Opinione scritta da manuelaagosto
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La vita è amore e lotta
Dire che un libro è bellissimo può sembrare esagerato, in fin dei conti è un libro che parla della vita, e della morte, e dell’amore, e della rabbia, e dell’orgoglio, e di tutti quei sentimenti che popolano la vita, la vita vera, quella vissuta sulla propria pelle, che lascia una memoria.
Una saga familiare che attraversa un secolo denso di avvenimenti, di quelli che fanno la Storia con la S maiuscola. E dentro la Storia c’è la storia di una famiglia di anarchici toscani sempre alle prese con il problema del poco lavoro, della fame e dei tanti figli che se non ci fai attenzione ti ci perdi perché spesso padre e figlio si chiamano allo stesso modo. E’ un racconto sulle lotte per liberarsi dalla schiavitù imposta dai padroni, quelli che danno il lavoro ma anche quelli che stanno al governo, comprendendo che cambiano i padroni ma non cambia mai niente per la povera gente. Soprattutto se questa povera gente non ce la fa proprio a farsi calpestare ma ci tiene alla propria dignità di essere umano con i suoi diritti e, orgogliosamente, alza la testa e magari ci rimette la pelle.
E’ un racconto sui sogni di riscatto per una vita migliore e allora si va in Africa, e ci si perde nel deserto – quale dei due fratelli? -, si va in Argentina a suonare e cantare tanghi, si va in Francia a farsi rompere la bocca sul ring o si dimentica la gobba diventando rivoluzionario. Ci sono suore diventate tali per infelicità e c’è l’Asmara che ricama la dote fino a riempire bauli perché deve seguire le predizioni dell’oroscopo. E l’Esperia con le fiammelle sulle dita, e la Zelmira che sa di oroscopi e di come guarire le malattie. E come dimenticare l’ultimo Garibaldo, sempre in giro per il mondo e sempre pronto a lottare contro il padrone di turno. Una galleria di personaggi, una galleria di umanità che segna una memoria lunga, che arriva fino a noi.
Primo libro di Tabucchi che contiene però in nuce tutte quelle che saranno le caratteristiche dominanti delle sue opere: l’amore per l’epica, il gioco del doppio e degli equivoci, la propensione per il mistero che sa di magico.
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Riflessioni e bilanci
Un duello impari tra un nonno ultrasettantenne e un nipote di quattro anni, chiusi in un appartamento, praticamente soli. Il vecchio vive da molti anni solo, dopo la morte della moglie, a Milano, trascorrendo il tempo a fare quello che ha fatto una vita intera: illustrare favole e dipingere. E’ stato famoso e adesso vive di rendita non volendo rendersi conto che il tempo è trascorso e con esso anche la sua notorietà. Il confronto con il nipote gli gioca un brutto scherzetto. Fare i conti con se stesso, con la vecchiaia che avanza, con un inaridimento del suo estro creativo. Ritornare nella vecchia casa di adolescente a Napoli fa riemergere i fantasmi, opportunamente sempre repressi, di un ragazzo che poteva imboccare una brutta strada e che invece si è salvato dipingendo. E’ stato un uomo distratto, ha amato, sì, la moglie e la figlia Betta ma distrattamente, non volendo farsi coinvolgere dai sentimenti e dai problemi della vita, rinchiuso nel suo bozzolo fatto di colori, l’unico vero piacere della sua vita. E così la vita è trascorsa e ora si trova a confrontarsi con un nipote che ha visto sì e no due volte, un piccolo ometto in miniatura, che parla come un libro stampato, che sa fare cose impensabili per la sua età, saccente e petulante.
I genitori lo hanno educato in modo sovradimensionato rispetto all’età e in questo piccolo essere c’è il convincimento di saper fare tutto, che si confonde, giustamente, con il suo credere che tutto è un gioco con effetti a volte preoccupanti.
Nonno per forza, infastidito di non poter lavorare alle sue tavole da illustrare, diventa il paradigma di tutte quelle persone che, giunte alla vecchiaia, fanno bilanci sulla vita trascorsa e a volte i conti non tornano mentre, intanto, il tempo si dilata e si stira e si cerca una qualsiasi cosa che ne dia un senso, che faccia ritrovare il piacere di stare soli con se stessi.
Il piccolo Mario fa da contraltare alle paranoie del vecchio illustratore, una bomba pronta a esplodere, troppo compresso nella sua “adultità” prematura e imposta. Quando libera la sua forza di bambino ci è anche più simpatico anche se spiazza il povero nonno che non sa imbrigliare tanta potenza e un poco la invidia.
Un libro che ti fa lo scherzetto di farti riflettere. A volte serve.
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L'amore al tempo del terremoto
“Bella mia” è un canto poetico sull’amore, l’amore che non c’è più e l’amore che pian piano rinasce tra le macerie del terremoto che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009. Quelle potenti scosse che all’alba hanno raso al suolo una città e tanti altri paesi intorno hanno seminato morte e macerie non solo fisiche ma anche morali, hanno cancellato l’individualità e l’intimità delle persone che le hanno vissute. Cosa resta dopo un terremoto oltre ai morti e ai feriti, agli sfollati, alle case violate, al pianto dei sopravvissuti, al dolore per chi non ce l’ha fatta? Resta la nostalgia dei ricordi e quelle poche cose che i sopravvissuti sono riusciti a portare in salvo, un tempo insignificanti e ora testimoni mute di tutta una vita.
Il romanzo parla di due gemelle che il terremoto ha diviso per sempre lasciando a una delle due l’incarico di fare da madre, lei che madre non ha mai voluto essere, al figlio adolescente della gemella, Olivia, rimasta sotto le macerie. Parla del rapporto difficile con questo nipote, aggrovigliato nella sua perdita, incapace di parlare con la zia e con la nonna perché l’unica persona con cui vorrebbe parlare è sua madre. Che non c’è più. E il padre conferma l’inconsistenza e la nullità affettiva che già c’era prima del terremoto.
