Opinione scritta da Romanziere
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L'osceno di cartone
Un romanzo di formazione lineare questo di Missiroli, imbevuto di citazionismo e debole nella costruzione del "conflitto narrativo" portante.
L'evoluzione del protagonista, l'italofrancese Libero Martell, avviene attraverso l'indagine sessuale e letteraria (la prima banale la seconda ostentata) ma risulta scevra di una sofferenza autentica che per contrasto legittimi la maturità finale.
Trauma, inadeguatezza, lutto, sono tutti elementi che escono dalla penna di Missiroli ma che non riescono a oltrepassare la "consistenza di cartone", risultando facilmente superabili dal protagonista, che, invece di soffrire, appare avvolto da un alone di predestinazione positiva.
La scrittura di Missiroli, fluida e chiara, ricorda quella di Kundera e Houellebecq depurata però dal peso storico-politico e dai liricismi del primo e dagli azzardi espliciti del secondo.
Quasi infastidisce che tutti i personaggi del libro possiedano una copia di Camus e di Faulkner sotto al letto o in cantina, e si rimane sorpresi -dopo un'occhiata al titolo- di non trovare nulla di davvero osceno. La sessualità presente nel romanzo (come componente umana fondante e strumento di scoperta) non oltrepassa una normalità che quasi annoia. Avevo sentito parlare e scrivere bene del giovane Missiroli, probabilmente i suoi libri migliori sono i precedenti o quelli che verranno.
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Letteratura italiana del '900
Si sono versate fluenti parole a proposito di questo romanzo, a un certo punto del quale, dentro un'innocua parentesi, compare un avverbio di tempo che pare specificare quale sicilianità Tomasi di Lampedusa stia cercando di ritrarre: «i Siciliani (di allora)». Questa precisazione invece -da buon paradosso- non fa che estendere al di là di ogni limite temporale la valenza di un'opera incentrata sul concetto di inevitabile trasformazione. L'autore sfogliando cinquant'anni di storia umana (1860-1910) fissa sì lo sfogliarsi, petalo dopo petalo, dell'aristocrazia siciliana, ma di fatto trascende il complesso -e forse impossibile- mutamento dei siciliani in italiani.
A differenza di quanto si potrebbe immaginare infatti, nel romanzo, il rapporto fra componente storica e narrazione vede la prima al servizio della seconda; questo poichè tutta l'opera è in fondo un'allegoria esistenziale della condizione umana. Agli occhi del lettore il Gattopardo (il protagonista Don Fabrizio Corbera Principe di Salina, figura possente nel corpo e nello spirito) è legittimato ad essere grande per discendenza, ceto, rappresentanza, meriti, ma diviene immortale in quanto consapevole della propria caducità.
Una sicilia impervia nei luoghi e nello spirito fa da sfondo alle poetiche e malinconiche descrizioni che rendono il romanzo nostalgico come nostalgica è la disillusione. E allora per Tancredi e Angelica figli del compromesso storico l'amore «si richiudeva nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra».
La scrittura di Tomasi è limpida, le sue similitudini intense. Durante le otto parti del romanzo nulla è mero riempitivo: ogni personaggio financo un cane, ogni comparsa, ogni luogo, ogni stanza, gesto, dettaglio, raggio di luce è posto dalla parte giusta della bilancia per far quadrare un meccanismo letterario possente.
Così una caratterizzazione dei personaggi tra le più vivide della letteratura italiana dai tempi dei Promessi Sposi, si unisce a un gusto narrativo simile (a mio avviso migliore in quanto magico nell'autenticità) a quello che di recente ha trovato consenso di ampio pubblico fra le pagine di Gabriel García Márquez.
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Afasie generazionali
Pianticelle nate moralmente appassite (i giovani) messe a confronto con le memorie assopite nel bosco desertico di padri assenti. Un abile intreccio di passi sbagliati -ma inevitabili- tra la nostalgia del passato e la repulsione di un presente afasico.
Vorrei spendere le mie parole più belle per parlare di Natalia Ginzburg (nata Levi nel 1916), parole anche di invidia per colei che a ventuno anni di età -e per prima in Italia- tradusse il volume primo della Recherche di Proust.
L'apologia degli scrittori -lo riconosco- è cosa assai triste (al pari della speranza) ma spero che alla Ginzburg vengano riconosciuti i meriti intellettuali -e concessa la fama letteraria- che le spettano, di diritto, oggi.
