né è possibile dedurlo dalla lettura del libro, visto che non è dotato di alcuna pre- o postfazione né di commenti e note. Dato quanto il racconto ci dice, credo che il titolo originale sia molto più pertinente di tale, a mio avviso arbitraria, traduzione.
A parte questo, ed a parte alcune imprecisioni nella traduzione – la più vistosa delle quali è quella di aver tradotto la battaglia di Bílá Hora come battaglia sul Monte Bianco, con il risultato di far presumere al lettore sprovveduto che si sia trattato di uno scontro alpino – bisogna veramente essere grati all’editore e alla traduttrice per avere permesso ai lettori italiani di conoscere questa opera di Werfel, poco frequentata – a giudicare dal numero di edizioni – anche nei paesi di cultura tedesca.
Eppure 'Das Trauerhaus' non credo si possa dire rappresenti un’opera marginale nell’ambito della produzione letteraria dell’autore praghese: apparso per la prima volta nel 1926, è il racconto con il quale Werfel si cimenta con uno dei 'topoi' classici dei letterati di area austriaca nati e vissuti per una parte significativa della loro esistenza prima della grande guerra: quello del 'finis Austriae'.
Werfel, che come detto non era viennese ma di Praga, che subito dopo il conflitto fu esponente di punta del primo espressionismo, tratta – come vedremo – questo tema di sbieco, da una prospettiva periferica e non priva di una buona dose di ironia, ma sta di fatto che anche lui – forse inevitabilmente alla luce del dopo che stava vivendo, non sfugge alla tentazione di rievocare con una certa dose di nostalgia il 'mondo di ieri'.
Il racconto si svolge per la maggior parte durante una sola giornata, o meglio una serata, all’interno della casa di piacere più rinomata di una città dell’Impero, che seppure mai nominata è sicuramente Praga. Non sarà però una serata qualunque, perché al suo culmine giunge la notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte. È quindi una serata speciale quella che Werfel ci racconta, esattamente quella che – simbolicamente – ha segnato la fine del mondo austroungarico.
Werfel è però pienamente cosciente che quel mondo era già finito e che le sue istituzioni, i suoi immutabili cerimoniali erano solo, nel 1914, delle vuote ed anacronistiche rappresentazioni, e ce lo dice sin dal primo, brevissimo capitolo introduttivo alla narrazione di quella serata e delle sue conseguenze, laddove annota: ”Nella nostra città ci furono fin nel cuore della guerra tre istituzioni, che conservarono intatte questo carattere solennemente officioso: la pasticceria Stutzig, la scuola di ballo che il signor Pirnik aveva stabilita in un bel palazzo barocco vicino al celebre ponte […] e questa casa…”. Dunque, prima ancora del crollo finale e formale, le uniche istituzioni che sopravvivono sono quelle che ancora oggi ci restituiscono l’immagine da cartolina dell’Impero, della Vienna felix: la pasticceria e i balli. A queste si aggiunge il bordello, luogo sicuramente meno celebrato ma ancora più centrale, in quanto specchio della società del tempo, delle sue divisioni di classe e delle sue ipocrisie, ma anche della sua capacità di essere ancora capace di solidarietà e umanità. Werfel infatti afferma, in un passaggio di grande ironia intrisa di nostalgia, che il bordello di Via dei camosci, centro della sua storia, ben avrebbe meritato, per lo stile del suo arredamento, per il livello della sua clientela, di fregiarsi dell’appellativo k.u.k.; poco oltre – a testimonianza dell’importanza simbolica di questo luogo – ci informa che delle tre istituzioni sopra citate fu l’ultima a scomparire.
Nella casa di Via dei camosci, come detto la più rinomata e lussuosa della città, ci sono due stanze di ritrovo: la sala grande e la sala azzurra. Nella prima si ritrova la gente comune: sottufficiali e soldati, commercianti ebrei e piccoli borghesi, studenti ed intellettuali. La sala azzurra, nella quale vige l’obbligo dello champagne, è frequentata ”dalle autorità più eminenti, dall’alta aristocrazia e dai pezzi grossi della finanza e dell’industria”. Per i clienti di più alto lignaggio c’è anche il separé giapponese, ancora più segreto e inaccessibile. Anche nella geografia della casa si riproduce quindi la separatezza della società austroungarica, la lontananza delle classi dominanti dalle altre: questa separatezza, che Werfel ci presenta subito, è accentuata dal fatto che durante il racconto non penetreremo mai nella sala azzurra e nel separé, non incontreremo mai uno dei loro ospiti, limitandoci a percepire a tratti i suoni indistinti che da essi ci giungono.
Nella sala grande, l’unica in cui noi lettori comuni siamo ammessi, troviamo le ragazze e i clienti della casa, la Signorina Edith, direttrice della casa ed il pianista Nejedli; più tardi fa la sua comparsa anche il Signor Maxl, proprietario della casa. I clienti sono seduti a tavoli differenti, a seconda del gruppo sociale a cui appartengono.
Nella caratterizzazione di questi personaggi Werfel rivela tutte le sue capacità di grande autore teatrale e riappare prepotente la scuola espressionista di cui era stato maestro. Nelle pochissime pagine del secondo capitolo, con tratteggi affilati, Werfel ci presenta, attraverso gli occhi di Ludmilla – la giovane prostituta protagonista di questa storia comunque corale – occhi che passano da un gruppo di persone ad un altro come il movimento di una cinepresa, una vera antologia della società praghese e asburgica dell’epoca: dal giovane tenente Kohout, che narrando della sua ignoranza della Storia all’esame di allievo ufficiale conclude: ”Bisogna essere militari, non borghesi, questo è l’essenziale!”, al provinciale e volgare baalboth, ammiratore dell’ordine tedesco, che sbraita: ”Organizzazione, signor Kraus, organizzazione!”, ai quali si aggiungeranno il mite e colto dottor Schleissner, il Presidente della società spinoziana nonché venditore di lapidi Moré, l’impiegato e poeta von Peppler. Werfel ci presenta inoltre ciascuna delle ragazze, anch’esse caratterizzandole magistralmente, ed alle quali dedica in generale uno sguardo più benevolo che ai clienti, come pure benevolo è il trattamento che riserva alla direttrice della casa, premurosa e materna verso le 'pensionanti'. Tra queste ultime emerge sicuramente la figura di Ludmilla, ragazza ingenua e animata da buoni sentimenti, innamorata di un giovane attore di belle speranze che tuttavia sa perfettamente non potrà mai amarla e che anzi la inganna e la illude. Ludmilla ci sembra l’unico personaggio totalmente positivo del racconto, ma vedremo come questa caratterizzazione sarà giocata da Werfel per dare più forza all’amaro, icastico finale.
Le due figure più forti del libro, quelle in cui la vena espressionistica di Werfel riemerge in tutta la sua potenza, sono comunque quella del vecchio pianista Nejedli e del Signor Maxl. La loro caratterizzazione fisica e morale, la lucida e crudele pietà che Werfel dimostra per questi due emarginati sono momenti di grande letteratura. La storia di Nejedli, ex 'Imperial Regio fanciullo prodigio' con un parrucchino di colore diverso dai suoi residui capelli, che ormai con le dita rattrappite non sa più che strimpellare al piano tre motivi, oltre a essere bellissima e struggente permette a Werfel di affondare il coltello sulla stupidità dei monarchi. La rapida apparizione del Signor Maxl, stanco e malato perché dorme troppo in fretta ma che sa difendere strenuamente l’onore della sua casa dalla volgarità del 'baalboth' (significativamente l’unico personaggio del racconto senza un nome proprio) è degna di un’opera di Brecht.
Proprio il Signor Maxl diviene il protagonista suo malgrado della seconda parte del racconto, perché – anche a causa dello stress accumulato nello scontro con il 'baalboth' – muore d’infarto quella stessa notte, mentre si diffonde la notizia dell’assassinio dell’erede al trono.
L’inizio della fine dell’Impero coincide così con l’inizio della fine della casa, che nei giorni successivi vede i suoi velluti, gli specchi e gli ori coperti da drappi neri per l’allestimento della camera ardente, le porte aprirsi anche di giorno per la veglia, e l’orazione funebre pronunciata, per caso, dal Presidente Moré. Con mirabile ironia, Werfel nota però che per quanti sforzi si fossero fatti bruciando incenso, non si era riusciti a togliere dall’atrio della casa ”quell’odore di acqua da bagno calda, in cui si è versato del profumo, di spuma di sapone, di vaselina, di crema per la pelle, di belletto, di sudore, di alcool e di cibi drogati” che lo caratterizzava, e che rimandava – pur nell’eccezionalità della circostanza – a ciò che la casa realmente era. Molto belli e significativi, oltre che divertenti, sono anche i passaggi dedicati alla difficoltà di allestire una cerimonia funebre per un ebreo convertitosi, ma non ufficialmente, al cristianesimo.
Il farsesco dramma giunge al suo compimento. Veniamo informati che la casa fu rapidamente chiusa dagli eredi del Signor Maxl ed ora è occupata dalla vicina cuoieria, per cui anche il suo caratteristico odore è stato sostituito da quello di pellami bulgari. Questo 'ora' è quello della prima repubblica cecoslovacca, dove da un lato vige un nuovo puritanesimo che ha vietato i bordelli e dall’altro si fanno avanti i nuovi santuari del piacere, le sale da ballo, i locali notturni, le luci della città moderna. Ritroviamo Ludmilla moglie di un potente politico: non è propriamente grassa, ma ”nella lotta col doppio mento pare che il doppio mento voglia essere vincitore.”. Quando incontra qualcuno appartenente al suo passato semplicemente non lo riconosce, perché quel passato, altrettanto semplicemente, per lei non esiste.
E’ questa la bella chiosa di questo splendido racconto, nel quale Werfel oscilla tra la nostalgia per un mondo che ha vissuto in giovinezza e la coscienza che quello era comunque un mondo chiuso, con grandi meschinità individuali e sociali, e che ha portato alla catastrofe un intero continente. Werfel però non fa sconti neppure al mondo nuovo, di cui intuisce la continuità di fondo con il vecchio e la fragilità ideale: egli scrive 'Nella casa della gioia' in momenti nei quali le drammatiche illusioni dei primi anni dopo la guerra sono ormai svanite: usa una prosa rassegnata, nella quale gli scatti ironici ed espressionisti gli servono per mostrarci tutto il suo disincanto sia per il mondo di ieri sia per quello del suo oggi. Dense nubi già si profilavano all’orizzonte di quell’oggi, ed in questo senso il racconto di Werfel, distaccandosi dal tono di una nostalgia acriticamente apologetica dell’universo di kakania, frequente in altri autori del periodo, ma limitandosi ad una nostalgia esistenziale, ci aiuta a capire dove quelle nubi si fossero originate.
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Nel solco di Gogol’...
... I racconti di un grande intellettuale sovietico
Un oscuro scritturale militare alle prime armi, durante la copia di una ordinanza che deve essere sottoposta all’imperatore compie degli errori: dà per morto un tenente che non lo è affatto e invece di scrivere ”i sottotenenti summenzionati Stiven, Rybin e Azanceev vengono destinati…” scrive ”i sottotenenti Summenzionato, Stiven, Rybin e Azanceev vengono destinati…”. L’ordinanza viene sottoscritta dall’imperatore e l’inesistente sottotenente Summenzionato inizia ad avere una sua propria vita, mentre il tenente Sinjuchaev si ritrova ad essere morto a tutti gli effetti.
Si potrebbe legittimamente pensare che l’autore di un racconto con un inizio così folgorante e paradossale sia Gogol’. Invece 'Il sottotenente Summenzionato' è uno splendido racconto di Jurij Tynjanov, critico, storico e scrittore sovietico vissuto tra il 1894 e il 1943, uno dei massimi rappresentanti del formalismo russo.
Il volumetto edito da Sellerio per la prima volta nel 1986, ed ancora fortunatamente disponibile a catalogo (anche se i maggiori siti di vendita online lo danno come momentaneamente non disponibile), ci presenta, oltre a quello che gli dà il titolo, anche un altro racconto di Tynjanov facente parte del cosiddetto Trittico degli imperatori: 'Il giovane Vitušišnikov'. Abbastanza incomprensibilmente, considerando l’unitarietà che l’autore aveva attribuito ai tre racconti, il volume tralascia il terzo, 'La figura di cer'a, del quale esistono una traduzione italiana edita da Voland solo l’anno scorso ma già esaurita ed una del 1986, – Editori Riuniti – rintracciabile nei siti dell’usato con il titolo 'Persona di cera'.
Come detto, Tynjanov è stato, oltre che scrittore di (pochi) romanzi e racconti, un critico della letteratura ed un attento analista della Storia russa, particolarmente del periodo che va dal regno di Pietro il Grande alla prima metà dell’800. Oltre a ciò collaborò con i principali registi cinematografici sovietici dell’anteguerra, scrivendo numerose sceneggiature. Questa sua dimestichezza con il linguaggio cinematografico si percepisce appieno nei due racconti, sia nei brevi periodi che Tynjanov impiega per inquadrare le azioni e i pensieri dei vari personaggi, che danno proprio l’idea della tecnica del montaggio, sia in alcuni brani in esterno in cui sembra proprio che una cinepresa segua in soggettiva lo svolgimento dell’azione.
'Il sottotenente Summenzionato' è sicuramente il racconto più divertente dei due, ed è unanimemente considerato il capolavoro della produzione letteraria di Tynjanov. La vicenda è ambientata ai tempi del regno del reazionario e volubile Zar Paolo I Romanov, figlio di Caterina II la Grande, che si dedicò in gran parte a distruggere i risultati della politica illuminista dell’odiata madre e che morirà nel 1801 assassinato da una congiura di palazzo. Per scrivere questo racconto, come per gli altri del Trittico, Tynjanov si basò su un aneddoto e sull’utilizzo minuzioso di fonti e documenti storici.
Come detto sopra, la vicenda trae origine dall’errore di uno scritturale. Siamo però in tempi di assolutismo e di autocrazia, e l’ordinanza contenente gli errori, una volta sottoscritta dallo Zar, non può più essere messa in discussione. E’ così necessario che il sottotenente Summenzionato esista, come è altrettanto necessario che il tenente Sinjuchaev sia morto. Gli alti funzionari della corte che entrano nella vicenda, generali e ministri, per servilismo, idiozia, vigliaccheria o per tornaconto personale non si azzarderanno a mettere in discussione queste verità sancite dalla firma reale. Così la vicenda si snoda, con un andamento paradossale che contiene una fortissima carica satirica sancita anche – come detto – dal peculiare stile di scrittura del formalista Tynjanov, attorno ai tre personaggi principali. Lo Zar, rinchiuso nel suo palazzo di Pietroburgo, un idiota alle prese con le sue insicurezze, comprese quelle sulla sua nascita, del quale ogni gesto viene interpretato, da sottoposti dei quali il servilismo è il tratto fondamentale, come foriero di fortuna o di disgrazia nell’incessante lotta per il potere e per la sua conservazione. Il tenente Sinjuchaev, che da buon militare non discute la notizia di essere davvero morto, e comincia a vagare a piedi per l’impero sino a dissolversi come sabbia. E il sottotenente Summenzionato, che dopo essere stato mandato in Siberia perché allo Zar era stato fatto passare come l’autore di un’incursione notturna sotto le sue finestre, viene da questi perdonato e dato in sposo ad una ex amante dell’imperatore, per essere il padre del bambino che essa attende, e – protetto dalla benevolenza imperiale – fa una rapida carriera sino a morire generale. Fantastica, nella sua coerente incoerenza e nella sua platealità di ispirazione cinematografica, la scena del funerale solenne, con la moglie in lacrime dietro il feretro di un marito che non ha mai avuto (e che per questo le faceva molto comodo), il reggimento che sfila con le bandiere ripiegate e lo Zar, che – stagliandosi solo ed a cavallo sul ponte del suo palazzo – sguaina la spada ed esclama ”Muoiono i miei uomini migliori!”.
Ovviamente il livello interpretativo più immediato rispetto a questo piccolo capolavoro è legato alla critica alla stupidità del potere costituito e della sua burocrazia, all’assurdità e alla crudeltà dell’autocrazia zarista, basata sulla volontà, spesso instabile e comunque autoreferenziale, di una sola persona.
Vi è però a mio avviso un livello ulteriore di interpretazione del testo, che fa riferimento al ruolo di Tynjanov critico letterario formalista e studioso di storia. Tutto il racconto è infatti basato sulla contrapposizione tra i documenti e la realtà dei fatti, e su come i fatti vengano piegati alle necessità dei documenti. E’ un documento che dà la vita al sottotenente Summenzionato e fa morire il tenente Sinjuchaev, è attraverso documenti che quasi sempre si esprime al volontà dello Zar che perpetua nel tempo l’assurda situazione creatasi, e sarà sempre un comunicato ufficiale che attribuirà, nelle righe finali, ad un colpo apoplettico la morte dello Zar in realtà assassinato. Il racconto, che è del 1927, traspone quindi in forma letteraria il dibattito sul rapporto tra significante e significato che forma uno dei cuori della critica formalista e del nascente strutturalismo. Il sottotenente Summenzionato mette alla berlina, in modo estremamente efficace e divertente, la pretesa di attribuire più importanza al segno rispetto a ciò che questi rappresenta, e sottolinea la necessità di mantenere un atteggiamento critico: nella breve prefazione ci viene detto che Tynjanov faceva infatti notare come molti documenti mentono come gli uomini.
Forse meno riuscito, rispetto alla folle linearità del racconto precedente, è 'Il giovane Vitušišnikov' (edito nel 1933). Ambientato ai tempi dello zar Nicola I Romanov, attorno al 1840, narra di un piccolo episodio, l’interlocuzione tra lo Zar ed un adolescente, che viene trasfigurato per magnificare la figura del sovrano. La carica satirica sta proprio nell’insignificanza dell’episodio, ed in generale di tutte le vicende che sono raccontate, che tuttavia assumono, per i meccanismi stessi del potere autocratico, la valenza di questioni di stato. Così, all’inizio del racconto, lo Zar che sente più che mai il bisogno di un’attività di stato, esce di palazzo per andare a controllare la dogana e per verificare se i paracarri che aveva ordinato fossero collocati in una strada di Pietroburgo siano effettivamente al loro posto; durante questa uscita – nella quale ancora una volta la maestria cinematografica di Tynjanov emerge nel piano sequenza dello Zar che commenta ciò che vede dalla sua slitta – nota due soldati che entrano in un’osteria (cosa proibita dal regolamento) e decide di intervenire per porre fine personalmente all’infrazione. Non riuscirà a capire cosa sia veramente accaduto e scatenerà le sue ire sull’ostessa e sul proprietario dell’osteria: un ragazzo, il giovane Vitušišnikov del titolo, lo trarrà d’impaccio rispetto ad una situazione che avrebbe potuto renderlo ridicolo. Inizia così un’avventura che rischierà d’avere – per la stupidità dei personaggi coinvolti ma anche per l’automatismo dei meccanismi del potere – conseguenze sulle finanze dello stato e sul suo assetto istituzionale. Anche in questo racconto viene quindi messa in ridicolo innanzitutto la piccola statura morale ed intellettiva dello Zar (che giudica l’infrazione dei due soldati come se si trattasse della rivolta dei decabristi che aveva represso vent’anni prima) e dei vari ministri, ma anche in questo caso vi sono episodi rivelatori di una critica più sottile al ruolo della comunicazione e dell’intellettualità nella formazione del consenso e dell’opinione pubblica. Infatti il piccolo episodio, che avrebbe potuto nuocere alla reputazione dello Zar, viene trasformato in una prova della sua vicinanza al popolo grazie al soccorso di uno scrittore e della sua rivista, che si prestano a riscrivere di sana pianta l’episodio, per celebrare il quale verrà addirittura realizzata una targa marmorea. Molto significativa nella sua caricaturalità è poi la figura del ricco commerciante all’ingrosso di vini Rodokanaki, che mette a nudo come il potere autocratico degli zar fosse in realtà in balia, già a metà del XIX secolo, di precisi interessi economici che potevano condizionarne le scelte. Il finale, nel quale un anziano testimone dei fatti li stravolge per l’ennesima volta molti anni dopo, certifica ancora una volta la difficoltà di comprendere e ricostruire con esattezza la realtà quando questa è piegata a ragioni ufficiali.
Tynjanov scrisse questi due racconti in pieno stalinismo: non fu mai un intellettuale dissidente, anzi collaborò – come detto – con i maggiori registi cinematografici sovietici. Morì a 49 anni non in un gulag, ma di una forma di sclerosi multipla che lo aveva colpito già da giovane. E’ a mio parere indubbio che questi racconti potessero prestarsi ad una lettura in chiave avversa al nascente assolutismo staliniano, ma essi furono regolarmente editi in URSS e Tynjanov continuò ad esercitare la sua attività di intellettuale sino alla morte. Come in altri casi, anche la vicenda di questi due racconti ci dovrebbe far riflettere rispetto alla vulgata oggi dominante, che vede nell’Unione Sovietica un impero del male volto unicamente ad opprimere il popolo e a soffocare ogni forma di dissenso e di libertà intellettuale.