L’io narrante è Caterina, la gemella superstite, che ha ripreso a dipingere le sue terrecotte ma dentro è in frantumi come sono andate in frantumi le sue terrecotte. L’assenza è la presenza onnivora del romanzo con cui Caterina, Marco, il nipote, e la nonna devono fare i conti tutti i giorni e tutte le notti. Amano fortemente e fortemente rimpiangono. Olivia è altrove. La vita, laggiù nelle C.A.S.E., si srotola come una tela di Penelope. Ogni giorno si ricomincia daccapo. Eppure nella provvisorietà e nei rimpianti delle loro esistenze ogni tanto l’oscurità è squarciata da qualche piccolo momento di grazia. Le intemperanze di Marco, che cerca una logica a quello che gli è successo dove logica non esiste, vengono un po’ domate dall’arrivo di Bric, anche lui un sopravvissuto, un cane sopravvissuto al suo padrone. E Marco riesce a trovare un canale comunicativo con lui. Caterina riassapora il gusto di due labbra sulle sue e la dolcezza delle carezze di un uomo sul suo corpo. Una nuova vita sta formandosi nel grembo di una vicina. Deboli luci di una rinascita della speranza a cui aggrapparsi per vivere e non solo sopravvivere.
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Vivere al tempo dell'ETA
Patria è un affresco emotivo, familiare, sociale di un periodo decisivo della storia del popolo basco, carico di pathos, sentimenti e fatti che intrecciano le vite di due famiglie.
Non c’è giudizio politico né pregiudizio da parte dell’autore ma egli si pone quasi come uno spettatore a raccontare le vite dei suoi personaggi e come si intrecciano ed evolvono in un contesto sociale e politico determinato dalla violenza, dalla lotta armata e dal sangue versato da entrambe le parti. C’è poesia e amore nonostante la violenza e gli assassinii perché parla di un periodo fondamentale della storia del popolo basco ma soprattutto di come lo hanno vissuto personalmente i suoi protagonisti, con il carico emotivo che ha segnato le loro vite. Ci sono i buoni e i cattivi ma a seconda del punto di vista di chi vive in prima persona la tragedia che si inanella attorno alla vita di Bittori, moglie del Txato, la vittima, e di Miren, madre del terrorista Jose Mari.
E’ una storia in cui le donne hanno un ruolo da protagoniste e segnano, nel bene e nel male, l’evolversi dei fatti. Bittori e Miren innanzitutto, donne tutte di un pezzo si direbbe, donne forti, accomunate, anche se in modo diverso, dal dolore e dalla tragedia, donne che non piangono, ruvide, che non possono permettersi di cedere al sentimento. Che pure c’è, a cercarlo sotto la scorza dura che gli ha costruito addosso il dolore. Donne che non si piegano, che neanche l’assassinio del marito per Bittori e l’incarcerazione del figlio per Miren riescono a spezzare. Anzi, al contrario, diventano un motivo per vivere, per andare avanti, per lottare, ognuna con la propria personale lotta.
Se cerchiamo una figura di donna più equilibrata, tenera e commossa, pur nella sua feroce determinazione, la troviamo in Arantxa, figlia di Miren, colpita in età adulta da un ictus che la riduce su una sedia a rotelle, senza poter parlare, con una paresi della parte sinistra del corpo, ma che non si arrende alla malattia e non perde di umanità, compassione e voglia di vivere. E’ lei che è il motore del cambiamento nel fratello, lei che ha il coraggio di superare l’odio incancrenito e addirittura diventare amica di Bittori dopo l’assassinio del Txato.
Gli uomini in questo romanzo fungono un po’ da comprimari: la testa dura del Txato, che non si piega alle minacce dell’Eta, l’apatia di Joxian, marito di Miren, il comportamento di chi non vuole troppo immischiarsi di Xabier, figlio di Bittori. Si salva Gorka, il figlio minore di Miren, che ha il coraggio di schierarsi contro il fratello e di fare outing.
E’ un libro che il basco Aramburu ha scritto con il cuore in mano, comprensibilmente coinvolto nella storia del suo popolo, ed è l’atteggiamento con cui si dovrebbe leggerlo, lontano da giudizi.
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la forza dell'amore
Rico ha perduto tutto: la famiglia, la casa, il lavoro. Tutto. Unica alternativa: la strada. Ed eccolo che si trascina da Parigi a Marsiglia, ultima sua meta, condividendo l’inferno con altri disgraziati e avendo come unica compagnia la bottiglia e le sigarette. A Rico restano i ricordi soprattutto il ricordo di Sophie, la moglie, il suo grande amore, che l’ha abbandonato portando con sé Julien, il figlio. Sophie amata, adorata, per lei si era indebitato oltremodo, ma Sophie meritava il meglio. Amore, amore, amore. Un po’ d’amore ricerca Rico nella sua lenta discesa agli inferi, è la sua unica ragione di vita, ciò che dà senso alla vita.
Da quando ha cominciato la sua vita di strada ha incontrato alcune donne, Malika, Julie, Mirjana, che gli hanno regalato uno sprazzo di luce, gli hanno fatto credere che ancora non tutto è perso. La tenerezza di una carezza, la sensualità di un corpo che ti si offre, la dolcezza di uno sguardo, sono linfa vitale per Rico, lo fanno andare avanti.
Con alcuni dei suoi compagni di strada stabilisce rapporti di amicizia e di affetto, come con Titì che gli insegna alcune regole indispensabili per vivere per strada, per non perdere, nonostante tutto, la propria dignità: tenersi puliti e non chiedere l’elemosina, ad esempio. Quando Titì muore, di freddo in una stazione della metropolitana, Rico decide che è ora di andarsene e di partire verso il sud. Marsiglia, dove ha vissuto momenti indimenticabili con Lea, in una lontana gioventù. Il viaggio verso il sole è irto di difficoltà che minano il corpo e la mente di Rico riducendolo ormai a un morto vivente, per fortuna assistito da Abdou, un ragazzo algerino migrante.
