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Vita93 Opinione inserita da Vita93    28 Gennaio, 2021
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Domani è un altro giorno

Federico Rampini, corrispondente de “La Repubblica” da New York ed ex vicedirettore de “Il Sole 24 Ore”, è un giornalista nomade, esperto osservatore della geopolitica mondiale. Lettore avido e scrittore prolifico, Rampini parte, in questa ultima opera, da un panorama odierno in cui il dibattito quotidiano è incentrato su termini quali pandemia, vaccino, Recovery Fund. Quest’ultimo, in particolare, stuzzica la speranza del giornalista, che a tal proposito elenca casi emblematici di civiltà sopravvissute ad eventi terribili, guerre a cui sono seguiti incredibili riscatti e progressi, cantieri dove si sono raccolte idee, energie, forze umane per costruire un futuro migliore.

Il primo caso è quello del crollo dell’Impero romano d’Occidente, archetipo di ogni decadenza. Un effetto combinato di molteplici fattori epidemiologici, sociali, climatici, religiosi e politici indeboliscono un impero agonizzante all’alba delle invasioni barbariche, simboleggiate dal sacco di Roma del 410 e dalla deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre nel 476. Dopo un progresso millenario, con il Medioevo muore la conoscenza delle lingue antiche, avanza l’analfabetismo di massa. Si apre un “cantiere” destinato a dare risultati secoli dopo: il monachesimo. Umanesimo, Rinascimento ed Illuminismo non sarebbero stati gli stessi se i monaci non avessero permesso la trasmissione del sapere e la custodia di alcuni fondamentali tesori della civiltà occidentale ellenistica e latina.

Con un salto di circa 1400 anni ci spostiamo al 1861, data di inizio della guerra civile americana. È una vicenda priva di una narrazione unica. Nella versione dei “vincitori”, il conflitto ha avuto al centro l’abolizione dello schiavismo. Per il versante sudista è stata una colonizzazione ipocrita e capitalistica a danno dei sopraffatti latifondisti. Una storia di ideali e speranze, di diritti acquisiti e poco dopo nuovamente tolti, di amarezza e risentimento che permangono ancora oggi fino a sfociare in una tensione razziale mai del tutto sopita, in un clima culturale caotico e pressapochista tra razzismo esplicito e negazionismo da una parte, rito della cancellazione e revisionismo monodimensionale dall’altro. Una pagina storica controversa che, nonostante tutto, ha seminato per il futuro, creando le basi per importanti ideologie progressiste e conquiste democratiche.

Il capitolo successivo riguarda la Grande Depressione degli anni Trenta, la madre di tutte le crisi economiche e sociali contemporanee. Ai Roaring Twenties, i ruggenti ed edonistici anni venti de “Il grande Gatsby”, segue un tragico impoverimento di massa, raccontato da Steinbeck in “Furore”. Le ricette di Roosevelt inizialmente non funzionano. Ma il presidente è un leader coraggioso e pragmatico, in grado di cambiare radicalmente. Affianca il New Deal alla teoria del deficit spending keynesiano, manovrando con vigore le leve della spesa pubblica per far ripartire la crescita, e diventa globalista ed internazionalista con l’avvento della seconda guerra mondiale. Un’impalcatura vincente, architrave della ritrovata pace europea e della rinascita del capitalismo americano.

Pochi anni dopo entra in scena il celebre Piano Marshall, varato nel 1948. È la dimostrazione che la Storia è fonte di insegnamento. Nella pace di Versailles del 1919, la Germania viene colpita con pesanti clausole vessatorie che, insieme ad altri fattori, conducono al vittimismo, al revanscismo, al nazionalsocialismo. Una gestione della vittoria fallita. Al termine della seconda guerra mondiale il segretario di Stato Marshall, assecondato da Truman, non vuole commettere lo stesso errore. Desidera un nuovo ordine pacifico, un’Europa ricostruita che includa la Germania (Ovest) in qualità di locomotiva, al riparo da anarchia, miseria e rivoluzioni comuniste sovietiche. Gli Stati Uniti forniscono ai tedeschi un ulteriore aiuto: la cancellazione del debito estero che la Germania aveva nei confronti dell’America. Una lezione di magnanimità e lungimiranza che in tempi recenti è stata prima dimenticata, nel caso del dogma dell’austerity, e poi rivalutata con il Recovery Fund.

Tra le varie rinascite, la più improbabile è quella della Francia, successiva a tre sconfitte consecutive e ravvicinate. La debacle militare del 1940, l’invasione tedesca, il governo collaborazionista del maresciallo Pétain, la disfatta nella guerra d’Indocina, le violente battaglie in Algeria che dissanguano la Quarta Repubblica e isolano il paese a causa della forte condanna internazionale. Dopo un ventennio tragico, il generale De Gaulle inaugura la Quinta Repubblica nel 1959. Proclama il ritorno della grandeur francese e ridisegna il sistema politico con un meccanismo forte e stabile. Genio politico pragmatico, a metà strada tra il comandante e il pensatore, tra il trascinatore ed il fine stratega, restituisce alla Francia un ruolo centrale in politica estera ed inaugura l’asse franco-tedesco, lasciando tracce profondissime del suo passaggio.