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I formalisti russi
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Solo chi è sicuro di sé...
... può farsi accettare dagli altri
Alla fine della lettura di 'Principessa Casamassima', uno dei romanzi meno noti di Henry James, mi sono trovato a riflettere su come interpretare questo romanzo. Sicuramente sono in grado di dire cosa non è.
'Principessa Casamassima' non è un semplice feuilleton, un romanzo d’appendice, anche se la storia, con i suoi misteri, i suoi personaggi così tipizzati, le atmosfere cupe, l’elemento complottardo lo lascerebbe pensare.
La storia, infatti, potrebbe essere quella di un drammone ottocentesco uscito a puntate su qualche rivista londinese o parigina (ed effettivamente il romanzo uscì a puntate nel 1886 sull’Atlantic Monthly). Il protagonista è Hyacinth Robinson, allevato da una povera sarta ma figlio di un lord inglese e di una prostituta parigina, morta in carcere per avere ucciso il lord dopo essere da questo stata abbandonata.
Hyacinth lavora come rilegatore di libri e entra a far parte di un circolo rivoluzionario socialista. Diventa amico di Paul Muniment, chimico e uno dei leader del gruppo. Una sera, a teatro, dove ha portato la sua quasi fidanzata Millicent, viene inaspettatamente invitato nel palco di una gran dama di origini italiane, la Principessa Casamassima, che vuole "conoscere il popolo". Tra i due nasce un rapporto quasi amoroso (dalla lettura non si capisce bene se divengano amanti) e la principessa diviene una fervente socialista, tanto da donare i suoi beni alla causa e andare a vivere in un modesto appartamento. L’evoluzione del pensiero di Hyacinth è opposta: egli, entrato in contatto con il lusso e dopo un viaggio a Parigi, inizia a staccarsi dal movimento, a non credere più nella rivoluzione, a volersi rifugiare nel suo amore per la Principessa, che gli appare come un essere superiore, una specie di angelo. Purtroppo la Principessa, che invece ora vive soltanto per la causa rivoluzionaria, inizia a perdere interesse per il suo tormentato amico e a preferirgli Paul Muniment, sicuramente più tetragono e determinato.
Hyacinth però non può staccarsi dal suo passato rivoluzionario perché si è impegnato a compiere un attentato quando i capi decideranno che è il momento di agire. Vive quindi la contraddizione tra il dover adempiere alla parola data e il non credere più agli ideali per cui l’aveva data, ed il dramma di vedersi progressivamente isolato dalle persone in cui credeva. Non svelo il finale, ma già da questi scarni elementi (nel romanzo vi sono in realtà tutta una serie di personaggi e situazioni di contorno che lo rendono complesso e articolato) si può vedere come gli elementi del feuilleton ci siano tutti. Probabilmente era proprio questa anche l’intenzione di James, quella di scrivere un romanzo che incontrasse il favore del pubblico (che gli mancò) grazie ad una trama che mescolasse miseria e nobiltà, grandi ideali e meschinità umane. James era però scrittore troppo raffinato, troppo cesellatore per potersi limitare ad un romanzo d’appendice. La prosa Jamesiana si snoda così lungo le 500 pagine fitte fitte di questa edizione Garzanti con quel suo tipico andamento asimmetrico, fatto di dialoghi diretti e di lunghe pause di riflessione, nelle quali descrive i pensieri e gli stati d’animo dei protagonisti con un periodare lento, fatto di incisi e subordinate, che mal si accorda con le esigenze del pubblico, come anche alcune recensioni moderne reperibili sui social media letterari dimostrano.
Principessa Casamassima non è neppure un romanzo volto ad analizzare e a denunciare la condizione materiale della classe operaia nella Londra di fine ‘800 o volto a descrivere l’azione del movimento rivoluzionario a cui una buona parte di tale classe aderiva. Troppo lontano da James, ricco americano anche se trapiantato in Europa, era il sentire di quella classe, troppo distanti dal suo mondo i sentimenti e le sofferenze di quella fetta d’umanità, sfiorati probabilmente solo dal finestrino di una carrozza mentre andava dal club ad un ricevimento. Nella letteratura di James, del resto, non è in generale presente alcun intento di critica sociale. Viene in mente 'L’agente segreto', scritto più di vent’anni dopo dall’amico Joseph Conrad, romanzo diversissimo ma che ha in comune con Principessa Casamassima l’ambientazione in quelli che i due autori ritenevano essere i gruppi rivoluzionari. In James per la verità c’è un po’ più di analisi delle condizioni oggettive di vita, dell’ingiustizia sociale, e non prevale in assoluto, come in Conrad, una visione complottistica del movimento. Tuttavia il quadro che ne esce è sicuramente artefatto, e l’ambientazione è a mio avviso per James solo un pretesto, un brodo di coltura perfetto, ancorché non percepito nella sua essenza, per far emergere ciò che lui vuole davvero raccontare, cioè la storia di Hyacinth, il suo essere diverso da chi lo circonda, il suo essere fondamentalmente alieno rispetto ai meccanismi sociali ed alle pulsioni che regolano le relazioni tra le persone.
'Principessa Casamassima' è quindi a mio avviso il romanzo in cui James, attraverso il personaggio di Hyacinth, mette in campo la sua diversità e le sue contraddizioni, il suo essere un americano europeizzato, il suo essere animale sociale ma al contempo isolato e incapace di una relazione stabile, il suo essere (forse) omosessuale senza (forse) confessarlo neppure a sé stesso.
Analogamente Hyacinth ha una personalità mezza inglese e mezza francese, mezza nobile e mezza plebea, non è certo delle sue idee, subisce il fascino della nobiltà della Principessa ma al contempo coltiva la relazione con la splendida piccolo-borghese (per come è tratteggiato il personaggio) Millicent, cerca insomma di farsi accettare dalle persone con le quali stabilisce una relazione. In un mondo in cui però ognuno agisce solo per raggiungere i propri obiettivi personali, in cui ognuno è certo di dove vuole arrivare, in cui viene apprezzata la capacità di agire, egli è visto come un incerto, un debole, un uomo insignificante (James ce lo descrive infatti come piccolo di statura), e per questo si troverà escluso, abbandonato da tutti.
La marginalizzazione del protagonista è in qualche modo avallata dallo stesso James, che sceglie di non intitolargli il romanzo, e questo è singolare se si pensa a quanto strumentale e 'fumettistica' sia la figura della Principessa rispetto alla potenza psicologica di quella di Hyacinth: mi pare di scorgere in questa scelta la volontà di attirare attenzione da parte del pubblico – quell’attenzione che gli mancherà costantemente – con un titolo altisonante ed evocativo, proprio nel romanzo che sembra metaforicamente certificare la sua marginalità letteraria.
Anche se Principessa Casamassima non è tra i romanzi più riusciti di James (molti critici lo hanno nel corso del tempo stroncato) credo che valga la pena leggerlo, per approfondire la conoscenza di questo solitario sociale, di questo ricco signore americano che ha contribuito a traghettare la letteratura europea verso le temperie novecentesche. L’edizione Garzanti, che pure non facilita la lettura con i suoi piccoli caratteri, ha il pregio di contenere l’usuale introduzione, affidata a Franco Cordelli, che ho molto apprezzato quanto a chiarezza e contenuto.
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L'Agente segreto di Joseph Conrad
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La disperazione dell’uomo e la forza...
... dell'intellettuale in una lettera dall'inferno
'De profundis' è il disperato lamento di un intellettuale incarcerato, che è stato condannato ai lavori forzati, al quale sono stati confiscati e venduti per bancarotta tutti i beni, che non ha più diritti sulle proprie opere e che non si riprenderà più, morendo di fatto in esilio, appena quarantaseienne, tre anni dopo essere uscito dal carcere. Cosa sia accaduto a Wilde lo credo noto a tutti, anche perché costituisce la trama di un bel film uscito circa 20 anni fa per la regia di Brian Gilbert, 'Wilde', con la straordinaria interpretazione di Stephen Fry.
Per comprendere appieno il contenuto di 'De profundis' è tuttavia necessario riassumere per sommi capi i fatti che portarono Wilde in carcere. Nei quattro anni precedenti il fatale 1895 Wilde ha una tormentata relazione con Alfred Douglas, detto Bosie, un giovane rampollo dell’alta nobiltà inglese dedito all’arte (scrisse soprattutto poesie). La relazione andò avanti tra continue rotture, dovute agli eccessi di Bosie, che viveva nel lusso sulle spalle economiche di Wilde e organizzava spesso veri e propri festini con giovani gigolò (cui peraltro anche Wilde partecipava), e sofferte riappacificazioni. Nel febbraio del 1895, subito dopo la prima di 'The importance of being Earnest', il padre di Bosie, Lord Queensberry, personaggio intriso di machismo e di carattere violento, che aveva già messo in atto azioni per sabotare l’opera di Wilde, considerato la causa della corruzione sessuale del figlio, consegna in pubblico a Wilde un biglietto aperto in cui lo accusa di atteggiarsi a "somdomite" (l’errore è rimasto famoso). Bosie, che vede nell’episodio un’occasione per vendicarsi dell’odiato padre, induce Wilde a fargli causa. Grazie a testimoni foraggiati ed anche alla imperizia di Bosie che lascia in giro lettere scrittegli da Wilde, Queensberry riesce a dimostrare che non solo Wilde si atteggia, ma che è sodomita. Wilde si trasforma da accusatore in accusato, visto che all’epoca la "gross indecency" è punita in Gran Bretagna con pene sino a due anni di lavori forzati, ed al termine di due processi viene condannato al massimo della pena, con il giudice che si rammarica perché questa è troppo mite. Mentre è in carcere Queensberry gli intenta anche una causa civile perché Wilde non è in grado di rinfondergli le spese processuali, e così lo scrittore, che ha anche altri debiti, viene dichiarato insolvente e tutti i suoi beni vengono venduti; inoltre la moglie chiede il divorzio e gli sottrae la potestà sui figli. Wilde sconterà per intero la pena e, come detto, appena uscito di prigione il 19 maggio 1897, si imbarcherà per Dieppe e non farà più ritorno in Gran Bretagna, morendo a Parigi il 30 novembre 1900.
E’ durante la sua reclusione nel carcere di Reading, nei primi mesi del 1897, che Wilde scrive 'De profundis'. Il testo non è scritto per essere dato alle stampe: è una lettera a Bosie, probabilmente la più lunga lettera mai scritta (la compongono circa 50.000 parole), e Wilde, che non poteva mandare lettere dal carcere, la affida al momento del rilascio a Robert Ross, uno dei pochi che gli siano rimasti amici, pregandolo di farne una copia e di mandare l’originale a Bosie: sembra che quest’ultimo neppure l’abbia letta. Un lungo estratto della lettera fu pubblicato da Ross nel 1905, ed è in quell’occasione che allo scritto venne dato il nome con cui è oggi noto; solo nel 1962 viene pubblicato il testo definitivo.
Proprio il fatto di non essere uno scritto destinato al pubblico rende il De profundis un documento straordinario per la sua verità, anche se si tratta – ovviamente – di una verità parziale, plasmata dalle terribili condizioni psichiche e fisiche in cui si trovava l’autore e condizionata dal fatto che chi scrive è parte in causa. Il tratto dominante della lettera è il cambio di prospettiva sia umano sia artistico cui Wilde è pervenuto in seguito all’esperienza carceraria, il fatto che questo tremendo periodo della sua vita gli abbia permesso di rivedere criticamente il suo passato, e di basare su questa revisione critica le residue possibilità che gli rimangono di fondare il suo futuro. Nell’ultima pagina infatti dice: "Davanti a me, ora, ho il mio passato. Devo riuscire, ora, a guardarlo con occhi diversi, a far sì che il mondo lo guardi con occhi diversi."
A questo processo di revisione (nel senso letterale di nuova visione) della sua vicenda umana e artistica Wilde dedica tutta la lettera, che può essere scomposta in alcune parti ben definite.
La prima metà è dedicata alla ricostruzione della sua vicenda con Bosie: è sostanzialmente un lunghissimo atto di accusa nei confronti dell’amante, che prende le mosse dal suo comportamento da quando Wilde è in carcere. Bosie infatti non gli ha mai scritto e non è mai venuto a visitarlo. Wilde ha solo saputo, tramite amici, dell’intenzione del giovane di dedicargli alcune poesie e di pubblicare in Francia alcune delle sue lettere private, senza consultarlo e senza pensare che ciò potrebbe rinfocolare le polemiche intorno all’autore. In questi fatti Wilde vede la prova della inadeguatezza dell’amante, della sua incapacità di capire in profondità la natura del loro rapporto. Ricostruisce con puntiglio le varie tappe della loro relazione e suoi vani tentativi di troncarla, accusando più volte Bosie di essersi approfittato di lui, di aver sempre preteso di essere mantenuto nel lusso, di essere innamorato non tanto di lui quanto del fatto di essere l’amante di una celebrità, di non aver compreso, perché intellettualmente non all’altezza, la grandezza intellettuale ed artistica (della quale Wilde, fedele a sé stesso, è pienamente conscio) del suo compagno e ciò che questa grandezza gli poteva davvero offrire. Lo accusa di egoismo, soprattutto per avere convinto Wilde a far causa al padre, cosa che l’autore legge retrospettivamente come volontà di usarlo per vendicarsi dei torti subiti da parte di quest’ultimo. Ma l’accusa definitiva più volte rivolta a Bosie, è quella di superficialità, che Wilde definisce lapidariamente così: "Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che è compreso fino in fondo, è giusto." E’ un’accusa che Wilde deve sentire come tremenda, perché con essa vengono negate ad Alfred Douglas sia la qualità di artista sia quella di essere in grado di relazionarsi davvero con gli altri.
Questa prima parte della lettera è per noi lettori quasi un prodromo, un antefatto, che ci aiuta a capire, a contestualizzare la situazione in cui si trova Wilde, a comprenderne le radici storiche. Per Wilde invece questa ricostruzione dei fatti svolge probabilmente un ruolo da un lato liberatorio, dall’altro di razionalizzazione del dolore che ha segnato i suoi ultimi anni. Molto umanamente Wilde oscilla, in questa parte, tra atteggiamenti autoassolutori e piena coscienza degli errori commessi: è una sorta di piccola ricerca del tempo perduto composta da chi soffre nella propria carne le conseguenze di quel tempo: senza azzardare improbabili paragoni, ma considerando anche le sottili analogie tra la reclusione di Wilde e quella volontaria di Proust e tra il loro essere entrambi dandy ravveduti, penso che andrebbero meglio analizzati i punti di contatto tra le due opere.
Improvvisamente, circa a metà del testo, all’uomo Wilde, che prevale con la sua disperazione nel ricordo del rapporto con Bosie, subentra l’intellettuale, con la sua forza, anche se essa pure disperata. Una successiva, ampia parte della lettera, è infatti dedicata al ruolo che il dolore, nella sua esperienza concreta, ha assunto per Wilde uomo ma soprattutto artista. Egli, dice, era sempre vissuto nel e per il piacere, cercando di scansare il dolore. Ma oggi si è reso conto che il mondo cammina nel dolore, che il dolore è la vera forza trainante dell’umanità e la fonte dell’arte, e che dolore e bellezza sono intimamente uniti. I suoi compagni di carcere sono più vicini alla verità di qualsiasi artista, perché sanno vivere nel dolore. ”Il piacere è per il bel corpo, il dolore è per la bella anima” e ”ora capisco che il Dolore, essendo la suprema emozione di cui l’uomo è capace, è insieme il modello e il banco di prova di tutta la grande arte”, dice in due bellissimi passi a questo riguardo.
Partendo da questa sua riflessione sul dolore, Wilde dedica quindi particolare attenzione alla figura di Cristo, che identifica come il supremo individualista, il precursore della corrente romantica nella vita, contrapposto in questo alla rigidità, alla fissità ed alla freddezza del classicismo. L’analisi che lungo molte pagine Wilde conduce della figura storica di Cristo, la pungente critica alla vulgata cristiana, appoggiata anche su apparenti paradossi e ribaltamenti di passi del vangelo, ci fanno ritrovare il Wilde artista, nel senso che questa parte della lettera si astrae dalla contingenza di uno scritto privato per divenire un vero e proprio piccolo saggio di critica filosofica. Cristo è il primo romantico perché ci dice di vivere come i fiori, perché percepisce la vita come un flusso, perché ci dice di non preoccuparci troppo degli affari materiali. Egli è anche il primo e supremo individualista perché, a differenza di quanto ci dice la Chiesa, quando insegna a perdonare ai nemici lo fa non pensando ai nemici, ma all’anima di chi perdona; quando dice di donare ai poveri i propri averi ha in mente l’elevazione morale di chi compie questo gesto, più che il beneficio per i poveri.
Cristo come primo romantico e la vita artistica considerata in rapporto alla condotta, su cui Wilde si addentra in alcune riflessioni nelle ultime pagine del 'De profundis', saranno l’oggetto dei suoi futuri lavori, una volta uscito dal carcere. Riuscirà solo parzialmente a farlo, trasfondendo il secondo argomento nella sua ultima, disperata opera, 'La ballata del carcere di Reading'. Tra le altre cose che non riuscirà a fare una volta uscito dal carcere c’è anche il tener fede alla promessa di non rivedere più Bosie, con il quale riallaccerà per alcuni mesi la relazione, tra Parigi, Napoli e la Sicilia. La passione per questo giovane e in realtà mediocre lord, della quale pure aveva così nettamente individuato i limiti e le conseguenze, prevarrà ancora una volta, l’ultima prima della rottura definitiva.
Il 'De profundis', questa sorta di seduta di autocoscienza preproustiana, ci permette di ricostruire dal di dentro la terribile vicenda umana di Oscar Wilde; oggi possiamo aggiungere a questi elementi la consapevolezza che quella vicenda non fu semplicemente privata. Wilde non fu condannato perché omosessuale: l’omosessualità era naturalmente ampiamente diffusa e tollerata nelle classi dominanti, purché non se ne parlasse. Wilde fu condannato in quanto intellettuale, in quanto argutissimo censore delle stesse basi (a)morali su cui si reggeva la società vittoriana. Più volte nel corso degli anni le sue opere furono soggette a censura o a critiche demolitrici; la società che lo adorava lo faceva con un sogghigno feroce, considerando le sue verità dei paradossi o degli scandali, e sarà quella stessa società che lo abbandonerà immediatamente. Il potere costituito non si lasciò scappare l’occasione di infliggere una condanna esemplare a chi aveva osato basare il proprio successo artistico sulla demolizione – tanto più efficace in quanto sarcastica – delle convenzioni sociali da cui traeva la propria forza. La vicenda di Oscar Wilde, in questo senso, è paradigmatica del rapporto tra intellettuali e potere in ogni tempo.
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La "Recherche"
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La nascita del romanzo come anestetico
Circa un anno fa ho recensito 'L’italiano', di Ann Radcliffe, uno dei prototipi del romanzo gotico, scritto verso la fine del XVIII secolo. Ora mi ritrovo ad aver letto, nella stessa benemerita – ma ahimè scomparsa – collana I Classici classici di Frassinelli, il vero antesignano di questo genere di romanzi, pubblicato oltre trent’anni prima: 'Il castello di Otranto' di Horace Walpole.
Walpole, che apparteneva alla grande nobiltà inglese, scrisse il suo romanzo più famoso nel 1764, all’età di 47 anni, quando ormai da 10 viveva nella sua residenza di Strawberry Hill, nei pressi di Londra, e stava trasformandola in un bizzarro maniero neogotico.
La Gran Bretagna, il paese in cui il processo di industrializzazione e di costruzione dei cardini fondativi della società borghese era più avanzato, stava donando alla letteratura mondiale uno straordinario strumento culturale: la novel, il romanzo borghese moderno. Nell’arco della quarantina d’anni immediatamente precedenti il romanzo di Walpole vengono pubblicati alcuni dei capolavori assoluti della narrativa di ogni tempo: il 'Robinson Crusoe' di Defoe è del 1719; Richardson pubblica 'Pamela' nel 1740, Fielding il 'Tom Jones' nel 1749, ed il filotto si completa nel 1760, con la pubblicazione del primo volume del 'Tristram Shandy' di Sterne. A questa incredibile sequenza mi permetto di aggiungere un’opera maledetta, a lungo messa all’indice per il suo contenuto sinceramente pornografico, ma che a mio avviso occupa anch’essa un posto centrale nell’evoluzione del romanzo borghese: 'Fanny Hill' di John Cleland, che è del 1748.