Il libro è struggente e ricco di umanità e ritrae un uomo che pur martoriato dalla vita e ridotto a un corpo che cammina, non ha perso per un attimo di cercare l’amore e di provare sentimenti, anche solo l’estasiarsi a guardare il mare, a Marsiglia, in silenzio, per lunghe ore, con il suo amico Abdou.
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Bastava solo un po' di amore
Il testo contiene spoiler
“La ballata di Iza” è soprattutto il racconto del rapporto tra una figlia, Iza, e i suoi genitori e , in particolar modo, con la madre, chiamata nel libro sempre col termine “la vecchia”.
I genitori crescono Iza in una piccola cittadina e, pur nelle ristrettezze economiche che a un certo punto colpiscono la famiglia, a Iza non viene fatto mancare nulla e può studiare fino a laurearsi in medicina. Iza dimostra fin da piccola una grande determinazione e serietà e, pur amando i genitori, non esprime nei loro confronti sentimenti di amorevolezza o di gratitudine anche se si preoccupa del loro benessere e della loro salute. Ma con distacco. Non conosce cosa sia il coinvolgimento emotivo.
I genitori al contrario la amano di un amore assoluto, senza limiti.
Vince, il padre, dopo essere stato riabilitato come giudice, vive della sua pensione. E’ una persona semplice ma intelligente, capace di grande amore ed è molto stimato da tutti, soprattutto per la sua generosità. Generosità che si rivela anche nel semplice gesto del dono di una piccola somma di denaro che egli fa ogni anno all’università, perché sia destinata al più meritevole degli allievi, anche quando, destituito dal suo incarico di giudice, vive in grande povertà. Di lui si può dire che sia un uomo coerente e di grande integrità morale, caratteristiche che lo accompagnano anche nei giorni difficili della malattia, sempre assistito dalla moglie e da Iza che si comporta come un medico eccellente e come una figlia devota.
Alla morte del padre Iza, senza consultare la madre ma ritenendo di fare la cosa giusta, mette in vendita la casa di famiglia, acquistata da Antal, l’ex marito, medico anche lui, e porta la madre a vivere con sé a Pest, in città, dove ha un bell’appartamento nuovo e dove lavora. La vecchia è frastornata ma è abituata ad affidarsi alle scelte della figlia e se la sua Iza la porta a vivere con sè quale soluzione migliore vi può essere?
Nella convivenza tra madre e figlia si manifestano i caratteri di entrambe perché Iza ha pianificato non solo la sua vita, che non può subire cambiamenti, ma anche quella della madre.
Antal, quando aveva conosciuto Iza, l’aveva definita tra sé “un piccolo soldato” e mai impressione fu più calzante: Iza era perfetta in tutto, un meccanismo ben oliato, pragmatico, a cui nulla sfuggiva. La tenuta della casa è affidata a Terez, Iza non ha che da pensare al suo lavoro e a riposarsi.
La vecchia, dapprima entusiasta di andare a vivere con la figlia immaginando di potersi occupare di lei, si trova relegata a non poter fare niente, lei che in tutta la sua vita è sempre stata attiva e ha sempre lavorato. Si assiste così a un lento deperimento fisico e morale della vecchia, simile, per molti versi, a quello che succede a tanti anziani rimasti senza il coniuge. La vecchia non sa come impiegare il tempo, si sente inutile e vaga per la città, tanto per fare qualcosa, ma Pest è una grande città, le manca la possibilità di intrecciare rapporti di confidenza con i vicini come invece aveva al villaggio.
Iza si accorge del malessere della madre e, da figlia devota, dispone un po’ del suo tempo libero per stare assieme alla vecchia conversando con lei, ma non appena la vecchia si rende conto di quanto questo pesi alla figlia, non si rende più disponibile facendo finta di dormire.
Anche Domokos, il nuovo compagno di Iza , si accorge che la vecchia sta male e le regala un uccello in gabbia perché le faccia compagnia ma la vecchia apre la gabbia e lo fa volare via.
E’ un quadro abbastanza paradigmatico di tante situazioni simili: i figli non hanno tempo, lavorano, hanno la loro vita, i loro interessi; il genitore sopravvissuto passa tutta la giornata da solo, ora davanti al televisore, che diventa il surrogato della mancata attenzione dei figli, nel caso del racconto la vecchia passa il tempo girovagando in tram.
Solo quando avrà l’opportunità di tornare al paese, in occasione della posa della lapide sulla tomba del marito, la vecchia si riprende. Ritrova l’atmosfera del villaggio, rivede la sua casa, sa che solo là potrà sentire il suo Vince da vicino. Nel suo vagabondare notturno alla ricerca dello spirito di Vince troverà fatalmente la sua fine.
La morte della vecchia apre uno squarcio sui sentimenti dei protagonisti della storia e solo allora Iza cede, ormai troppo tardi, al richiamo dell’amore.
In fondo bastava solo un po’ di amore.
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Una vita di abbandoni
Una storia ruvida, fatta di emozioni soffocate e di abbandoni. L’Arminuta non ha neanche diritto a un nome. Per tutti, là in quel paese lontano dalla città, lei è l’Arminuta, la ritornata.
Dopo tredici anni passati in un nido caldo e amorevole, come un uccello che non sa ancora volare è stata buttata fuori dal nido, senza spiegazioni, e, ammaccata dentro, con una pena infinita, è approdata in un altro nido. Trova una famiglia, un’altra, ma capisce che questa è quella vera e che quella donna trasandata, avara di parole e di affetto, è la madre che l’ha partorita e data via. Scopre di avere una sorella, più giovane di lei di età ma con una conoscenza della vita quasi da adulta, una che forse bambina non lo è mai stata.
Scopre di avere dei fratelli più grandi che, come Adriana, la sorella, sono cresciuti come piante selvatiche e hanno messo radici e spine per difendersi dalla vita visto che i genitori sono preoccupati per lo più a mettere insieme il pranzo con la cena e non c’è tempo per preoccuparsi a come crescere i figli.