Contemporaneo al riscatto francese, nel continente asiatico sale alla ribalta delle cronache il caso del Giappone, unico esempio di nation-building riuscito grazie ad un’occupazione militare di una potenza estera. Dopo la devastante sconfitta, i giapponesi si sentono liberati dall’ideologia militarista e dalle ristrettezze causate da uno sforzo bellico prolungato. Seguono i diktat dell’invasore, impersonificato dal venerato plenipotenziario generale MacArthur, importando la liberaldemocrazia americana ed abbracciando una serie di riforme politiche ed economiche. Recuperata la propria sovranità nel 1952, segue un boom economico senza precedenti, con il raggiungimento della leadership globale negli anni settanta e ottanta. A distanza di decenni, il Sol Levante è una superpotenza tecnologica, una società mediamente colta e raffinata con un’alta qualità della vita, capace di rinascere continuamente dalle macerie.

Lo sviluppo della Cina è infine il cambiamento più importante della storia contemporanea. Un vero e proprio riscatto sociale dopo i due tragici abissi della Rivoluzione culturale ideata da Mao ed il massacro di Piazza Tienanmen del 1989. La strada intrapresa dalla Cina nell’ultimo trentennio, da paese arretrato e isolato a superpotenza al centro della scena globale, dà le vertigini. Un percorso controverso, a tratti non edificante, che da Deng Xiaoping a Xi Jinping ha sollevato dalla miseria un miliardo di persone in un incredibile mix di occidentalizzazione (economica, tecnologica, scientifica, consumistica) e rigido attaccamento all’identità propagandistica e censoria del Partito.

“I cantieri della storia” è un’efficace raccolta di ritratti di leader politici, storie collettive, progetti condivisi, personaggi dimenticati, energiche e commoventi reazioni dei popoli di fronte alle sciagure affrontate. Un concentrato di memorie, letture e speranze che confidiamo possa essere di buon auspicio per le sfide future che attendono l’Italia, l’Europa e il mondo intero.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    18 Gennaio, 2021
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"Hai troppa paura del mondo"

“Canto di Natale”, celebre racconto di Dickens pubblicato nel 1843, ha avuto decine di adattamenti teatrali, cinematografici, televisivi e fumettistici. Una delle trasposizioni più conosciute è quella disneyana con Zio Paperone che interpreta Scrooge, Topolino nei panni del dipendente Bob Cratchit e Paperino in quelli del nipote Fred. Un cortometraggio di appena 26 minuti che ha ottenuto una nomination ai Premi Oscar del 1984 e che, con la distribuzione home video, ha guadagnato grande popolarità conquistando intere generazioni di bambini.

Anche se, come spesso capita in questi casi, mentre l’intento di trasmettere certi valori ai più piccoli è lodevole, il rischio di semplificare un’opera per renderla accessibile a chiunque è concreto. Non si tratta certamente del testo più complesso, sfaccettato e maturo dell’intera produzione letteraria dickensiana. Ma è comunque presente un messaggio importante che, se privato del contesto attorno al quale il breve libro è stato scritto, potrebbe apparire come semplicistico, paternalista, utopico. I romanzi sono eterni, ma per apprezzarne veramente la forza evocativa è fondamentale ricordare che sono figli di un certo periodo storico.

Dickens aveva 31 anni al momento della pubblicazione di “Canto di Natale”. Per il nativo di Landport, quartiere di Portsmouth, era ancora indelebile il ricordo del padre imprigionato per debiti nel carcere della Marshalsea, con il dodicenne Charles costretto a trovare lavoro, per dieci ore al giorno, in una fabbrica di lucido per scarpe, subendo maltrattamenti e sfruttamenti. È questa esperienza che lo ha spinto a diventare cronista e a viaggiare in tutta la Gran Bretagna per conoscere un paese diviso tra luci e tante ombre periferiche. Nel 1843 l’Inghilterra era nel pieno di una terribile carestia (i cosiddetti “Hungry Forties”), che si era abbattuta in particolare sulle classi meno abbienti. Nei decenni precedenti si era sviluppata la prima rivoluzione industriale, capace di trasformare radicalmente il sistema produttivo del paese, provocando al contempo profonde contraddizioni sociali ed un progressivo peggioramento delle condizioni di vita del proletariato urbano.