La sua opera più nota (Lessico Famigliare) edita nel '63, la fece conoscere al grande pubblico d'allora (ma in fondo gli Strega vanno e sono sempre andati di moda) e le consentì di ottenere metà di quel primato italiano riservato agli “scrittori donna” (l'altra metà fu della Morante). Ma al di là dei meriti narrativi la Ginzburg è stata un'abile saggista: “Le piccole virtù” credo sia un piccolo capolavoro e una piccola virtù della saggistica italiana (“Ritratto di un amico” è poi senz'altro lo scritto su Pavese più bello di cui la critica letteraria disponga); ed è stata un'instancabile donna “impegnata”: all'Einaudi prima, in politica poi.
Caro Michele (1973) è un “romanzo ellittico”: la Ginzburg ha infatti costruito un'immensa ellissi omettendo dalla narrazione proprio il personaggio attorno al quale la storia si snoda: Michele.
Il “tema della mancanza” (o meglio “delle mancanze”) viene filtrato attraverso l'artificio della lettera. Molti hanno scritto di Caro Michele come di un romanzo epistolare, e se lo è, di certo lo è in un modo atipico: diversi sono infatti i passi narrativi che si alternano alle missive dei personaggi.
Lo scopo principale -e geniale- delle epistole è comunque quello di trasformare l'ordine regolare degli avvenimenti mantenendone però l'aspetto cronologico. Le lettere fungono da filtro per accogliere la storia da una “prospettiva laterale”, prospettiva che alimenta parallelamente le descrizioni altrui, la propria fantasia e la realtà. Ciò che il lettore si trova davanti è una rete di lettere che i molti personaggi del romanzo si scambiano, lettere che appaiono come l'ultimo debole appiglio che mittenti e destinatari possiedono per restare uniti. Cosa vi sia a separarli? è semplice intuirlo: una profonda crisi generazionale e culturale (siamo all'indomani del 12 dicembre 1969, siamo all'inizio degli “anni di piombo”). La politica entra in questo romanzo, ma di sfuggita, si riesce solo a scorgerla, a intuirla con tutti i suoi risvolti drammatici.
Il vero nucleo del romanzo è la distanza tra le nuove generazioni (nomadi senza scopo né destino che non potranno invecchiare in quanto non sono mai stati giovani) e le vecchie generazioni (deboli conservatori di memorie). Tali distanze riguardano e permeano però tutte le generazioni ad ogni livello: nessuno riesce a comunicare in modo autentico e costruttivo con nessuno.
A fare da sfondo a queste distanze vi è poi una borghesia di facciata, dove articolate famiglie (vecchie e nuove) si sgretolano in un processo lento ma inesorabile in cui vengono annullate tutte le unità spaziali (Garboli ha scritto che le Famiglie della Ginzburg sono in realtà “tribù nomadi”).
L'impossibilità comunicativa negli anni '70 non è più una novità in letteratura, ma la lucidità cinica che descrive come questi personaggi non sappiano più riconoscersi (nel doppio senso di riconoscere se stessi e gli altri) fa intuire la presenza di una miriade di linguaggi differenti e inconciliabili.
Fruttero e Lucentini in una particolare critica al romanzo hanno parlato di “romanzo fantascientifico”, intendendo con tale definizione quella parte catastrofica delle opere di tale genere: i personaggi di Caro Michele sono -per i due scrittori- i sopravvissuti a una catastrofe culturale che ha distrutto ogni forma di intelligenza; per salvarsi essi si aggrappano alle cose (sono moltissimi gli oggetti simbolici con valore affettivo-esistenziale lungo il romanzo) accontentandosi solo di sopravvivere. A tenere unito un mondo in frammenti (oltre agli appena citati oggetti) appaiono a tratti alcuni personaggi con funzioni positive di collante (Angelica, una moderna Antigone)
Si possono cogliere poi due temi molto importanti dalla lettura: il tema dell'educazione nel complicato rapporto genitori-figli, e la crisi identitaria del mondo maschile (è chiave in tale direzione la figura di Osvaldo).
Caro Michele è un romanzo in cui la Ginzburg oltre allo scavo nella memoria -derivato dalla profonda conoscenza dell'opera di Proust- ha avuto modo di ritrarre la propria “triade femminile” (vi sono tre tipi di donne: donne stabili, donne che corrono, donne che camminano).
Concludo scrivendo dello stile di Caro Michele (l'aspetto più incompreso dell'opera): è uno stile volutamente essenziale e sintetico, con una riduzione ai verbi elementari e ai periodi brevi (l'utilizzo continuo del punto offre una narrazione sincopata). Tale secchezza sintattica -allontanandosi dall'introspezione- punta ad una schietta oggettività il cui fine è il rimando ad una “realtà elementare”, la quale non permette lo sfogo dell'emotività (il cui segno è l'aggettivo) poiché sono venuti meno i sostantivi che meritano d'essere qualificati.
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La ruota delle manifestazioni
Questo libro, questo noto libro, io in effetti non l'ho letto. I puristi storceranno il naso -ed io con loro- ma mi sembra doveroso precisare come io abbia appreso la storia di Siddharta: l'ho ascoltata.