In quell’altra vita lei era la più brava della classe, andava a danza e in piscina, aveva amici e cresceva nella spensieratezza dei suoi anni. In questa nuova famiglia il padre è una figura di secondo piano, si sa che lavora in fornace, che aspetta stipendi arretrati e che è pieno di debiti. La madre, con l’ultimo dei figli che le gattona intorno, manda avanti come può la famiglia, chiusa nella sua apatia, trascina la sua vita come trascina le sue ciabatte, incurante dei figli e della loro esistenza. Solo quando uno dei figli maschi, Vincenzo, muore in un incidente stradale, quel grumo di emozioni che evidentemente covavano sotto braci apparentemente spente, esplode e la sua reazione è di ritirarsi dal mondo e passare le sue giornate distesa a letto, gli occhi sbarrati sul nulla.
E come due naufraghe alla deriva, un sodalizio complice nasce tra le due sorelle, così diverse ma entrambe affamate di affetto e di cure e imparano ad amarsi anche nella loro diversità.
Gli ottimi voti riportati alla licenza di terza media fanno frequentare alla protagonista un liceo in città vivendo a pensione presso una famiglia procurata dalla prima madre che mai si fa vedere ma che agisce per la sua protetta. Un’altra famiglia, altre persone con cui condividere la quotidianità, la disperante sensazione di essere un pacco che va spostato secondo disegni a cui lei non è dato di capire.
Ma l’Arminuta, esausta da questi continui spostamenti che le sconvolgono la vita, non demorde dal ricercare quella che per lei è la sua unica madre e che crede ammalata, altro motivo non può esserci dal momento che non l’ha più richiamata a sè. Ma una amara verità le viene crudelmente rivelata dalla sorella: la tanto desiderata madre non era ammalata ma aveva una brutta gravidanza e ora aveva avuto un figlio, quel figlio cercato per anni che lei era andata a sostituire. Ora con un nuovo compagno il figlio tanto cercato era arrivato e lei non sarebbe mai più ritornata dalla sua unica madre. Un altro ennesimo abbandono e proprio da colei che avrebbe dovuto amarla più di tutti.
La forza lacerante dell’odio si sostituisce nel suo cuore a quella dell’amore e le sue notti si fanno ancora più insonni, popolate da orribili fantasmi.
Il racconto si chiude intorno allo svolgersi di un pranzo tra Adalgisa, è questo il nome della madre che ha allevato l’Arminuta, il suo nuovo compagno, la protagonista e la sorella, pranzo che, per come si svolge, suggella l’unico vero affetto su cui l’Arminuta può contare: la sorella Adriana.
La scrittura dell’autrice è scabra, tagliente, non lascia spazio a sentimentalismi ma plasma i suoi personaggi con la forza della disperazione e dell’assenza.
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La vita in dizionario
I brevi racconti che compongono Sillabari sono apparsi in origine sul “Corriere della Sera” fra il 1971 e il 1972 (da Amore a Famiglia) e fra il1973 e il 1980 (da Felicità a Solitudine), mentre è del 1984 il volume che per la prima volta li ha radunati tutti.
Come un vecchio sillabario delle elementari sono raccontati in ordine alfabetico e in poche pagine, situazioni, stati d’animo, sentimenti, comuni a tutti noi.
Si è detto di questi racconti “che sono poesie in prosa” e in effetti l’approccio stilistico è di un lirismo intenso che rivela il modo di sentire la vita dell’autore.
L’atmosfera che pervade i racconti è spesso un’atmosfera onirica, a metà tra il reale e il non reale, venata da una leggera ma diffusa malinconia.
Spesso i racconti si concludono con una sensazione di sospensione, di non finito, che spingerebbe a chiedere una spiegazione: ma non si possono spiegare le poesie.
I personaggi sono analizzati dettagliatamente, sia esteriormente che interiormente e sono pervasi di sentimento mai di sentimentalismo.
Grande attenzione va anche alla descrizione della natura e del paesaggio ripresi con occhio da pittore ma forse sarebbe meglio parlare di descrivere poetando.
Spesso i racconti sono pervasi da una vena di nostalgia per situazioni o sentimenti che potevano essere e che non furono.
La prosa è narrativa, semplice, fluida, carnale e allo stesso tempo asciutta.
La scrittura dell’autore è musicale e al contempo pittorea perché di ogni cosa o persona se ne percepisce il suono e tutto è un caleidoscopio di colori.
La lettura di questi racconti ci lascia la consapevolezza di aver letto una pagina fondamentale della narrativa italiana.
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Una vita indifferente
ATTENZIONE : CONTIENE SPOILER
William Stoner, ma per tutti Stoner quasi che a chiamarlo per nome gli si desse troppa importanza, nasce figlio di contadini e conosce il duro lavoro dei campi da cui si affranca, non per sua scelta, iscrivendosi alla facoltà di Agraria dell’Università di Columbia. Nel secondo anno di corso ha come una folgorazione e lascia Agraria per Letteratura inglese. Si impegna, studia, riporta buoni voti, ma il tutto con distacco e indifferenza, senza metterci un po’ di entusiasmo. Questo è Stoner, un uomo indifferente alla vita, la cui lontananza dal fluire delle emozioni sarà, per quasi tutta la sua vita, il suo tratto caratteristico. Ha metodo nella sua mediocrità, è testardo senza quasi rendersene conto: arriverà al dottorato e all’insegnamento quasi suo malgrado. Nella sua goffaggine arriva a provare un sentimento simile all’innamoramento per Edith e a portarlo a compimento fino ad arrivare al matrimonio. Il racconto della luna di miele riempie di angoscia: la goffaggine di lui, guidato solo da un naturale desiderio, e la frigidità di lei, consapevole di dover adempiere al dovere coniugale. Al ritorno dalla luna di miele Stoner è già conscio che il suo matrimonio è un fallimento. Edith si comporta da perfetta estranea e, come se non bastasse, gli è ostile, lo tratta male, non gli consente di potersene stare in pace a casa sua. Ma Stoner non reagisce, subisce senza arrabbiarsi – sarebbe il segno di una reazione emotiva – si rifugia all’università. Finalmente un risveglio emotivo avviene con la nascita di Grace, di cui lui si occupa completamente perché a Edith la bambina la infastidisce. Per una parte dell’infanzia di Grace si stabilisce un tenero rapporto tra Stoner e sua figlia almeno fino quando la moglie prende in mano la situazione e forse per gelosia o semplicemente per la voglia di fargli del male, allontana sempre più la figlia dal padre e ne gestisce la vita.
