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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    04 Dicembre, 2017
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Storia di due destini divergenti

Ho comprato "L'amica geniale" con un po' di scetticismo, che l'autrice ha infranto già dalle prime pagine, sebbene conservassi una certa perplessità nella lettura.
La perplessità non riguardava la piacevolezza del libro, senz'altro non discutibile, ma l'argomento. Più andavo avanti e più la mia opinione si evolveva, cambiava, tornava al punto d'origine; la domanda che mi frullava in testa era sempre la stessa:
Di cosa parla, in realtà, questo libro?
A chi me lo domandava, biascicavo, poco convinta, "E' la storia di un'amicizia".

Ho capito davvero di cosa parlasse il libro, solo quando ne ho portato a termine la lettura.

"L'amica geniale" è ambientato nel secondo dopoguerra e tratta, per l'appunto, lo sbocciare del legame tra la protagonista e voce narrante, Lenù, e Lila, unica, singolare, crudele.
Le due bambine nascono e crescono nello stesso contesto, il "rione" povero di una Napoli che si preparava al boom economico degli anni 70/80, un contesto dove le regole sociali sono dure, inevitabili.

I tre quarti di questo primo libro, si dedicano alla descrizione minuziosa di quella che sembra essere, sin dagli albori, una concatenazione umana che per la protagonista, Lenù, assume i connotati di una dipendenza psicologica dall'amica, Lila. Lila, sin da piccola, non è come le altre: la scrittrice mette nero su bianco parole che suggeriscono non propriamente concetti, ma sensazioni. La sensazione che Lila sia speciale, che la sua intelligenza singolare abbia il dono di rendere qualsiasi cosa meravigliosa: lo studio, la bottega dello scarparo, il latino.
Nella competizione continua, che affibbia alle due bambine il rigido ruolo di amiche/nemiche, Lenù trova lo stimolo per migliorarsi sempre di più, per spingersi sempre più avanti in questa gara di meriti e di destini; la dipendenza psicologica da tutto ciò che Lila pensa e fa è, infondo, la vera protagonista di questo primo volume, viene fuori ad ogni pagina in modo onesto e veritiero, ed Elena avrà modo di liberarsene parzialmente solo anni dopo, quando sarà certa che la possibilità che i loro destini si sovrappongano e si riuniscano, sia del tutto naufragata.

"L'amica geniale" tratta un tema puramente sociale e lo fa con la sincerità e la schiettezza tipici di una -
ufficiosa - autobiografia, dove i luoghi sono privi di topografia ("rione vecchio", "rione nuovo", "tunnel") e dove i nomi - persino quello dell'autrice - sono stati cambiati.
L'opera riflette sul ruolo brutale e decisivo, nella vita, della fortuna; è una storia di destini che si incrociano e che finiscono per non sovrapporsi a causa di un unico, singolo, decisivo "no", quello pronunciato dalla madre di Lila sulla questione posta dalla Maestra Oliviero, quella cioè di continuare gli studi anche dopo la licenza elementare. I destini delle due ragazze, così, si separano definitivamente, seppur tra molte rimostranze.

La storia è bella non solo perché è sincera, non solo perché evidenzia il ruolo decisivo dell'istruzione (ai tempi) nella scalata di classe, ma anche perché assume le sembianze, per chi a Napoli ci è nato e cresciuto in tempi più moderni, dei racconti dei Nonni; l'autrice ha un modo di narrare che, come afferma lei stessa nel suo libro, in riferimento allo stile scrittorio della protagonista, - forse in una sorta di riflessione metaletteraria del tipo "libro nel libro" -, sprigiona una potenza di cui non si riesce ad individuare precisamente la provenienza, ma che è, in definitiva, un dato di fatto.

"L'amica geniale" è il racconto di due riscatti; il primo pienamente sublimato, cioè quello di Lenù, la cui ambizione meticolosa e affannata, la porta a rovinarsi la vista sui libri pur di fare meglio di Lila, meglio dei suoi compagni delle elementari, meglio di sua madre; il secondo, quello di Lila, mal realizzato per altre vie (i soldi di Stefano e dei Solara) e fallito miseramente.

La chiusa, al matrimonio di Lila, anticipa il tema del successivo capitolo.
Elena è lì, in presenza dell'intero rione vestito a festa, alla ricerca di un senso d'appartenenza; gli studi e il mondo che la scuola e i professori le hanno spalancato dinanzi, non le permettono più di trovarsi perfettamente a proprio agio nel suo ambiente natìo, che sente di essersi lasciata alle spalle; d'altra parte, come si vedrà e come lei stessa intuisce già nelle ultime pagine, nel contesto della "Napoli bene", della Napoli colta, non riuscirà mai a lasciarsi alle spalle la figlia del portiere.

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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    09 Aprile, 2015
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«A me la vendetta, io farò ragione»

Anna Karenina è uno dei miei libri preferiti, se non il preferito in assoluto, eppure sono sempre stata restìa al recensirlo, come se non si potesse esprimere sul serio, a parole nostre, la grandezza di questo immenso capolavoro.
Ma ci proverò ugualmente, come altri prima di me.

[il testo contiene spoiler]

Ovviamente, dire che "Anna Karenina" è una storia d'amore, non solo risulterebbe riduttivo, ma anche immensamente svilente nei confronti del romanzo e del suo autore. "Anna Karenina" è, sì, amore - in un certo senso -, ma anche società, politica, etica, religione, è il contrasto tra opposti che sembrano simili, l'eterna lotta tra ciò che dovrebbe essere e ciò che, invece, è.

Tolstoj crea un universo in cui spiccano i due indiscussi protagonisti, Anna e Levin, ma in cui ogni singolo personaggio trova la sua sublime e puntuale giustificazione, come in un organismo perfetto che funziona solo in base ai reciproci rapporti di tutte le sue parti.

Non intendo analizzare un concetto ormai trito, rispetto a questo romanzo, e cioè la questione di Levin come alterego di Tolstoj. E', per l'appunto, Levin, un personaggio nato ai margini della storia e che durante la stesura del romanzo acquista sempre più spazio, mano a mano che l'autore si avvicina a quegli anni che lo porteranno ad abbandonare le grandi narrazioni di "Guerra e Pace" e di "Anna Karenina" in virtù dell'interesse per il Divino e dei i suoi rapporti con la religione e con l'ordine costituito. Di fatto, le successive opere di Lev Tostoj, perseguitato e censurato, tenteranno di trovare quella terza via nel tolstojismo, il fenomeno che si pensava avrebbe dato vita ad una religione a sè stante.
E forse, la vicenda di Levin - messe da parte le implicazioni amorose che acquistano valore forse solo per contrasto, ovverosia paragonandole a quelle totalmente opposte di Anna e Vronskj - finisce con l'assumere i connotati di un saggio all'interno della storia, popolata com'è da disquisizioni etiche e politiche lunghe intere pagine. Una sorta di flusso di coscenza che s'alterna alla narrazione, una sorta di preludio alla svolta letteraria tolstojana, ormai alle porte.

In Levin, sì, l'autore traspone tutto sè stesso. Ma forse la vera grandezza di Tolstoj risiede in quelle associazioni meno immediate, nei tratti biografici che è possibile scorgere anche in un personaggio come il Conte Vronskij, quell'ufficiale affascinante prima quanto tedioso poi, ordinario sia nei vizi che nelle virtù, a cui sembra difficile, se non impossibile, associare quella mente moraleggiante e irreprensibile che, di fatto, l'ha partorito.

Eppure in Vronskij è possibile scorgere quel Tolstoj/Levin ancora impergolato nei meccanismi sociali, meccanismi che sembrano stargli stretti ma di cui si nutre e in cui trova la sua definitiva e inappellabile raison d'etre.
Vronskij sembra insofferente a tutto questo, un animo che sembra condividere almeno in parte le ragioni di Anna, ma che in definitiva agisce in assenza di quel vero tormento e di quelle profonde motivazioni che invece animano la sua amante. La sua "sovversività", la ribellione manifestata nell'interstardirsi nel rapporto con Anna, è una sorta di "sovversività alla moda". Egli gode narcisisticamente del frutto proibito e, quando la storia si fa trita, la situazione, all'inizio eccitante ed emozionante, gli viene a noia. Sul finire del romanzo, un attimo prima della tragedia, Vronskij torna alle sue sale da ballo, ai suoi aristocratici teatri, ai suoi tavoli da poker. E solo allora Anna si rende conto d'essere sola e di esserlo sempre stata, se non nelle azioni, sicuramente negli intenti e nei sentimenti.