Nel 1834 era morto Malthus, le cui teorie sono parzialmente citate da Scrooge. L’economista inglese era stato fautore dell’idea in base alla quale la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, mentre la disponibilità di risorse (gli alimenti) avrebbe un andamento aritmetico e quindi meno rapido. Ciò causerebbe, nel lungo periodo, una saturazione di tali risorse. Non a caso il fantasma del Natale presente, scimmiottando Scrooge a proposito di un bambino malato, afferma “E allora? Se deve morire che muoia, e faccia decrescere la popolazione in eccesso”. La corrente del malthusianesimo sosteneva il ricorso al controllo delle nascite mediante determinati freni preventivi, per impedire il progressivo impoverimento dell'umanità. Teorie che avrebbero subìto dure critiche da parte di ferventi oppositori, tra i quali ricordiamo Marx. Malthus considerava inoltre dannosa la politica assistenziale dell'Inghilterra nei confronti dei poveri, che secondo lui non faceva altro che causare una dannosa sovrappopolazione. Tra i sistemi assistenziali rivolti alle fasce più povere si ricordano le Poor Laws, codificate nel 1572, revisionate durante il regno di Elisabetta I e di nuovo modificate nel 1834 dal governo Whig, prima di essere definitivamente abolite nel 1948. Nella versione finale, le Poor Laws prevedevano la creazione delle Union Workhouses (citate, sempre da Scrooge, nella prima strofa. “E le Union Workhouses? Funzionano ancora?”), dove tuttavia spesso si praticava lo sfruttamento dei lavoratori, tra i quali erano presenti molti minorenni (si pensi a “Le avventure di Oliver Twist”).

È questo il panorama che fa da sfondo al breve dramma, cronologicamente posto a metà tra le prime produzioni importanti dell’autore, come l’umoristico “Il Circolo Pickwick”, e quel “David Copperfield” avente una forte componente autobiografica, che perfezionerà la combinazione tra l’analisi e la denuncia delle contraddizioni sociali e la continua e dolorosa rivisitazione delle proprie esperienze personali.

In virtù di tale contesto, persino un’opera minore e apparentemente infantile come “Canto di Natale” regala molteplici verità profonde e la parabola fiabesca dell’avido e scontroso Scrooge, maschera caricaturale magistralmente descritta i cui tratti umani sono deformati come nelle vignette satiriche, si carica di sincero realismo. Grazie alle visite dei tre spiriti avviene il miracolo del cambiamento. I vecchi lineamenti si distendono, il naso puntuto e le gote raggrinzite si addolciscono, le labbra bluastre si aprono finalmente al sorriso. Scrooge sconfigge l’egoismo ed il pregiudizio, in una storia universale che predispone alla speranza, alla bontà, alla compassione, all’amore per il prossimo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Dicembre, 2020
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"Mi ci romperò la testa"

“Da questo libro sono nate tutte le antimafie”. Così inizia la prefazione del romanzo, a cura del giornalista e autore Francesco Merlo. Perché “Il giorno della civetta”, scritto nell’estate del 1960 e pubblicato nel 1961, è stato concepito in un periodo storico nel quale il governo non solo si disinteressava al fenomeno della mafia, ma addirittura lo negava esplicitamente. Una cecità destinata a durare poco, considerata la commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia del 1963. A tal proposito Merlo, rimarcando la connotazione innovatrice dell’opera, immagina un emozionante trait d’union tra il capitano Bellodi, protagonista della vicenda, e personaggi come Carlo Alberto dalla Chiesa e Giovanni Falcone, che nei decenni successivi moriranno per mano di Cosa Nostra. “Bellodi dunque non è, come spesso si dice in letteratura, un personaggio realmente esistito, ma è una folla di personaggi che realmente esisteranno, non è ispirato ma ispiratore, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo”.

Piazza Garibaldi. Sei e mezzo del mattino. Salvatore Colasberna, proprietario insieme a due suoi fratelli di una piccola cooperativa edilizia, viene ucciso mentre sta per salire sul primo autobus per Palermo. L’assassino ha sparato dall’angolo tra la piazza e via Cavour. Scappa nella medesima via, nella quale abita un uomo che puntualmente risulta scomparso. Forse un testimone? Intanto, nel paese, regna un silenzio omertoso. Al venditore di panelle è parso di notare un “sacco di carbone” da cui sono partiti due lampi. Il bigliettaio non ha visto niente. I passeggeri neanche, a causa dei vetri appannati. “Facce di ciechi, senza sguardo”. “Facce dissepolte da un silenzio di secoli”. Il capitano Bellodi indaga. È emiliano, originario di Parma. Si trova in Sicilia da qualche mese e non ha impiegato troppo tempo a farsi conoscere, affermando cose da far rizzare i capelli. “Ha detto che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto”. E infatti pensa che Colasberna sia stato ucciso per aver rifiutato un certo tipo di protezione. Da parte di chi? “Gente che non dorme mai”.