A dispetto di ogni previsione la vita di Stoner subisce un contraccolpo emotivo quando conosce Katherine Driscoll, una sua allieva, e se ne innamora ad una età, quarantatrè anni, in cui non pensava più da tempo all’amore e al sesso. Nella sua vita piatta e prevedibile entra una passione finalmente, che vive con grande trasporto e impeto. E’ un risveglio alla gioia dei sensi e, non solo, alla scoperta di poter coniugare emozioni e mente, perché ha una forte intesa intellettuale con Katherine.
Ma questa parentesi felice è destinata a durare poco perché Lomax, il direttore del dipartimento, che ha una vecchia ruggine con Stoner per un caso di “maltrattamento”, a dire di Lomax, di un suo protetto, gli impone di interrompere la sua storia d’amore a pena di gravi ripercussioni sul suo lavoro.
Il povero Stoner è condannato a non aver pace, né in casa né sul lavoro. Interrompe la relazione con Katherine e ritorna al tran-tran quotidiano.
Ma il fallimento del matrimonio tra Edith e Stoner e l’aria pesante che si respira in casa miete una vittima: la giovane Grace, per sfuggire alle dinamiche familiari, si fa mettere incinta. Ne consegue un altro matrimonio fallito che metterà le premesse per l’inizio dell’autodistruzione di Grace, a cui Stoner non farà niente per aiutarla.
Sulla soglia della pensione Stoner scopre di avere un cancro. A nulla serve l’intervento, ormai il povero insegnante è condannato e, come ha accettato con indifferenza e distacco tutta la sua vita, è pronto ad accettare anche l’epilogo finale.
Il racconto degli ultimi giorni di vita di Stoner sono, a mio parere, la parte più bella del libro per la maestria con cui l’autore ne parla. Struggenti, teneri, poetici e insieme angosciosi momenti che sanno descrivere ciò che è inenarrabile: la morte. Stoner, nello stato attonito e confusionale creato dai farmaci per il dolore, rivive momenti della sua vita. Con le capacità critiche offuscate dai farmaci reputa in un primo momento che la sua vita sia stata un fallimento ma poi ci ripensa e prende distanza da qualsiasi giudizio, tutto preso a osservare il mutare delle luci del giorno che entrano dalle finestre della sua stanzetta e assistono al suo lento spegnersi.
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Il mistero dietro la porta
La storia tra Magda, la scrittrice, ed Emerenc Szeredàs, la donna che la aiuta nelle faccende domestiche, è una storia conflittuale, banalmente si potrebbe dire di amore e odio, ma è ricca di tutte le sfaccettature possibili tra due persone che si amano, si cercano, e allo stesso tempo non si sopportano, si detestano.
E’ un rapporto che cresce tra mille difficoltà perché è Emerenc che ne detta le regole, singolari, strane, incomprensibili, ma sulle quali non si può transigere e a cui tutti si sottomettono. Nessuno conosce niente di Emerenc, del suo passato, della sua vita privata che lei custodisce in un appartamento che tiene gelosamente chiuso a chiave e che mai nessuno ha visto: è il suo tempio, è parte di se stessa. I suoi incontri sociali avvengono nell’atrio di fronte alla casa. Qui riceve le poche persone che ritiene sue amiche.
Nel quadretto familiare c’è anche Viola, ufficialmente il cane della scrittrice e di suo marito, scrittore pure lui, ma in realtà legato morbosamente a Emerenc che ne condiziona la vita.
Emerenc ha una sua etica molto rigida, ha rispetto solo per chi fa lavori manuali ma è tutt’altro che stupida, ha un rapporto singolare con Dio, in cui dice di non credere, ma a Lui si rapporta direttamente, senza mediazione di Chiesa o preti.
E’ testarda, non obbedisce alle regole, se non alle sue, sembra non avere sentimenti ma poi si scopre che si prende cura di tutti gli ammalati del quartiere, che porta continuamente piatti dell’amicizia quando qualcuno sta male, che si fa letteralmente in quattro, e non tanto per i soldi, per adempiere ai suoi mille impegni, attingendo a forze comunemente inaccessibili per la sua età avanzata.
Ma questo libro è soprattutto la storia di come, tra mille difficoltà, con un andamento fatto di piccoli passi di avvicinamento e momenti di nuovo allontanamento, si costruisca un rapporto di vero amore fra Magda ed Emerenc, due persone agli antipodi, con due visioni del mondo opposte. Sempre quando lo decide lei, Emerenc , apre piccoli spiragli sulla sua vita, sul suo passato, persino sui suoi amori.
Nella sua coerenza ai suoi principi Emerenc è una donna di integrità morale e di disponibilità verso gli altri, purchè si rispettino le modalità in cui il suo aiuto si esplica.
Che di vero amore si tratti lo si capisce quando Emerenc fa entrare Magda nella sua casa, sbarrata a tutti, e la scrittrice vede il suo mondo, i suoi nove gatti, il suo loversit dove dorme circondata dalle sue amate bestiole: la dimostrazione più grande di affetto che la vecchia domestica poteva dare.
Ad un certo punto succede un fatto mai capitato nella vita di Emerenc. Si ammala. Una brutta bronchite, forse una polmonite, ma lei non ascolta nessuno. Non si cura, non vuole medici né medicine. Finchè a un certo punto scompare nella sua casa e non esce più. Tutti cercano di farla uscire, di permettere a un medico di entrare a visitarla, ma non c’è verso. La vecchia non apre a nessuno. Neanche Magda ci riesce ma a lei viene chiesto di prendere in consegna un vecchio gatto che nel frattempo è morto. E qui si compie il tradimento, l’atto che Emerenc non perdonerà mai. Approfittando dello spiraglio per far passare il gatto il medico riesce ad avere la meglio su Emerenc e a trascinarla fuori.