Chi non ha saltato a piè pari le note biografiche, può apprendere come l'autore stesso avesse prestato servizio militare, facendosi corrompere dal molliccio ambiente degli ufficiali "del disimpegno" e contraendo una serie infinita di debiti a causa del gioco d'azzardo. Affascinato anche lui da una donna sposata, ebbe un figlio che si rifiutò di riconoscere.

Tolstoj è Vronskij, Tolstoj è levin: lo spartiacque è quella Rivelazione religiosa che assume i connotati di una vera e propria rinascita.

Anche l'associazione tra Anna e Kitty non è facile, eppure risulta quasi evidente, una volta che ci si sofferma a riflettere.
Kitty è giovane e bella e il radioso futuro che le si prospetta dinanzi sembra essere smembrato dall'operato di Vronskij, che gioca con lei prima di conoscere Anna e che, comunque, anche prima dell'avvento di quest'ultima, non aveva mai avuto intenzione di chiederla in moglie. Spinta dalla madre, rifiuta la proposta di Levin, che invece nutre per lei un amore puro.
Ma perchè il rifiuto? Levin s'era già presentato a corte mesi prima con l'intenzione di dichiararsi; alla fine, insicuro e incredulo circa un possibile futuro con lei, era tornato alla sua tenuta in campagna senza una parola. Questo provoca l'avversione della madre di Kitty e il consequenziale rifiuto, nonostante la fanciulla avverta, in cuor suo, di poter amare quell'uomo. E' la "catastrofe". Vronskij parte con Anna per San Pietroburgo e Kitty, provata dall'umiliazione, cade in depressione. I medici le consigliano di trasferirsi per un periodo all'estero.
Dinanzi a lei si prospetta un futuro di cinismo, finchè il provvidenziale intervento di Veronika, una giovane pia, la rimette sulla retta via, suggerendole una Rivelazione che per portata è inferiore a quella di Levin ma che ha lo stesso impatto benefico, spazzando via la possibilità di ritrovarsi, 15 anni dopo, a confluire in quel personaggio che è Anna.

In Kitty scorgiamo una giovane Anna a cui la vita ha concesso la pace e il lieto fine, ma che se privata di tali e tante concessioni, forse si sarebbe trasformata in quella donna che tanto la disgusta.
Cosa sarebbe accaduto se Vronskij l'avesse sedotta e abbandonata, come era sua intenzione fare?
Cosa sarebbe accaduto se Kitty non avesse incontrato Veronika?

Anna altro non è se non la personificazione dell'alternativa più buia, un miscuglio di casuali fatalità e scelte sbagliate che l'hanno condotta sulla soglia di questa storia ormai priva di qualsivoglia etica o morale, preda del tormento, dell'ossessione e dell'insoddisfazione.
Cosa sarebbe accaduto però se la giovane Anna avesse incontrato e sposato l'amorevole Levin invece di contrarre quel matrimonio senza amore con quel burocrate privo di vita che è Karenin?

La concatenazione dei personaggi risulta evidente. Curiosamente, ognuno è legato all'altro da una scelta non compiuta, da un destino che non gli è toccato in sorte ma che è stato, anche solo per un breve attimo, nell'universo delle possibilità.

Intanto, il protagonista invisibile della narrazione è la società, intesa come organo che pensa, agisce e giudica in maniera univoca. E' la società il giudice parziale della storia, quel giudice che porta Anna alla ghigliottina.
Ciò che risulta agghiacciante, all'interno dell'analisi tolstojiana, non è tanto che si ricusi un atto come l'adulterio, quanto che si ricusi la sincerità con cui Anna lo affronta, senza nascondersi, senza mentire al marito, senza lasciarsi intimidire dalla possibilità del divorzio e della rovina sociale. Anna non si lascia spaventare. E' questo il suo fatale errore.
Il romanzo si apre col racconto di un'altro adulterio, un'anticipazione: quello del fratello Stiva nei confronti della miglie Dolly, sorella di Kitty. Stiva viene scoperto in flagranza di reato, eppure Dolly, terrorizzata all'idea di restare sola, all'idea d'essere umiliata con un divorzio, non pensa mai realmente di lasciare il marito e condanna sè stessa ad una vita di repressione e dipendenza. Questo è ciò che la società accetta, questo è ciò che è considerato lecito.
Anna si rifiuta di farlo, crollando in un turbinìo di fustigazioni pubbliche e sociali che, unite alla sempre maggiore indifferenza di Vronskij, la conduce a compiere il gesto estremo.
Personaggio controverso, autodistruttore e meschino, il suo suicidio, più che il desiderio di porre fine alla propria vita, rispecchia quel grido di vendetta che si legge nella mente di Anna mentre s'accosta alla sua fine.
Vendetta, affinchè Vronskij e tutti gli altri debbano per sempre portarla sulla coscenza.

Dunque, se è vero che Tolstoj condanna Anna per il suo operato, è vero anche che tale condanna si estende alla società, perchè entrambi, a modo loro, si arrogano il diritto di risolvere questioni morali che non gli competono (la prima col suicidio, la seconda con l'emarginazione).

«A me la vendetta, io farò ragione» , è la citazione biblica posta in nuce al romanzo e che ne esprime il senso.
E' Dio l'unico e il solo giudice e legislatore.

Cos'altro aggiungere? "Anna Karenina" è un universo ammaliante e affascinante che vale la pena di contemplare coi propri occhi.

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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    06 Aprile, 2015
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I want some more

Non avevo intenzione di comprare questo libro e, di fatto, non l'ho acquistato (nonostante la saga di Divergent mi sia piaciuta), mi è stato regalato. Narrazioni come questa riportano in auge quel vecchio disguido legato alla conslusione delle saghe, questione che mi vede schierata, seppur a malincuore, sempre dalla stessa parte.

"Four" comprende quattro narrazioni: le prime tre storie ("Trasfazione", "Iniziato", "Figlio") si svolgono due anni prima rispetto alle vicende di Divergent e hanno per protagonista un giovane Tobias Eaton; l'ultima storia, invece, ("Traditore") fa un salto in avanti e corrisponde alla parte centrale di Divergent.

Ho sempre considerato libri come questo delle mere operazioni commerciali volte a battere il ferro finchè è caldo, ed è il motivo per cui raramente li acquisto. Pur essendo una fan sfegatata di Harry Potter, non ho mai neanche considerato la lettura de "Gli animali fantastici" nè de "Le fiabe di Beda il Bardo". Ho letto la saga di "Twilight" ben prima del suo successo commerciale legato ai film (non fucilatemi, nella mia vita ho letto di tutto) e neppure nel caso in cui ne fossi rimasta più entusiasta avrei acquistato il tanto controverso "Midnight sun", il racconto dal punto di vista di Edward che i vecchi fan stanno ancora aspettando (inutilmente).

A favore della Roth giocano comunque alcuni fattori: essendosi concentrata quasi esclusivamente su Tris e avendo concepito la coppia come un legame di due entità che restano comunque separate, di cose da raccontare ne aveva (a differenza della Mayer, che in Twilight aveva letteralmente "fuso insieme" gli innamorati, che finiscono per non esistere l'uno senza l'altra).

La prima parte del romanzo si concentra su ciò che porta Tobias a diventare "Quattro": la violenza del padre che lo spinge ad abbandonare la fazione, le difficoltà dell'iniziazione, le controversie etiche legate alla scelta di un ambiente che sta soffocando i propri pregi in virtù dei propri fatali difetti: spietatezza, ottusità e dunque tendenza a farsi manovrare.
I quattro aggettivi che danno il nome alle storie vanno a coincidere, in un certo senso, con i debiti che questo mondo inventato ha nei confronti della definizione di sè in base ad un unico caratterizzante: abnegante, erudito, intrepido, pacifico, candido.
Tobias si rifiuta di essere inquadrato e, al contempo, tenta disperatamente di autodefinirsi in base ad altri fattori: l'essere il trasfazione che ha tradito le proprie origini per sfuggire al padre, il diventare il più promettente tra gli iniziati, l'incontro con una madre creduta morta che vorrebbe reclutarlo in una guerra a cui non vorrebbe partecipare, l'essere un traditore avendo trasceso le regole.
Sono quattro svolte personali, tre delle quali dettate dagli altri: è Marcus a spingerlo a cambiare fazione col suo atteggiamento; sono gli Intrepidi a volerlo Capofazione; è la madre a volerlo nel suo esercito di esclusi. A tutti, Tobias, rifila un prima incerto e poi sempre deciso NO. Solo la decisione finale è la sua: traditore, perchè segue le proprie inclinazioni piuttosto che farsi manovrare da chicchessia.