Al cospetto di questi capolavori, 'Il castello di Otranto' è sicuramente un’opera minore, figlia di un autore che si può ben definire un dilettante, dotato di uno spessore narrativo che oggettivamente rimane di parecchie volte al di sotto di quello degli autori sopra citati: eppure questo piccolo romanzo, pieno di ingenuità, assurdo nella trama, che induce spesso il lettore contemporaneo al sorriso piuttosto che al terrore, occupa un suo spazio preciso nella storia della letteratura proprio perché è stato il capostipite non solo di un genere letterario, ma anche e soprattutto – a mio avviso – di un preciso modo di concepire la letteratura come strumento d’evasione, perché nasce proprio per reazione alla funzione sociale svolta dal nascente romanzo borghese.
I grandi romanzi sopra citati hanno infatti come presupposto – con la straordinaria eccezione del 'Tristram Shandy', su cui tornerò – l’idea che la letteratura debba raccontare la realtà: tutte le storie che narrano sono ambientate nella contemporaneità, i protagonisti sono inglesi e le loro vicende sono – anche se in alcuni casi straordinarie – verosimili e calate nella società del tempo. Certo, ciascun autore accentua alcuni aspetti della realtà piuttosto che altri, a seconda del proprio modo di percepirla e del messaggio che intende trasmettere, ma tutti sono accomunati dall’attenzione – tipica del valore dato alla concretezza dalla nascente società borghese – all’epica del reale. Come detto fa eccezione il grande 'irregolare' Sterne, che scardina la forma, la struttura del romanzo realista, utilizzandone però parodisticamente le stesse basi, come farà, su di un altro piano, anche l’altro irregolare, Cleland con il suo 'Shamela'. La base fondativa stessa della novel è la descrizione della realtà, il rifiuto ed il superamento dell’elemento fantastico e cavalleresco che caratterizza invece il romance medievale.
Secondo me Walpole compie essenzialmente ne Il castello di Otranto un’operazione di restaurazione, scrivendo un’opera ambientata nel medioevo, in un paese esotico (l’Italia del sud), nel quale il soprannaturale gioca un ruolo essenziale per determinare la vicenda e i destini dei protagonisti. Resuscita, di fatto, il vestito del romance cavalleresco, calcando la mano sull’elemento misterioso e soprannaturale nella speranza, avveratasi, che questi elementi avrebbero attratto il pubblico. È talmente consapevole di non aderire allo spirito del tempo che nella prefazione alla prima edizione dell’opera le attribuisce origini italiane e medievali. Inventa una dettagliata storia del romanzo, che sarebbe stato stampato a Napoli (in caratteri gotici…) nel 1529 e rinvenuto nella biblioteca di un’antica famiglia inglese: la sua scrittura sarebbe avvenuta tra l’XI e il XIII secolo, e lui ne sarebbe soltanto il traduttore. La prefazione è estremamente interessante anche perché Walpole si lascia scappare, sia pure sempre nell’ambito della finzione dell’opera antica, le vere ragioni per cui ha scritto il romanzo. Dice infatti: ”Allora in Italia le lettere erano in pieno rigoglio e contribuivano a dissolvere il regno della superstizione, all’epoca così vigorosamente attaccata dai riformatori. Non è improbabile che un abile sacerdote abbia cercato di volgere contro gli innovatori le loro stesse armi, e si sia valso della propria abilità di scrittore per rafforzare il popolino negli errori e nelle superstizioni antiche. […] Un’opera come questa ha più probabilità di soggiogare cento menti incolte che non la metà dei libri di controversie scritti dai tempi di Lutero sino ad oggi”. Questo passo rivela a mio avviso come Walpole avesse una piena coscienza del carattere d’evasione del suo romanzo, rappresentando inoltre una lucida analisi della funzione soggiogatrice, anestetica, di questo genere di letteratura, analisi validissima anche oggi. Neppure troppo implicitamente, Walpole ci dice che il suo romanzo nasce come reazione alla modernità.
Nella prefazione alla seconda edizione, visto il successo del libro, l’autore si svela e precisa il suo pensiero, dicendoci che il suo intento è stato quello di fondere in una sola opera il romanzo antico e quello moderno, quello in cui ”tutto era immaginazione e improbabilità” e quello in cui ”si cerca sempre, talvolta con successo, di riprodurre la natura”, nel quale ”le grandi risorse della fantasia sono state arginate da una rigida aderenza alla vita quotidiana”. Leggendo il romanzo, tuttavia, si ha la netta sensazione che questa fusione sia avvenuta utilizzando a piene mani la materia prima del romanzo antico, e solo poche briciole di modernità.
In questa seconda prefazione Walpole a mio avviso si allarga un po’, paragonando la sua opera a quella di Shakespeare e polemizzando con Voltaire. Lo fa comunque a proposito di una questione non secondaria in letteratura, vale a dire la compresenza, in una stessa opera, di toni tragici e comici. Uno dei tratti caratterizzanti 'Il castello di Otranto', infatti, è il ruolo comico attribuito ai domestici e ai famigli dei protagonisti: nei dialoghi in cui compaiono, interrogati dai loro padroni a proposito di ciò che sanno o hanno visto, si rivelano immancabilmente impacciati e prolissi: questi dialoghi fanno da contrappeso al tono aulico ed ufficiale che i personaggi principali usano tra loro, all’inverosimiglianza della maggior parte dei fatti narrati, e costituiscono probabilmente, nelle intenzioni di Walpole, un elemento concreto di quella mescolanza di antico e moderno che rivendica come tratto essenziale del suo romanzo. Si tratta indubbiamente dei passi più godibili del libro, e bene fa Walpole a difendere la sua scelta. Non può sfuggire, tuttavia, la connotazione classista di tale caratterizzazione dei domestici: nella prefazione il nobile Walpole afferma infatti che ”Per quanto solenni, gravi o malinconici possano essere i sentimenti dei principi e degli eroi, essi non si riflettono nei loro domestici: almeno, questi ultimi non esprimono, o non li si dovrebbe far esprimere, le proprie passioni con lo stesso tono solenne.” Walpole qui ci fa sentire tutto il suo disprezzo per gli umili, che devono servire solo a mettere in risalto la superiorità morale dei protagonisti.
Della vicenda non dirò molto, anche perché come detto è talmente assurda da indurre spesso al sorriso. Mi preme però evidenziare che, a differenza di quanto avverrà spesso nei continuatori del gotico, soprattutto in quelli che utilizzeranno il genere a fini eminentemente commerciali, non c’è un vero e proprio lieto fine: nelle ultime pagine un padre uccide una figlia innocente, il castello crolla scosso dal tuono divino, ed anche i due giovani che si sposano condivideranno solo la loro malinconia. E’ questo indubbiamente un elemento di interesse del libro, che testimonia come Walpole non abbia inteso scrivere una storia consolatoria, nella quale l’ordine viene ristabilito attraverso la punizione del malvagio e la felicità dei buoni: qui la giustizia divina si abbatte praticamente su tutti i protagonisti, ed è una giustizia più biblica che evangelica: è un dio tremendo che si lascia dietro solo degli infelici. Del resto va dato atto a Walpole di aver saputo – sia pure in forma letterariamente molto grossolana – conferire ad alcuni dei protagonisti tratti di ambiguità che non ne permettono la caratterizzazione nell’angusto spazio dello stereotipo: su tutti la figura di Manfredi, che è signore spietato e malvagio, ma ha anche dei momenti di sincera commozione: all’opposto Federico, nobile cavaliere padre di Isabella, asseconda ad un certo punto l’empia proposta di Manfredi di sposarne la figlia. Lo stesso Padre Gerolamo, prototipo dei frati buoni di molti successivi romanzi gotici, ha tratti e comportamenti non proprio irreprensibili. Forse questa (parziale) assenza di manicheismo nei personaggi è un fattore che ha portato al problematico finale della vicenda.
Un ultimo accenno va riservato alla teatralità dell’opera, rimarcata da Walpole nella prefazione alla seconda edizione anche attraverso il costante richiamo a Shakespeare come modello. La vicenda de 'Il castello di Otranto' è narrata attraverso dialoghi serrati, intervallati quasi unicamente da annotazioni funzionali, e ciò, accanto all’artificiosità complessiva dei fatti narrati e alla quasi assoluta assenza di descrizioni dell’ambiente naturale, porta effettivamente lo smaliziato lettore contemporaneo ad immaginare di essere spettatore di una rappresentazione teatrale, in cui però è evidente la stoffa con cui sono costruite le scene e la cartapesta con la quale sono realizzati il grande elmo e l’enorme spada che compaiono nella storia; il tono usato dai personaggi è tale che – se dovessi dire a che tipo di teatro siamo vicini – mi verrebbe in mente non Shakespeare, ma quello, peraltro nobilissimo, dei pupi.
Come in altri casi quando affrontiamo i classici, anche la lettura de 'Il castello di Otranto' va a mio modo affrontata non tanto per ciò che dal punto di vista strettamente letterario ci può fornire: in questo senso come detto era già, a mio avviso, un’opera minore quando uscì, ed oggi lo è ancora di più. E’ però un’opera importante, perché segnala l’inizio di due fatti che avrebbero avuto una fondamentale importanza nella storia della letteratura e della produzione culturale dei decenni successivi. Da un lato l’intuizione di Walpole che l’esotismo, il mistero e la paura potessero essere gli elementi fondanti di una letteratura popolare, in grado di attrarre lettori incolti in cerca di emozioni semplici ma forti. Dall’altro il fatto che questa letteratura potesse svolgere un ruolo anestetico rispetto alla realtà e alla descrizione delle sue contraddizioni, oggetto delle moderne novels. Probabilmente Walpole prese le mosse, per la sua opera, da una opposizione aristocratica al realismo del romanzo borghese del suo tempo: di lì a poco la stessa borghesia, consolidato il suo potere, si servirà di questi stessi strumenti per tentare di anestetizzare le masse che questo potere potevano mettere in discussione. Oggi i mezzi sono cambiati, ma il fine è il medesimo: Hollywood è diretta discendente de 'Il castello di Otranto'.
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I romanzi gotici dell'800
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Così va la vita: ineluttabilità del fato...
...e pacifismo velleitario
Ritengo che un primo elemento fondamentale per comprendere appieno la struttura di un romanzo complesso come Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut sia l’inusitata scelta fatta dall’autore per il ruolo di protagonista. Vonnegut infatti era prigioniero di guerra a Dresda, quando gli alleati la rasero al suolo, e ce lo dice nel primo capitolo del libro, sorta di introduzione alla narrazione. L’autore però non narra la storia in prima persona, come sarebbe stato logico, ma ci racconta le vicende di un altro soldato americano, Billy Pilgrim: l’io narrante/Vonnegut, che si inabissa dopo il primo capitolo, riemerge solo in un paio di occasioni durante tutta la narrazione delle avventure di Billy, a ricordarci che anche lui era lì, oltre che nell’ultimo capitolo, dove trae la (non) morale del romanzo.
Perché inventare un personaggio fittizio, un alter ego, da parte di chi avrebbe potuto dare più credibilità alla narrazione conducendola in prima persona? Credo che la risposta a questa domanda non possa essere univoca, dovendosi giocoforza ricercarla in prima battuta nel modo scelto da Vonnegut per scrivere questo romanzo, nel taglio picaresco (tornerò su questo termine) che ha voluto dare alla narrazione di uno degli episodi più tragici della storia del ‘900, il che ha reso oggettivamente arduo un approccio autobiografico. Ma questa non è una risposta, perché apre le porte ad un domanda che rimanda alla prima: perché Vonnegut ha dato questo taglio alla narrazione? Secondo me, alla base di queste scelte dell’autore c’è l’impossibilità (o la mancanza di volontà) di fare realmente i conti con quanto ha vissuto. Come evidenziato giustamente in quarta di copertina dell’edizione che ho letto, la dura ed incancellabile esperienza di morte di cui Vonnegut è stato testimone risulta per lui assolutamente indicibile. Si aggiunga, come ulteriore elemento di indicibilità, che il massacro di Dresda è provocato dalla sua parte, dai buoni della Storia, che infatti si preoccuperanno per molti anni di tenerlo sottotraccia. L’autore ci dice più volte, nel primo capitolo, della sua difficoltà di scrivere questa storia, di come scriverla significhi trasformarsi in una statua di sale per aver osato guardare indietro, di come il romanzo si sia risolto in un disastro, e non potesse essere altrimenti. A Vonnegut quindi sembra non restare, per narrare questa storia che troppo lo ha segnato, che guardarla dall’esterno, attraverso gli occhi di Billy Pilgrim, un bambino (uno dei tanti che furono mandati a questa crociata) goffo e fatalista, la cui filosofia di vita si riassume nella preghiera che è appesa nel suo ufficio di agiato e tranquillo borghese nel dopoguerra:
“Dio mi conceda
la serenità di accettare
le cose che non posso cambiare
il coraggio
di cambiare quelle che posso
e la saggezza
di comprendere sempre
la differenza.”
Vonnegut, inoltre, annega quell’episodio della vita di Pilgrim nel contesto più generale della sua esistenza, facendone uno dei tanti accadimenti inevitabili della sua vita. Subito dopo la lettura della preghiera appesa nell’ufficio, l’autore ci dice infatti che “Tra le cose che Billy non poteva cambiare c’erano il passato, il presente e il futuro.”
Ma c’è di più: per Billy il passato, il presente e il futuro in realtà non esistono, come bene gli spiegano i suoi rapitori Tralfamadoriani: tutto è sempre accaduto, accade e sempre accadrà, e chi veramente vede può vedere tutto come un unico insieme, che inevitabilmente non si svolge ma accade: ecco che allora tutto quello che succede a Billy è posto sullo stesso piano; ecco che allora nel libro gli avvenimenti non possono essere posti in un ordine consequenziale, ma devono essere narrati attraverso salti spazio-temporali casuali, nei quali il tempo viene sovvertito, e il grande e tragico avvenimento storico del quale Billy è testimone assume la stessa importanza ed ineluttabilità di un incidente aereo, della morte della moglie e financo delle sue allucinazioni. Ecco, ancora, che ogni accenno a morti o a fatti tragici nel racconto è chiosato con l’ossessiva ripetizione della frase Così va la vita. Tutto è già scritto, ci dice Vonnegut, e il piccolo uomo non può far nulla per cambiare qualche frase del grande libro degli accadimenti. Il tempo non è che una convenzione adottata dall’uomo per rendere comprensibili avvenimenti che le sue limitate capacità intellettive non sanno interpretare, ma è una convenzione che può condurre a conclusioni sbagliate, come dimostra il fatto (narrato in uno dei passi secondo me più belli del libro) che un film di guerra e distruzione, visto all’incontrario, sembra un film sulla redenzione dell’umanità.
Mattatoio n. 5 non è quindi, a mio avviso, un romanzo che descriva l’orrore del bombardamento di Dresda o più in generale l’orrore della guerra: è un romanzo picaresco, che – rifacendosi soprattutto (anche se non so quanto coscientemente) alla grande tradizione spagnola di questo genere – narra le avventure di un personaggio apparentemente inadeguato, alle prese con il proprio destino, che come alcuni grandi personaggi dei romanzi classici è dotato di una propria peculiare saggezza, derivantegli dalla capacità di incassare e di adattarsi ai colpi del destino. Del resto questa vocazione del protagonista emerge chiaramente, a mio avviso, anche dalla scelta del cognome: chi più del pellegrino trae dalla sua fede la forza per proseguire nel cammino, anche quando le condizioni esterne sono le più avverse?
Se questo modo di Vonnegut di scrivere, di trasfigurare l’avvenimento indicibile di cui è stato testimone in qualcosa di narrabile è forse per l’autore una scelta obbligata, e costituisce indubbiamente uno dei principali elementi di fascino del libro da un punto di vista strettamente narrativo, è a mio avviso anche uno dei suoi maggiori punti di debolezza quando si passi ad analizzarne il contenuto politico.
Non vi è infatti dubbio, a mio avviso, che Mattatoio n. 5 possa essere visto anche come una grande operazione di rimozione. Attraverso la struttura stessa del romanzo, che ho sopra cercato di analizzare, Vonnegut rimuove sostanzialmente il fatto che il bombardamento di Dresda poteva e doveva essere evitato, che si è trattato di un atto di deliberato terrorismo, che solo il fatto che la storia sia stata scritta dai vincitori ha evitato di classificare per quello che è stato: un crimine di guerra. Certo, non mancano nel libro gli accenni critici all’operazione, dal fatto che Dresda sia descritta come una città aperta senza importanza strategica al crudo realismo con il quale Vonnegut descrive le conseguenze del bombardamento, dall’ammirazione per la bellezza della città, la Firenze del nord, sino alla citazione dei rapporti giustificazionisti del dopoguerra. La mia netta sensazione è però che tutto sia sotteso da una ideologia che fa delle guerre e dei massacri una conseguenza (come detto ineluttabile) dell’eterna istintualità umana, contro cui nulla si può: il colloquio che Billy ad un certo punto ha con la sua guida Tralfamadoriana è a mio avviso cruciale per comprendere la tesi di fondo del libro: in buona sostanza vi è affermato che per vivere bene occorre concentrarsi sui momenti belli della vita per goderli, sapendo che quelli brutti ci saranno comunque, indipendentemente dalla nostra volontà. In molti altri passi del libro questa visione è espressa con altrettanta chiarezza: ad esempio nell’episodio dell’incidente aereo. Vonnegut a mio avviso sposa quindi appieno la tesi dell’ineluttabilità del fato, inserendosi in un filone di pensiero antichissimo e nobilissimo, che però spesso è stato la base teorica delle posizioni sociali e politiche più retrive e reazionarie. Non mi aspettavo che un autore statunitense, impregnato della cultura individualista che caratterizza quel paese e che è agevolmente percepibile sin dal costrutto sintattico della sua scrittura, avesse la capacità di trasporre in letteratura una storia che ci aiutasse a comprendere le vere cause della guerra: questo è un compito che probabilmente non può essere assegnato ad alcuno scrittore nordamericano. E’ certo però che – forse come detto a causa dell’eccessivo coinvolgimento emotivo di Vonnegut – la storia di Billy Pilgrim non ci fa fare alcun passo in avanti lungo la strada per sapere perché quel bombardamento fu ordinato, quali erano gli obiettivi (visto che non erano di ordine strategico) sottesi al massacro di 135.000 civili ed alla completa distruzione di una delle più belle città d’Europa. In questo senso mi sento quindi di contestare l’aggettivo di pacifista sempre appioppato a questo libro: se pacifismo c’è, è un pacifismo astratto, basato unicamente sull’emotività e comunque destinato ad essere sempre subalterno alla logica ferrea della guerra, proprio perché incapace di comprenderne le ragioni.
Infatti, se tutto è già scritto, se così va la vita, perché impegnarsi? Cosa rimane da mettere in discussione, da analizzare? L’unica prospettiva è quella soggettiva, che tenti di trarre il meglio dai momenti buoni, aspettando che quelli cattivi passino lasciandoci il più indenni possibile, magari regalandoci anche un diamante che ci possa servire come simbolico anello sul quale fondare la nostra nuova vita. Il buon Billy, su di un carro tra le macerie di Dresda una mattina di maggio, a guerra appena finita, si sentirà di nuovo sereno, e un uccello, dopo tanto tempo, tornerà a cantare per lui. Ciò che ha vissuto gli ha dato una nuova saggezza, che gli permetterà di affrontare il dopoguerra (che peraltro ha già vissuto o sta già vivendo) e le nuove, piccole tragedie che gli riserva.
Il romanzo si conclude, dandogli un verso cronologico, in presa diretta, nel 1968, subito dopo l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Anche questi tragici episodi, che hanno sicuramente cambiato la storia degli Stati Uniti e non solo di quella nazione, sono registrati da Vonnegut con leggerezza, con l’immancabile così va la vita, al pari del giornaliero bollettino dei morti in Vietnam. Nulla è cambiato dai tempi di Dresda e della guerra, e nulla potrà cambiare mai, ma sembra che a Vonnegut non importi: in fondo è grato che molti dei momenti della sua vita siano belli. Può tornare a Dresda da turista, ora che ha fatto i soldi, e stupirsi – da buon statunitense – di come siano diverse in generale le cose sotto i comunisti.
Forse a Kurt Vonnegut, in quanto testimone diretto del massacro di Dresda, non si poteva chiedere di più di un romanzo estremamente piacevole da leggere, anche se vengono per contrasto in mente libri come Se questo è un uomo di Primo Levi: sicuramente al Kurt Vonnegut intellettuale si poteva chiedere un romanzo diverso, meno consolatorio e meno funzionale ad un antimilitarismo innocuo e velleitario. Può darsi che qualcuna altro lo abbia scritto, qualcuno come Kilgore Trout, lo sconosciuto scrittore di fantascienza che gioca un ruolo non secondario nel romanzo: non lo sapremo mai, anche perché presumibilmente per una simile opera le porte dell’industria culturale statunitense non si sarebbero aperte con tanta facilità.