Durante le ultime tre notti, poco prima che la veglia divenisse sonno, ho ascoltato i 12 capitoli del romanzo nella versione audiolibro raccontata da Enzo Decaro.
Ero già ampiamente a conoscenza di come il racconto di Hesse (pubblicato nel 1922) fosse divenuto col tempo uno fra i libri più inflazionati della letteratura del novecento, e probabilmente proprio per tale motivazione ho deciso di fruirlo in modo alternativo. L'esperienza si è rivelata piacevole.
Pur non essendo un esperto conoscitore delle dottrine orientali non ho faticato a scorgere il fascino magnetico esercitato ancora una volta da esse sull’ennesimo intellettuale occidentale (e su di me). Tuttavia, e in ciò sono critico, le due tradizioni filosofico-religiose (quella occidentale e quella orientale) si fondano su “modelli culturali” divergenti, i quali non possono essere integrati.
(Da una parte la concezione lineare ed escatologica tipica dell’occidente, dall’altra la concezione ciclica orientale). L’adattamento tra le due (avviato filosoficamente ed editorialmente da Schopenhauer un secolo prima) si rivela nel tentativo di Hesse -concettualmente- una mediazione tanto godibile quanto caotica.
Ciò che Hesse ha offerto col proprio calderone di influssi filosofici, oltre al “bildungsroman spirituale” per eccellenza, è una narrazione che sembra essere stata immersa nel sacro Gange, e che una volta emersa gocciola misticismo.
Mistico fin nel profondo il racconto lo è invece nell’essenza stilistica: lo stile di “Siddharta” è infatti fluido come l’acqua che scorre, e la sapienza espressiva di Hesse non è mai banale ma connota una ricercata semplicità.
Le parole sensuali (che parlano ai sensi) di un narratore esterno, onnisciente, ma soprattutto assai delicato, ci avvicinano all’interiorità del giovane Siddharta, figlio di brahmino.
Poche sono le descrizioni oggettive nel romanzo, ma con un lavoro deduttivo il lettore potrà definire agevolmente le coordinate spazio-temporali: India, VI-V secolo a.C.
Ma in fondo che importa del dove e del quando? In questa narrazione il tempo ha poca importanza; Hesse attraverso le proprie scelte lessicali e sintattiche vuole addirittura demolirlo il tempo, o almeno tentare di alleggerirlo.
Il viaggio interiore di Siddharta si svolge dapprima “contro” e poi “attraverso” il mondo: ciò che all'inizio è perseguito attraverso l'ascesi e la dottrina dei padri (meditare per distruggere l'”io” ed arrivare alla “vera verità” che si cela dietro le illusioni materiali) ben presto diviene insufficiente, e l'elogio dell'esperienza (la quale implica l'errore) si concretizza.
Nella rinuncia ad ogni dottrina che giunga dall'esterno (perfino quella insegnata dal Buddha, dal “perfetto” in persona) Siddharta riscatta il proprio io, e così, nel preferire “le cose” alle “semplici parole” si perde nel mondo degli "uomini-bambini" (Hesse qui mi pare potente ed autentico).
Nell'incipit del "Convivio" Dante ebbe scritto che per natura “tutti li uomini desiderano di sapere” e Siddarta, da uomo, dovrà fare i conti con il proprio scopo: il desiderio di conoscenza e di autoaffermazione. E' buffo constatare come il rifiuto di dottrine sia sempre parallelo al bisogno costante di “particolari maestri” (se stessi, il sesso, un fiume) e come l'accumulo di conoscenza -quando perseguito- è ciò che maggiormente allontana dalle risposte e dalla saggezza. In virtù di ciò la maturazione del personaggio mostrerà al lettore come il punto di arrivo non possa essere una “mèta evolutiva” bensì una "scoperta casuale e immanente"; nella ruota delle proprie manifestazioni (perché tutto è ciclico, e tutto ritorna) Siddharta prenderà atto di come il tempo sia un'illusione ed una convenzione necessaria agli uomini, e come le sue mutevoli ed eterogenee tappe esistenziali non erano altro che la semplice manifestazione assoluta dell'infinito nel finito.
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Accogliere il difficile
Avverto un lieve disagio ad iniziare la recensione di questo breve libro, e per diversi motivi. Rilke intanto non ne sarebbe felice. È lo stesso autore a chiarire il proprio modo di intendere la critica letteraria:
«nulla può tanto poco toccare un'opera d'arte quanto un discorso critico […] una delle professioni irreali e semiartistiche (la critica), che mentre illudono d'una vicinanza all'arte, praticamente negano e attentano l'esistenza d'ogni sua espressione».