Di fatto, la storia raccontata, è quasi inedita. E' una lettura piacevole ma appare priva di trama, impossibilitata com'è a trascendere il carattere episodico che l'ha concepita e di cui, comunque, il lettore viene abbondantemente messo al corrente sin dalla descrizione. L'ultimo racconto si focalizza sui retroscena dell'attacco nel quartiere degli Abneganti. Insomma, ciò che in Divergent si poteva soltanto intuire, dato il POV unico di Tris, qui viene messo in luce e raccontato.

L'epilogo, se così lo si vuole chiamare, presenta altri tre episodi, stavolta tutti concentrati su Quattro e Tris: "Prima a saltare, Tris", "Stai attenta, Tris" e "Sei carina, Tris".
In particolare, è proprio questa la parte che non ho apprezzato. La storia d'amore viene lasciata da parte per quasi tutto il romanzo, eppure la Roth si è vista comunque costretta ad includere queste tre storielle di cinque pagine l'una pur di accontentare il lettore che, evidentemente, acquista il libro solo per rivivere l'emozione di quell'amore. Diciamocelo chiaramente, non credo che importi un fico secco a nessuno della crescita di Tobias, e l'inclusione di queste tre scenette nella storia dimostra che la Roth ne è ben cosciente.
Al lettore che, con lo sguardo da Oliver Twist, dice "I want some more", la Roth sembra rispondere con una punta di compassione: "Lo so che hai comperato questo libro solo per continuare a leggere di Tris e Quattro, ma comprendimi, dovevo raccontare qualcosa di almeno apparentemente nuovo. Comunque, eccoti questo zuccherino. Meglio di niente."

L'antica disputa relativa alle saghe di cui accennavo nell'introduzione è proprio questa: l'incapacità di rassegnarsi al fatto che le storie finiscano e che, quando questo accade, aggiungere altra carne al fuoco, spesso, lascia l'amaro in bocca ancora di più. E' un'accusa annosa, che è nata assieme alle saghe di successo, e che viene troppo spesso rivolta ai lettori.
Io, personalmente, la girerei agli scrittori. Rispettate la parola "Fine" che voi stessi ponete alla fine di un racconto.

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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    18 Febbraio, 2015
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"Tutti i bambini, tranne uno, crescono."

"Le avventure di Peter Pan" comprende due racconti: il meno noto "Peter Pan nei giardini di Kensington", oggetto dell'opera teatrale che portò la storia al successo nel 1904, e "Peter e Wendy", romanzo pubblicato nel 1909 sulla scia di quello stesso successo e dal quale Walt Disney ha tratto il famoso film d'animazione nel 1954.

E' un classico senza tempo che, ancora oggi, a ben 111 anni dalla sua prima uscita, non smette di affascinare grandi e piccini.

Il primo racconto, "PETER PAN NEI GIARDINI DI KENSINGTON" narra le origini del personaggio.
Peter ha 7 giorni di vita quando risponde all'irrefrenabile impulso di fuggire via dalla finestra priva di inferriate, volando verso i giardini ancora in camicia da notte e credendosi un uccello. Qui Peter scopre un mondo popolato da fate e animali parlanti, e incontra Meimie, una bambina che si è persa nei giardini e che è l'antesignana di Wendy. Il rapporto con Meimie è altrettanto difficile, dovuto alla di lei voglia di tornare a casa da sua madre. Dopo aver ritrovato la genitrice, Meimie torna con lei nei giardini, dove lascia per Peter una capra di pezza, trasformata poi dalle fate in una capra in carne e ossa. Trascorre dunque i suoi giorni in modo gaio e spensierato, a cavalcioni sulla sua capra, suonando il flauto.
La brevità e l'estrema semplicità di questo racconto è dovuta certamente alla destinazione scenica. Alcuni temi sono anticipati, sebbene sia indubbio che il personaggio principale trovi più spazio nella storia successiva, essendo essa nata e pensata per la narrazione letteraria.

"PETER E WENDY" narra, invece, le vicende che tutti conosciamo, aprendo la storia sulla famiglia Darling.

"Tutti i bambini, tranne uno, crescono. Ci mettono poco a capirlo e Wendy lo capì così: un giorno, quando aveva due anni, mentre stava giocando in giardino, colse un fiore e corse a mostrarlo a sua madre. In quel momento doveva essere molto graziosa, perchè Mrs Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò "Oh, perchè non puoi restare così per sempre?". Questo fu tutto ciò che disse sull'argomento, ma in quel momento Wendy capì che sarebbe cresciuta. Tutti, a due anni, impariamo questa cosa. I due anni sono l'inizio della fine."

Questo l'incipit, seguito dalla tenera descrizione di Mrs Darling, a sua volta vecchia amica di Peter; questo il preludio al finale.
Peter Pan è presentato come un vecchio amico d'infanzia, un bambino con cui tutti quanti, in un periodo delle proprie vite, hanno vissuto qualche avventura. E' il modo fanciullesco di esprimere una tradizione orale che lo tiene in vita, generazione dopo generazione.

Wendy è alla "vigilia" della crescita quando Peter fa il suo provvidenziale ingresso in scena. L'arcigna e disillusa Zia propone che la si tolga dalla stanza dei fratelli perchè ormai troppo grande per condividere quello spazio con loro. La crescita, in un certo senso, è già in atto, come dimostra l'indole riflessiva della ragazza; eppure esita solo pochi istanti prima di fiondarsi fuori dalla finestra per seguire il bambino all'Isolachenoncè.

Peter è un personaggio, assieme, immensamente idilliaco e profondamente crudele.
Egocentrico, egoista, pieno di sè, e al contempo innocente, privo di malignità.
E', in effetti, la descrizione fanciullesca meglio riuscita della letteratura moderna e contemporanea, sebbene presa poco ad esempio (si pensi al Piccolo Principe). Barrie, che amava i bambini e che non era mai cresciuto sul serio, capiva l'infanzia nel profondo e non solo nei suoi aspetti più noti, ma anche in quelli genoinamente crudeli, pur senza intenzione.
Questa è la definizione dei bambini: " innocenti, spensierati, senza cuore".
Come tutti i bambini dal carattere forte, Peter tende a prevaricare, pretende che si faccia come lui dice e si ribella e si rattrista quando non gli viene permesso di dettare le regole del gioco. E poi, l'aspetto più crudele di tutti: la memoria corta. Gioie e dissapori, avventure, affetti, odii, vengono presto dimenticati in virtù del gioco successivo.
Questo aspetto, quello della dimenticanza, nel film d'animazione e, in generale, nella mente di chi non ha approfondito le retrovie e i significati intrinsechi della storia, è prettamente associato all'Isola: l'isola fa dimenticare, dicono.
In realtà, dal libro (e anche dal fedelissimo film del 2001) si evince quanto la questione sia ben più profonda e complicata: l'Isola altro non è se non il riflesso di Peter stesso. Essa finisce col rappresentare una dimensione, quella fanciullesca, di cui Peter è legislatore e sovrano: un dio. I suoi sbalzi d'umore ne influenzano il clima, il suo modo d'intendere la trama del gioco definisce la natura e il comportamento di ogni creatura che ci vive: il coccodrillo divora solo i pirati, mai i bambini o gli indiani.

La lotta tra i bimbi sperduti e i Pirati rispecchia la lotta tra il bambino e l'adulto, abitanti di due mondi le cui barriere naturali crollano solo quando il primo cresce; è l'impossibilità di comprendersi l'un l'altro a dominare la narrazione fin dal principio, prima nei contrasti tra Wendy e suo padre e poi in quelli tra i bimbi e la ciurma del Jolly Roger. E' proprio Mr Darling che nella dimensione reale assume il ruolo di Capitan Uncino (argutamente, il film del 2001 suggerisce questa versione lasciando che un unico attore interpreti entrambi i ruoli), tanto che ci si domanda -forse conoscendo già la risposta- se l'intera storia non sia frutto della fantasia di Wendy.
Figura ponte tra questi due mondi così distanti è Mrs Darling, che ci dimostra quanto le madri abbiano un ruolo privilegiato e unico.