Bellodi, nonostante la brevità del romanzo, conquista un posto rilevante nella letteratura italiana del novecento. È un modello di gentilezza, umanità e perseveranza. L’autore ha modellato il personaggio sulla figura di un suo amico, ovvero il comandante dei carabinieri, ed in seguito generale, Renato Candida. Si erano conosciuti nel 1956. Sciascia lo considerava un fiero rappresentante di un mestiere amaro e difficile. “Il mestiere di servire la legge della Repubblica e di farla rispettare”.

In qualità di antagonista, con funzione di bilanciamento rispetto al capitano Bellodi, l’autore crea il personaggio di Don Mariano Arena, il boss locale. Uomo freddo e spietato, caratteristiche che gli hanno garantito il rispetto a la paura di cui è circondato. È una figura figlia del suo tempo, per certi versi appartenente ad una visione arcaica della mafia. A metà strada tra il criminale disprezzabile e l’”uomo d’onore” che sa riconoscere e rispettare gli sbirri autentici ed i veri uomini. Curiosamente, il personaggio di Arena ha suscitato forti critiche da parte di un amico di Sciascia, Camilleri, che ne rimproverava l’eccessiva centralità nel romanzo ed il rischio che il mafioso fosse nobilitato in virtù di alcune considerazioni che effettivamente simboleggiano alcuni tra i punti più iconici del testo. Come le affermazioni sugli sbirri, sui preti e sui cornuti.

“Non mettetevi in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te, possono togliere le scarpe dai piedi, e tu cammini scalzo senza accorgertene”. “Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché legge un bando d’arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato. Dico per quelli che sono sbirri sul serio: ce n’è, poveretti, che sono paste d’angelo; e questi io non li chiamo sbirri”.

O le sentenze, lucide e spietate, sul popolo, sulla criminalità organizzata e su una certa tipologia di politici. “Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall’antichità, una generazione appresso all’altra”. “Noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo”. “È vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno e chi lo porta in testa è un cornuto”.
Per non parlare della celebre distinzione tra uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà.

Ad ogni modo, Sciascia ha certamente inaugurato un nuovo tipo di scrittura impegnata, di letteratura civile, dopo gli anni incentrati sul tema del fascismo e della guerra. Ma è un cambio di registro gentile, rispettoso del passato recente. Una sorta di passaggio di consegne, tanto che Bellodi è un antifascista, un ex partigiano, segnando una continuità emotiva ed ideologica con i vari testi di Calvino, Cassola, Fenoglio, Pavese, Pratolini, Viganò, Vittorini.

Il nativo di Racalmuto, in provincia di Agrigento, è stato un precursore nel cogliere gli interessi criminali della mafia, legata a doppio filo con il potere e la corruzione. In appena 116 pagine, c’è tutto quanto l’autore aveva appreso del “sentire” mafioso: il silenzio omertoso, la distanza tra i cittadini e lo Stato, la complicità tra mafiosi e politici, il controllo malavitoso degli appalti, il metaforico espandersi al nord del paese della “nordafricana palma”, l’utilizzo degli strumenti fiscali per contrastare la criminalità organizzata.

Il tutto condensato da un linguaggio raffinato, ricercato, vibrante, da cui trasuda l’amore per la propria splendida terra e la profonda conoscenza di tutte le sue contraddizioni.
“Il giorno della civetta” è un romanzo audace, intelligente. E tristemente profetico. Uno dei tanti titoli imperdibili del novecento italiano.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    18 Dicembre, 2020
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Non posso essere un mago

Dal momento che il mio profilo riporta, correttamente, una data di nascita corrispondente al 1993, sento di dover brevemente motivare il fatto di aver letto un romanzo di Harry Potter, per la prima volta, all’età di quasi 27 anni. Non che sia una cosa di cui vergognarsi, sia chiaro. Ho visto settantenni leggere “Cinquanta sfumature di grigio”. In treno.

Innanzitutto non sono un amante del fantasy. Soprattutto se di stampo fanciullesco. Evidentemente la mia immaginazione non è delle più fervide. È un genere che, entro certi limiti, riesco a “digerire” nel cinema. Faccio invece molta fatica ad appassionarmi a storie cartacee di maghi, incantesimi, pozioni, vampiri, streghe. A meno che non contengano venature gotiche o horror e, in quanto tali, adulte. In tal caso la situazione può interessarmi. Penso ad esempio ad alcune opere di Lovecraft o King.

In secondo luogo non sono mai stato un fan di Harry Potter. Ricordo di aver visto i primi quattro, o forse cinque, film al cinema. Ma ai tempi era una sorta di rito annuale. Un evento per famiglie. O una serata divertente da trascorrere insieme agli amici, in attesa che i genitori tornassero a riprenderci.