Come se non bastasse, mi avvio a scrivere di pagine sorte non per la pubblicazione editoriale ma per la lettura privata d'un singolo (un giovane poeta) che in vita ebbe la fortuna di intrattenere una corrispondenza epistolare con uno fra i più grandi lirici del suo tempo.
Non dirò null'altro su Rainer Maria Rilke, ma concedetemi di trascrivere qui una poesia, il primo dei suoi componimenti, in cui io ebbi la fortuna di imbattermi.
Il poeta
«Da me t'allontani, tu Ora:
ferite mi dà il tuo colpo d'ala.
Solo: che debbo far con la bocca?
Con la mia notte? Col mio giorno?
Io non ho amata, non ho casa,
nessun luogo su cui viva.
Tutti gli oggetti, a cui mi dono
diventan ricchi e mi spendono.»
Dunque inizio e possa tu scusarmi Rilke.
Tra il 1903 ed il 1908, Kappus, un ventenne austriaco, sfogliò, probabilmente con le mani tremanti per l'emozione, una serie di missive arrivategli in risposta al suo accorato interrogativo: debbo io scrivere?
Il pretesto di dissertare in merito alla creazione artistica viene colto e sviluppato, ma ben presto il lettore si accorgerà di come esso si dissolva in una riflessione sull'esistenza, perché in fondo: «anche l'arte è solo una maniera di vivere».
Il pensiero di Rilke profuma di Romanticismo e così due sono i movimenti esistenziali che l'artista deve compiere: discendere nelle viscere della propria interiorità e osservare la natura.
“Ingenuo Rilke!” Tuoneranno i cinici...
Ma s'ingannerebbero, poiché fra queste pagine di elegante prosa si cela molto più di quanto sembri.
Il ruolo della natura è per Rilke quello di Hegeliana memoria: lo “spirito del tempo” che si attualizza permettendo alla bellezza di essere “ovunque”; ogni uomo quindi è piccola parte di una grande gestazione che lo trascende, e così si può solo cominciare ciò che poi non si vedrà.
Se vi è però una strada da percorrere nel mondo, questa è quella dell'attenta solitudine, un concetto che diviene filosofico: la solitudine, come tutto ciò che è difficile da sostenere, è un valore che si oppone alla vuota comunione triviale (con cui l'uomo distratto facilmente si appaga).
Ed ecco allora il vero coraggio: rifuggire dalle felicità semplici e immediate per accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca, abbracciando così la paura e il mistero, ma soprattutto le difficoltà.
Rilke è a tratti spietato quando afferma che gli uomini vili hanno recato danno alla vita cacciando via le loro esperienze insolite per difendere la "piccola" sicurezza del quotidiano; il risultato ottenuto: un “rattrappimento dei sensi”.
Nel dire tutto questo però Rilke non sale in cattedra né assume toni didascalici, è un uomo che soffre, è malato di incertezza come tutti lo siamo, ma è anche tanto sensibile da poter consigliare: bisogna educare il dubbio, palpare le forme del proprio carcere, perché si è malati e medici di se stessi.
Il pessimismo si fa verbo nelle sue parole «noi siamo soli» le quali, dopo aver incontrato i miei occhi, hanno condotto i miei pensieri a dei versi di Fabrizio De Andrè a me molto cari:
«questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli, questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli»
Il collegamento non è azzardato se lo si legge come un ribaltamento, perché il poeta fa del "ricordare" uno strumento privilegiato e consolatorio: la vera grandezza è il ritorno all'infanzia (un ritorno letterale in quanto soltanto da bambini si è fortemente influenzabili ma al contempo totalmente liberi dalle convenzioni opprimenti) e un ritorno mnemonico sulla scia dei propri ricordi (definiti da Rilke una “ricchezza preziosa e regale”).
Tra le pagine che tanto ho apprezzato c'è posto anche per l'amore, l'amore è difficile, e tale difficoltà lo legittima: voler bene da uomo a uomo è il compito imposto ad ognuno di noi, e così, nel trionfo della femminilità che deve riscattarsi per divenire autonoma, Rilke afferma cosa debba essere davvero l'amore: «due solitudini che si custodiscono.»
Nel giorno di natale Rilke scrive anche del rapporto umano con la fede in Dio («Cristo fu illuso dalla sua nostalgia») offrendo una profondità artistica e spirituale che le mie leziose parole non sono in grado di restituire.
Ho anche sorriso durante la lettura del libro, mi è scappata una risata amara che si lega al nostro “bel paese” (Rilke si trova a Roma durante la scrittura di alcune lettere): «spero che (il libro allegato) non sia andato perduto, non sarebbe tuttavia un'eccezione con le poste italiane, purtroppo”.»