All'Isolachenoncè il gioco che va per la maggiore è quello che vede Wendy nei panni di Madre e Peter in quelli di Padre. I due hanno un rapporto squilibrato; lui le è affezionato in modo quasi primordiale, incapace di comprendere una forma d'affetto che vada aldilà del gioco; lei, invece, finisce con l'innamorarsene.
L'amore, sintomo della crescita imminente, fa tornare la mente di Wendy alla realtà, ed è lei a convincere i fratelli a fare ritorno, suggerendo ai bimbi sperduti di farsi adottare dai coniugi Darling. Proprio mentre preparano le valigie, un attimo prima d'essere rapiti dai pirati, Peter, addolorato dalla proposta di lasciare l'Isola e crescere, s'indurisce e rifiuta di andare con loro.
Quella di non crescere mai è una decisione inappellabile, inconfutabile anche quando questo comporta la perdita dei suoi compagni di gioco.

Il finale dal retrogusto amaro viene sapientemente lasciato al di fuori della narrazione Disney (in cui, lo ricordiamo, Wendy e i fratelli tornano a casa, mentre Peter e i bimbi sperduti fanno ritorno all'Isola sul Jolly Roger).
Barrie ci narra come i bambini vengono tutti adottati dai Darling. L'addio tra Peter e Wendy è inesorabile: "indietro, Signora, nessuno riuscirà a fare di me un uomo", afferma lui, quando Mrs Darling tenta di convincerlo.
Wendy è terrorizzata all'idea di lasciarlo, dunque si giunge ad un compromesso: ogni anno, per la settimana delle pulizie di primavera, Peter potrà tornare a prenderla. Questo lenisce il dolore solo in parte. Lei è a conoscenza della terribile verità che si cela dietro l'Eterno Bambino, anche se rifiuta di accettarla del tutto: prima o dopo, Peter la dimenticherà, preso da altre avventure, da altri bambini.
La primavera successiva Peter si ripresenta alla sua finestra e tutto va come sperato.
L'anno successivo lui non si presenta, tornando direttamente due anni dopo, come se fosse inconsapevole di aver saltato il precedente appuntamento. Quando si incontrano di nuovo, Peter ha completamente dimenticato Capitan Uncino e la stessa Campanellino, che viene liquidata con un sommario e, ancora una volta, crudele "forse è morta".
Questa è l'ultima volta che Peter vede Wendy bambina. Negli anni successivi, nonostante lui non si faccia più vivo, Wendy tenta di rallentare la sua crescita. Alla fine, anche lei cede.
Quando il Bambino torna, Wendy è ormai sposata e ha una figlia Jane.
"Non era più la bambina che si struggeva per lui. Era una donna che sorrideva ripensando al passato, ma il suo sorriso era bagnato di pianto"
E' Jane ad andare all'Isolachenoncè, lasciando una malinconica Wendy alla finestra della stanza.
Identica è la storia di Jane e di sua figlia Margaret.

Questa è la chiusa, malinconica e, al tempo stesso, rassicurante:

"E ogni Primavera, tranne quando se ne dimentica, Peter va a prendere Margaret e la porta sull'Isolachenoncè. Quando Margaret crescerà, avrà una figlia che, a sua volta, diventerà madre di Peter, e così via, finchè i bambini saranno spensierati, innocenti e senza cuore".


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Il Piccolo Principe
Alice nel Paese delle Meraviglie
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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    22 Gennaio, 2015
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un grande autore contemporaneo

Stessa ambientazione, storia diversa: "Il gioco dell'angelo" si inserisce nella scia de "L'ombra del vento", ma gli eventi si svolgono negli anni Venti.
Quando ho deciso di leggerlo, non ero convintissima, cosa che non sarebbe accaduta se l'autore avesse optato per un'ambientazione completamente diversa. La magia del primo libro mi sembrava irripetibile e questo secondo libro, devo ammetterlo, mi appariva come un azzardo.
Sono stata felicemente smentita.

Zafòn si riconferma per il grande e appassionato narratore che è. I suoi libri parlano di lui e, al contempo, di tutti noi che abbiamo fatto della letteratura un importante perno delle nostre esistenze.
I suoi protagonisti sono aspiranti scrittori, e sia sogni bellissimi che sordide paure accompagnano il loro percorso. Quando la luce è intensa, anche l'ombra è più oscura.
E' così che il Maligno lascia la sua impronta in entrambe le creazioni letterarie; più vaga nell'Ombra del Vento, dove un capitolo magistralmente si concludeva con Daniel alla finestra, in contemplazione di un losco individuo, con l'angosciante sensazione di rivivere una scena narrata nel libro preso al Cimitero Dei Libri Dimenticati, in cui quello stesso individuo impersonava il Diavolo; più incisiva e determinante, invece, ne "Il gioco dell'Angelo", dove l'incarnazione di Lucifero interviene in prima persona nella storia e ne decide il tragico epilogo.

Il morboso attaccamento al tema del Diavolo e, in genere, all'esegesi biblica, ha sempre alimentato la cultura spagnola. Zafon, in questo, si dimostra attaccato alle tradizioni del suo paese, forte della sua cultura, ma anche estremamente abile nel dare una ulteriore chiave di lettura e interpretazione.

- seguono SPOILER -

David Martin è un aspirante scrittore e, questo suo sogno, pare realizzarsi parzialmente nel momento esatto in cui scopre che la sua vita sta per finire. Interviene allora il personaggio di Andreas Corelli, un editore che intende creare una nuova religione e ha bisogno di un'abile penna. Martin non si sente coinvolto nel progetto e palesa perplessità in merito al suo stato di salute e al suo precedente contratto con un'altra casa editrice, che lo sfrutta senza valorizzarlo allo scopo di vendere. La possibilità di guarire e dunque continuare a vivere e il compenso oltremodo fruttuoso gli fanno gola. Ed ecco che il "patto col diavolo" ha luogo.
Di questo patto, Martin ha modo di pentirsi solo in un secondo momento, quando ormai è troppo tardi. Inseguito dalla polizia, inseguito da Corelli affinchè tenga fede al contratto, incappa in una rocambolesca serie di eventi che si concluderà con la condanna al vagabondaggio e alla vita eterna.

E' così che la condanna di Martin, ad opera di Lucifero, si allinea a quella di Caino, ad opera di Dio.
“ «Sii tu dunque maledetto lungi dalla terra, che ha aperto la bocca per bere il sangue di tuo fratello, versato di tua mano. Quando vorrai coltivare il terreno, esso non ti darà più i suoi frutti: sarai errabondo e fuggiasco sulla terra». Caino disse al Signore: «La mia iniquità è tanto grande che posso sopportarla. Ecco, tu mi scacci ora da questo luogo ed io sarò nascosto al tuo cospetto: sarò errabondo e fuggiasco sulla terra, e avverrà che chiunque m’incontrerà, mi ucciderà». Ma il Signore gli disse: «Orbene, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte tanto». Poi il Signore pose un segno su Caino, affinchè chiunque lo incontrasse, non lo uccidesse. “ (genesi 4,11)

Parimenti, leggiamo le parole di Martin nell’epilogo.
“Gli anni mi hanno insegnato a vivere nel corpo di un estraneo che non sapeva se aveva commesso quei crimini che poteva ancora fiutare sulle proprie mani, se aveva perduto la ragione ed era condannato a vagare per il mondo in fiamme che aveva sognato, in cambio di qualche moneta e della promessa di prendersi gioco di una morte che adesso gli sembrava la più dolce delle ricompense. […] Nei miei anni di pellegrinaggio ho visto l’inferno promesso nelle pagine scritte per il Principale acquistare vita al mio passaggio.”

Ma la condanna del Diavolo è ancora più crudele di quanto non fosse quella del Dio-vendicatore dell’Antico Testamento. Non solo il vagabondaggio e la vita eterna (non letteralmente associata a Caino, ma bisogna tener presente che nel racconto biblico i primi uomini vivevano centinaia e centinaia di anni). ll Signor Corelli aspetta quindici anni, dopodichè si ripresenta alla sua porta con una bambina, Cristina, colei che Martin aveva amato e che era morta a causa della sua corruttibilità. Un altro tremendo destino prende vita, quello di riavere l’oggetto del proprio amore, quello di vederla crescere, invecchiare e, ancora, morire.