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Quanto dista Siena da Praga?
** Attenzione: anticipazioni sulla trama **
Recentemente, recensendo il romanzo che viene considerato il capolavoro di Federigo Tozzi, 'Con gli occhi chiusi', avevo asserito, sia sulla base di riscontri critici che su quella della lettura diretta de 'Il podere', successivo romanzo dell’autore in termini di redazione (anche se pubblicato – postumo – dopo 'Tre croci'), che si poteva parlare di un progressivo riavvicinamento di Tozzi ad una narrativa di tipo verista, dando a questa asserzione quasi il senso di una involuzione rispetto alla splendida anomalia rappresentata da 'Con gli occhi chiusi' nel contesto culturale dell’Italia di inizio novecento.
Ora, dopo la recente rilettura de 'Il podere', mi sento di riproporre quel giudizio solo in parte.
Certo, è indubbio che 'Il podere' sia un romanzo che può trarre in inganno più facilmente il lettore, che è quasi naturalmente portato a vedere – ad una lettura superficiale – nel protagonista Remigio Selmi uno stretto parente dei vinti di verghiana memoria; è anche indubbio che l’ambientazione nel mondo periferico della campagna che circonda la città di Siena, la notevole dose di realismo con cui Tozzi in questo romanzo ci fa vivere quella campagna ed il lavoro che vi ferve, descrivendoci con minuzia condizioni atmosferiche, rumori di falci, sudore di contadini piegati nella mietitura mentre gli animali che vivevano tra il grano fuggono disperati, animali da cortile, erbacce che invadono i campi, colori e consistenza della terra e molto altro ancora, tinge questo romanzo di sfumature che comunque molto devono alla precedente stagione culturale, ancora sostanzialmente immersa nell’800, dei Verga e dei Capuana. Basta però grattare appena sotto la superficie per scoprire anche in questo romanzo un nucleo di aperto decadentismo che lo avvicina sostanzialmente a 'Con gli occhi chiusi' e quindi, per il suo tramite, alle tematiche tipiche della letteratura europea del primo novecento.
L’elemento che più avvicina 'Il podere' al precedente romanzo non sta tanto, a mio avviso, nella ambientazione simile: in entrambe le opere la quinta dell’azione è ristretta alla città di Siena e ad uno dei poderi che la circondano, ma questa affinità territoriale svolge nei due romanzi un ruolo sostanzialmente diverso, ed assume infatti accenti diversi anche dal punto di vista narrativo, divenendo come detto ne 'Il podere', molto più marcatamente che in 'Con gli occhi chiusi', un contraltare di stampo realista al nucleo decadente e modernista del romanzo.
Al di là del fattor comune rappresentato dal linguaggio tozziano, così spiazzante in quanto miscela di termini antiquati e toscanizzanti associati ad una modernissima struttura della frase, spezzata dal frequente uso del punto e virgola, il vero elemento di forte affinità dei due romanzi è che in entrambe le storie il protagonista è un figlio che non è in grado di seguire le orme paterne sulla strada del consolidamento del benessere economico e sociale conseguito: Remigio Selmi, che conosciamo a vent’anni, potrebbe infatti essere Pietro Rosi, il ragazzo che abbiamo abbandonato qualche anno prima, nell’ultima pagina di 'Con gli occhi chiusi', al tempo della fine del suo tormentato rapporto con Ghisola.
Ora egli, dopo essere andato a Campiglia a lavorare nelle ferrovie per sottrarsi all’autoritarismo del padre che si è risposato e ha una relazione con Giulia, una giovane donna, torna a casa alla notizia dell’imminente morte del genitore. Questi non riesce, per l’aggravarsi delle sue condizioni, a lasciare per testamento la gran parte delle sue sostanze all’amante, per cui Remigio si ritrova, quasi suo malgrado, padrone del podere della Casuccia, con i suoi contadini e la sua struggente bellezza. Scaccia di casa Giulia, che è stata la causa della sua rottura definitiva con il padre, ed inizia a gestire il podere. Non avendo alcuna esperienza pratica ed a causa della sua irresolutezza cade subito in un profondo disagio, subendo l’atteggiamento ostile della matrigna e degli 'assalariati', che non ne riconosco l’autorità. La situazione si complica quando Giulia, che si riteneva in diritto di avere parte dell’autorità, fa causa – sobillata da un avvocato – a Remigio per ottenere la restituzione di un inesistente prestito fatto al padre. Remigio si affida ad un ambiguo avvocato suo compagno di scuola e perderà la causa. Intanto i piccoli debiti che il padre aveva lasciato si accrescono, anche a causa di sfortunati avvenimenti aziendali, e la tensione si fa particolarmente aspra con Berto, un violento contadino della Casuccia che approfitta della debolezza e dell’incompetenza di Remigio per accentuare atteggiamenti di confuso ribellismo sociale e di prevaricazione. Si giunge così al tragico e – altra analogia rispetto a 'Con gli occhi chiusi' – fulmineo finale.
Si tratta di una storia più ampia e complessa di quella del precedente romanzo, che era centrato quasi esclusivamente sui tre personaggi di Pietro, di Ghisola e del padre. Qui molti più personaggi svolgono nella narrazione un ruolo non marginale, conferendo una sorta di coralità ai rapporti che Remigio intrattiene con il mondo esterno che era del tutto assente nella prima opera. La stessa città di Siena svolge qui un ruolo molto più centrale, soprattutto per quanto concerne le attività legate alla sistemazione delle questioni ereditarie e alle vicende giudiziarie che Remigio è costretto ad affrontare. Si può dire che Remigio si confronti durante tutto il romanzo con due ordini di regole sociali ben distinte: quelle di Siena, della società borghese, cittadina, fatte di leggi, procedure e formalismi che il protagonista non riesce a capire, ma anche di ipocrisie e sotterfugi determinati dall’interesse economico (esemplari a questo proposito le figure dei vari avvocati e del notaio) e quelle della Casuccia, della società contadina, che sono sicuramente più ancestrali, a cui Remigio prova a sentirsi più vicino, ma delle quali ugualmente non riuscirà a fare parte e che decreteranno la sua fine. Significativamente la geografia del romanzo ci propone anche alcuni momenti nei quali i tentativi di alcuni personaggi di utilizzare le regole cittadine per costringere Remigio a vendere la Casuccia sono ambientati in quella sorta di terra di nessuno che sono gli spazi fuori porta, situati proprio tra la città e il podere. Esemplare è pure il fatto che Giulia, per porre in atto la sua vorace vendetta, debba prima andare a vivere in città.
Remigio, dicevo, si sente più attratto dall’ancestralità delle regole della campagna: prova ad avere un rapporto con gli 'assalariati', molte volte i capitoli del libro ci dicono che si sente bene, giovane, che ritiene che dopo i primi momenti di disagio e difficoltà riuscirà a gestire la Casuccia in modo efficiente e redditizio. Si tratta però di illusioni momentanee, che sopraggiungono in momenti in cui Remigio dimentica chi è, e che sono destinate ad essere subito travolte dalla inadeguatezza del comportamento del protagonista. Nel tragico finale, proprio le regole ancestrali che dominano la società contadina, non comprese da Remigio, marcheranno la modalità della sua fine. Emerge dalla vicenda che Remigio non è un 'vinto' verghianamente inteso, perché per essere vinti bisogna almeno avere provato a giocare, bisogna conoscere le regole del gioco. Remigio è invece un personaggio tipicamente novecentesco perché non ha mai giocato, non riesce neppure a capire il gioco e le sue regole. In questo senso, al pari di Pietro Rosi, di cui come detto a mio avviso costituisce la 'continuazione scenica', è parente stretto – anche se un parente con un destino molto più drammatico – di Zeno Cosini o di altri grandi inetti del novecento letterario.
Questa inettitudine poggia però, in questo romanzo ancora una volta in modo più 'realista' che in 'Con gli occhi chiusi', sul ruolo che il denaro gioca nella definizione dei (dis)valori sociali: se questo è trasparente per quanto riguarda il versante cittadino della storia, trova un suo preciso riscontro anche nei rapporti che si intrecciano alla Casuccia, dove il mancato riconoscimento da parte dei sottoposti dell’autorità di Remigio, che pure è molto più remissivo e meno dispotico del padre, deriva in primis dalla sua incapacità di far rendere l’azienda.
Vorrei ora avventurarmi, un po’ per gioco, in un accostamento che può apparire per certi versi blasfemo, vale a dire quello tra questo romanzo ed uno dei capolavori assoluti del primo novecento, scritto pochi anni dopo in un contesto culturale completamente diverso. A mio avviso 'Il podere' presenta infatti una serie di inquietanti similitudini con 'Il processo' di Franz Kafka.
Se ci si pensa bene, le vicende sono analoghe: il protagonista in un caso è accusato da un potere incomprensibile di una colpa oscura, dall’altro è costretto dalle regole sociali ad assumersi una responsabilità che non voleva e che non sa gestire. Entrambi lottano per far valere le proprie ragioni, ed entrambi si dimostreranno drammaticamente incapaci di capire le regole del gioco (ammesso che ve ne siano). Anche Remigio, tra l’altro, subisce un processo, nel quale non riuscirà a difendersi. Infine entrambi subiscono un’esecuzione, formalmente tale nel caso di Josef K., ma non meno sostanziale in quello di Remigio Selmi, tanto che forse, se avesse avuto il tempo di accorgersi di quanto stava avvenendo, anche lui avrebbe potuto esclamare ”Come un cane.” I due personaggi, per il tramite dell’analogia della loro storia, rappresentano una simile incapacità di capire, di adattarsi ad un mondo che richiede comportamenti 'coerenti'. Questa loro incapacità, e l’ineluttabile fine che essa comporterà, sono monumentali atti d’accusa verso una società che preparava in un caso, ed aveva appena partorito nell’altro, l’orrore necessario della Grande Guerra, una società i cui tratti essenziali erano ben riconoscibili sia che ci si trovasse all’estrema periferia d’Europa, nella placida provincia senese, sia che si vivesse nel cuore della multietnica mitteleuropa. La globalizzazione non è infatti fenomeno di questi ultimi decenni: essa è connaturata allo sviluppo del capitalismo, che è da sempre efficientissimo nel diffondere capillarmente angoscia e disagio in chi si azzarda a pensare in quale mondo vive (e muore).
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La grande letteratura del primo '900
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Spiazzante ed anomalo
Da un punto di vista culturale e letterario, esattamente come da un punto di vista sociale ed economico, l’Italia del primo novecento, l’Italietta giolittiana che si avvia verso la prima guerra mondiale e il fascismo è un paese sostanzialmente arretrato rispetto ai sommovimenti che scuotono il panorama culturale dell’Europa centro-settentrionale.
Mentre nelle maggiori aree culturali europee si affacciano i grandi scrittori che rivoluzioneranno per sempre il modo di fare letteratura, sull’onda della fine del mito positivista, della presa di coscienza della crisi della società borghese e delle scoperte dovute alla psicanalisi, l’Italia esprime correnti letterarie che importano con un cronico ritardo fermenti altrove già assopiti e superati. E’ il caso del verismo di Verga, Capuana e De Roberto, che costituirà il punto di riferimento culturale in Italia anche all’inizio del nuovo secolo, derivato in buona parte dalla scapigliatura milanese, in cui si può ritrovare, a scoppio ritardato di quasi un ventennio, il percorso letterario che in Francia portò dal decadentismo tardoromantico al naturalismo. Significativo del clima culturale del nostro paese nel primo decennio del ‘900 è il fatto che – se ci si riflette bene – il suo lascito più originale è ancora legato a questi canoni, per di più declinati secondo modalità ormai stantie e retoriche: l’opera pucciniana e verista (con tutto il rispetto per le pagine di grande musica che contiene) non può infatti essere considerata che il tipico prodotto culturale "di seconda mano", destinato ad una borghesia piccola, chiusa e di orizzonti ristretti, che per "trasgredire" si affidava all’estetismo dannunziano. Persino l’avanguardia italiana per antonomasia, il futurismo, è l’emblema – almeno nella sua componente letteraria – di una società intrisa di un iperpositivismo cialtrone che inevitabilmente fornirà il suo pieno appoggio al fascismo.
Eppure anche in questa Italia complessivamente arretrata, esattamente come non mancano esempi di attività industriali d’avanguardia e territori socialmente avanzati, si ritrovano scrittori che possono a tutti gli effetti essere ascritti al novero dei grandi autori di stampo europeo, che hanno saputo cogliere lo spirito del tempo e tradurlo in letteratura.
Il caso più noto è senza dubbio quello di Italo Svevo. Per questo autore è facile trovare la motivazione della sua anomalia rispetto al panorama letterario italiano del tempo: Svevo è di Trieste, città che di italiano aveva (ed in parte ancora ha) poco, crocevia di culture e facente anche fisicamente parte di una diversa entità politica sino al 1918. Trieste, sicuramente più vicina alla Vienna di Freud che a Roma, con la sua antica borghesia mercantile, ha consentito a Svevo di respirare per tutta la vita un’aria mitteleuropea in salsa italiana, come egli stesso ci ricorda nel suo pseudonimo.
Diverso è il caso di quello che a mio (ma non solo mio) avviso è uno degli altri grandi autori italiani del periodo, la cui opera, ed in particolare il primo romanzo, 'Con gli occhi chiusi', si distacca nettamente dai canoni naturalistici imperanti per farci entrare nella letteratura del disagio e dell’inettitudine, della mancanza di qualità che è tipica del primo novecento europeo. Federigo Tozzi, l’autore di questo romanzo, non è di Trieste o di Milano: è di Siena, città che – nonostante la sua gloriosa storia passata – all’epoca può essere considerata emblematica della provincia italiana. A Siena visse ed ambientò le sue opere maggiori, trasferendosi quindi a Roma dove morirà, trentasettenne, nel 1920.
Ebbe una vita, oltre che breve, tormentata e complessa, come è testimoniato anche dal suo passaggio dal socialismo giovanile a posizioni nazionaliste intrise di un cattolicesimo reazionario, e molte sue opere, tra cui 'Con gli occhi chiusi', riflettono con accenni autobiografici il suo tormento di vivere.
Incidentalmente faccio notare che sia Svevo che Tozzi furono quasi totalmente ignorati dal pubblico e dalla critica italiana dell’epoca: Svevo fu scoperto in Francia ancora vivente, mentre la gloria di Tozzi è quasi totalmente postuma. E’ anche questo un sintomo del provincialismo che caratterizzava la cultura italiana dell’epoca, che raggiunge vette paradossali se si pensa che i pochi che si accorsero di Tozzi in vita lo classificarono frettolosamente come verista, quasi non potesse esistere in Italia altra letteratura. E’ pur vero che l’involuzione politica di Tozzi si accompagnò ad un avvicinamento progressivo al verismo con i successivi romanzi 'Il podere' e 'Tre croci', ma il fatto che 'Con gli occhi chiusi' rappresenti un’opera dai caratteri persino strutturalmente totalmente diversi rispetto ad un approccio di tipo naturalistico balza agli occhi anche del lettore più sprovveduto.
Rispetto a quanto detto per Svevo, è apparentemente più difficile, nel caso di Tozzi, immerso nel mondo rurale della provincia toscana, attribuire le tematiche delle sue opere al contesto: nulla sembra più distante dall’idea di disagio esistenziale dai paesaggi senesi, dal piccolo mondo antico che circonda Tozzi.
Eppure 'Con gli occhi chiusi', scritto attorno al 1910, è uno dei romanzi più disperati dell’intera letteratura italiana, e la storia di non amore tra Pietro e Ghisola potrebbe benissimo essere ambientata nella periferia di una delle grandi città industriali del nord Europa.
Pietro, il protagonista del romanzo dietro il quale non è difficile rinvenire l’autore, è un ragazzo senese, figlio di un contadino che si è arricchito gestendo una trattoria. Fuori città ha acquistato un podere – Poggio a’ meli – che coltiva tramite braccianti (gli "assalariati") che tratta con la stessa spietata durezza con cui tratta i dipendenti della trattoria. La sua debole moglie morirà presto, mentre Pietro cambia svogliatamente varie scuole. Adolescente, a Poggio a’ meli incontra Ghisola, una ragazzina nipote di due braccianti. Tra i due nasce una simpatia fatta anche di piccoli dispetti e violenze, che in Pietro si trasforma negli anni in un amore introverso, che non riesce o non vuole esprimersi. Ghisola asseconda questo sentimento con la prospettiva di fare un buon matrimonio e scalare qualche gradino sociale, ma Pietro – che quando è solo sogna il suo amore per lei – non riesce a rapportarsi con la ragazza - che nel frattempo ha avuto le prime esperienze con altri contadini – e rifiuta le sue profferte sessuali. Più tardi egli la cerca a Firenze, dove studia con scarso successo e dove Ghisola, per uscire dalla povertà è divenuta prima la mantenuta di un anziano signore quindi prostituta in una casa chiusa. Ella riesce a nascondere la realtà della sua condizione a Pietro, cercando disperatamente di darglisi perché possa considerarsi il padre del bambino che attende. Nel bellissimo, fulminate finale, Pietro arguisce la gravidanza di Ghisola e la lascia.
'Con gli occhi chiusi' è un romanzo che spiazza per tutta una serie di motivi.
Il primo e più evidente è quello, già citato, del contrasto tra l’ambientazione in alcune delle più belle contrade italiane e il disperato disagio sociale ed esistenziale che la storia ci propone. Le descrizioni del paesaggio senese e quella – celebre – della città (definita a ragione cubista nella bella introduzione di Marcello Ciccuto a questa edizione della BUR) ci restituiscono la magia, la calma immutabile di ambienti che ancora oggi possiamo ammirare quasi intatti. Questi paesaggi idilliaci sono però gli sfondi di una storia che secca la gola per la sua asciutta drammaticità. La campagna senese diviene quindi l’evidenziatore a contrasto di una crisi esistenziale che ha precise ragioni: la tremenda gerarchia valoriale di chi – il padre di Pietro – ha come unico obiettivo di vita far soldi, in base ai soldi giudica tutto e tutti e si comporta da vero padrone. Tozzi non esprime mai giudizi diretti, ma praticamente ogni gesto del padre di Pietro, sia verso il figlio sia verso gli altri personaggi del romanzo, è guidato esclusivamente da motivazioni economiche. Esemplare e terribile è l’episodio della morte del fedele cane Toppa, con il padre che interviene solo per raccomandare che ne venga recuperato il collare. Il rifiuto di Pietro della logica padronale, schiettamente borghese del padre, che si esprime confusamente in molti modi durante la narrazione, è il vero fulcro del romanzo, e di questo rifiuto fa parte anche il non amore per Ghisola, che Pietro vive, come il suo socialismo, come i vari abbandoni scolastici, essenzialmente come un atto di ribellione rispetto a ciò che il padre vuole fare di lui, vale a dire l’erede capace di continuare la sua opera di arricchimento. Rispetto a questa prospettiva, Pietro non può che avanzare nella vita con gli occhi chiusi.
Un altro fattore spiazzante del romanzo è lo stile di scrittura di Tozzi, fatto di un contrasto tra il frequente uso di toscanismi e termini desueti ed una struttura della frase inusitata. Il periodo tozziano, in genere già breve, è infatti sovente spezzato in brevissimi sottoperiodi separati da un punto e virgola, anche laddove sarebbe più ortodosso l’impiego della virgola. Non so da cosa derivi questo procedere a singhiozzo, ma è certo che – dopo un primo momento di sconcerto ortografico – questo tratto strutturale diviene uno degli elementi di fascino e (quasi paradossalmente) di modernità del romanzo.
Infine, non si può non notare come Tozzi costruisca quasi una gerarchia rovesciata della narrazione, nel senso che mentre gli eventi centrali della storia sono in genere solo accennati, una cura quasi maniacale viene dedicata a descrivere particolari secondari, quali ad esempio il cavallo della carrozza su cui a un certo punto sale Ghisola, l’ordine secondo cui la famiglia e i dipendenti si siedono a tavola nella trattoria, la piccola storia del cliente povero della trattoria conclusa con un lapidario (e meraviglioso) “Morì presto; e nessuno se ne accorse". In un mondo sottosopra, pare dirci Tozzi, in cui il disvalore è divenuto valore, anche la gerarchia delle cose deve essere cambiata, e la magrezza di un cavallo merita più attenzione della morte della madre di Pietro.