Si può essere tutti poeti dunque? Solo chi morrebbe se fosse costretto a non scrivere potrà trovare «nell'ora più silenziosa della propria notte» una risposta nel profondo del cuore; tuttavia ognuno dovrà imparare almeno ad essere uomo, e per chi non dovesse farcela Rilke ha parole di conforto:
«Perchè credetemi: la vita ha ragione in tutti i casi.»
Il vostro (e nostro)
RAINER MARIA RILKE
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Sunto artistico di uno stile leggero
«La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio.»
Di recente sono stato al cinema. Il film che ho visto (una commedia nera imbevuta d'esistenzialismo), oltre ad offrirmi la frase d'esordio per questa recensione, ha stimolato le mie riflessioni sulla complicata e annosa relazione che sussiste fra la “ribalta” e i “retroscena” del sé; un rapporto coattivo studiato dai sociologi a cui ogni individuo mediaticamente influente è sottoposto. Ne seppe qualcosa Salinger.
J. D. Salinger (1919-2010) rifuggendo in modo estremo proprio da una popolarità e da una fama troppo scomode da sostenere, ha ottenuto di rimbalzo (effetto Streisand) una vera mitizzazione culturale. Quando poi il suo unico romanzo edito assurge a caposaldo della letteratura americana contemporanea, il passo dei lettori verso la mistificazione interpretativa è davvero breve (vedi Mark David Chapman). Per non trasformare il prologo di questa recensione in un mesto volo pindarico, mi affretto a precisare che il film a cui ho fatto riferimento offriva -allo spettatore letterariamente incolto- una luce attraente su tale Raymond Carver. Dove voglio andare a parare? Salinger e Carver sono gli artefici delle due più belle raccolte di racconti che la letteratura statunitense abbia offerto nella seconda metà del XX secolo. Una delle due è “Nove racconti”, 1953 (l'altra è “Cattedrale”, 1983).
Chiunque abbia letto “Il -tristemente tradotto in italiano- giovane Holden” ha forse trovato comodo, facile etichettare Salinger come un autore sopravvalutato (bollandolo di certo inferiore ai vari Cheever, Yates e compagnia bevente), ma tale atteggiamento svuota erroneamente lo scrittore della sua peculiarità oggettiva: quella dirompente freschezza espositiva mirabilmente tesa a velare e sgrassare al contempo (rendendoli così accessibili a tutti) un contenuto e una poeticità di prim'ordine; caratteristica tanto cara a fortunati scrittori che “sporcando” o “onirizzando” proprio quello stile rimangono a lui debitori (Bukowski e Murakami tanto per citare). Salinger ha fatto della leggerezza stilistica (del mostrare senza dire) un'arte, dimostrando al contempo che l'emulazione di tale stile non è affatto cosa semplice (il rischio quello di gigioneggiare).
Leggendo “Nove racconti” si può saggiare la maestria dello scrittore nel “dar vita” ai personaggi: i suoi appaiono caratterizzati a tutto tondo spontaneamente, sono autentici, di una nitidezza familiare che disarma. A chi parla di inconsistenza contenutistica voglio rispondere con due dei titoli della raccolta in questione: “Per Esmé: con amore e squallore” e “Teddy”. Narrazioni dove sbocciano amare le inquietudini della società e di un'intera epoca, narrazioni desolanti che mostrano fiere il disagio esistenziale dell'uomo di fronte alla guerra e alla fede; l'uomo che appare in quel ritratto quotidiano che ha per contrasti le belle illusioni dell'infanzia, illusioni incarnate nella figura dei “bambini di Salinger”, unici custodi della saggezza.
L'isolamento totale perseguito dallo scrittore (rifugiatosi nei boschi del New Hampshire e dedicatosi al buddismo prima e all'induismo poi) ha permesso di scorgere, per rimando, un amore puro e incondizionato per la scrittura, una dedizione per niente millantata ma invece sostanziata: prima dalle continue pubblicazioni sul New Yorker, poi dalla vasta produzione tutt'oggi inedita. All'ombra della disattenzione rimangono le scelte più audaci di Salinger, quali ad esempio l'ostinato desiderio di pubblicare le proprie opere esclusivamente con copertine bianche (affinché non venisse distolta l'attenzione del lettore dalla scrittura), o la continua lotta contro Hollywood per non svendersi. Gli amici della giovinezza (anch'essi scrittori) dicevano di Salinger che “a guardarlo da lontano si capiva che avrebbe pubblicato, che non era come tutti gli altri”. Dire che avevano ragione è superfluo.