Martin viene dunque trattato alla stregua del primo assassino, avendo “assassinato” le proprie qualità morali per aggirare la naturale conclusione della propria vita e arrogarsi il diritto di venir meno ai dettami divini (la vita sofferta e la morte sono parte di un’altra condanna ancora, quella inflitta ad Adamo ed Eva quando furono cacciati dall’Eden) in cambio di qualche spicciolo. E non conta che Caino non palesi rimorsi, mentre lui sì: alcune scelte sono irreversibili, il passato non si cambia.

In conclusione, il messaggio è amaro, la morale triste, la redenzione illusoria.
E Zafon mette in luce tutta l’abilità che possiede, al servizio di una narrazione estremamente suggestiva e piacevole, mai banale, mai prevedibile.

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Cherchez la Famme Opinione inserita da Cherchez la Famme    21 Gennaio, 2015
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La giusta conclusione

- il testo contiene SPOILER -

Quest'ultimo capitolo, molto più dei precedenti, lascia senza fiato, imboccando una strada che mai si sarebbe immaginata al principio (se migliore o peggiore, non saprei dirlo).
L'idea degli esperimenti genetici certamente non è nuova, ma la Roth ci ha preso tutti un po' per i fondelli impostando la storia come una distopia alla Hunger Games, e prendendo poi una direzione completamente diversa.
Non mi aspettavo nulla di quanto c'è in "Allegiant", eccetto una cosa sola, mi tocca confessarlo.

Le mie parole su Tris si sono quasi del tutto esaurite.
Torno a ribadire quanto questo sia un personaggio effettivamente positivo, un personaggio che suggerisca un'empatia che non tanti autori sanno veramente creare. E' la Roth a muovere le fila di Tris, eppure le sue azioni sembrano rispondere alla volontà del lettore stesso.
In questo romanzo non c'è nulla di inaspettato per chi ha imparato a conoscere Beatrice nel corso della saga; compreso, dunque, il sacrificio finale. Ed è proprio questo uno dei temi centrali di quest'ultimo capitolo.

Di "sacrificio" si parla, quando il Dipartimento giustifica la cancellazione della memoria, e dunque dell'identità, di Chicago, per un "bene superiore" (la prosecuzione dell'esperimento); di "sacrificio" si parla, quando Nita tenta di somministrare il Siero della Morte ai membri del Dipartimento, in virtù di "un bene superiore" (la rivalsa dei Geneticamente Danneggiati); e ancora, di "sacrificio" si parla, quando Evelyn minaccia di ammazzare tutti gli Alleggianti, in virtù di un "bene superiore" (la cessazione della guerra civile).
Ancora una volta, sono le capacità morali e razionali di Tris ad intervenire sulla questione:

"Fare un sacrificio non vuol dire rinunciare alla vità di un'altra persona. Quello è un puro atto di malvagità."

E' Caleb ad avviarsi verso la ghigliottina, eppure sua sorella si accerta che le motivazioni siano quelle giuste; sua madre le ha insegnato che quando qualcuno è disposto a donare la sua vita per amore, bisogna accettare quel dono.
Ma l'amore non c'entra: Caleb si sente in colpa. E Tris non se la sente di accettare quel sacrificio: è lei a morire al posto di suo fratello.
Il finale è aspro, eppure ampiamente giustificato.

Di contro, Tobias si conforma all'opinione di lui che mi ero fatta nel precedente capitolo (Insurgent), sebbene il suo punto di vista e i pensieri compassionevoli di Tris abbiano contribuito a rendere quell'opinione meno ferrea.
L'unico colpo di scena che avevo già messo in conto, riguarda proprio lui: che Tobias non fosse effettivamente un Divergente, si era intuito dalla sua assoluta incapacità di comprendere Beatrice fino in fondo. L'avevo associato alla mancanza del fattore Erudito, ma non poteva essere quello l'unico ostacolo.
Per tre quarti della storia, si comporta come un idiota: dà credito a Nita ergendosi in sua difesa contro Tris, trovandosi invischiato in un affare che poi lo condurrà al senso di colpa per la perdita di Uriah.
Si era sfiorato questo punto anche nel precedente romanzo, quando, accecato dal rancore nei confronti di Marcus, aveva ostacolato Tris nel perseguimento dell'informazione che gli Abneganti stavano per diffondere prima dell'attacco. Si era poi redento alla fine, divulgando il video lui stesso.
E ancora, quando aveva creduto cecamente a sua madre, pur contro gli avvertimenti di Beatrice.
Ma persone come Tobias non capiscono sul serio i propri limiti finchè non ci sbattono muso contro.
Prima le parole rancorose e poi i pensieri compassionevoli di Beatrice riescono a portarci nell'ottica di Tobias, più del suo stesso punto di vista.

"Tu non riesci a vedere oltre i tuoi desideri. Ti sei alleato con Evelyn perchè desideravi disperatamente una madre, e ora ti stai alleando con Nita perchè desideri disperatamente non sentirti danneggiato...", afferma durante un litigio.

Poi arriva la compassione: "Non mi sbagliavo a dire che aveva un disperato bisogno di sentirsi amato da Evelyn, un disperato bisogno di non sentirsi danneggiato, ma non avevo mai pensato a quanto siano collegate queste due cose. Chissà come ci si deve sentire ad odiare il proprio passato e, al contempo, a bramare l'amore delle persone che ti hanno dato quel passato. Come ho fatto a non accorgermi di questa spaccatura dentro il suo cuore? Come ho fatto a non accorgermi prima che dentro di lui non ci sono solo forza e gentilezza, ma anche angoscia e sofferenza? Secondo Caleb, nostra madre sosteneva che c'è del male in ognuno di noi e che il primo passo per amare un'altra persona è riconoscere il male in noi stessi, per poi poterla perdonare. Quindi... come posso giudicare la sua disperazione... come se fossi migliore di lui, come se non avessi mai permesso alle mie ferite di accecarmi la mente?"

Solo a questo punto, sono riuscita a dissolvere parzialmente la mia delusione nei confronti di questo personaggio che, in soldoni, risulta deficitato non dalla mancanza della Divergenza ma dalle disgrazie della sua infanzia, da quella sensazione che accompagna tutti gli individui cresciuti all'ombra di genitori violenti, autoritari, incapaci di amare: la convinzione di non essere mai abbastanza.

E' curioso come, invece di allearmi idealmente con Tobias, io mi sia riconosciuta in Tris, quando, dei due, è solo il primo ad essere realmente alla nostra portata, a risultare indiscutibilmente umano.

Un altro personaggio di cui ho taciuto precedentemente e che ora necessita d'esser considerato nel suo insieme, è PETER, a cui penso sia affidata parte della morale.
Presentatosi come un trasfazione, Peter aveva mostrato una crudeltà fuori dalla norma nel primo libro (accecando Edward solo perchè più bravo di lui, e tentando di uccidere Tris per lo stesso motivo). In Insurgent, poi, Tris gli salva la vita, spingendolo istintivamente via da un colpo di pistola. Per restituire il favore e pareggiare i conti, è lui a salvarla dall'esecuzione mortale di Jeanine, affermando di non voler essere in debito. Per tutto il resto della storia, risulta sempre in bilico tra la sua effettiva crudeltà e la crescente voglia di cambiare.
Peter non è un Divergente. E' cresciuto tra gli Eruditi e il test attitudinale l'ha classificato come Intrepido. Rientra, dunque, perfettamente nella norma della società delle fazioni e nella definizione di "Geneticamente Danneggiato". Eppure, anche in un palese esempio del disastro genetico conseguito, Peter dimostra comunque di non poter essere classificato, pur rispondendo pienamente ai criteri.
E' intelligente, in quanto figlio di Eruditi, per cui manca di compassione; ed è crudele, in quanto manchevole di paura. Eppure, gli basta un gesto intriso di quella compassione che gli manca, un gesto d'altruismo spassionato - come essere salvato da chi, precedentemente, aveva tentato di uccidere - per fargli rivedere, almeno in parte le sue priorità. Peter ragiona logicamente: occhio per occhio, sia nel bene che nel male. Eppure non è solo questo a spingerlo a seguire gli altri del gruppo, che lo disprezzano. E' la presa di coscenza della sua effettiva crudeltà, del suo effettivo deficit, a renderlo già migliore, pur se accompagnata da una impossibilità reale di cambiare.
Questo ci fa capire che, a prescindere dal DNA, è anche il modo in cui siamo cresciuti e le persone da cui siamo circondati a determinare ciò che siamo.
Peter è cresciuto tra persone mosse dalla logica più spietata e per questo è diventato spietato a sua volta; ma gli è bastato il contatto umano con individui migliori di lui per portarlo al cambiamento. Questo anticipa la dimostrazione della tesi finale.
Così, mentre Chicago e i suoi abitanti dichiarano di non credere al termine "Geneticamente Danneggiato", Peter sceglie di cancellare la propria memoria e di ripartire da zero. Forse persone diverse, ambienti diversi, nuovi ricordi, determineranno anche la nascita di una nuova persona.