Sono questi elementi spiazzanti che fanno di 'Con gli occhi chiusi' un romanzo anomalo nel panorama italiano dell’epoca, che avvalendosi di un tono apparentemente dimesso dispiega argomenti e una struttura linguistica e narrativa che oserei chiamare sperimentali, di uno sperimentalismo più vicino alle grandi correnti culturali europee dell’epoca rispetto alle tronfie apologie delle macchine e del progresso di chi si sentiva avanguardia, senza accorgersi di essere nelle retrovie.
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Tutti dovremmo leggerlo (se ci fosse permesso)
Ci sono libri che a mio avviso dovrebbero essere letti da tutti, perché ci aiutano a capire il passato e – attraverso di esso – a interpretare il presente in cui viviamo. Uno di questi libri è sicuramente 'Una giovinezza in Germania' di Ernst Toller, che ha rappresentato per me una vera scoperta.
Ci sono libri che dovrebbero essere letti da tutti, ma che di fatto ci viene quasi impedito leggere. 'Una giovinezza in Germania', una delle poche opere di Toller tradotte in italiano, è stato edito da Einaudi l’ultima volta nel 1982, e da allora non è più stato ristampato. Oggi è “momentaneamente non disponibile” in libreria e per reperirlo, come per poter leggere i pochi altri testi dell’autore editi in tempi storici, è necessario scavare nelle profondità dei siti web dedicati al mercato dell’usato, mettendo in conto di spendere cifre alle volte non indifferenti.
Se spesso mi sono lamentato della deriva commerciale e della funzione obnubilatrice delle menti che ormai caratterizza la "grande" (?) editoria italiana, ritengo di poter dire che la mancata edizione di un autore come Toller sia da considerarsi un vero e proprio scandalo culturale. Toller infatti non è un autore minore, ma è stato uno dei massimi rappresentanti dell’espressionismo tedesco degli anni ‘20, oltre che un protagonista politico della convulsa fase della storia tedesca, ed in particolare bavarese, che andò dalla fine della prima guerra mondiale alla sconfitta dell’effimera Repubblica dei Consigli nella primavera del 1919. Fu amico tra gli altri di Thomas Mann e di Rainer Maria Rilke, e sue opere teatrali – tra le quali le più celebri sono 'Uomo massa', 'Hinkemann il mutilato' e 'I distruttori di macchine' – in gran parte scritte in carcere durante i cinque anni di prigionia che la Repubblica di Weimar gli comminò in quanto capo militare della Repubblica dei Consigli, sono unanimemente considerate dei capolavori del teatro politico novecentesco. Uscito dal carcere nel 1924, si trovò ben presto nella necessità di emigrare a fronte dell’ascesa del nazismo: visse dapprima in Gran Bretagna e quindi negli Stati Uniti, dove si suicidò, quarantaseienne, nel 1939.
Una vita drammatica, quindi, vissuta da protagonista in un periodo storico le cui tragedie sono state il preludio di altre tragedie, in un periodo che ha determinato la Storia del ‘900 in Europa e le cui vicende hanno plasmato in larghissima parte l’assetto sociale e politico in cui oggi viviamo. Una vita ed un’opera delle quali oggi in Italia è difficile conoscere qualcosa.
'Una giovinezza in Germania', scritta nel 1933, "nel giorno del rogo dei miei libri in Germania", come ci dice l’autore nel meraviglioso, struggente capitolo iniziale, è l’autobiografia dell’autore, dall’infanzia in un piccolo villaggio della Prussia Occidentale (oggi Polonia) sino a quando, trentenne, ha termine la sua carcerazione. E’ un testo splendido, sia per la lucidità e la mancanza di ogni indulgenza con la quale Toller analizza gli avvenimenti della sua vita nel contesto storico in cui si svolgono, sia dal punto di vista letterario, per lo stile asciutto, incalzante, fatto di frasi brevi e di un ritmo che diviene quasi sincopato nei capitoli dedicati alla guerra e alla rivoluzione, per essere invece più pacato e disteso in altri passi, soprattutto quelli riguardanti la sua infanzia e giovinezza prebellica.
Toller è figlio della buona borghesia ebraica tedesca, e nel capitolo dedicato alla sua infanzia ed adolescenza in poche pagine, narrandoci alcuni episodi riguardanti soprattutto il suo rapporto con Stanislao, un suo amico polacco e cattolico figlio di un guardiano notturno, ci introduce nel cuore delle divisioni che caratterizzavano la Prussia guglielmina. Divisioni di classe, con i tedeschi che costituiscono il vertice e i polacchi – a cui le terre sono state confiscate – la base operaia e contadina della scala sociale, che vengono sancite come divisioni culturali, etniche e religiose. Il piccolo Toller, orgoglioso di essere tedesco e passivo – anche se a volte dubbioso – recettore della retorica militarista, conosce in quell’ambiente anche i primi germi di uno strisciante antisemitismo.
Segue un altro capitolo che ci narra della vita di Toller studente universitario a Grenoble, dei suoi amori, dei suoi vizi, delle sue prime opere poetiche e del suo contraddittorio rapporto con la società francese, culla di cultura ma nello stesso tempo nemico ereditario della Germania. Il giovane Toller è ancora impregnato di spirito nazionalista, e quando nel 1914 scoppia la guerra non esita a tornare in tutta fretta e a partire volontario "per difendere la patria in pericolo".
E’ qui che il libro entra nel vivo e si trasforma da un quasi leggero racconto autobiografico della vita di un bravo ragazzo della buona borghesia nella vivida descrizione di una tragedia collettiva. Toller è mandato al fronte in Alsazia, e presto si accorge di quanto lontana sia la realtà della guerra dalla retorica che la alimenta: matura sentimenti pacifisti, non sorretti però da una coscienza politica circa la vera essenza della guerra come strumento del dominio capitalista: questa coscienza la maturerà solo verso la fine del conflitto, durante un breve periodo di carcerazione. Toller in queste pagine dedicate al suo conflitto mondiale è in grado di descriverci l’orrore delle trincee con ruvide e brutali pennellate: il cranio spaccato di un soldato in una chiesa, il colore del viso dei morti, non dissimile da quello dei vivi, il sollievo provato quando cessano le grida di un moribondo impigliato nel filo spinato.
Dichiarato inabile alla guerra a causa di una malattia, completa gli studi a Monaco e partecipa all’inizio del 1918 alle prime avvisaglie della ribellione popolare contro la guerra, contribuendo alla fondazione della "Lega culturale-politica della gioventù di Germania", che incita (con scarso successo) gli intellettuali tedeschi a schierarsi per la pace. Viene imprigionato e – come detto – in carcere maturerà la sua adesione al socialismo rivoluzionario. Il suo sarà però un socialismo intriso di umanitarismo, nel quale la necessità di agire, di utilizzare la violenza come strumento per la rivoluzione sociale, sarà sempre vissuta come una contraddizione, sia pur a volte necessaria, rispetto agli ideali di fratellanza e solidarietà che il socialismo predica. Questa contraddizione sarà il tema portante di alcune delle sue più importanti opere teatrali, ed emerge anche in questa sua biografia, sia nelle pagine dedicate alla vicenda rivoluzionaria bavarese sia nelle riflessioni che svolge durante gli anni di carcerazione.
Gli avvenimenti si susseguono sempre più incalzanti, e ai primi scioperi spontanei determinati dalla fame crescente seguono il crollo della monarchia guglielmina, la formazione di un governo borghese a Berlino, la rivolta spartachista, gli assassinii politici di Karl Liebknecht, di Rosa Luxemburg e di Kurt Eisner e la rivoluzione a Monaco. Quest’ultima – e il suo rapido fallimento – è analizzata da Toller (che come detto ne fu uno dei protagonisti) senza alcuna indulgenza, soprattutto nel senso che l’autore individua da subito nelle divisioni dei partiti e dei gruppi di cui il movimento rivoluzionario era composto ed anche nell’impreparazione politica delle masse operaie e contadine i germi che avrebbero in breve portato alla disfatta. Il tradimento dei socialisti di destra, che si fanno da subito quinta colonna della reazione del Reich berlinese, gli opportunismi, almeno nella prima fase, del Partito Comunista, il pressapochismo della dirigenza rivoluzionaria vanno di pari passo con il fatto che le masse – cui il potere è stato di fatto consegnato da un sistema che si è autodissolto – sapevano ciò che non volevano ma non sapevano ciò che volevano. Non è difficile quindi, nonostante gli atti di eroismo delle guardie rosse, al Reich di Berlino soffocare nel sangue la Repubblica dei Consigli e avviare una durissima repressione, con l’eliminazione fisica dei capi rivoluzionari e di chiunque fosse solo sospettato di avere appoggiato la rivoluzione. In breve tempo l’ordine borghese torna a regnare su Monaco, e i quartieri operai della città rientrano in una muta disperazione.
A Toller, arrestato dopo rocamboleschi travestimenti e nascondigli, viene riservata una condanna tutto sommato mite, in ragione della sua notorietà come intellettuale e della solidarietà anche internazionale che il suo caso suscita.
Durante la repressione appaiono per la prima volta milizie paramilitari, organizzate da formazioni di estrema destra con i finanziamenti di agrari ed industriali e tollerate dal governo di Berlino: Toller non manca di far notare come in breve queste formazioni si sarebbero assunte il compito di eliminare chi ora le considerava necessarie. In una pagina vengono anche descritte le prime azioni di Adolf Hitler e del nascente nazionalsocialismo.
Il libro si chiude con il capitolo che descrive i cinque anni di prigionia di Toller, e qui, oltre all’efferatezza della repressione portata avanti dai bianchi colpisce la descrizione del ripetersi delle divisioni e del pressapochismo intellettuale dei prigionieri politici, che ancora una volta Toller descrive senza infingimenti, persino nelle loro manifestazioni più grottesche. Struggente, nel suo minimalismo evocatore, è l’episodio dei nidi delle rondini, ispirandosi al quale Toller ricaverà alcune delle sue liriche più belle.
Questo capitolo finale riporta idealmente all’inizio del libro, al primo capitolo, che è un magnifico, disperato grido di dolore di Toller per ciò che è stato, per l’incapacità dei dirigenti di comprendere ed assecondare i bisogni del popolo, per i tradimenti perpetrati, per aver consegnato la Germania tra le braccia del nazionalismo più bieco. La sua lettura, quasi fosse una sorta di preghiera laica, dovrebbe essere ripetuta nel tempo, soprattutto ai nostri giorni, nei quali sembrano ripresentarsi con inquietanti analogie molti degli scenari politici e sociali che hanno caratterizzato quella fase della storia tedesca ed europea.
Una giovinezza in Germania è un libro molto importante, magnificamente scritto, che ci permette di comprendere meglio, in quanto narrati in prima persona, avvenimenti cruciali per la Storia europea, addentrandoci in momenti della stessa che, forse non a caso, sono ormai banditi dalla sua narrazione ufficiale. Certo è un libro "di parte", ma ha il pregio di rendercene coscienti, a differenza di tante false oggettività che oggi ci vengono propinate a vari livelli. Forse in questo sta uno dei motivi per cui è stato reso "momentaneamente non disponibile".
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Il rifugio nei miti e nel genere...
... come fuga da una atroce realtà
"– Lei parla come uno che non ha ideali.
– E’ vero. Io sono un neofrivolo.
– In cosa si differenzia dall’antica frivolezza?
– Soprattutto per il fatto che davanti c’è il prefisso «neo». Così è più eccitante."
Questo dialogo tra la bella e oca Cynthia e János Bátky, il protagonista del romanzo 'La leggenda di Pendragon' dello scrittore ungherese Antal Szerb, riassume secondo me splendidamente lo spirito del libro.
Vediamo innanzitutto chi è stato Antal Szerb, scrittore poco tradotto in italiano e le cui opere sono al momento praticamente irreperibili. Vissuto dal 1901 al 1945, quando morì in un campo di concentramento nazista, Szerb è stato un intellettuale a tutto tondo: giovanissimo docente di letteratura all’Università di Szeged, scrisse una monumentale 'Storia della letteratura mondiale' ed una 'Storia della letteratura ungherese' che ancora oggi sono considerate opere di grande importanza: a 37 anni divenne presidente della Società Ungherese di Studi letterari. A margine di questa sua attività accademica e di saggista si dedicò anche alla scrittura di romanzi e racconti: 'La leggenda di Pendragon' è del 1934, mentre è di tre anni successivo 'Il viaggiatore e il chiaro di luna', che lessi qualche anno fa e che mi convinse molto di più di questa sua opera prima, per i motivi che cercherò più oltre di spiegare. Szerb durante gli anni ‘30 viaggiò molto in Europa, e nei suoi romanzi si ritrova il suo manifesto amore per la società occidentale e per paesi, quali l’Italia e la Gran Bretagna, che per lui rappresentavano dei modelli (culturale nel primo caso e sociale nel secondo) cui l’Ungheria avrebbe dovuto ispirarsi. Un altro dei suoi interessi intellettuali, che come vedremo costituisce uno degli assi portanti de 'La leggenda di Pendragon' era costituito dai movimenti e dalle sette segrete che, tra il XVII e il XVIII secolo, costituirono in una certa maniera l’anticipazione dell’illuminismo, coltivando intenti filantropici e utopie palingenetiche accanto a studi occultisti e alchemici: in particolare si occupò delle prime sette massoniche, quale la misteriosa confraternita dei Rosacroce.
La biografia di Szerb ci dice che innanzitutto egli fu uno studioso delle letteratura , e si può forse affermare che i pochi romanzi e racconti che scrisse rappresentassero per lui solamente un modo per divulgare al di fuori delle cerchie specialistiche le sue vaste conoscenze letterarie.
Questo intento appare appieno, a mio modo di vedere, proprio in questo suo romanzo d’esordio. 'La leggenda di Pendragon' è infatti a tutti gli effetti un noir, un romanzo di genere nel quale sono presenti tutti gli elementi classici di questo tipo di letteratura.
Il protagonista, nel quale non è difficile individuare tratti scopertamente autobiografici, è un giovane studioso ungherese di occultismo che vive a Londra: è goffo ed impacciato, ammira profondamente la società britannica – o meglio, la classe nobiliare inglese – per il suo sovrano disprezzo delle convenzioni borghesi: ad esempio dello spirito britannico egli cita il fatto che nel who’s who l’elemento più importante per caratterizzare un personaggio non è il suo lavoro, ma i suoi hobbies. E’ anche particolarmente ammirato dall’impero, da quella capacità tutta britannica di dominare il mondo rimanendo sempre perfettamente inglesi sotto qualsiasi latitudine. Ad un ricevimento conosce il bizzarro Earl of Gwynned, nobiluomo gallese della stirpe dei Pendragon, i cui antenati avevano avuto a che fare con i Rosacroce: anche l’Earl si interessa della setta e l’affinità intellettuale che prova per per il giovane János lo spinge, inusitatamente data la sua proverbiale riservatezza che confina con la misantropia, ad invitarlo nel proprio castello in Galles, per consultare i rarissimi libri che custodisce nella biblioteca.
Questo invito darà avvio ad una serie di intricate avventure che vedranno coinvolto János suo malgrado, tra storie di favolose eredità contese e tentativi di assassinio dell’Earl, donne bellissime e fatali che guidano favolose Hispano Suiza, giovani rampolli di famiglia effeminati oppure, nel caso di eredi femmine, irrimediabilmente oche, irlandesi tragicamente stupidi e persino una ragazza tedesca scopertamente nazista. Lungo tutto il racconto corre il filo sotterraneo dei Rosacroce, dei quali un Pendragon, si scoprirà, è stato il fondatore, e molti degli avvenimenti che si susseguono, compreso il finale, non possono essere spiegati se non conoscendo la loro storia e assumendo che molte delle loro presunte scoperte, compresa quella della possibilità della resurrezione del corpo, siano vere. L’obiettivo principale di Szerb, dello studioso Szerb, è scopertamente quello di farci conoscere questa storia, di introdurci in un’epoca ed in un’atmosfera culturale cui attribuisce una grande importanza per lo sviluppo del pensiero nei secoli successivi. Szerb quindi infarcisce il romanzo di richiami ai testi rosacrociani, di descrizioni del pensiero di alcuni dei principali protagonisti di quel movimento, occupandosi in particolare di Robert Fludd, fisico, astrologo ed occultista vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, autore di numerosi trattati in difesa dei rosacrociani, che Szerb immagina abbia vissuto a lungo nel castello di Pendragon al servizio del Gran Maestro della setta. Alcune pagine del libro sono dedicate a riportare integralmente una parte delle memorie di Lenglet de Fresnoy, occultista del XVIII secolo di cui il protagonista recupera il manoscritto originale. Nel romanzo fanno la loro fugace apparizione anche altri irregolari dei secoli passati, quali Casanova e Gilles de Rais.
Per Szerb il racconto noir, costruito secondo i canoni più stereotipati, è quindi solo un pretesto, uno strumento per trasmetterci i primi elementi di conoscenza di una parte negletta della cultura europea. Questo meccanismo è, mi sembra di poter dire, tipico di Szerb, perché l’ho ritrovato, con un esito secondo me di maggior livello qualitativo, anche nell’altro romanzo dell’autore che ho letto, il citato 'Il viaggiatore e il chiaro di luna', nel quale l’oggetto occulto della narrazione era la grande cultura italiana. Il problema, a mio avviso, è che in questo caso lo strumento, il pretesto, prendono la mano a Szerb, e sovrastano per così dire il nocciolo duro del racconto. In altri termini, l’ambientazione noir del romanzo, come detto troppo convenzionale e stereotipata, finiscono secondo me per condizionare negativamente la percezione del lettore rispetto al contenuto di conoscenza che il libro fornisce, ed anche se non manca un sottofondo di ironia con cui Szerb condisce la storia, si deve dire che trovarsi di fronte a passaggi segreti che si aprono muovendo un meccanismo nel muro ed a misteriosi cavalieri neri che cavalcano a mezzanotte non aiuta a condividere l’indubbia complessità del testo. Vi è poi l’elemento snob di Szerb che emerge nella sua quasi acritica apologia dell’organizzazione della società britannica: in molte pagine sembra che il protagonista, quasi scusandosi di essere ungherese, attribuisca alle classi dominanti britanniche ogni virtù civile e morale, come detto basando questo giudizio essenzialmente sullo sprezzo delle convenzioni borghesi da queste dimostrato. Anche questo modo di tratteggiare i lord, a mio avviso e prescindendo da ogni valutazione di tipo politico che pure sarebbe necessaria, è di fatto uno stereotipo largamente abusato. D’altro canto, per una tragica ironia vista la sorte che lo attenderà, Szerb non sembra essersi ancora reso conto di cosa il nazismo rappresenti per l’Europa, (ricordiamo che il romanzo è stato scritto nel 1934) se è vero che la figura di Lene, ragazzona tedesca rappresentante in qualche modo il superominismo germanico, viene dipinta con estrema bonarietà. Insomma, il carattere di neofrivolo che il protagonista – alter ego dell’autore che non a caso narra in prima persona – si attribuisce non credo sia messo lì a caso: è forse la spia di come Szerb fosse cosciente di una certa voluta vacuità del suo romanzo e soprattutto della sua veste esteriore: come detto il problema è che spesso si fa fatica ad attribuire tale vacuità alla precisa volontà dell’autore.
Resta da capire come mai nel 1934 Szerb attribuisca tanta importanza all’alchimia, all’occultismo e a quella corrente di pensiero che attraversa, osteggiata e repressa, una buona parte della cultura europea nei primi secoli della modernità. Certo vi sono delle motivazioni soggettive, date dagli interessi personali dell’autore, ma a mio modo di vedere non sono affatto estranee a questa riproposizione alcuni elementi legati strettamente al contesto in cui Szerb scrive. L’Ungheria dopo la prima guerra mondiale era un paese disorientato, che aveva perso buona parte del suo territorio storico, nella quale i sentimenti revanscisti stavano portando la politica di Horthy verso posizioni apertamente fasciste. La risposta di Szerb a questo stato di cose, come emerge da questo romanzo, si potrebbe definire consolatoria: da un lato aggrapparsi al mito di una società nella quale i rapporti di classe sono ben definiti, stabilizzati ed accettati da tutti pur nella loro conflittualità (“le classi devono odiarsi”, dice ad un certo punto János ad una Cynthia che manifesta compassione per i poveri), dall’altro rimandare ad un sapere olistico, prescientifico e prespecialistico, che mirava a stabilire l’armonia tra gli uomini e tra questi e la natura, e che è stato spazzato via dalla pretesa di porre la tecnologia al centro del progresso, generando il caos attuale. Non è questa una posizione nuova nella storia della letteratura: analogo assunto si rinviene ad esempio, anche se significativamente circa un secolo prima, nelle 'Fiabe variopinte' di un grande romantico russo come Vladimir Odoevskij.