“Nove racconti” è il sunto artistico di uno stile, quello di uno scrittore che, dopo averla sedotta, ha fatto l'amore con la scrittura in un modo viscerale. Salinger è forse l'unico esempio di uomo e di artista che ha tradito e ingelosito l'esistenza dei propri familiari preferendo ad essi un'altra famiglia, la sua famiglia letteraria, i Glass. Talvolta gli estremismi risultano ineffabili e nella tristezza di aver letto per intero l'opera già edita, consiglio (a partire proprio da questa raccolta) di approfondire la produzione di uno scrittore controverso che ha concluso la propria esistenza di uomo scrivendo esclusivamente per se stesso.
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Il vangelo secondo Djerzinski
Se ho conosciuto Michel Houellebecq è grazie ad un pungente articolo d'autore apparso su Repubblica, nel quale, Alessandro Baricco si misurava con il recensire l'ultimo romanzo dello scrittore francese: “Sottomissione”. Nonostante io conservi una piacevole riminiscenza dell'intera lettura di quell'articolo, l'unico passaggio che realmente ha suscitato il mio interesse è stato quello in cui Baricco elogiava Houellebecq per il magistrale utilizzo del “punto e virgola”. Questa atipica peculiarità dello scrittore, dopo avermi incuriosito e indirizzato all'approfondimento, mi porta adesso a iniziare questa mia recensione partendo proprio dallo stile narrativo de “Le particelle elementari” (Bompiani, 1999). Houellebecq ha confezionato un romanzo estremamente godibile sotto il profilo stilistico; servendosi di strutture sintattiche brillanti (che al lettore distratto possono apparire “facili”) e mascherandone la complessità, ha conferito alla narrazione una freschezza poderosa. Il risultato è una lettura scorrevole e fluida che si addensa solo incontrando il contenuto del romanzo, un contenuto abbondante, deturpante, che sembra straripare, che infastidisce.
Se posso permettermi di dare un consiglio ai potenziali lettori di questo romanzo è quello di non leggere sinossi della trama (in particolare quella annessa alla scheda su questo sito) poiché ho notato che tendano tutte a sbilanciarsi, fornendo informazioni gratuite in modo qualunquista. Ed io cosa posso dirvi allora?
Al centro di questo romanzo vi è l'umanità con il proprio contorto fulcro: l'Uomo. Proprio quel genere umano (ma sarebbe meglio parlare di specie) che non può prescindere dalla società di cui è vittima e carnefice, schiavo e padrone. Sofocle nell'Antigone (442 a.C.) ebbe scritto: «Molti sono i prodigi, e nessuno meraviglioso più dell’uomo», e Houellebecq per ritrarre le bassezze e le grandezze di una società che necessita un continuo ancoraggio metafisico ne ipotizza l'implosione.
Come è possibile fare con tutti i romanzi di spessore, anche nel caso de “Le particelle elementari” si riesce a designare una parola chiave che ne riassuma l'essenza, quella di questo libro è: DESIDERIO.
Seguendo da vicino (da estremamente vicino) i desideri più profondi di due quasi-fratelli che incarnano gli archetipi della società ospite, assistiamo all'innalzarsi della liberalizzazione ludica del sesso e all'estremizzazione del progresso scientifico. Ad equilibrare queste due vette troviamo l'apparente avvallarsi dell'amore (nelle sue plurivoche forme); un elemento che comunque Houellebecq, abilmente, dissemina fra le pagine più evocative, poetiche e nostalgiche del romanzo. Ho molto apprezzato come lo scrittore abbia giocato col tempo narrativo (davvero pregevole la cronistoria generazionale delle famiglie dei due personaggi principali) e come abbia costruito l'intreccio che serpeggia fra le due esistenze sviscerate: quella di Bruno e quella di Michel. L'alternarsi di queste due vite si conferma in un parallelismo di toni: linguaggio crudo, scurrile, quasi pornografico, denso di umori, da una parte; e asettico, didascalico, distaccato, scientifico, dall'altra. A questo calderone di informazioni, emozioni e sensazioni si aggiunge un finale (presuntuoso) sostanziato da un climax che definirei “esponenziale”; un finale che ha la la capacità di sorprendere e stupire (ma anche di confermare quel sentore che ribolliva nel lettore), ma soprattutto capace di giustificare e rendere ovvi gli eccessi sessuali e tutte le licenze poetiche prese dall'autore. Chi ha trovato eccessivo questo romanzo probabilmente ha avuto ragione, tuttavia, se si inizia una disincantata riflessione sulla nostra società si capisce che Houellebecq -in modo coraggioso- ha semplicemente offerto una prova di buona letteratura scoprendo le nudità di un “membro morale e fisico” al quale nemmeno i bigotti vogliono e possono rinunciare (pena l'estinzione). Aggrappandosi e attingendo a quelle pulsioni ossimoriche che tutti custodiscono gelosamente dietro le proprie maschere sociali, Houellebecq ha tentato di denunciare e abbattere un quotidiano silenzioso ed inquietante. Ho titolato questa recensione “Il vangelo secondo Djerzinski” poiché, fin dalle prime pagine del romanzo, l'idea del mutamento metafisico (di cui la cristianità è decantata come un vecchio e inutile prototipo) assume un ruolo centrale. Augurandomi che “Le particelle elementari” non si riveli profetico assurgendo a bibbia del ventunesimo secolo, prendo atto di come il Cristo di Houellebecq abbia assunto un aspetto corale e irreversibile, e di come per lui la resurrezione non sia prevista.