L'aggiunta del POV di Tobias approfondisce alcune questioni, eppure mi convince poco, sebbene appaia piuttosto chiaro che la scelta fosse obbligata. In virtù della morte di Tris, bisognava che qualcun'altro portasse a termine la narrazione, a meno di non voler ricorrere ad un narratore esterno, cosa che sarebbe andata a cozzare con la precedente struttura.
Come altri hanno detto prima di me, anch'io mi sono trovata più volte a leggere un capitolo di Tobias e a confondermi, convinta che fosse Tris a raccontare. Questo è accaduto perchè non v'è la minima differenza di stile e di vocabolario tra una parte e l'altra.
E' vero che abbiamo a che fare, oggi, con un'altra saga basata sui punti di vista, Game of Thrones, e mai ci capiterebbe di confondere un capitolo di Tyrion con uno di Daenerys. Ma Martin usa comunque il narratore esterno, pur seguendo un solo individuo. La Roth invece usa quello interno, facendo parlare il personaggio in prima persona.
E, in prima persona, Tris e Tobias comunicano nello stesso identico modo pur essendo così diversi, rischiando di far perdere il filo.
Sarebbe stato gradito almeno un cambio di registro e credo che questa mancanza sia dovuta ad una familiarità minore dell'autrice stessa col personaggio.

Nota positiva, anche se amara, è la morte di Tris, che non avevo considerato possibile. Ma perchè? Perchè non accade mai che il narratore muoia. E, ciononostante, l'eliminazione del personaggio conferma l'assoluta coerenza della Roth, una coerenza che sono ben lungi dal riconoscere a Suzanne Collins (anche se mi duole continuare a paragonare le due saghe, seguendo la tendenza mainstream).
E' l'ennesimo colpo di scena. Non ho creduto alla morte di Tris finchè Tobias non ne ha visto il cadavere. E anche allora, mi aspettavo di vederla spuntare nel capitolo successivo. Questo non accade, ma mi sono ritrovata a rimuginare sui motivi per cui mi rifiutassi di credere ad una morte tanto logica e plausibile. E li ho trovati nelle decine di libri che mi sono lasciata alle spalle, negli autori che pur di salvare il protagonista creano i più arditi e surreali escamotage, peccando in verosimiglianza. Ma quanto volentieri gli si perdona quel peccato, quando è possibile leggere l'ultima frase col sorriso sulle labbra e la sensazione che tutto sia tornato al proprio posto!

Sacrificando, in parte, il lieto fine, e uccidendo il personaggio, la Roth si dimostra implacabile e inflessibile: Tris era già sopravvissuta ad un colpo di pistola, a svariate battaglie, all'esecuzione nel quartiere degli Eruditi. Non era pensabile che la passasse liscia ancora una volta, con l'arma puntata addosso.
Ero già preparata a leggere il capitolo "TOT ANNI DOPO" e ad affrontare le descrizioni dei pargoli nati dall'amore tra l'Intrepido e la Divergente.
E il capitolo "Due anni dopo", effettivamente, esiste, ma si concentra sugli esiti delle eroiche azioni di Tris e del suo gruppo di amici. E' una dimostrazione forte: la storia d'amore non è mai stata il perno della narrazione e viene sacrificata in virtù della morale che interessa trasmettere.
La vera protagonista è la natura umana.

Il finale, con Evelyn che immola la sua sete di potere sull'altare dell'amor filiale, è ben più positivo di quanto sperassimo e suggerisce che una possibilità di redenzione esiste e va colta.

La saga di Divergent riflette sulle sue sfumature più oscure, giungendo ad un epilogo ben più speranzoso del prologo. E crea questa riflessione con la semplicità di un genere dedicato soprattutto ai ragazzi, senza la presunzione di cambiare il mondo o la speranza di restare negli annali.
L'autrice ha ancora un sacco di strada da fare, e pur nel desiderio di inserirsi in un genere che sta vendendo, risulta apprezzabile, se non altro, l'impegno di costruire la storia attorno ad un messaggio ben preciso. Il potenziale c'è e l'autrice è giovane (classe 1988), credo che col tempo possa solo migliorare.

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La fase di transizione

Insurgent, così come ogni libro che si trovi al centro di una trilogia, costituisce un po' una fase di transizione e senza dubbio porta con sè più domande che risposte. Questo accade perchè per la prima metà si concentra sulle conseguenze del finale di Divergent, mentre per il resto è tutto proiettato verso Allegiant.

- seguono piccoli SPOILER qua e là -

Ricominciamo a seguire le avventure di Tris, riprendendola esattamente dove l'avevamo lasciata, ovverosia sul treno che porta lei, Tobias, Caleb, Peter e Marcus lontano dagli avvenimenti che hanno avuto sede nel centro Erudito e che hanno visto la stessa Tris distruggere la simulazione che costringeva gli Intrepidi ad uccidere gli Abneganti.

Si apre così una nuova fase della storia, in cui la sedicenne è costretta a fare i conti con quanto avvenuto alla fine del precedente capitolo. Tris è visibilmente sotto shock. Ben presto viene alla luce che l'assassinio del suo amico Will -cui è stata costretta in quanto lui, marionetta sotto simulazione, minacciava l'incolumità di lei- ha lasciato un profondo segno nella sua anima. Il senso di colpa e l'indicibile dolore per la morte dei suoi genitori sono sensazioni che la tormentano al punto da bloccarla e farle smarrire sè stessa.
Non è più in grado di impugnare un arma nè di difendersi. Non rivela questi sentimenti a Tobias, che pur avvertendone il cambiamento, non è in grado di prestarle soccorso psicologico, approcciandosi a lei in modi che non solo non l'aiutano, ma che aggravano addirittura la situazione.

Bisogna ammettere che questa prima parte del romanzo trasmette al lettore la sensazione di uno stallo da cui sembra difficile, se non impossibile, uscire. Si rimpiangono, così, le storie dell'iniziazione, l'emozione di lasciarsi alle spalle l'infanzia per entrare nel mondo adulto, il senso di libertà, la zip-line e tutti quegli ingredienti che aveva reso "Divergent" gradevole.

Tris sembra essersi arresa, quasi rifiutandosi di continuare a vivere in un mondo in cui i suoi genitori non esistono e lei è un'assassina. In preda a tendenze suicide, si ficca consapevolmente in situazioni dal potenziale mortale.

La Roth, estremamente coerente, decide di non far passare sotto silenzio le turbe esistenziali della sua protagonista, come troppo spesso accade in storie dove i personaggi dimenticano sin troppo velocemente le perdite o la spregevolezza delle proprie azioni, seppur dettate dalla necessità.
E' una coerenza apprezzabile.
Tuttavia, viene da chiedersi se forzare la storia in tal senso non sia parimenti inverosimile, considerata l'urgenza di una guerra e di una società che sta crollando. Nemmeno queste due cose riescono a far tornare in sè Tris, che si riprende solo in parte verso la seconda parte del romanzo.

Ormai stesa sul tavolo che la vedrà morire, Tris capisce di voler vivere. E lì cerca di risollevarsi per poter prendere parte all'attentato di Evelyn alla sede degli Eruditi, seppur di nascosto e con la missione di diffondere un'informazione la cui esistenza, Marcus, il padre di Tobias, l'ha messa al corrente.