'La leggenda di Pendragon' è quindi sicuramente un romanzo figlio direttamente dell’epoca in cui fu scritto, ma alla crisi di quell’epoca contrappone drammaticamente dei miti, delle illusioni che lo stesso Szerb sembra considerare tali, visto che – nel finto happy end – i Rosacroce e la cultura che essi rappresentano vengono fatti definitivamente morire. Il neofrivolo Szerb di lì a pochi anni diverrà una delle vittime del vero assassinio culturale e politico che in Europa si stava perpetrando.
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La storia dei Rosacroce
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La crudele satira...
... del fallimento di una generazione
Non so se mi sbaglio, ma ritengo che un sentimento piuttosto comune quando si pensa ad autori scandinavi, e ai classici dell’800 e del primo ‘900 in particolare, sia quello di associar loro una cifra stilistica caratterizzata dal rigore, dall’asciuttezza e da un certo formalismo, insomma da quelle caratteristiche che molti giovani (ma non solo) recensori che troviamo in rete chiamerebbero lentezza e pesantezza del testo. Molti di costoro (almeno quelli che sanno cos’è il cinema d’autore) avranno davanti agli occhi qualche scena dei film più celebri di Bergman, quali 'Il settimo sigillo' o 'Il posto delle fragole' come archetipo (per loro) negativo di cosa potrebbe riservare il romanzo di uno scrittore norvegese o svedese.
Probabilmente questo (pre)giudizio, – ammesso che esista davvero – deriva da una molteplicità di fattori, primo fra tutti il fatto che noi, animali mediterranei e cattolici, fatichiamo a trovarci in sintonia con popoli che passano buona parte dell’anno al buio e che hanno fatto dell’etica protestante il fulcro del loro essere comunità (a tutti i livelli sociali ed economici cui questo termine può essere attribuito) ed anche di una parte preponderante delle loro riflessioni critiche, filosofiche ed intellettuali.
Bene, la prima cosa da dire de 'La sala rossa' di Johan August Strindberg è che si tratta di un romanzo che sembra fatto apposta per smentire radicalmente questo luogo comune, trattandosi di un romanzo non certo leggero, tutt’altro, ma dotato di una carica ironica e satirica che lo rende estremamente gustoso e a tratti decisamente divertente.
'La sala rossa' è il primo romanzo di Strindberg, che lo pubblica, trentenne, nel 1879: prima di allora una sua opera teatrale era stata a più riprese rifiutata dai teatri svedesi. Il libro narra della ribellione del giovane Arvid Falk, funzionario all’Ente per il pagamento degli stipendi ai funzionari civili, che si licenzia per divenire letterato, avendo come ideale l’artista politico, in grado di cambiare con i suoi scritti la società in cui vive. Diverrà così amico di alcuni giovani artisti e pensatori che vivono à la bohémienne in un villaggio appena fuori Stoccolma, attendendo di divenire famosi, e che di sera spendono i pochi soldi che hanno nella cosiddetta Sala rossa di un locale della capitale, ritrovo della gioventù intellettuale. Arvid andrà incontro a continue delusioni via via che entrerà in contatto con i mondi dell’editoria e del giornalismo, del teatro, degli affari e della politica, trovando in tutti gli ambienti solo avidità, ignoranza, meschinità, servilismo ed opportunismo: anche alcuni dei suoi compagni si riveleranno degli opportunisti; altri continueranno a barcamenarsi più o meno stancamente e solo uno porterà alle estreme conseguenze la sua coerenza. Ritroveremo lo stesso Arvid alla fine del romanzo fidanzato con una buona borghese e insegnante.
L’uscita del romanzo fu un successo editoriale, ma provocò un acceso dibattito e si attirò feroci critiche da parte dell’establishment letterario svedese (ci fu chi invocò l’intervento dell’autorità per il sequestro dell’opera), fondamentalmente per due ordini di motivi.
Da un lato vi è la tematica trattata: l’opera mette infatti alla berlina la società e la cultura svedese dell’epoca, non risparmiando nessuno. I mercanti gretti ed avidamente senza scrupoli, il parlamento che difende gli interessi delle classi dominanti ammantandosi di una finta democraticità, i giornali e i giornalisti pronti a vendersi al miglior offerente, le leghe operaie create per contrastare i veri interessi del proletariato, i giovani intellettuali che apparentemente sfidano le convenzioni ma sono pronti ad integrarsi alla prima occasione, sono altrettanti bersagli della critica e della satira che Strindberg snoda attraverso i 29 serrati capitoli del romanzo. Non manca uno dei tratti che finirà col tempo per appiccicarsi addosso a Strindberg come un cliché: quello della misoginia.
Il secondo motivo di critica è relativo alla forma del romanzo: venne giudicato confuso, senza una chiara linea conduttrice, con personaggi – in particolare il protagonista Arvid Falk – deboli e non ben caratterizzati. In realtà oggi si può tranquillamente affermare che questi tratti, la particolare modalità di Strindberg di scrivere, i suoi repentini cambi di ritmo per cui a descrizioni ambientali accuratissime seguono improvvisi serratissimi dialoghi, l’abbandono prolungato del protagonista per seguire le vicende di altri personaggi, l’alternanza di toni satirici e momenti anche drammaticamente epici, costituiscono uno dei maggiori elementi di fascino del romanzo, sono pienamente coerenti con ciò che lo scrittore ha voluto raccontarci e ne fanno un’opera che per molti versi, ponendo esplicitamente la questione del rapporto tra ciò che è scritto e come lo si scrive, anticipa il ‘900 letterario. Come sappiamo dalla bella, ampia e utilissima prefazione di Franco Perrelli, lo Strindberg giornalista riempie il romanzo di pagine concepite rielaborando dati ed informazioni attinte da statistiche, cronache e verbali parlamentari, resoconti di assemblee societarie e associazionistiche, mettendone in evidenza la drammatica carica satirica: l’autore sfugge però al rischio di consegnarci un romanzo realista – il cui esito sarebbe stato sicuramente meno felice dato l’intento corrosivo e nichilista perseguito – proprio attraverso la struttura formale del racconto. Seguendo coerentemente l’asserzione di una sua lettera, secondo cui "L’arte dello scrittore consiste nell’ordinare diverse impressioni, memorie ed esperienze, nello scartare l’inessenziale e nel mettere in rilievo ciò che più conta" Strindberg organizza il romanzo con salti temporali e tematici, facendo come detto entrare, uscire e rientrare in scena i vari personaggi più volte, costruendo ogni breve capitolo quasi come una storia a sé. Questa confusione formale è – come accennato – perfettamente simmetrica rispetto alla confusione esistenziale e sociale oggetto del romanzo, e contribuisce ad accrescere l’effetto satirico dell’insieme.
Come detto, una delle grandi capacità di Strindberg è quella di utilizzare i dati del reale per costruire la sua feroce e disperata satira della società. Ciò emerge appieno in alcuni capitoli, quali quelli che descrivono la seduta del parlamento o quelli dedicati al mondo dell’editoria, ma raggiunge a mio avviso apici assoluti nella caratterizzazione di alcuni personaggi di contorno, quali il fratello mercante di Arvid, con relativa signora, il potente editore Smith e il direttore del teatro, che sono forse i personaggi più riusciti del romanzo. La loro grandezza sta proprio nell’essere tragicamente reali: non c’è alcuna forzatura nella loro descrizione e nei loro comportamenti, e proprio per questo raggiungono vette di cinismo e di amara comicità difficilmente superabili. A riprova, si provi, nel capitolo in cui compare l’editore Smith, a sostituire al suo nome quello di un notissimo editore italiano, che fu anche uomo politico, e si vedrà come le personalità, i meccanismi logici combacino perfettamente. Strindberg non ha quindi la necessità di costruire i personaggi come caricature: essi sono giornalisticamente presi per come essi sono nella realtà, non c’è bisogno di aggiungere nulla per farceli apparire come i latori di una logica ferrea: quella del loro interesse coniugata spesso alla loro stupidità ed ignoranza. Questa modalità di caratterizzazione ha per Strindberg un antecedente illustre da lui molto amato: Charles Dickens, i cui personaggi si caratterizzano proprio per essere tragicamente reali, tanto più credibili e comici quanto più lontani da tratti caricaturali. Strindberg annotò infatti che aveva inizialmente concepito 'La casa rossa' come una sorta di Pickwick svedese che aveva preso poi altre strade. Forse più ardua è l’identificazione di Arvid come una sorta di Amleto moderno, fatta dallo stesso Strindberg e che Perrelli avvalla: dovendo trovare un fratello letterario ad Arvid Falk, opterei per alcune analogie con lo Stephan Dedalus joyceiano, l’artista da giovane per antonomasia di cui Arvid pare anticipare alcuni tratti.
Non sono ovviamente caricature neppure i personaggi principali del romanzo, Arvid Falk ed i suoi amici intellettuali: in essi si possono ritrovare – ci dice Franco Perrelli – pur senza corrispondenze univoche, i giovani artisti che intorno agli anni ‘70 del XIX secolo contribuirono a svecchiare e a sprovincializzare la cultura svedese; in Arvid Falk si ritrovano in particolare alcuni tratti intellettuali dell’autore, e la sala che dà nome al romanzo era davvero il loro luogo di ritrovo. Questo tratto autobiografico è quello che colpisce di più, visto il contenuto totalmente pessimistico del libro: Strindberg rifugge da ogni tentativo consolatorio e di autoassolvimento, come pure sarebbe stato comprensibile trattando di sé e di suoi amici, ma ci descrive il fallimento di una generazione come assoluto, perché basato sull’assoluta incapacità di comprendere i veri meccanismi di funzionamento della società cui (a parole) dicono di opporsi. Questi meccanismi Strindberg ce li espone, come detto, basandosi su dati e fatti, ma il gruppo di intellettuali, che anche simbolicamente vive lontano dalla città che Arvid ha nel primo capitolo sfidato, è troppo chiuso in sé stesso, nel proprio piccolo mondo autoreferenziale per rappresentare davvero una forza eversiva. La risposta non potrà quindi che essere l’integrazione, il rinnegamento degli (pseudo)ideali o – nel caso del povero Olle Montanus – il suicidio. Spetterà al cinico e disincantato Dottor Borg certificare la morte di ogni velleità nel finale epistolare e cronachistico del romanzo.
Come ogni grande classico, anche 'La sala rossa' può essere letto con un occhio attento al nostro presente: in questo senso rivela alcune inquietanti ma anche divertenti analogie con la nostra epoca, i cui fondamentali del resto non sono cambiati rispetto ai tempi di Strindberg. Il gioco che ho proposto sopra rispetto al capitolo sull’editore Smith, funziona anche se applicato a molte altri parti del libro: leggiamo ad esempio il capitolo della seduta della lega operaia immaginando un discorso di chi oggi al governo si dice 'di sinistra', oppure trasferiamo il comportamento del direttore di teatro all’odierno mondo dello spettacolo e vedremo che l’amaro sorriso che Strindberg ci procura diverrà ancora più amaro, per la coscienza che le cose stanno veramente così ancora oggi e che nulla sembra destinato a cambiare.
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L’Italia antica, la sua storia, le sue genti
In genere dei classici greci e latini leggiamo le opere filosofiche, letterarie e teatrali, oppure quelle storiche. E’ quindi un’opera in qualche modo eccentrica la Geografia di Strabone, di cui questa bellissima edizione Rizzoli con testo greco a fronte, oggi purtroppo non più disponibile, ci presenta i libri V e VI, dedicati all’Italia.
La 'Geografia' è un’opera monumentale, che si compone di ben XVII libri, giunti a noi pressoché per intero, e che ci descrive il mondo conosciuto in un’epoca cruciale per lo sviluppo della Storia antica e della Storia tout-court. Strabone, che visse circa tra il 60 a.C. e il 25 d.C., scrisse infatti la Geografia quasi al termine della sua vita, intorno al 18 d.C., quindi nel primo periodo dell’impero, subito dopo la morte di Cesare Ottaviano Augusto. Molto prima della 'Geografia', Strabone aveva scritto anche una ancor più monumentale 'Storia universale', in 47 (secondo altri 43) libri: purtroppo di questa prima opera ci sono giunti solo pochi frammenti, ma il fatto che Strabone sia stato anche uno storico è fondamentale per comprendere la stessa struttura della 'Geografia'.
L’autore è di origine e cultura greca: Strabone nacque infatti a Amasea, nel Ponto (oggi nella Turchia settentrionale), regione che da pochi anni, al termine della terza guerra mitridatica, era divenuta provincia romana. Era vicino alla dottrina stoica, e questa sua posizione filosofica è molto importante per comprendere l’origine e il contenuto della sua opera. La stoicismo, infatti, se da un lato poneva alla base della saggezza la capacità individuale di liberarsi dei condizionamenti sociali e di raggiungere l’apatia, dall’altro – soprattutto nella sua versione romana – teneva in grande considerazione l’agire pubblico, la politica come mezzo per contribuire al benessere collettivo.
La 'Geografia' di Strabone è, coerentemente con la posizione dell’autore, innanzitutto un testo sociale e politico, pensato per fornire alle classi dirigenti romane uno strumento di conoscenza in grado di contribuire ad una gestione più agevole e accorta del potere. La descrizione che Strabone ci offre di ciascuna terra non è infatti limitata agli elementi fisici; anzi – almeno a giudicare da questi due volumi dedicati all’Italia – si può dire che questi, pur se molto dettagliati e posti all’inizio di ciascun capitolo, costituiscono una parte minore dell’opera, quasi appunto una premessa a ciascuna sezione di essa, che in gran parte invece si concentra sulle città, sugli elementi culturali che caratterizzano i vari popoli, sulla loro storia, sulle infrastrutture presenti nei vari territori, sulle produzioni agricole, minerarie etc. Del resto è lo stesso Strabone che ci dice nel prologo al primo volume della 'Geografia', come riportato nella utilissima prefazione di Anna Maria Biraschi, che ”E’ chiaro che tutta la geografia si rivolge interamente all’esercizio del potere… E’ più agevole impadronirsi di un territorio quando se ne conoscano già l’estensione, la posizione, le caratteristiche naturali e climatiche".
La 'Geografia' è anche un testo che testimonia la vastità delle conoscenze raggiunte dalla società romana rispetto alla conformazione del mondo allora conosciuto, anche grazie alla organizzazione e alla capillarità dell’amministrazione: i XVII libri di cui si compone spaziano dalla Britannia sino all’India e alla Persia, lodando a più riprese l’oculata amministrazione romana, la sua capacità di trarre da ogni terra i prodotti per la quale è vocata ma – anche e soprattutto – la capacità di organizzare e infrastrutturare il territorio, di gestire i traffici, di assimilare alla romanità i vari popoli.
I libri V e VI, presentati in questo volume, sono come detto dedicati all’Italia, ed a quanto pare sono i più accurati e ricchi di notizie. L’Italia di Strabone è appunto quella di età augustea, abbracciando la Pianura padana e le prealpi, con il Po a fare da confine tra Cispadana e Transpadana, per scendere sino alla Sicilia. Il primo libro, in particolare, si occupa dei territori sino alla Campania compresa, mentre il secondo riguarda le regioni che vanno dalla Lucania alla Sicilia.
La prosa di Strabone, oltre a sorprenderci per la ricchezza di conoscenze e citazioni e per la precisione dei dati forniti – tanto che non poche ricerche archeologiche hanno permesso di individuare siti sconosciuti proprio sulla base del testo straboniano – ci apre davvero un mondo, quello dell’Italia antica e delle sue genti. Anche se ormai completamente romanizzati, i popoli che componevano all’epoca il mosaico territoriale chiamato Italia avevano una loro precisa identità storica ed economico-sociale, che il territorio che abitavano, a seconda che fosse montagnoso o pianeggiante, fertile o sterile, contribuisce a definire. E’ in particolare sulla descrizione dei caratteri dei popoli che si concentra Strabone. Nel quinto libro veniamo così a conoscere, sia pure in forma sintetica, popoli come i Veneti, che vivono in città-isola in genere circondate da paludi, e che nell’antichità erano grandi allevatori di cavalli; I Celti, con le loro tribù, abitanti della fascia prealpina e della pianura transpadana interna; i Tirreni (Etruschi), dall’antica potente civiltà disgregatasi per le lotte intestine; i Sabini, la cui storia si intreccia con quella dei primordi di Roma e che a Reate (Rieti) allevano una rinomatissima razza di muli; i selvaggi popoli di Sardegna e di Corsica, con questi ultimi che non sono buoni neppure come schiavi; i Sanniti, fieri guerrieri di cui i Romani avevano loro malgrado dovuto constatare le virtù.
Nel sesto libro grande spazio è dedicato al Bruzio, alla Sicilia e alla Iapigia, ed ancora una volta sorprende la vastità delle conoscenze che Strabone ci presenta rispetto alla storia di queste terre, ed anche di quella (o dei miti) relativa alle epoche antecedenti l’arrivo della civiltà greca. L’autore, che pur avendo viaggiato molto non ha visto di persona molti dei luoghi di cui parla, attinge ampiamente a fonti precedenti (soprattutto di influsso greco) sia per le notizie storiche che per quelle letterarie di cui la 'Geografia' abbonda, ma anche per quelle strettamente geografiche. Questo ha fatto dire a molti critici che Strabone è stato poco più di un buon compilatore, e che la sua opera manca di originalità. Non ho le basi critiche per accogliere o confutare questa tesi, peraltro rigettata con forza dalla curatrice del volume, ma posso senz’altro dire che da un punto di vista letterario (anche probabilmente grazie all’ottima traduzione e all’apparato di note) questi due libri di Strabone sono piacevolissimi da leggere, per l’accennata ampiezza dei temi trattati e per la vivezza delle descrizioni che vi si trovano.
Come detto, l’intera 'Geografia' va intesa come un’opera volta da un lato a fornire al dominio romano sul mondo antico uno strumento di conoscenza geografica, dall’altro a legittimare la grandezza di Roma evidenziando le grandi opere da essa realizzate nelle terre poste sotto la sua amministrazione. Così, ovviamente, un capitolo intero è riservato alla città di Roma, ripercorrendone storia e miti fondativi, ma soprattutto evidenziando la grandezza e la magnificenza della città augustea, di cui vengono descritti i luoghi più significativi, tra i quali l’appena realizzato Mausoleo di Augusto. Molta importanza è data anche alle strade realizzate dai Romani, che spesso rappresentano gli elementi di giunzione delle descrizioni delle varie città, ed alle opere di bonifica e di messa a coltura del territorio, soprattutto delle aree del Lazio a sud di Roma e della Campania.
Il volume si chiude con la 'Conclusione' del VI libro, nella quale Strabone ci indica i fattori che secondo lui hanno consentito a Roma di raggiungere una potenza così grande. In questo interessantissimo capitolo si trovano considerazioni di grande importanza, che ancora una volta non possiamo fare a meno di ammirare per la loro modernità. Così, primariamente viene evidenziato come l’Italia, essendo circondata dalle Alpi e dal mare, sia quasi un’isoIa naturalmente ben protetta; ancora, la varietà del clima italiano, che permette la vita di una grande varietà di piante e animali, viene visto come un fattore primario della prosperità della penisola; infine Strabone evidenzia il fatto che essa si protenda al centro del Mediterraneo tra i popoli più grandi della Grecia e dell’Asia Minore, mettendo forse per la prima volta in evidenza un fattore geopolitico che nel corso della Storia avrebbe condizionato, nel bene e nel male, per innumerevoli volte la politica italiana.
Strabone scrive la sua opera in un’epoca della storia romana nella quale – dopo le drammatiche vicende che hanno portato alla fine della Repubblica – con Augusto si è imposto un nuovo assetto politico e sociale che necessita, per consolidarsi, anche di una precisa legittimazione culturale. Ciò che durante quell’epoca in campo letterario fu Virgilio (in particolare con l’Eneide) ed in campo storico fu Livio, Strabone lo è in un campo apparentemente più neutro quale la geografia. Egli ci dimostra però subito che questa neutralità non esiste, e che anche la geografia può essere un potente strumento al servizio del potere. Lo fa però senza l’ottuso servilismo degli esegeti obbligati, con estrema maestria letteraria, lasciandoci un testo vivido, che potremmo dire intriso di materialismo per l’importanza che in esso assumono le condizioni materiali e socio-economiche dei territori, e nel quale riconosciamo anche le radici di ciò che ancora oggi è l’Italia, con le sue grandezze e le sue miserie che la fanno comunque unica.
Speriamo che la casa editrice Rizzoli, così attenta ai classici greci e latini, ci permetta presto attraverso una ristampa o una nuova edizione di poter ancora leggere questo imperdibile, prezioso tassello della cultura di tutti i tempi, che comunque risulta ancora agevolmente reperibile sul mercato dell’usato.
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La compiuta incompiutezza...