La mia scarsa predilezione, sia nei confronti del fantasy che del celebre maghetto, ha fatto sì che non abbia mai letto alcuni libri di J.K. Rowling che, negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, mi erano stati regalati. Da chi, non me lo ricordo. Sicuramente da qualcuno che non conosceva i miei gusti giovanili in fatto di letteratura.
E allora perché ad aprile sono passato da Calvino a Salinger, e poi a Boll, per arrivare a leggere un libro di Harry Potter? La verità è che non me lo so spiegare. Nei mesi del lockdown ho letto qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani. Dai romanzi agli inserti culturali dei quotidiani fino ai valori nutrizionali delle scatole dei cereali. Ricordo che in quel periodo Mediaset aveva riproposto la “maratona” di tutti i film della serie, con rigorosa cadenza settimanale. Devo aver pensato di rimediare al fatto che un ragazzo del 1993 non avesse mai letto una riga a proposito delle peripezie di Harry Potter. Fenomeno generazionale per antonomasia. O forse mi dispiaceva per quei testi generosamente regalati e mai aperti. Perché regalare un libro è sempre un gesto commovente, a prescindere dai gusti. O più banalmente, per semplice curiosità.

Fatto sta che, con una buona dose di scetticismo, ho letto il primo capitolo della fortunata saga.
Non mi soffermerò sulla trama della vicenda, a dir poco arcinota. Tutti conoscono la storia del piccolo orfano Harry Potter che, nel giorno del suo undicesimo compleanno, si trova catapultato dai maltrattamenti dei perfidi zii Dursley alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts. Su cui aleggia lo spettro del temibile e malvagio Voldemort.

Il magico mondo creato da J.K. Rowling è indice di una narratrice di grande talento e intuito geniale. Indubbiamente lo straordinario successo iniziale ha rappresentato un sostanzioso incentivo a proseguire la serie fino al settimo titolo. Ma ho avuto la netta percezione che, nella mente della scrittrice, le potenzialità della storia fossero chiare fin dall’inizio. Il vasto numero dei personaggi, le caratterizzazioni, la meticolosa cura nei dettagli e nelle suggestive ambientazioni, gli enigmi in attesa di soluzione, l’impressionante quantità di sottotrame appena abbozzate. Niente sembra casuale. È come se la Rowling sapesse, ben prima che il romanzo d’esordio avesse successo, che la saga avrebbe goduto di un respiro ampio, dove poter sprigionare tutta la propria incredibile immaginazione e ammirevole fantasia.

Per quanto riguarda lo stile ed il tono della narrazione, sarebbe ingiusto etichettare “Harry Potter e la pietra filosofale” come un testo infantile. Resta però il fatto che sia un libro maggiormente idoneo ad una certa fascia d’età. In un adulto, difficilmente può suscitare il medesimo stupore e fascino. Allo stesso tempo, credo che se il primo capitolo, datato 1997, sia stato rivolto ai bambini o ai ragazzi in età da scuola media, l’ultimo romanzo, risalente al 2007, abbia simboleggiato il passaggio di quei giovanissimi lettori dalla pre-adolescenza alla fase della maturità. Presumo quindi che, con il passare dei volumi, le tematiche affrontate abbiano progressivamente assunto un tono più adulto e consapevole.
Motivo per cui, nonostante il tardivo debutto con il mondo fantasy della Rowling non mi abbia propriamente catturato, non escludo di proseguire con i capitoli successivi, riconoscendo alla nativa di Yate un’indubbia abilità narrativa.

“Ricorda: non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere”.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    07 Dicembre, 2020
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Una vita

Ci sono due elementi che aiutano a comprendere il senso dei romanzi di Kent Haruf.
Il primo è dato dalla biografia dell’autore. Figlio di un pastore metodista, obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, infine docente universitario dopo una lunga serie di altre mansioni ricoperte (bracciante agricolo, operaio edile, assistente in una clinica riabilitativa, bibliotecario).
Dopo aver pubblicato due romanzi di scarso successo, nel 1999, a 56 anni, ottiene un buon riscontro con “Canto della pianura”, primo volume di una trilogia, e decide di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi alla scrittura, sulle orme di autori quali Hemingway, Faulkner, Cechov, a cui ha dichiarato di essersi ispirato.
Per molti aspetti, la storia di Haruf ricorda quella di Williams, autore di "Stoner”. Entrambi americani. Entrambi docenti universitari. E soprattutto entrambi non immediatamente apprezzati e caratterizzati da una sorta di rivalutazione postuma.
Il secondo elemento è contenuto in una dichiarazione di Haruf, in una delle sue ultime interviste. “Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri”.