Lascia perecchio perplessi, invece, l'atteggiamento, o comunque l'indole di Tobias, che finisce con l'essere la causa dei muri che magicamente si sollevano tra i due. A chi ha amato la coppia nel primo romanzo (tocca ammettere che non sono esattamente tra questi) tocca la delusione di vederli piombare nella realtà dei rapporti di coppia e dei compromessi. La luna di miele è durata meno del previsto.
Quello che la Roth racconta apertamente è che Tobias, terrorizzato non solo all'idea di perdere Tris ma, soprattutto, dalla possibilità che ciò accada perchè lei stessa aneli la morte, tenti di scuoterla dal suo stato rimproverandola di continuo, tenendosi alla larga e minacciandola di porre fine alla loro relazione.
Quello che invece la Roth lascia ai buoni intenditori, è che questo non è l'unico sentimento che muove le fila del personaggio. Tobias ha paura non solo che una eventuale morte di Tris si verifichi, ma ha anche paura (se così la si può chiamare) di Tris stessa. La Divergenza di Beatrice è molto diversa dalla sua; il triplice risultato Abnegante-Intrepida-Erudita non ha precedenti a memoria d'uomo, e rende difficile se non impossibile mettersi nei suoi panni, capire i meccanismi della sua mente, soprattutto per Tobias che, nonostante la Divergenza, palesa una mente molto più schematica e limitata di quella di lei.
E' il volto Erudito di Beatrice che Tobias non è proprio in grado di capire. Al contempo, l'instabilità psicologica -seppur ampiamente giustificata- causa un calo di stima e di fiducia, col risultato che le più grandi qualità di Tris (l'intuitività e la capacità di guardare sotto la superficie delle cose) perdono di credibilità ai suoi occhi.
Se c'è una cosa che mal si tollera di questo personaggio, è la presunzione e l'orgoglio.
Sono difetti che si nascondono sotto l'amore che prova per lei, ma che emergono non appena Tris, raccontando le sue sensazioni e i suoi procedimenti logici, gli fa inconsapevolmente notare quello che a lui manca. Tobias reagisce ignorandola e Tris fa di testa sua, mostrando d'aver ragione non solo a dar credito a Marcus, ma anche a diffidare di Evelyn, che lui difende tanto calorosamente.
Lui le chiede scusa quando l'evidenza dei fatti lo colpisce, ma temo che lo schema sia destinato a ripetersi.

Insurgent si chiude con la diffusione del video che contiene l'informazione, un colpo di coda che non ci si aspetta affatto. Finalmente viene rivelata l'origine della società delle fazioni. Scoppia il pandemonio e ulteriori spiegazioni e approfondimenti sono magistramente rimandati al successivo e conclusivo volume della saga.

- fine SPOILER -


Sicuramente, fungendo da ponte, è anche il libro meno avvincente dei tre, sebbene eventi movimentati non manchino. E, forse, è proprio questa commistione di episodi d'azione sparsi per tutto il libro a creare un effetto particolare, come se la fabula classica [ situazione iniziale - rottura dell'equilibrio - evoluzione - scioglimento - finale ] fosse sconvolta, apparentemente senza ordine logico.
E questo, indubbiamente, stranisce.
Tuttavia, se si cambia la prospettiva e si considera la saga per quello che è, un unico grande libro suddiviso in 3 parti, ecco che la fabula classica, a cui siamo abituati, si delinea nuovamente.

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Il mio disastro letterario sei tu, Jamie McGuire.

Ho comprato “Il mio disastro sei tu” sulla scia dell’entusiasmo letto sui quotidiani e su internet, che annunciavano a gran voce il “fenomeno letterario dell’anno”.
L’autrice, Jamie McGuire, non l’avevo mai sentita nominare, forse in virtù del genere “rosa” davvero poco affine ai miei gusti. Ho avuto modo di leggere la storia editoriale di questa serie: gare per accaparrarsela, ristampe innumerevoli, diritti cinematografici venduti alla Warner Bros.
Insomma, non sempre il successo commerciale va associato ad una scarsa qualità del prodotto, perciò ho deciso di tentare.
Purtroppo, me ne sono pentita amaramente.

“Il mio disastro sei tu” è il secondo della serie che racconta l’amore tra Travis e Abby, due studenti universitari dalle vite complicate. Nello specifico, il libro racconta gli stessi eventi del primo volume (“Uno splendido disastro”) dal punto di vista del protagonista maschile. Quindi credo di non aver fatto passi falsi a ignorare l’ordine di uscita.

I personaggi (tra le altre cose, caratterizzati malissimo) rispondono ai più biechi stereotipi che la nostra società abbia prodotto negli anni.

Travis “Mad Dog” Maddox è il classico duro dal cuore tenero, con una triste vicenda familiare alle spalle. Ha le braccia tatuate, guida una Harley e si mantiene agli studi partecipando ad incontri clandestini di boxe. Inutile specificarlo, è un donnaiolo incallito i cui contatti con l’altro sesso si riducono alla mera fisicità. Uno Step (“Tre metri sopra il cielo”) di ultima generazione.
Sorprende come, nel 2015, questa caratterizzazione trita e ritrita continui a solleticare gli appetiti di giovani adolescenti e appassite casalinghe.

Abby, a stereotipi, non sta messa meglio. Se la vicenda familiare di Travis è triste, la sua è addirittura surreale. E’ la classica brava ragazza la cui unica attrattiva verso il teppistello è costituita dalla volontà di cambiarne i connotati. Continuando sulla scia delle specificazioni superflue, è vergine. Perché, in queste storie, è inconcepibile qualsivoglia innamoramento qualora la controparte femminile osi presentarsi non illibata. Non importa quanti figli illegittimi abbia l’uomo, l’importante è che lei sia casta e pura.
E’ uno schema che puzza di sessismo e ha il retrogusto dell’ipocrisia.

[ - Seguono SPOILER- ]

La storia fa acqua da tutte le parti, a partire dalla spinta che mette in moto il meccanismo narrativo.
Travis vede Abby e resta folgorato. Nel giro di 13 pagine, ha perso la testa per lei, rifilandoci ininterrottamente le solite manfrine: lei è diversa. Resta poco chiaro come riesca a cogliere l’essenza della personalità di lei in così poco tempo e con un solo reale contatto, quello in cui America (la fidanzata di suo cugino e migliore amica di Abby) gliela presenta.
Il lettore (quello intelligente) non può far altro che farsi cadere le braccia dinanzi ad un tale colpo di fulmine. E il peggio è che non c’è via di scampo, l’autrice getta Travis in una infatuazione talmente radicale ed improvvisa, che a noi non è dato tracciarne il percorso emotivo e sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda della storia. La situazione è talmente priva della naturale crescita graduale, che si viene privati della possibilità di provarne empatia, di emozionarsi a propria volta.
Si riesce solo a contemplare le pagine con un cipiglio incredulo.

Abby e Travis non hanno nulla in comune, eccetto la vena psicopatica che li contraddistingue entrambi. Ci si chiede se entrambi, ad un certo punto della loro vita, non siano volati sul Nido del Cuculo senza riuscire più a venirne via.
Ai primi contatti, seguono 200 pagine di follia. Una strana amicizia prende vita, in parte retta sull’insicurezza di lui (che si ritiene indegno) e in parte ancorata alle perplessità di lei. E come darle torto?
Travis è un primate travestito da essere umano, sia nei modi che nella psicologia. Afferma di non meritarla ma fa di tutto per rovinarle qualsiasi tentativo di frequentare terzi; le chiede di cambiarsi ogni volta che lei indossa un vestito sexy per uscire; fa a botte ogni volta che ne ha l’occasione. Ci si dovrebbe intenerire ed inorgoglire, leggendo come lui si erga ad impavido difensore e Cavaliere. La verità è che l’autrice espone una concezione della donna fuori tempo già nel Medioevo.
Travis alterna momenti in cui impersona il “Padre-Padrone” a momenti in cui le scodinzola intorno come un cane bastonato, privo di dignità e amor proprio.

Lei non è migliore di lui, anche se lo si potrebbe pensare. La sua indecisione perenne, il suo prendere decisioni per poi ritrattare, le sue continue fughe, portano alla pura e totale esasperazione. Tutto giustificato dal fatto che Travis le ricorda il padre da cui è fuggita.

E come tacere di questo padre, di quest’orco cattivo? La sua comparsata trascina nella storia un’improbabile affare di strozzinaggio, una fugace visita a Las Vegas e alcuni loschi contatti con la mafia.
Questo è davvero il punto della narrazione più basso.

Quando ci si comincia a chiedere quando avrà fine questo sperpetuo, ecco che di nuovo Abby e Travis si mollano, per poi tornare insieme dopo svariate sbronze e scenate.

E pensate che sia la fine? No, certo. Prima rischiano la vita in un incendio, poi ovviamente si vanno a sposare a Las Vegas.