... di una tragicommedia borghese
Italo Svevo, oltre ai tre romanzi pubblicati in vita, scrisse anche una serie di novelle e lasciò incompiuto un altro romanzo ('Il vecchione' o 'Il vegliardo'), che avrebbe dovuto essere la continuazione de 'La coscienza di Zeno'.
Alcuni mesi prima di morire, però, aveva iniziato a scrivere anche un romanzo breve, o racconto lungo, dal titolo 'Corto viaggio sentimentale', lasciato anch’esso incompiuto. Come vedremo, l’incompiutezza del racconto non costituisce un ostacolo al pieno godimento di questa opera, che si inserisce appieno nel filo estremamente lineare, ancorché fortemente articolato, della poetica sveviana.
Già nel titolo è a mio avviso chiaro il tributo ad uno degli autori più amati da Svevo: Laurence Sterne. Come il 'Viaggio sentimentale' dell’autore inglese è costituito dall’insieme delle esperienze di Yorick, il protagonista, e ciò che Yorick non vede e non filtra attraverso la sua coscienza semplicemente non esiste, così il viaggio in treno tra Milano e Trieste del Sig. Giacomo Aghios è sentimentale perché esiste solo in quanto egli, con il suo bagaglio culturale piccolo borghese, intraprendendolo lo trasforma da subito in un viaggio interiore, alla ricerca delle proprie contraddizioni, delle proprie ambiguità e della propria inettitudine (per usare un termine tipicamente sveviano), che – come sempre in Svevo, diventano paradigma dell’epoca e della condizione sociale dell’individuo, del carattere di tragicommedia dell’esistenza borghese.
Il Viaggio di Giacomo Aghios, il viaggio di Svevo è però, a differenza di quello di Yorick, un viaggio corto, e mi sembra di poter notare in quell’aggettivo una sorta di deferente omaggio al grande decostruttore del romanzo settecentesco, che non a caso diviene uno dei punti di riferimento assoluti di molti grandi autori del primo novecento, in particolare quelli che più si sono confrontati con la necessità di destrutturare il romanzo ottocentesco (e tra questi vi è sicuramente lo Svevo de 'La coscienza di Zeno'). Svevo, sempre attento al fatto che i titoli delle sue opere fossero significativi, secondo me ci manifesta, con quell’aggettivo, la sua coscienza di non potersi porre che ad un livello inferiore rispetto a Sterne. Quel corto non è quindi forse solo la constatazione quantitativa della distanza che intercorre tra Milano e Trieste, è anche un indizio della innata modestia (caratteriale, non certo artistica), della ritrosia dell’autore triestino.
Il tempo in cui si svolge il racconto è anch’esso corto, esaurendosi in poche ore. Il Signor Aghios, sessantenne, lascia la moglie alla stazione centrale di Milano nel primo pomeriggio di un giorno qualsiasi degli anni ‘20 del novecento. Sale sul treno diretto a Venezia dovendosi recare a Trieste, città di cui è originario, per versare in banca una somma abbastanza consistente, come rata di un debito; la somma (30.000 lire) è in contanti nella tasca interna della giacca. Nello scompartimento in cui si siede nota una donna piacente, conversa con un agente assicurativo, si interessa di una famigliola di contadini veneti che il rigido controllore farà spostare in terza classe, e soprattutto stringe amicizia con un giovane che appare disperato. Visto che anche quest’ultimo è diretto a Trieste, e che a Venezia devono aspettare quattro ore, lo invita ad andare con lui a San Marco, dove deve sbrigare un breve affare. Di ritorno alla stazione, mentre cenano, il giovane si confida con lui. In procinto di sposare la figlia del padrone dell’azienda agricola in cui lavora, ha avuto come amante una contadina, che ora è incinta di lui: è combattuto tra sposare la donna che non ama – accrescendo così il suo status sociale – lasciando che la sua remissiva amante sposi un ingenuo contadino, e mandare all’aria tutto sposando l’amante per la quale il desiderio si è trasformato in amore. Presupposto di questa seconda possibilità è però la restituzione di 15.000 lire che si era fatto prestare dalla promessa sposa. Aghios gli consiglia di seguire i dettami del cuore, parlando francamente al futuro suocero mancato e chiedendogli tempo per la restituzione del debito. L’empatia che prova per il giovane lo spinge a dirgli che ha con sé una cifra che al momento gli serve, ma che avrebbe cercato di aiutarlo in futuro. Ripartiti a mezzanotte, Aghios si addormenta e sogna: svegliatosi di soprassalto a Gorizia si rende conto che il giovane è sceso e gli ha rubato 15.000 lire. Il racconto si conclude con le parole “Alla stazione di Tries”.
Come si può notare, il fulcro assoluto del racconto è il Sig. Aghios. Sin da subito egli attribuisce al viaggio che sta per intraprendere un significato profondo: viaggiando, stando fuori vorrebbe ritrovare sé stesso, la sua autonomia esistenziale, lontano dalla moglie affezionata, a suo modo ancor bella ma mai appassionata, e dal figlio universitario saccente, che ormai lo trattano da vecchio. Egli però è il tipico uomo del novecento di Svevo: se da un lato vive le convenzioni morali e sociali di cui è succube come vincoli allo sviluppo della propria personalità, della propria libertà interiore, dall’altro è un inetto, e da quelle convenzioni non sa staccarsi. Paradigmatico di questo atteggiamento è il suo rapporto con le donne: si allontana volentieri dalla moglie che forse non ha mai amato veramente, sente il richiamo dei sensi quando si trova vicino ad una bella donna ma allo stesso tempo è fiero di non avere mai tradito la consorte, e sublima il desiderio in bisogno di proteggere la donna, essere debole e fragile. Aghios sa che il suo malessere deriva non dalla vecchiaia, ma dalla famiglia, che definisce l’ambiente chiuso ove c’è muffa e ruggine, e tuttavia il suo distacco da questo ambiente è coscientemente breve, è corto, e in pochi giorni tutto tornerà normale. Che il malessere di Aghios, il malessere dell’uomo novecentesco, sia conseguenza della struttura sociale in cui vive risulta evidente, oltre che da questo lucido accenno al ruolo della famiglia, anche da una serie di altri elementi sparsi nel racconto. Centrale infatti, quasi balzachianamente, è nella storia il ruolo del denaro. Per questione di denaro Aghios intraprende il viaggio; di denaro parla essenzialmente con il gretto ragionier Ernesto Borlini, l’assicuratore, che Svevo è in grado di tratteggiare, nelle poche pagine in cui appare, come la quintessenza della meschinità piccolo-borghese, tutta ordine, concretezza e soddisfazione di sé. Aghios sa di essere moralmente e culturalmente superiore al Borlini, ma anche nei suoi confronti non sa far valere questa superiorità, scendendo anzi al suo livello. Il denaro e lo status sociale sono anche al centro della storia del giovane Giacomo Bacis, ed il furto di denaro ne rappresenta la conclusione. Ancora, una questione di carattere commerciale ha condizionato il rapporto tra Aghios e il vecchio amico gioielliere a San Marco. E’ – forse ancora più significativamente – attraverso l’uso che fa del denaro quando deve dare una mancia che Aghios descrive un tratto fondante della sua contraddittoria personalità, quando ci dice che, oltre ad essere avaro, finge di dare di meno per poi aggiungere qualcosa solo dopo avere visto la delusione del ricevente, al fine di assaporare meglio la sua gratitudine.
Ci sono nel racconto, oltre al titolo cui ho già accennato, una serie di messaggi subliminali di grande finezza che a mio avviso devono essere colti per comprendere appieno la grandezza di uno scrittore come lo Svevo maturo.
Il primo è il cognome del protagonista, che è di lontane origini greche: Aghios infatti in greco significa santo. Perché Svevo ci propone come protagonista del suo racconto un triestino greco, che si chiama Santo? Forse la risposta compiuta l’avremmo avuta solo se l’autore avesse completato il racconto, ma è indubbio che anche allo stato delle conoscenze possiamo azzardare qualche ipotesi. Aghios apparentemente è quanto di più lontano da un santo si possa immaginare, ma proprio la sua contraddittoria umanità ne fa il possibile santo per il giovane Bacis, l’unico a cui questi può rivolgersi e l’unico che – sia pure suo malgrado – lo aiuta concretamente. Non è da escludere anche un intento ironico dell’autore, nel presentarci la figura di un santo a sua insaputa.
Sempre in tema di nomi, non deve sfuggire il fatto che anche Bacis si chiama Giacomo: egli è infatti l’alter ego di Aghios, che (forse) riuscirà – grazie all’inconsapevole aiuto di quest’ultimo – a rompere i lacci sociali cui sembra condannato. Giacomo Aghios vede quindi in Giacomo Bacis colui cui affidare il suo testamento di vecchio inetto affinché sappia riuscire dove lui ha ormai definitivamente fallito.
Vi è poi l’estrema finezza narrativa, mutuata dallo Sterne del Viaggio sentimentale di raccontare in terza persona un viaggio che è essenzialmente interiore, in cui non esiste o quasi un paesaggio che non sia quello dello scompartimento (con l’eccezione di una Venezia notturna forse a tratti troppo oleografica): sarebbe forse stato troppo facile proseguire nella prima persona utilizzata ne 'La coscienza di Zeno': più arduo utilizzare un io narrante che, seppure non coincidente con il protagonista, sente solo attraverso di lui.
Non è da escludere infine che (come accennato anche in una nota finale al volume da me letto) la stessa incompiutezza del racconto (comune a molte altre novelle sveviane) sia da interpretare come una precisa volontà dell’autore per lasciare aperto il finale e comunicarci ironicamente la sua inettitudine: in fondo le cose importanti del racconto sono tutte dette, e quel "Tries" finale sembra troppo letterario per non essere voluto.
Ritroviamo quindi in questo lungo racconto incompiuto tutti i temi sviluppati da Svevo nella sua letteratura antecedente, e non mancano i richiami alla teoria darwiniana, alla psicanalisi e ad altri elementi che hanno formato la base teorica sulla quale Svevo ha edificato la sua letteratura; vi ritroviamo anche il peculiare uso della lingua italiana che lo contraddistingue, che ai puristi può sembrare approssimativo ma che indubbiamente contribuisce al sottile fascino mitteleuropeo della prosa sveviana. Corto viaggio sentimentale conferma quindi che, se Svevo può essere considerato in qualche modo l’autore di un solo libro, questo libro egli ha saputo declinarlo in molte sfaccettature diverse, ognuna delle quali brilla di una luce propria, contribuendo ad illuminare un universo letterario da cui non si può prescindere per capire la cultura europea del ‘900.
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Un apparente paradosso: il gotico positivista
## Attenzione: anticipazioni sulla trama ##
Ho iniziato a leggere 'La tana del Verme Bianco' con molte aspettative: Abraham (Bram) Stoker, l’autore, è infatti il padre di uno dei personaggi letterari entrati nell’immaginario collettivo (anche e soprattutto grazie al cinema) – il conte Dracula – e quindi, non avendo ancora letto il romanzo maggiore, pensavo di trovare in quest’altra opera, molto meno nota ma forse per questo anche più intrigante, gli elementi narrativi, i risvolti psicologici, i rimandi che toccano le segrete corde del nostro inconscio, che hanno permesso a Stoker ed al suo vampiro di divenire dei classici a tutto tondo.
Queste mie aspettative sono andate del tutto deluse, perché mi sono trovato tra le mani non solo un romanzo del tutto di genere, ma anche e soprattutto un romanzo mal scritto, confuso e frammentario nella trama, con tutta evidenza destinato unicamente ad un pubblico voglioso di sensazioni forti, quello che potremmo tranquillamente definire un romanzo d’appendice e neppure dei migliori. Questa delusione ha aumentato in me l’urgenza di leggere 'Dracula', al fine di scoprire se anche il romanzo più celebrato dell’autore sia in realtà così povero di contenuto e di stile, e se conseguentemente il successo del personaggio non sia il frutto di successive rielaborazioni interpretative che prescindono dal valore del prototipo, oppure se 'La tana del Verme Bianco' non sia che il risultato della scrittura stanca di un autore ormai svuotato di creatività, (il romanzo è l’ultimo scritto da Stoker, e fu pubblicato nel 1911, un anno prima della morte dell’autore), costretto dal successo a cercare di ripetersi. Se molti elementi accomunano infatti i due romanzi, primo fra tutti il fatto che entrambi si basano su miti e leggende popolari lungamente approfonditi dall’autore, altrettante sono le differenze, a cominciare dalla struttura dei due romanzi: mentre 'Dracula' è costruito come un collage di lettere, pezzi di diario, telegrammi etc., 'La tana del Verme Bianco' è un romanzo anche strutturalmente molto più convenzionale, narrato in terza persona da un Io onnisciente.
In breve (per quanto possibile) la trama. Un giovane e ricco australiano, Adam Salton, giunge in Inghilterra per la prima volta perché un vecchio zio, possidente terriero, ha deciso di farlo suo erede. La tenuta dello zio, Lesser Hill, è nel cuore di quello che fu il regno di Mercia, la più potente entità statale dell’Inghilterra dei primi secoli dell’era cristiana: nei dintorni di Lesser Hill altre tenute, dagli evocativi nomi di Castra Regis, Mercy’s Farm e Diana’s Grove, rivelano che tali luoghi rimandano alle epoche antecedenti il regno di Mercia, alla dominazione romana e prima ancora alle civiltà druidiche. Castra Regis è proprietà della famiglia Caswall, il cui rampollo sta per giungere dopo aver vissuto all’estero come il padre. Diana’s Grove appartiene invece ad una giovane ed affascinante vedova, Lady Arabella March, che veste sempre di bianco ed ha un ché di glaciale nell’aspetto e nel comportamento. Mercy’s Farm è abitata da una famiglia di fattori dei Caswall, e vi vivono due giovani e belle cugine. Subito Alan – cultore di storia antica – entra in contatto, grazie ai colloqui con un amico dello zio, l’ex diplomatico Sir Nathaniel de Salis, con la storia della regione e con le sue leggende, in particolare quella, risalente al primo medioevo, della presenza di un gigantesco animale, un verme bianco (dove l’inglese "worm" è da intendersi con una accezione diversa da quella che assume nella nostra lingua, più simile a quella di drago) che vivrebbe da millenni nelle profonde cavità del suolo, emergendo periodicamente per nutrirsi di esseri umani. L’erede dei Caswall, Edgar, giunge a Castra Regis accompagnato da un enigmatico e truce servo nero; durante la festa per il suo arrivo Adam si innamora di Mimi, una delle due cugine di Mercy’s Farm, mentre Lady Arabella – la cui proprietà è oberata dai debiti – trama per farsi sposare da Edgar Caswall. Egli però, cerca di sottomettere a sé Lilla, l’altra cugina di Mercy’s Farm, usando la forza dell’ipnosi, che sembra conoscere molto bene essendo cultore del mesmerismo come i suoi antenati: la grande forza magnetica di Mimi salva però la cugina dagli assalti di Caswall. Nel corso di lunghi colloqui, perlopiù serali, sorseggiando un buon tè o fumando un ottimo sigaro, Adam e Sir Nathaniel si convincono che Lady Arabella non è che una sorta di reincarnazione del terribile Verme Bianco, e quindi decidono di annientarla. Tra colpi di scena ed episodi sempre più inquietanti e drammatici il romanzo giunge all’inevitabile lieto fine.
Già da quanto detto emergono alcuni degli elementi di ingenuità e completa inverosimiglianza della storia. Intendiamoci, le novelle gotiche sono strutturalmente inverosimili, e la maestria dello scrittore sta proprio nel trasformare l’inverosimiglianza in un elemento secondario rispetto al pathos e alle emozioni che il racconto trasmette: qui l’inverosimiglianza è invece elemento che sovrasta tutto, e la sconnessione tra le varie parti della storia denota il tentativo, goffamente non riuscito, di trasformare una serie di leggende popolari in una storia unitaria, che però non prende mai il lettore, per il suo sapore posticcio e raffazzonato. I vari personaggi sono solo dei bozzetti stereotipati, funzionali ad un disegno precostituito che però risulta anch’esso alquanto sbiadito. Si tenga conto che quando Stoker scrive questo romanzo siamo ormai già nel novecento, e si confronti questo romanzo ad esempio con 'Il giro di vite' di Henry James, di poco precedente, per capire meglio come ci si trovi di fronte ad un’opera indubbiamente minore rispetto allo "zeitgeist".
Nondimeno, La tana del Verme Bianco è un’opera importante perché appartiene appieno – sia pure con un clamoroso ritardo – al clima positivista che aveva caratterizzato buona parte della letteratura della seconda parte dell’800 europeo e in particolare l’epoca vittoriana in Gran Bretagna. Che un romanzo gotico possa avere come sostrato culturale il positivismo può apparire una contraddizione in termini, un paradosso, ed il fatto che lo sia può forse contribuire a spiegare le strutturali lacune del romanzo.
Stoker è irlandese, ma è protestante; politicamente è un liberale, moderato e conservatore, e pur sostenendo la necessità di una riforma dei rapporti tra Irlanda e Gran Bretagna è comunque convinto che l’Eire debba rimanere sotto l’ombrello della monarchia britannica, vista come fattore di stabilità e progresso. E’ pienamente organico al positivismo britannico, convinto quindi che la scienza e l’ordine economico e sociale vigenti portino l’umanità verso un futuro radioso. Questo approccio positivistico al romanzo gotico emerge a vari livelli ne 'La tana del Verme Bianco'. Innanzitutto lo troviamo nel significato stesso che Stoker attribuisce all’elemento misterioso e orrifico su cui il romanzo si fonda: non vi è infatti alcun approfondimento problematico, alcuna ambiguità circa il ruolo che esso gioca nel contesto del racconto. Per Stroker il Verme Bianco è un retaggio del passato, un residuo di tempi oscuri che deve essere annientato innanzitutto perché inattuale, perché in profondo contrasto con la direzione presa dal progresso moderno. In questo senso il modo estremamente prosaico con cui l’annientamento avverrà assume il connotato di simbolo preciso della lotta della moderna civiltà contro le forze oscurantiste del passato. L’ansia positivistica di Stoker si concretizza anche nella base storiografica che egli attribuisce al suo racconto: i riferimenti storici di cui il romanzo è intriso sono reali, e la funzione dei lunghi dialoghi tra Adam e Sir Nathaniel che caratterizzano i primi capitoli del racconto è proprio quella di introdurre il lettore in un contesto di verità storica.
Vi è poi – a riprova del conservatorismo che sottintende la visione del mondo di Stoker – la scelta dell’ambientazione e la caratterizzazione (come detto largamente bozzettistica) dei personaggi. La storia si svolge tra la piccola nobiltà terriera inglese, la classe che più di ogni altra rappresentava il collante identitario della società vittoriana: il vecchio Salton e Sir Nathaniel (ma anche il sia pur australiano Adam) sono dei veri e propri stereotipi dell’autorappresentazione di tale classe, che si vede colta, pratica, capace di mantenere l’ordine e di agire nell’ambito di un rispetto assoluto di regole di "bon ton" e di riti laici che assumono un preciso connotato sociale. Fa oggi forse sorridere che la sera stessa di un orrendo delitto o dei tragici fatti che mettono fine alla storia i protagonisti si trovino a discuterne pacatamente mentre sorseggiano il tè, ma questo particolare era funzionale all’invio di un preciso messaggio sociale e politico ai lettori.
Chi, pur appartenendo a tale classe, si pone al di fuori delle regole che i tempi impongono, inseguendo fantasmi del passato (Lady Arabella e Edgar Caswall) è condannato alla inevitabile distruzione.
I personaggi appartenenti alle classi inferiori sono descritti o come dei selvaggi furbi, crudeli ed anche a tratti ridicoli (il servo nero Oolanga, che per come viene tratteggiato non è azzardato a mio parere parlare di razzismo dell’autore) o tramite il filtro di un paternalismo protettivo (gli abitanti di Mercy’s Farm, con la notevole eccezione di Mimi, il personaggio forse più complesso e sfaccettato della storia).
La piccola nobiltà terriera protagonista del romanzo è tutt’altro che ancorata a schemi del passato, ma pienamente organica ad uno sviluppo sociale nel quale il valore borghese per eccellenza, quello del denaro, è stato fatto pienamente proprio. Più volte nel romanzo emerge il tema dell’importanza del denaro e del suo possesso quale fattore di promozione sociale. Il finale, con la scoperta di un giacimento di caolino che renderà una fortuna ad Adam è la riprova (se ce ne fosse stato bisogno) dell’importanza che Stoker attribuisce al denaro e di come questo sia visto (significativamente dal protestante Stoker) come la giusta ricompensa di chi agisce 'in grazia di dio'.
Molti altri sarebbero gli spunti analitici da approfondire rispetto a questo a mio parere non riuscito romanzo, a cominciare da quelli legati all’identificazione della donna attraente e sensuale con il serpente, ma ciò richiederebbe un lungo capitolo che renderebbe ancora più noiosa questa recensione.