“Benedizione”, seguito dei precedenti episodi “Canto della pianura” e “Crepuscolo”, è stato curiosamente pubblicato in Italia come primo volume della trilogia. Non avendo letto gli altri due romanzi, non saprei dire quanto le opere siano indipendenti tra loro o viceversa strettamente collegate.
Il romanzo è ambientato nella fittizia cittadina di Holt, situata nelle pianure orientali del Colorado. Una piccola località. Pochi negozi, tutti situati lungo la Main Street. Qualche bar. Vaste distese pianeggianti, con le montagne in sottofondo. Campi di grano e mais. Case con la veranda, dove riposarsi nelle serate estive, in attesa di una brezza che rinfreschi spirito e corpo dopo una giornata calda e afosa.
Dad Lewis, anziano proprietario di un negozio di ferramenta, è un malato terminale. Affronta il suo ultimo mese di vita. Viene accudito dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, con alle spalle un passato doloroso. Attorno a loro si muove una comunità ricca di storie semplici, ordinarie. La vicina di casa Berta May con la nipote Alice, rimasta orfana. La vedova Willa e la figlia Alene. Il pastore Lyle, spedito a Holt per punizione e i cui sermoni pacifisti non trovano terreno fertile nella mentalità della comunità. Detestato dalla moglie e dal figlio, proprio per questa sua incapacità di conformarsi.

È l’America rurale, profonda, religiosa, immutabile. Barricata a difesa del cambiamento, del “diverso”. Dove si respira un sottile velo di pudicizia, di moralismo. “Benedizione” rappresenta una sorta di bilancio, di regolamento dei conti che un uomo, onesto e ruvido, ha con le proprie scelte e con i sensi di colpa che, necessariamente, fanno parte di una vita intera. È una vicenda di luci ed ombre. Accanto a questo strato di rigidità, c’è infatti spazio per la tenerezza, la compassione, la speranza. È una storia di grande dignità ed umanità, che si inserisce perfettamente in una certa tradizione letteraria statunitense (penso, ad esempio, a Marilynne Robinson).

“Prima, davanti al negozio, quando mi sono messo a piangere. Ecco perché sono crollato. Era la mia vita quella che stavo vedendo. Quel piccolo contatto tra me e un’altra persona, una mattina d’estate, dietro il bancone. Scambiare due parole. Tutto qui. E non era niente”.

Haruf tratteggia vite comuni, quasi insignificanti. Ma che, proprio in quanto tali, ci appaiono delicate, indispensabili, vicine.

“Quella sera, dopo che le Johnson furono andate via, Lorraine portò fuori un tavolo e lo apparecchiò in veranda. Berta May e Alice attraversarono il cortile con pane, fagiolini e rapanelli, e si sedettero tutti a tavola nell’aria fresca, Dad Lewis con una coperta sulle ginocchia. Dopo cena, Alice prese la bici per fare un giro in strada. Dad la guardava dalla veranda. Spero che non le vadano addosso. Farai bene a tenerla d’occhio. Il cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro”.

È un testo pacato e malinconico, addolcito da una prosa sobria, soffusa. Frasi semplici. Tanti dialoghi diretti, rigorosamente senza virgolette. Come se le parole fossero una delicata e naturale estensione del contesto e dell’ambientazione in cui vengono pronunciate. Un romanzo di cui si fa quasi fatica a parlare, tale è il livello di intimità che si instaura tra le pagine ed il lettore.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    22 Ottobre, 2020
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Sangue e corpi nudi

Il 17 marzo 1945, a poco più di un mese dal termine dell’esperienza italiana nella seconda guerra mondiale con i fatti di Piazzale Loreto e la contemporanea resa di Caserta, Italo Calvino partecipa al conflitto di Bajardo, nella provincia ligure di Imperia, in una delle ultime battaglie partigiane.
Il suo nome da partigiano è "Santiago", un richiamo alla cittadina cubana dove lo scrittore nasce nel 1923.

Questa esperienza è alla base del suo primo e celebre romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”, pubblicato nel 1947 a soli 24 anni e scritto per partecipare al Premio Mondadori.
"Ricordo che scrissi con grande lentezza e incertezza il primo capitolo, poi lo interruppi per alcuni mesi, poi decisi di finirlo e lo portai avanti tutto d'un fiato".
Il testo fa parte della cosiddetta “letteratura della Resistenza”. Motivato dalla fine di una guerra straziante che non ha risparmiato nessuno. Simbolo della necessità, talvolta una vera e propria smania, di raccontare e condividere qualcosa. “Un senso di umanità ribollente, di bisogno di sincerità, di vigore”.

Nel 1964 Calvino aggiunge al romanzo una prefazione sincera e preziosa, lucida e tenera.
È tangibile l’importanza fondamentale che il testo, seppur in piccola parte acerbo, ha avuto per Calvino. “La mia storia cominciava ad esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio. Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dai solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo 100, 150 anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), da lì in poi i giochi sono fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile”.

E perché scegliere Pin, ragazzino partigiano, come protagonista di una storia adulta di sangue, corpi nudi e sofferenza?
“Ogni volta che si è stati testimoni o attori di un’epoca storica, ci si sente presi da una responsabilità speciale. A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema della Resistenza come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo”.