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Effluvio parigino
I ricordi profumano, e un artigiano della scrittura impara presto a dosare odori e memorie. Modiano nel tentativo di evocare una fragranza moderata e godibile ottiene un effluvio sterile. Cullando la propria narrazione dentro a una Parigi fascinosa (e minuziosa) finisce per non risvegliarla più. Il romanzo (breve) offre spunti interessanti che tuttavia appaiono costruiti ingenuamente o mal sviluppati. A partire dalla peculiarità dell'opera -l'avvalersi di quattro narratori per offrire il disegno esistenziale di una giovane donna- ci si accorge di uno squilibrio strutturale: i nessi tra i personaggi/punti di vista sono (laddove non gratuiti) deboli, frutti di coincidenze e casualità stucchevoli. Anche i riferimenti interessanti sono incerti (eccezion fatta per la pregevole “topografia poetica” parigina) e il contributo filosofico-letterario risulta dozzinale. Poche cose poi infastidiscono come un mistero troppo evidente, ed è così che nel perseguire una fantomatica enigmaticità, Modiano restituisce le vibrazioni migliori proprio quando a raccontarsi in prima persona è la protagonista: Jacqueline 'Louki' Delanque. Nel rivelare la propria fragilità di bambina, adolescente, quasi-donna perduta (quando perdersi è facile e dolce) Louki anestetizza il fantasma del romanzo di formazione offrendo un ritratto mezzo onesto/mezzo fiabesco di una generazione incerta, svuotata, che con le generazioni precedenti condivide una sola cosa: vivere ("il male di vivere" avrebbe detto Montale). Per fortuna la sensibilità dell'autore francese, unita ad una buona costruzione sintattica, permette di scovare disseminati tra le pagine del romanzo picchi emotivi estetici ed estesici, sono picchi pregevoli (mi torna in mente l'evocazione di una “cavalcata all'amazzone”) che tuttavia nell'insieme paiono diluiti. Nel caffè della gioventù perduta (2007 in edizione originale) è un romanzo dalla lettura godibile, che sfruttando stereotipi consolidati (in primis Rive gauche e Bohème) non spicca il volo ma si limita a deambulare. A mio avviso, in questo caso, il controllo sapiente della semplicità ha portato ad un risultato mediocre.
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La vita è un gioco a perdere
Inizio con una massima: la vita è un gioco a perdere. Quando nasci fra le cosce di tua madre come 'Jean-Paul-Charles-Aymard' e ti ritrovi ad essere fra le cosce del mondo quel 'Sartre', il più impegnato fra gli strabici, la massima in questione varrà comunque anche per te. Si potrebbe convenire che in questa ottica universale la sostanziale differenza risiederà esclusivamente nell'atteggiamento che ciascun individuo -conscio preventivamente dell'inesorabile sconfitta- opporrà alla propria esistenza, e offrirà al proprio gioco.
Sartre (1905-1980) coglie un frutto acerbo e attraverso La nausea (1938) si serve della forma narrativa del diario per iniziarne il lungo processo di maturazione. Così Antoine Roquentin, protagonista e voce narrante del diario-romanzo, diviene portatore di un proto-esistenzialismo che troverà maturazione parossistica nel saggio filosofico L'essere e il nulla (1943), l'opera che renderà Sartre il maggiore esponente dell'esistenzialismo francese e uno dei più importanti pensatori del XX secolo.
La trama superficiale di questo denso romanzo potrebbe così riassumersi:
Nella fittizia Bouville lo scrittore rosso di capelli Antoine Roquentin lavora a due iscritti contemporaneamente: una tesi storica sul marchese di Rollebon e un diario personale.