Chiudo quindi rimandando innanzitutto me stesso alla prossima lettura, che spero più intrigante, di 'Dracula', per affinare il giudizio su questo scrittore che tante perplessità mi ha al momento suscitato.
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Il Giro di vite
Il gotico anglosassone dell'800
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Piccolo gioiello per entrare nei mondi dell’autore
Nel 1883 Robert Louis Stevenson, allora trentatreenne, dà alle stampe il suo primo romanzo, L’isola del tesoro, destinato ad essere, soprattutto nelle sue riduzioni per ragazzi, uno dei libri capaci di far innamorare della grande letteratura intere generazioni di giovani lettori. Sino ad allora aveva pubblicato solamente alcuni racconti, e tra questi vi era 'The merry men', edito nel 1882.
Questo volumetto dell’editore Stampa alternativa, fortunatamente ancora disponibile, ha il grandissimo merito di proporci questo autentico piccolo gioiello della produzione stevensoniana, la cui lettura, a mio modo di vedere, è fondamentale per entrare negli scenari e nei mondi interiori di cui l’autore ci parlerà nei suoi successivi capolavori.
Vi è subito da dire che questa edizione del racconto, ancorché come detto meritevole, perpetra nei confronti dell’originale una sorta di alto tradimento, traducendo il titolo originale in Il tesoro della “Espiritu santo”. Le motivazioni di tale scelta possono essere facilmente comprese: legare in qualche modo il racconto al capolavoro più conosciuto di Stevenson al fine di renderlo più appetibile per il lettore. E’ tuttavia una scelta non giustificata, sia perché il titolo originale era facilmente traducibile (precedenti edizioni italiane lo hanno reso con 'Gli allegri compari'), sia perché di fatto sposta il fulcro del racconto su un soggetto che, sia pure non secondario, non era certo, come vedremo, elemento narrativo cui l’autore avesse conferito centralità assoluta nell’economia del racconto. Tra l’altro il titolo originale, rimandando direttamente al mito di Robin Hood, aggancia immediatamente il racconto alla tradizione narrativa britannica, e questo elemento viene perso completamente nel titolo arbitrariamente attribuito. Ancora, si perde il tragico contrasto insito nell’attribuire un titolo giocoso ad un racconto che, come vedremo, si caratterizza per la cupezza dei toni e per la drammaticità.
Il racconto è ambientato nel XVIII secolo, in una piccola isola delle Ebridi, nel Nord-ovest della Scozia. Il protagonista che narra in prima persona, studente universitario di Edimburgo, vi si reca come ogni anno per passarvi l’estate dallo zio, che vive stentatamente con la figlia (la moglie è morta di parto), un servitore e poche pecore. Lo zio Gordon è un fanatico presbiteriano, chiuso e rozzo, dedito al bere, che si esprime in uno stretto dialetto scozzese, ma lo studente è innamorato della bella e sensibile cugina e vorrebbe sposarla per portarla via di lì.
Egli è inoltre convinto, da ricerche svolte, che una delle navi della 'Armada invencible' di Filippo II, la Espiritu santo, si sia inabissata con il suo favoloso carico d’oro proprio in una delle baie dell’isolotto, ed è deciso a trovarla per arricchirsi e poter sposare Mary Ellen.
Giunto alla solitaria fattoria apprende dallo zio che pochi mesi prima una goletta ha fatto naufragio nei pericolosissimi scogli semisommersi che circondano l’isola, chiamati popolarmente The merry men, ed è andata ad arenarsi, ormai spezzata in due e senza alcun superstite, nella baia ove lui ritiene di poter trovare ciò che resta della Espiritu santo. In casa vi sono infatti delle suppellettili nuove e di un certo lusso, che lo zio ha recuperato dal relitto. Lo zio Gordon quella sera parla a lungo del mare come dell’inferno, un luogo pieno di morti e di mostri.
Quando il giovane si reca nella baia trova il relitto ma anche una tomba fresca, che lo colpisce molto, anche perché lo zio non vi aveva accennato. Si immerge nudo nelle acque della baia per cercare la Espiritu santo, ma recupera solo una fibbia ed un osso umano, convincendosi presto che la nave non c’è. Mentre rientra, vede dall’alto alcuni uomini sbarcare nella baia e consultare delle mappe. Si convince che siano gli avventurieri spagnoli, anch’essi alla ricerca della Espiritu santo, di cui aveva sentito parlare ad Edimburgo. Quando questi ritornano sulla goletta attraccata al largo della baia, sta per scatenarsi una delle terribili tempeste estive che caratterizzano quei mari. Dalle alture dell’isola, quella sera, assieme allo zio assiste all’inevitabile naufragio, con la goletta che si inabissa dopo avere urtato i terribili Merry men. Lo zio, che attribuisce ciò che sta accadendo alla volontà divina, passa la notte all’aperto, sotto la tempesta, bevendo e scrutando il mare, deluso perché il naufragio al largo non gli darà modo di recuperare alcunché dal relitto. Mary Ellen, intanto, rifiuta l’offerta di matrimonio fattale dal giovane dicendo che è suo dovere rimanere accanto al padre.
Il mattino seguente zio, nipote e servitore si recano alla baia: il giovane è convinto che la tomba da lui trovata sia il frutto di un assassinio perpetrato dallo zio. Dal relitto sulla riva emerge misteriosamente un nero che si esprime in un idioma incomprensibile, forse uno schiavo lasciato a riva dall’equipaggio della goletta naufragata la sera prima. Questa apparizione porta alla follia lo zio, e il racconto giunge alla sua tragica e repentina conclusione.
Come detto, in questo bellissimo, breve testo di poche decine di pagine si ritrovano molti degli elementi che Stevenson svilupperà nelle opere maggiori, che scriverà nel decennio successivo.
Innanzitutto vi è l’ambientazione storica, che caratterizza molte delle sue opere: Stevenson è un profondo cultore della storia britannica, ed anche in questo caso, senza peraltro che ciò sia dichiarato esplicitamente, l’atmosfera culturale del racconto è immersa nel clima di divisione politica ed intolleranza religiosa che caratterizzava la Scozia all’indomani della battaglia di Culloden. Gli sconnessi discorsi in dialetto di zio Gordon, tradotti in un linguaggio un po’ artificioso (di cui peraltro si deve notare la difficoltà intrinseca di traduzione) ci dipingono con grande efficacia lo spirito di un’epoca, di una terra e di una cultura ancestrale, nel quale il male è espressione della volontà divina, dove non c’è spazio per redenzione alcuna. A questa cultura si contrappone quella razionale e urbana dello studente: vedremo come questa contrapposizione si risolverà.
Vi è poi, dominante, il tema della natura primigenia, del mare, e del rapporto dell’uomo con questi elementi. Le descrizioni dell’isola, delle maree e delle correnti che la circondano, degli insidiosi Merry men che sembrano rimandare sull’isola un allegro canto da osteria quando i flutti si frangono su di loro e la schiuma bianca delle onde si innalza gioiosamente ad altezze incredibili, essendo in realtà strumenti inconsapevoli di terrore e morte per i marinai, sono pagine memorabili di grandissima letteratura.
A mio avviso appare anche in questo racconto, sia pure in forma forse criptica, anche un altro dei temi cardine della letteratura di Stevenson: il tema del doppio.
I due protagonisti, lo studente e lo zio, sono l’uno la negazione dell’altro: uno giovane l’altro vecchio; uno colto l’altro ignorante; uno cittadino l’altro solitario. Durante il racconto, tuttavia, il loro profilo cambia profondamente. Lo zio è stato marinaio, conosce sino in fondo il rispetto che si deve al mare, il timore che deve ispirare e l’orrore che genera. Tradisce però questo sentimento puro nei confronti del grande inferno e profana la memoria dei morti del relitto per appropriarsi di pochi mobili e di argenteria: per prenderli è giunto forse sino ad uccidere. E’ questo atteggiamento mercantile che lo condurrà al suo tragico destino. Al contrario il giovane protagonista giunge sull’isola proprio con l’intento di strappare al mare i suoi tesori (sia pure per un nobile scopo). Quando però, immergendosi nudo – particolare secondo me molto significativo, indicativo di una sorta di nuovo battesimo purificatore – afferra, tra le alghe viscide, un osso umano, si rende conto non semplicemente dell’inutilità della sua ricerca, ma di come essa fosse in qualche modo blasfema, di come calpestasse – per un desiderio di ricchezza – la sacralità di quello che viene più volte definito come un grandissimo cimitero.
E’ quindi come se i due protagonisti compissero un viaggio in direzioni opposte: l’uno – lo zio – verso il tradimento delle proprie convinzioni profonde, l’altro – il giovane – verso la comprensione delle ragioni della natura e della necessità del limite nel comportamento umano di fronte al rispetto che dobbiamo alla natura e ai drammi che provoca e nasconde. Il doppio, che in questo racconto viene declinato come contrasto tra un atteggiamento strumentale e predatorio nei confronti della natura e degli uomini – tipico della società industriale e positivista – e una visione più sacrale dei rapporti sociali e con la natura, si interseca quindi durante il racconto, e le figure che lo incarnano quasi cercano di scambiarsi i ruoli; ma Stevenson ci dice, con lo zio inseguito dai suoi neri demoni, che rinnegare – al fine di accumulare ricchezza – i principi morali che ci devono guidare porta alla distruzione.
La natura di Stevenson anche in questo racconto assume tratti che si potrebbero chiamare leopardiani: è una natura indifferente e matrigna, tremendamente bella, e l’uomo può solo tentare di esorcizzare il fascino orrifico che suscita attribuendole nomi gioiosi: ecco perché gli scogli più insidiosi, quelli sui quali si frangono le navi sono gli Allegri compari (o le Teste matte in questa edizione), ed ecco perché è grave, a mio avviso, che il titolo del libro sia stato cambiato.
Vent’anni dopo questo racconto, quando Stevenson era ormai morto da più di un decennio, un altro grandissimo narratore (quasi) britannico si confronterà con i temi del mare, della natura selvaggia e del rapporto profondo e contraddittorio tra questa a l’uomo: Joseph Conrad. Quanto deve un capolavoro come Cuore di tenebra ad uno scrittore come Stevenson? Forse la risposta sta anche in una piccola frase che lo zio Gordon pronuncia durante uno dei suoi apparentemente sconnessi discorsi: "Oh signorimei – gridò – l’orrore, l’orrore del mare!"
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Joseph Conrad
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La continuazione di Tristram Shandy...
...con altre modalità
La Gran Bretagna del XVIII secolo è senza dubbio la terra dove nasce il romanzo moderno, dove vengono poste le basi, anche teoriche, di quello che sarà il successivo sviluppo della letteratura borghese come la conosceremo compiutamente nel corso dei due secoli successivi. Scrittori come Defoe (che era irlandese come molti degli autori britannici), Fielding, Smollett e Richardson, solo per citare i maggiori, sono unanimemente considerati tra i fondatori di quel genere letterario che in termini anglosassoni viene definito novel – nel quale l’elemento realistico, spesso accompagnato da intenti satirici, caratterizza la narrazione – in contrapposizione al romance di origine medievale il cui tratto dominante è la dimensione eroica e cavalleresca. Anche se nei secoli precedenti ed in contesti sociali diversi non erano mancati esempi di opere letterarie riconducibili a posteriori ai caratteri essenziali di novel (l’esempio più straordinario essendo il Don Quixote) è con l’affermazione della società borghese tra XVII e XVIII secolo in Gran Bretagna che questo genere diviene uno dei pilastri della produzione letteraria, in quanto capace meglio di qualunque altro di descrivere i nuovi rapporti sociali, di trarre dalla realtà – secondo il necessario pragmatismo che i tempi imponevano – gli elementi per veicolare o criticare, a seconda dei casi, i nuovi valori su cui si fondava la società.
E’ in questo straordinario contesto sociale e culturale che vedono la luce anche le opere di un autore come Laurence Sterne, che pongono già le basi per la destrutturazione formale (ma anche sostanziale) del romanzo borghese che si avrà compiutamente quasi due secoli dopo, in quel drammatico passaggio tra il positivismo tardo ottocentesco e la grande crisi novecentesca.
'La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo' è senza dubbio una pietra miliare della letteratura di ogni tempo: oltre ad essere un libro divertentissimo, la sua lettura ci permette davvero di addentrarci in un mondo letterario che definire moderno e anticipatore è sicuramente riduttivo.
Non è tuttavia di questo capolavoro, che consiglio caldamente al godimento di quei pochi che leggeranno queste note (anche se sono convinto che quasi tutti tra quei pochi l’abbiano già letto), che intendo parlare, ma dell’altra grande opera di Sterne, relativamente meno conosciuta, ovverosia il 'Viaggio sentimentale'.
Questa opera, che restò incompiuta per la morte dell’autore, è legata a doppio filo al Tristram Shandy per vari motivi: innanzitutto il protagonista e narratore del Viaggio è Yorick, il parroco di Shandy Hall che gioca un ruolo non secondario tra i personaggi del capolavoro Sterneiano; nel Viaggio, inoltre, non sono pochi i richiami ed i rimandi all’opera maggiore, a partire dal fatto che Tristram intraprende, nel libro nono, un viaggio in Francia, di cui Yorick ripercorre sostanzialmente le tappe.
Il Viaggio sentimentale è infatti – o avrebbe dovuto essere – il resoconto stilato a posteriori dal protagonista di un Gran tour attraverso la Francia e l’Italia. Purtroppo come detto l’opera è incompiuta, e termina bruscamente mentre Yorick si trova in una locanda a pochi chilometri dal passo del Frejus. Con gran rammarico, quindi, non sapremo mai come Sterne avrebbe descritto il nostro paese: possiamo solo immaginare che non sarebbe stato tenero, visto il tono generale dell’opera, e che quindi ci manchi una critica che forse ci sarebbe stata utile ancora oggi.
Il 'Viaggio sentimentale' nasce essenzialmente come la satira di un genere letterario allora molto in voga in Gran Bretagna: la Travel literature. La società ricca e colta inglese (ma in breve la moda si diffonderà in tutta Europa) sentiva il bisogno di completare la propria educazione viaggiando attraverso la Francia (considerato il paese dai modi più raffinati) e l’Italia (patria della bellezza, della grande arte e dei lasciti dell’antichità). Per accompagnare questi viaggi era nata una fiorente industria letteraria che produceva guide al viaggio, nelle quali si descrivevano usi e costumi, leggi, tradizioni, monumenti antichi dei luoghi, redatte in forma impersonale ed oggettiva: il più importante autore di una di queste guide è Tobias Smollett (che nel Viaggio Sterne sbeffeggia chiamandolo Smellfungus), con i suoi Travels through France and Italy. Sterne, in piena coerenza con quanto costituisce l’essenza del Tristam Shandy, ritiene che si debbano indagare e raccontare, in luogo dei grandi fatti e delle grandi evidenze, le trivialities, ovverosia gli elementi minuti, quasi privati che caratterizzano l’esperienza del viaggio, perché solo da questi si può ricavare e trasmettere il senso profondo dell’esperienza umana e formativa che il viaggio comporta, permettendo di mettere a confronto i nostri assunti culturali con quelli che il carattere dei luoghi esprime. Il 'Viaggio sentimentale' è quindi fatto di piccoli episodi, alcuni teneri ed intimi, altri – molti altri – molto divertenti grazie ad una buona dose di satira e anche di raffinata – quasi nascosta – licenziosità, ma tutti caratterizzati da un tono bonario e il cui intento è quello di permetterci di capire che l’incontro con il diverso, con l’estraneo è elemento fondamentale la nostra crescita umana. Esemplare a questo proposito è il primo incontro del viaggio: quello di Yorick – non dimentichiamoci sacerdote anglicano – con un vecchio frate mendicante, in una locanda di Calais. Inizialmente Yorick tratta male il frate, e gli rifiuta l’elemosina sulla base di una morale preconfezionata secondo la quale ben altri sono i poveri al mondo. Poche pagine dopo, però, i due si reincontrano, e di fronte al candore e all’umanità del frate Yorick si rende conto di avere agito per partito preso: i due si scambiano le rispettive tabacchiere e Yorick ci dice che quel piccolo oggetto diviene per lui molto importante, per il ricordo che vi è associato, e che qualche anno più tardi, tornato a Calais, piangerà calde lacrime sulla tomba di frate Lorenzo (da notare che il personaggio ha lo stesso nome, italianizzato, di Sterne). Ecco, l’elemento tipicamente sterneiano di questa storia sta proprio, a mio avviso, nello scambio delle tabacchiere: è questo piccolo gesto, sono questi piccoli oggetti che materializzano la storia e la sua morale. Come sempre in Sterne, le grandi verità sono svelate da fatti apparentemente marginali, ma che spesso contengono e ci svelano una verità più profonda dei fatti ufficiali.
Una piccola, preziosissima perla di questo stile, sul versante della satira e dello sberleffo, è l’episodio raccontato in poche righe al termine del primo dei due volumi di cui l’opera si compone. Yorick ci dice che un giorno, attraversando la campagna in carrozza con la Marchesa de Rambouillet (celebre "preziosa", animatrice di un salotto letterario, peraltro morta oltre un secolo prima del viaggio di Yorick) ella gli chiese di tirare la cordicella per fermare la carrozza: alla domanda di Yorick su cosa desiderasse, ella rispose: 'rien que de pisser.' Sublime, come le susseguenti considerazioni di Yorick, che lascio al piacere del lettore.
Questo modo di vedere le cose, di trasmetterci le grandi verità attraverso i piccoli fatti, richiede che un altro dei dogmi della Travel literature venga infranto: nel Viaggio sentimentale non esiste una impersonale oggettività, ma tutto è filtrato attraverso i sensi e i ricordi di Yorick: come dice Giuseppe Sertoli nella bella edizione Oscar Mondadori da me letta, ciò che Yorick non vede, non sente, non sperimenta direttamente semplicemente non esiste. Ciò spiega anche il titolo dell’opera: il protagonista del viaggio è infatti il sentimento di Yorick di fronte alle persone che incontra e alle situazioni in cui si trova. E questo sentimento muta nel tempo, facendo assumere al viaggio anche una dimensione di formazione, e all’opera quasi quella di un bildungsroman. Lo Yorick che incontra frate Lorenzo a Calais è profondamente diverso, infatti, da quello che piangerà sulla sua tomba, e questo cambiamento è il frutto precipuo del viaggio intrapreso.
Ci sarebbero tantissime altre cose da dire su quest’opera così complessa e allo stesso tempo così godibile, sui suoi rapporti profondi e sulle differenze con il Tristram Shandy, sul debito di Sterne nei confronti di grandi del passato (il nome del protagonista rimanda direttamente a Shakespeare, ma non mancano richiami precisi a Rabelais, a Cervantes e ad altri): molti di questi aspetti possono essere approfonditi nel già citato, bellissimo saggio introduttivo all’edizione Mondadori scritto da Giuseppe Sertoli.
Una cosa importantissima da evidenziare è che questa edizione, come la maggior parte di quelle edite in Italia, è basata sulla traduzione che del Viaggio fece Ugo Foscolo nel 1812-13, con lo pseudonimo di Didimo Chierico. Indubbiamente questo fatto testimonia come Foscolo sia stato uno degli intellettuali più cosmopoliti del panorama italiano del primo XIX secolo e come proprio questo cosmopolitismo gli abbia permesso di comprendere la grandezza di uno scrittore certo molto lontano da un clima intellettuale e sociale prettamente italiano (per quanto possa avere senso questo termine per il periodo considerato). Per noi lettori di oggi la prosa di Foscolo può essere a volte ardua, e la sua comprensione richiede di immergersi con la dovuta concentrazione nella lettura: superati gli ostacoli, tuttavia, fornirà un ulteriore elemento di fascino a quest’opera. Chi non se la sentisse di affrontare Didimo Chierico ha comunque a disposizione una curata edizione Marsilio con una moderna traduzione di Viola Papetti , corredata, come del resto l’edizione Mondadori, del testo originale a fronte.
In conclusione, se il Viaggio sentimentale non ha certo la forza dirompente e corrosiva del Tristram Shandy, se in alcune sue parti il patetico sembra prevalere (sempre però accompagnato da un brusco ritorno alla trivialità) è sicuramente una lettura che ci permette di completare la comprensione della poetica di uno dei più grandi inventori di letteratura di sempre, capace di intuire che ciò che era da poco stato costruito, il romanzo, necessitava – per potersi evolvere nel tempo – di essere distrutto. È questa visione dialettica, questa capacità dei più grandi di smontare ciò che li aveva preceduti e rimontarlo secondo canoni diversi che ci ha regalato la gioia di leggere tanti capolavori della letteratura di ogni tempo.
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