[ - FINE SPOILER - ]

Cosa aggiungere? Questa “opera” (rabbrividisco ad appellarla come tale) è un mix di luoghi comuni e desolazione, sapientemente confezionato allo scopo di vendere. E’ priva di spunti di riflessione, priva di un qualsivoglia messaggio di fondo, priva di tutti gli elementi che fanno di un libro un qualcosa a cui valga la pena di dedicarsi.
E’ “letteratura” che lascia il tempo che trova.
Fatevi un regalo e usate questo tempo in un altro modo.

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originale e riflessivo senza essere pretenzioso

Dopo aver visto il primo film è arrivata anche la voglia di leggere il libro. Il genere mi piace, nonostante sia decisamente destinato più agli adolescenti.
Premetto che ho letto solo il primo volume e che mi riservo il diritto di cambiare le mie opinioni in seguito, rischio che con le saghe esiste eccome - con questa forse più che con altre -.
Parto subito col dire che Divergent mi è piaciuto e che ho divorato il libro in due giorni, sebbene questo non significhi che non ne abbia notato i difetti.

Sin dalla prima pagina veniamo catapultati in questa distopia, un futuro prossimo non ben definito in cui l'umanità, presumibilmente in seguito ad un qualche guerra mondiale, si è rifiugiata all'interno di una recinzione e divisa in 5 fazioni, che individuano altrettanti tipi di personalità:
- gli Abneganti, che si prodigano per il prossimo e praticano il sacrificio di sè
- gli Intrepidi, che affrontano e sconfiggono le loro paure allo scopo di difendere la città
- i Pacifisti, che coltivano la terra
- i Candidi, che vedono nella Verità l'unica via di uscita dai mali del mondo
- gli Eurditi, che perseguono la conoscenza in ogni campo

Per prima cosa, devo dire che, sebbene poco realistica, questa netta divisione tra persone che credono in diversi valori e che per essi lottano (nonostante lo scopo fosse inizialmente quello di debellare la guerra) credo sia una trovata non da poco, per quanto schematica. Non nuovissima, certo, ma almeno la Roth si è data la pena di reinventarla. Basta riflettere per qualche istante per capire quanto le fazioni della Roth siano plausibili anche nell'ottica dell'odierna società -e non solo all'interno della distopia-, per individuare gli ispiratori delle fazioni. E, infondo, la "fantascienza" non è altro che questo, un'esasperazione, un'estremizzazione di ciò che già esiste.

Nonostante partano da due diversi presupposti, capisco bene perchè si associ la saga di Divergent a quella di Hunger Games.
Però non basta pensare a questa associazione solo in virtù della distopia YA.
Le due saghe hanno la stessa atmosfera, trasmettono la medesima sensazione di vivere una vita le cui regole sono dettate da altri. E' vero, Tris può scegliere la fazione in cui vivere mentre i tributi non hanno la minima voce in capitolo circa il loro destino di andare al macello. E' tuttavia, anche quella di Tris, una scelta pre-ordinata, obbligata, tant è che per persone come lei, per cui non è possibile individuare la specifica fazione, ipoteticamente non c'è altra via se non quella di essere Esclusi dalla società, in quanto personalità non conforme ai dettami pre-stabiliti.
Roth e Collins, però, partono da due presupposti diversi: la prima dalla guerra, la seconda dal disastro naturale -che, seppellendo gran parte delle terre emerse, ha causato il sorgere di una dittatura istituita originariamente allo scopo di gestire meglio e più rigorosamente le risorse (ed è per questo che ad ogni Distretto è associata una specifica produzione).
Parimenti, due dei mali che oggi ci affliggono e per cui spesso temiamo la fine del mondo che conosciamo.

Apparte i presupposti e il genere assolutamente affine, i parallelismi tra le due saghe qui s'interrompono e si ricongiungono solo nel messaggio finale. La trama, e le due protagoniste soprattutto, sono completamente diverse.

Quello che ci viene raccontato, al di là dell'ambientazione della storia, è ciò che ognuno di noi ha vissuto a sedici anni, quel conoscere sè stessi al di fuori del nucleo familiare, quel prendere coscienza della propria indole e del proprio carattere, mano a mano che si cresce e che ci si confronta con la vita e con gli altri. E' questo che fa Tris, della quale viene descritto il percorso in modo semplice ma essenziale.
Tris sta crescendo e con lei cresce l'insofferenza a regole che non si conformano alla propria natura, le regole degli Abneganti; al contempo, si sente in colpa, stentando a lasciar andare il freno per non arrecare dispiacere ai propri genitori. Già consapevole, anche se in bilico tra vari sentimenti, di questa sua diversità, Tris decide di tentare l'ingresso nella fazione degli Intrepidi. Essendo cresciuta in un ambiente sterile, votato all'atruismo e da cui è bandita qualsiasi forma di vanità, da quella più semplice (guardarsi allo specchio, avere vestiti differenti) a quella più complessa (l'amor proprio), si può ben capire per quale motivo passi i giorni prima della fatitica scelta ad ammirare gli Intrepidi, che corrono, ridono e non sottostanno alle sue stesse regole. Dunque, quando il giorno della scelta è vicino, e il test attitudinale si verifica inconcludente, bollandola come Divergente, la sua scelta cade sulla vita che da sempre, intimamente, desidera per sè.
La vita che la aspetta, una volta varcata la soglia del mondo adulto - soglia da identificarsi con la scelta compiuta -, è più dura di quanto si aspettasse. Ci sono prove da superare e persone la cui cattiveria non si è annullata grazie al sistema delle fazioni, in soldoni fallimentare in quanto fondato dagli uomini e, dunque, già in partenza intrinsecamente nullo.
Mentre seguiamo lo sviluppo della stroria e la crescita di Tris, lo sbocciare dell'intrigo politico che ha per protagonista Jeanine, una Erudita con smanie di potere, ci racconta come l'ambizione e l'avarizia di certuni individui a scapito di altri portino comunque al conflitto e alla distruzione.
E' la natura umana il problema; cambiano i mezzi, le società si evolvono, eppure la storia -passata, presente e (nel caso del libro) futura- ci appare come un eterno ritorno senza speranza di redenzione.

E' questa la morale, affidata alle parole della mamma di Tris, nell'ultimo atto:
"Gli esseri umani non riescono ad essere buoni per molto tempo, senza che il male si insinui di nuovo tra loro e li riavveleni."

Suggeriva questo anche il finale di Hunger Games, in cui colei che aveva capeggiato la rivoluzione facendola sbocciare pian piano dal Distretto 13, una volta sul "trono" chiedeva il ristabilimento dei giochi per vendetta.
Come dicevo, l'idea alla base del romanzo c'è e va elogiata.

Dei difetti, o meglio, delle cose che non mi sono piaciute troppo, ci sono.
Lo stile della scrittura è scarno ed estremamente semplice, forse proprio perchè l'opera è destinata ad un pubblico giovane. Frasi molto brevi, un vocabolario di 50 parole sì e no. Insomma, non so se sia colpa della traduzione, ma stento a crederlo, dato che i traduttori sono tenuti ad attenersi allo stile originario il più possibile.

Altra nota dolente è la storia tra Tris e Quattro. Sono lieta che la Roth non tenda a focalizzarsi troppo su questo punto. E' pur vero, comunque, che le scene dedicate ai due sono estremamente melense, a tratti sinceramente poco credibili.
Tris è una protagonista che mi piace. Si presenta come impacciata e insicura, repressa nella sua fazione d'origine; passo dopo passo si scopre incredibilmente forte, intelligente, capace, persino attraente. Non si vergogna di queste scoperte e il racconto non è infiocchettato con false modestie e fronzoli di sorta. Mi sarebbe piaciuto, per una volta, che la protagonista femminile dominasse la scena senza l'inevitabile supporto dell'ennesima storia d'amore, sbocciata troppo presto e senza un minimo di suspance, solo per strizzare l'occhio alle ragazzine.
Smettiamola d'insegnare alle adolescenti a sentirsi incomplete senza il figone di turno.
In seconda istanza, avrei gradito maggiori particolari circa i precedenti della storia e, soprattutto, circa il lavoro degli intrepidi alla recinzione. L'unica frase in merito è affidata ai pensieri di Tris che osservando un camion di Pacifici attraversare le porte per dirigersi verso le fattorie, situate al di fuori della città, nota un Intrepido richiudere a chiave il passaggio, dall'esterno.
"Sembra che vogliano tenere noi dentro, invece che difenderci da ciò che c'è fuori".
Mi aspetto, comunque, che questi aspetti siano approfonditi nei successivi volumi.

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