Quello che tuttavia eleva La nausea a capolavoro della narrativa novecentesca è celato in profondità, e la maestria di Sartre risiede nel rivelare con apparente naturalezza quanto oscura sia tale profondità. Antoine Roquentin è malato, il suo male è una psicopatologia viscerale che egli stesso ha battezzato come Nausea. Come lui ogni altro individuo passato, presente, futuro ne è inconsapevolmente afflitto: dietro la Nausea si cela l'Esistenza o meglio la coscienza di esistere. Le nausee incurabili di Antoine scandiscono i rituali del suo quotidiano vivere immerso fra la gente (sempre osservata e analizzata), sommerso dalla città (un vivo e opprimente labirinto), disperso nei caffè (tra una vivanda e la consolazione di un ragtime). La nausea è incurabile ma rivelatrice: squarciando il velo delle apparenze mostra al protagonista una totale libertà, libertà che però conduce inesorabilmente alla nauseante comprensione di esistere. Il lettore è chiamato a riflettere: durante la nausea è Roquentin a cambiare la propria essenza o il mondo che si trasforma intorno a lui? Nel susseguirsi delle giornate assistiamo al racconto poetico e filosofico di una lotta, quella fra l'uomo e il mondo, fra interno ed esterno, fra soggettività e oggettività, fra l'Essere e il Nulla. A fare da sfondo a questo inesauribile conflitto vi sono la scrittura (strumento dentro al quale il protagonista si nasconde e dietro al quale forse scorgerà una via parziale di salvezza), l'amore per una donna che si è persa ricercando dei "momenti perfetti" e che adesso soltanto si sopravvive, e una quasi-amicizia con un umanitario socialista che si accultura da autodidatta scegliendo gli autori in ordine alfabetico. Quella che poi potrebbe apparire una distaccata critica alla società dei "porcaccioni" (metafora dell'uomo che ignora di esistere il quale avviluppato dalle illusioni e dalle abitudini non afferra l'esistenza ma si lascia pervadere da un simulacro ignorando ciecamente il vero) è in realtà la rivendicazione di un pessimismo universale, all'interno del quale la suddetta verità -ignorata da molti- è la semplice consapevolezza che l'esistenza è retta da una totale assenza di senso. («Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza, e muore per combinazione»). Non esistono avventure se non per iscritto, esistono solo vuoti accadimenti, e così le fugaci sensazioni di felicità provate dal protagonista -sempre secondarie alla potenza rivelatrice delle nausee- mostrano il peso dell'esistenza, un peso che affascina ma sotto al quale l'intelletto dell'uomo è destinato a perire. L'unico risultato dell'incontro-scontro tra Soggetto e Oggetto è quindi la somma di esistenze insignificanti, l'unica sensazione avvertibile -scrive Sartre- è una lieta malinconia, malinconia che nasce dal sorriso beffardo e complice di quei pezzi di esistente che si sono misteriosamente rivelati. Sono esistenze che rivelano il proprio esistere a partire dalle cose: da un sasso, da un volto, da una mano, da un albero, da un movimento, da una macchia di sole, dalla materialità del tutto che invade e opprime colui che ha percepito la rivelazione, il nauseato irriso.
Abbassandomi a toni meno formali posso recensire il romanzo dicendo che le parole di Sartre riescono a scoraggiare qualunque “scrittore o scrittrice del proprio diario”, e che, le medesime parole, riescono a rendere fruibili (in anticipo) tutta una serie di problematiche che affliggono l'uomo contemporaneo e riempiono le sale d'attesa di psicologi e psicoterapeutici oggi. Personalmente mi sono infatuato di questo romanzo scorgendovi (attuando quella che Umberto Eco ha definito come intentio lectoris) un'interessante chiave di lettura filosofica per i disturbi d'ansia in genere e per quelli di panico in particolare.
La struttura del romanzo rivela fin dalle prime pagine un ritmo sostenuto, quasi profetico, rallentando nella parte centrale mostra solo in brevi tratti alcuni passaggi leggermente contorti. Consiglio la lettura del romanzo soprattutto a lettori pazienti, ma gli scettici e i timorosi dovrebbero metterlo -e mettersi- alla prova. Io l'ho apprezzato soprattutto per lo spessore filosofico che -come la mia recensione ha tentato di esplicitare- regge l'intera opera, tuttavia tale spessore è supportato da una brillante aggressività argomentativa; dalla sensibilità poetico-narrativa di Sartre spesa nelle fascinose descrizioni di dimensioni esteriori e introspettive (l'altro apice qualitativo del romanzo); dalla semplicità d'immedesimazione fornita (quella che fa esclamare: avevo sempre pensato a questa cosa, l'ho sempre avvertita!).
Se si aggiunge poi con quanta spontaneità (e quanto anticipo) vengano affrontati e denunciati nel romanzo anche temi come l'omofobia, o come vengano deliziosamente valorizzati in modo critico l'impegno artistico (con la tensione creativa ad esso legata) e la centralità del pensiero per l'evoluzione umana, si resta spiazzati dalla complessità e dalla completezza di Sartre; e forse si comprende perché Francesco Guccini scrisse che “Sartre pontificava” (Bologna, 1981), e si riflette sul rifiuto del premio Nobel per la letteratura (1964), ma soprattutto si apologizza l'apprezzamento universale del filosofo da parte di un'umanità perduta che si trascina.
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