Il ragazzino, Pin, ha infatti una doppia valenza simbolica. Dietro al disorientamento del protagonista in mezzo agli incomprensibili adulti si cela lo spaesamento del borghese Calvino durante il conflitto, a contatto con un ambiente partigiano lontano dalla propria estrazione sociale. Mentre le circostanze in cui Pin dimostra una spavalderia tale da farlo sentire complice degli altri "fuorilegge" fotografano la speranza intellettuale (ancora impersonificata dallo scrittore) di essere stato all’altezza della situazione.

Sempre nella prefazione, curiosa è l’esplicitazione (impressionante per un ragazzo di soli 24 anni) di un doppio fronte di polemica. In primo luogo verso i ben pensanti, ovvero i “detrattori della Resistenza” pronti a criticare ogni minimo sbandamento della gioventù post bellica. E poi riguardo ai “sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata”. Ovvero il pericolo che alla nuova letteratura fosse riservata una funzione celebrativa e didascalica, nel tentativo di assegnare una direzione politica. Ecco il perché di una storia di personaggi storti, di partigiani in cui nessuno è eroe e nessuno ha coscienza di classe. Una Resistenza vista come esigenza di carattere primario di ribellione e sopravvivenza, priva di retorica ed immagini mitizzate.

Un’altra tipicità del romanzo è racchiusa nello stile neorealistico rappresentativo di quegli anni, profondamente differente da quello che lo scrittore adotterà nella propria maturità artistica. Anche se è tuttavia già presente una componente fiabesca, ariostesca, tipica degli altrettanto fortunati romanzi successivi.
La prosa, arricchita da modi di dire popolari e folkloristici, è limpida.
Lampante è il richiamo a modelli letterari ben precisi, su tutti l’Hemingway di “Per chi suona la campana” del 1940.
Le riflessioni teoriche, storiche e politiche affidate al pensiero del commissario di brigata Kim, nel capitolo nove, sono probabilmente l’unica traccia giovanile di un testo intramontabile che frequentemente è ancora nelle classifiche dei libri più venduti e letti del momento, a distanza di svariati decenni dalla data di pubblicazione.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    22 Settembre, 2020
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Le anatre di Central Park

Dopo una lunga e colpevole pausa durata ben 6 mesi, durante i quali non ho pubblicato alcuna recensione ma ho continuato a leggere con curiosità tutte le vostre interessanti opinioni, torno finalmente ad inserire un mio commento.
E decido di ripartire da uno dei molti romanzi letti durante quel periodo che, tanto per non perdere il vizio di utilizzare sempre più spesso termini inglesi, è stato ribattezzato come “lockdown”. Dal 9 marzo al 3 maggio. 57 giorni. Durante i quali ho apprezzato ancora di più il silenzio che circonda una lettura attenta. Lo esigono le pagine. E i pensieri. Perché in quei 57 giorni è stata l’unica forma di silenzio a non essere pervasa da malinconia e consapevolezza.

Riparto dunque da un grande classico della letteratura, “Il giovane Holden” di Salinger.
La vicenda, ambientata verosimilmente nel 1949 e non priva di riferimenti autobiografici, è arcinota. Intere generazioni di lettori hanno immaginato di trascorrere a fianco del protagonista il fine settimana in cui si sviluppa la storia, dalla decisione di abbandonare l’istituto scolastico Pencey fino all’arrivo di Holden a New York, cercando di ritardare il più a lungo possibile il momento in cui dovrà annunciare ai propri genitori la notizia dell’ennesimo fallimento scolastico.

Desidero soffermarmi sul perché alcuni romanzi siano ritenuti immortali.
Perché un libro come “Il giovane Holden” viene citato da Woody Allen in “Io e Annie”, da Stanley Kubrick in “Shining”, da Haruki Murakami in “Norwegian Wood”, da Stephen King in “22/11/’63”, da Charles Bukowski in “Panino al prosciutto” o dai Green Day e dai Guns N’ Roses in ambito musicale?
Perché, soprattutto per una certa fascia di età (della quale io, con i miei 27 anni, spero ancora di far parte anche se nutro qualche perplessità a tal proposito) è considerato un testo irrinunciabile?
Certamente l’istrionico sedicenne Holden simboleggia l’avversità per la cultura di massa, per il perbenismo, per le convenzioni sociali. È un perdente. Ma un perdente geniale. Un personaggio folle, trasgressivo, fuori dagli schemi, a suo modo rivoluzionario, ma questo a mio avviso non è sufficiente a consegnare un romanzo all’immortalità letteraria.
Ho sempre pensato che, per essere considerato un grande classico della letteratura, in un libro debba essere presente almeno un frangente in cui qualsiasi lettore, che si trovi a leggere il testo a distanza di svariati decenni dalla data di pubblicazione, si sorprenda a pensare “Ecco, questo potrei essere io”.
È in quel momento che si ha la percezione di leggere qualcosa che è eterno, senza tempo.