Il susseguirsi degli avvenimenti che portano la vecchia domestica in ospedale, frattanto colpita da embolia cerebrale ed emiplegica, e l’intervento dell’ufficio di Igiene per disinfestare la casa ridotta in condizioni inabitabili, incidono in maniera irreversibile nel rapporto tra Magda ed Emerenc. Ed è comprensibile: il suo tempio è stato svelato al mondo e per di più la vergogna di scoprirlo in quelle condizioni. Entrambe, la scrittrice e la domestica, sono travolte da emozioni fortissime, il peso del tradimento per Magda e il senso di vergogna per Emerenc.
Ancora una volta sarà Emerenc a decidere le sorti della sua vita restando fedele al senso di dignità e di rispetto per se stessa che ha contraddistinto tutta la sua esistenza.
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Rapporto di formazione?
Eleonora e Chirù: trentotto anni lei , diciotto lui. Lei affermata attrice teatrale, donna colta e raffinata, apparentemente solida ma con molte fragilità nascoste; lui promettente studente di violino al Conservatorio, curioso, ambizioso, bramoso di conoscenza, carico di una ancora immatura ma evidente sensualità.
Lei vuole fargli da mentore, come ha già fatto con altri tre allievi, accompagnarlo in un percorso di formazione arricchendolo con le sue conoscenze.
Dovrebbe essere un rapporto limitato all’ambito maestro-allievo ma si va, a mano a mano che si frequentano, confondendo in qualcosa d’altro che sfiora i confini del desiderio sessuale ma, ancora più pericoloso, dell’amore.
La storia si dipana nel racconto di loro due in maniera a volte un po’ confusa, allungandosi senza motivo, quasi a cercare un pretesto per tirare avanti, intrecciando i dialoghi di dissertazioni che sono un esercizio di stile che appesantiscono il tutto.
La prosa è veramente a volte pesante e manca il vero bersaglio che è quello di essere intelligente, colta e intellettuale.
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Istruzioni per l'uso di una vita libera
Ne “L’arte della gioia” Goliarda Sapienza dipinge l’affresco di una donna libera e liberata dai vincoli dei pregiudizi, delle aspettative per noi e per chi amiamo, dai legami soffocanti che chiamiamo amore. E’ un libro molto fisico, centrato com’è sulla natura e il corpo. Fisico è il rapporto di Modesta, la protagonista, tosta carusa, con le idee che mai diventano ideologia, ma cibo della e per la mente. Che si tratti di politica o di poesia l’importante è allargare la mente, spaziare in mondi nuovi, inoltrarsi nel magma confuso e molteplice che la circonda e trovare il modo di respirare un’aria sempre nuova. Si può dire anarchica o socialista rivoluzionaria, se non altro per il percorso esistenziale e politico che attraversa la sua vita, ma si rischia di ingabbiarla dentro a una categoria, ad attaccarle delle etichette, che sono il contrario del suo modo libero di vivere.
Dalla cella del convento in cui passa la sua fanciullezza alle stanze infinite e, per lei, di ineguagliabile bellezza, del Carmelo, da tutti i personaggi più forti sa trarre lezione e, impudicamente, si serve. Dai favoritismi di madre Leonora ai modi prepotenti ma sottilmente perspicaci della principessa Gaia, Modesta guarda e apprende. E sfrutta abilmente le situazioni per dare soddisfazione alla sua brama di sapere: tutto vuole conoscere, per sete di apprendere, perché la sua mente non vuole porsi limiti e non per imporsi sugli altri o gareggiare. Anzi, tutto è finalizzato alla passione di confrontarsi con gli altri e così ampliare il proprio orizzonte. Mai porsi limiti, sempre andare oltre. E questo sembra essere il principio a cui si ispira la sua vita che ha attraversato gli anni cruciali del Novecento essendo nata il primo gennaio del millenovecento. Attraverso i suoi occhi la storia, personale e politica, è un intersecarsi di passioni perché il sacro fuoco della passione fa ardere Modesta e le dà coraggio, ottimismo, capacità di amare, gioia. E’ la passione che passa attraverso i sensi, il corpo, il suo motore ma che non degenera mai, non prende il sopravvento sulla comprensione e la consapevolezza di ciò che accade.
Infine, l’inanellarsi delle vicende va letto e non raccontato, col cuore sgombro, se possibile, di pregiudizi, e pronto a stupirsi di gioia.
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La vera religione
Il romanzo è un affresco sull’oscurantismo nella Chiesa romana, cattolica, del periodo tra il cinquecento e il seicento con l’operato dell’Inquisizione attraverso il Santo Uffizio contro chiunque si macchiasse di eresia. Sono secoli in cui la Chiesa trionfa con il suo potere e praticamente gli alti prelati gareggiano alla pari in intrighi di palazzo con la nobiltà non solo italiana ma europea. In queste lotte dove dominano l’ambizione, il prestigio e il denaro, la Chiesa non può permettersi di essere minata dalle eresie che contestano i dogmi ecclesiastici.
Suor Giulia Di Marco, terziaria dell’Ordine delle Francescane di strada, emerge con la sua nuova spiritualità dal marciume in cui affonda la Chiesa e si fa portavoce con il suo esempio di un nuovo modo di pregare, di entrare in comunione con Dio con tutta se stessa, anima e corpo, fino a giungere all’estasi. Nella Napoli in cui cresce e opera, suor Partenope, come viene chiamata, fa ben presto proseliti e apre prima una e poi una seconda Casa di Preghiera dove accorre gente del popolo ma anche della nobiltà.
Suor Partenope è ricevuta nelle case dei potenti del Regno di Napoli, parla con loro alla pari, insegna a pregare.
Ma la Chiesa dei papi, che la teneva da tempo sott’occhio, non può tollerare oltre. Suor Partenope viene imprigionata dal Santo Uffizio assieme ai suoi collaboratori più vicini, viene processata e torturata e, alla fine, per salvarsi la vita, costretta all’abiura.
Su di lei viene imbastita una congiura perchè la sua eresia non tiene conto della Chiesa e delle sue gerarchie ma soprattutto perchè tutto questo pericolo è fomentato da una donna, che ha osato uscire dal ruolo tradizionalmente affidato alle donne. Ovviamente , essendo donna, la sua eresia non può che essere centrata sul sesso: come giustificare altrimenti il suo successo? E’ costretta a giurare di aver compiuto gli atti più volgari e immondi: la Chiesa mette in mostra tutta la sua misoginia e la paura del sesso, che peraltro è praticato in maniera sfrenata dai più poveri preti ai più alti prelati.
Sarà un importante uomo di Chiesa del Regno di Napoli a salvarla dalla cella dove era stata relegata, un uomo che aveva sentito parlare di lei al tempo della sua fama e che è incuriosito dalla sua personalità e vuole approfondirne la conoscenza.
Il romanzo scorre con una prosa fluida e accattivante e i personaggi sono delineati con molta accuratezza: un ultimo grande dono di Sebastiano Vassalli.
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I nostri giorni
Credo che l’autore abbia intitolato il libro “La ferocia” perché, almeno io così l’ho avvertito, tratta di un mondo in cui la ferocia, dei sentimenti, degli atti, delle espressioni verbali, dei rapporti interpersonali e delle relazioni tutte, ne è il tratto distintivo.
Parla di una famiglia di palazzinari baresi in cui il capostipite si è fatto ovviamente dal nulla, tra mazzette e raccomandazioni, e ha creato un impero, sempre tenuto in piedi con un fragile equilibrio perché la corruzione è una bestia difficile da domare. Ma il marcio che regola i rapporti di Vittorio, il padre padrone, con il suo mondo di piccoli e grandi intrallazzatori, è penetrato anche all’interno delle mura domestiche, tra figli segnati da gravi problemi di relazioni con il mondo, Michele e Clara, un figlio, Ruggero, tutto preso dalla carriera che però si presta ai giochi del padre, e una figlia, Gioia, la cui inconsistenza dorata è tipica dei figli di papà.
Vittorio piega tutto e tutti ai suoi voleri compresi i figli che si ritrovano spesso invischiati in affari loschi, più o meno a loro insaputa. Ma il grande gioco del potere passa sopra a tutto e dal suo fascino Vittorio ne è completamente soggiogato e pronto a sacrificare qualsiasi cosa.
Michele e Clara emergono, ognuno con i propri problemi, da queste dinamiche familiari.
Michele è figlio di una relazione extraconiugale di Vittorio, orfano dalla nascita e catapultato in questa famiglia dove è sempre stato considerato un estraneo, tranne che da Clara, la primogenita. Michele è un disadattato, lo si rileva fin dai primi anni scolastici e all’affetto della famiglia si sostituirà una lunga teoria di psichiatri e ricoveri. Pur rimanendo sempre borderline, riuscirà a trovare un fragile equilibrio solo da adulto, allontanatosi dalla casa paterna. L’unico affetto familiare è Clara che non lo tratta da matto ma ha un rapporto protettivo con lui. Sarà Michele a vendicarsi dell’affetto mancato, delle umiliazioni subite, delle prevaricazioni paterne, scoprendo i giochi del padre così facendo saltare, come in un gioco di prestigio, tutta la baracca. La forza gliela darà Clara, la misteriosa, enigmatica Clara che pur sposata, se la fa con altri uomini, in genere molto più vecchi di lei e di solito intrallazzati con il padre. E’ una forma di punizione del padre prestare il proprio corpo ai desideri perversi di uomini che amano maltrattare le donne e ne godono? In questo gioco autodistruttivo Clara sembra posseduta da tutti ma in realtà non è proprietà di nessuno, e forse chi la possiede veramente è la cocaina, di cui è ormai totalmente dipendente e che la conduce in situazioni sempre più pericolose fino all’epilogo finale.
E’ un libro-manifesto della situazione in cui purtroppo versa l’Italia in cui l’ambizione e il denaro sono i pilastri sui cui si fondono i rapporti economici, a discapito dell’onestà e del senso dello Stato.
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Le paure inconfessabili
Quanta paura a volte si cela nelle pieghe di un rapporto di coppia seppure i due amanti si amino tanto e pensino di trascorrere tutta la vita insieme. McEwan si insinua negli anfratti più oscuri e più intimi della relazione tra Edward e Florence scavando con il bisturi tra i pensieri che loro stessi non ammettono o che addirittura non sanno di avere.
Siamo in un contesto storico in cui sul sesso gravano pesanti pregiudizi e la puritana Inghilterra non sa che siamo a un passo dall’esplosione della libertà sessuale che arriverà con la fine degli anni sessanta.
Edward ha la prorompente baldanza dei suoi giovani anni, qualche impacciata esperienza sessuale, ma ama tantissimo Florence e, una volta divenuta sua moglie, crede che tutti i rifiuti di lei in materia sessuale possano cadere all’istante sotto la spinta del suo forte desiderio.
Ma c’è chi, un po’ per insegnamento familiare un po’ per carattere, non ha mai conosciuto i richiami del desiderio e anzi tutto ciò che riguarda il sesso lo vive come sporco, disgustoso, vergognoso. Questa è Florence, tanto determinata nel condurre il suo quartetto d’archi quanto ignorante e terrorizzata per tutto ciò che concerne il sesso.
Intorno a loro si muove l’Inghilterra nei suoi vari aspetti sociali e politici e ognuno dei due ragazzi accarezza i suoi sogni e progetta la sua vita, entrambi talentuosi nel loro campo.
Il percorso che li porta dal primo timido bacio al talamo nuziale è un percorso ad ostacoli fatto di riluttanti concessioni, approcci goffi destinati a un ulteriore richiudersi di lei, taciti accordi di non avanzare richieste inopportune. Ma che una ragazza non si conceda che dopo il matrimonio è ancora cosa comune. Nutrendosi di questa ipotesi, confermata dai tempi che stanno vivendo, e del fatto di amarla così tanto, Edward sposa Florence.
La prima notte di nozze è un capolavoro fatto di immagini, cose non dette e inconfessabili, pensieri che vorticano nelle teste dei due amanti, emozioni travolgenti sia come forza del desiderio di Edward che come forza del disgusto di Florence.
McEwan ricama con le emozioni contrastanti dei due un affresco che sa di peccato, del senso di colpa della vittima sacrificale e della goffaggine di lui.
Non ha grande importanza quello che succede per l’irruenza incontrollata di Edward. Tutto era già nelle premesse.
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Amore e guerra
Fra il 1941 e il 1942 Irene Nemirovsky pone mano a un’opera ambiziosa che non riuscirà a portare a termine : Suite Francese. L’opera comprende due volumi, il primo “Temporale di giugno” e il secondo “Dolce”.
“Temporale di giugno” è un insieme di quadri che ritraggono la fuga dei parigini al momento dell’occupazione nazista della Francia ed è un affresco sulla variegata umanità del popolo che crede, lasciando Parigi, di scampare alla guerra, alle bombe, alla morte certa. L’autrice illumina certe parti dell’affresco soffermandosi su alcune figure, coppie e singoli, diverse tra loro per estrazione sociale, culturale, economica, ma accomunate dalla stessa sorte di fuggitivi in balia della sorte, della fame, della mancanza di un letto su cui dormire. Eppure ognuna di queste figure alla fine risolve la situazione in modo diverso ma, ancora una volta, anche in una situazione di emergenza come questa, chi ha denaro se la cava mentre chi vive del proprio lavoro, come i signori Michaud, si trova a ritornarsene a Parigi perdendo pure il posto di lavoro. La Nemirovsky non giudica, si limita a dipingere quello che vede : sembra quasi una pittrice cronista.
Anche in “Dolce” l’autrice è un’accorata affabulatrice ma la matassa dei sentimenti in gioco che anima i protagonisti, la coinvolge fino a farsi interprete delle loro emozioni.
Un piccolo borgo della provincia parigina viene occupato dai tedeschi che diventano ospiti imposti presso le famiglie del paese. Un ufficiale prende dimora presso le signore Angellier, rispettivamente madre e moglie, Lucile, del figlio/marito prigioniero dei tedeschi.
E’ strana la guerra e ancora più ambigua l’occupazione di un paese: sentimenti contrastanti si impadroniscono della gente del posto. Per alcuni, ad esempio la signora Angellier madre, i tedeschi sono il nemico tout-court, e quindi da odiare, da respingere fino ad evitare ogni contatto, anche verbale. Per la maggior parte del paese la forzata convivenza, sotto lo stesso tetto, alla stessa tavola da pranzo, scatena rancori giustificati e allo stesso tempo una sorta di familiarità che spesso ha il sopravvento sull’odio per l’occupante.
In Lucile, sposa di guerra, sposa mai amata, sposa tradita, e che mai ha amato, l’incontro con l’ufficiale Bruno von Falck, dai modi gentili, educati, persona colta e amante del bello, così diverso dal rozzo marito, imperversano sentimenti così opposti che la rendono continuamente dubbiosa sul come comportarsi, su cosa è lecito provare, su che tipo di relazione, sempre che sia possibile, instaurare. E’ vero : è il nemico, colui che ha ucciso chissà quanti francesi, ma nessuno ha avuto per lei delle attenzioni come quelle che Bruno sa dedicarle. Nella terra bruciata dei sentimenti del suo cuore, Lucile pensa che forse lo ama e ne è riamata: è un male? Ma oltre che soldati questi tedeschi sono anche uomini, con una vita interrotta dalla guerra, con mogli, fidanzate, magari figli! Lucile tenta di giustificare la marea di emozioni che la sconvolgono: è possibile amare il nemico, esserne attratta, condividere momenti di felicità?
Però a una evidente avance di Bruno, Lucile si ritira sconvolta. Improvvisamente tutto si confonde in lei e il rifiuto dello straniero la compenetra. Ma è convinta fino in fondo?
A risolvere i drammi interiori viene improvvisamente l’ordine di partire. Una nuova guerra attende l’esercito tedesco. La guerra con la Russia.
Amore e guerra: una evidente contraddizione. Ma, forse, anche nel nemico si può vedere l’uomo.
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Quando i sentimenti prevalgono sul cinismo
Fiona Maye, giudice dell’Alta Corte britannica, vede la sua vita composta, imbrigliata da regole, abitudinaria e disciplinata, sconvolta dall’incontro con Adam, giovane quasi maggiorenne, malato di leucemia che, in forza del suo credo religioso – è Testimone di Geova – rifiuta le trasfusioni che potrebbero salvargli la vita. Fiona, prima di emettere la sentenza, incontra Adam all’ospedale e rimane contagiata dalla voglia di vivere del ragazzo, dalla sua ingenuità nell’affrontare la inevitabile morte, dalla sua profondità, così rara in ragazzo tanto giovane. Il rigido giudice si ritrova a cantare con Adam che strimpella il violino. Naturalmente emette la sentenza a favore delle trasfusioni e Adam, senza saperlo, e forse senza volerlo, rinasce e insegue Fiona fino nel Newcastle, adorante, per stare con lei, per ringraziarla per il dono che gli ha fatto. Nel trambusto dei saluti – Fiona lo manda via – un bacio destinato alla guancia si appoggia sulle labbra. Il giudice che sa sempre come comportarsi, che sa analizzare i casi ed emettere sentenze equanimi, non sa spiegarsi l’eco che quel bacio ha scatenato in lei.
Mc Ewan riesce ad analizzare le due personalità principali con la stessa capacità con cui Fiona studia i suoi casi ed emette le sentenze, con una prosa incalzante che rivela, dietro a un suo svolgimento apparentemente formale, la forza dei sentimenti che li agitano.
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