Nell’episodio secondo me più interessante del testo, il protagonista si reca presso l’abitazione di un suo vecchio insegnante, il professor Antolini.
Ed è proprio il professore a dire ad Holden qualcosa che il giovane protagonista, “stanco morto”, non riesce subito a comprendere.
“Non voglio spaventarti. Ma mi riesce molto facile immaginare che tu muoia nobilmente, in un modo o nell’altro, per una qualche causa che non lo merita affatto”.
“Ciò che contraddistingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che contraddistingue l’uomo maturo è che vuole vivere umilmente per essa”.
“Comincerai ad avvicinarti sempre di più, ammesso che tu lo voglia e che tu sappia cercare e attendere, al genere di conoscenze che finirà per occupare un posto molto, molto importante nel tuo cuore. Tra le altre cose, scoprirai di non essere stato il primo a sentirsi confuso, e spaventato, e perfino disgustato dai comportamenti umani. Non sei affatto solo, in tutto questo, e scoprirlo sarà emozionante e stimolante. Tanti altri uomini hanno provato lo stesso turbamento morale e spirituale che provi tu ora. Fortunatamente, alcuni di loro hanno messo questi turbamenti per iscritto. Tu imparerai da loro, se vorrai. Così come un giorno, se avrai qualcosa da offrire, qualcun altro imparerà da te. È un magnifico accordo reciproco. E non è istruzione. È storia. È poesia”.

Ho letto queste parole. Ho chiuso il libro. Ho ripensato ad alcuni momenti della mia adolescenza, ai miei 16 anni. Sfido chiunque a non essere stato, anche per un solo giorno, un idealista che flirta pericolosamente con la sconfitta, un sognatore che lotta per una causa senza speranza. A non avercela avuta con il mondo intero percepito come ipocrita. A non essersi mai sentito completamente fuori posto. Credo che il professor Antolini avrebbe potuto dedicarmi queste parole. Ed avrebbe avuto ragione. E forse a 16 anni non le avrei apprezzate, né tantomeno capite. Proprio come Holden. Ma ora invece si. È passato un decennio, e credo sia un lasso di tempo abbastanza lungo per analizzare alcuni passaggi della propria adolescenza con sufficiente distacco, esperienza e lucidità. E forse anche io ho lottato nobilmente per una qualche causa che non lo meritava affatto. E nonostante non abbia ancora deciso se ne sia valsa la pena o meno, spero di aver intrapreso la strada verso la piena maturità, la vera conoscenza. E spero che tale strada sia infinita, senza sfondo. Proprio come il professore Antolini si augurava che facesse Holden.

E quindi si, secondo me “Il giovane Holden” è un vero grande classico della letteratura. A 16 anni non avrò vissuto un fine settimana avventuroso e rocambolesco come quello narrato nel romanzo. Ma in quelle affermazioni, con le dovute proporzioni, ho ritrovato una parte di me stesso. E mi sono emozionato, in una sorta di nostalgica e tenera catarsi. È uno dei poteri magici della letteratura, forse uno dei più importanti.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    12 Marzo, 2020
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"La povertà è la mia malattia"

“E non disse nemmeno una parola”, uscito a puntate nel 1953, è il quinto romanzo di Heinrich Böll, considerato uno dei più illustri esponenti della letteratura tedesca del secondo dopoguerra nonché vincitore del Premio Nobel nel 1972.
La critica letteraria è unanime nel considerare questo romanzo come il più maturo di Böll fino a quel momento, e uno dei testi di maggiore qualità artistica nella carriera dello scrittore insieme ad opere come “Opinioni di un clown” del 1963 e “Foto di gruppo con signora” del 1971.

La storia è ambientata in una desolata e non nominata città tedesca nel dopoguerra. Probabilmente si tratta di Colonia, dove l’autore è nato e dove fa ritorno al termine del secondo conflitto mondiale, trovandola distrutta.
Fred, telefonista presso un ufficio vescovile, ha lasciato il monolocale dove abitano la moglie Kate e i figli, perché non sopporta più l’atmosfera di asfissiante povertà. Non è più lo stesso uomo che era prima della guerra, durante la quale ha svolto il ruolo di centralinista in una caserma. Ma la guerra è davvero finita?
“Ho ingurgitato tanta noia da vomitarne per anni di fila”.
Le bollette da pagare, la mancanza di soldi. Le facce serie dei bambini, talmente tristi che non sanno più neanche fare rumore quando giocano. Gli odori, la sporcizia, la ristrettezza dell’alloggio.
“La povertà è diventata la mia malattia”.
Fred non sopporta più tale miseria e se ne è andato da due mesi, dormendo in casa di conoscenti, nelle stazioni o in ricoveri di fortuna.
Ma Fred e Kate si amano ancora. E il romanzo, scritto in prima persona, descrive appunto il fine settimana che si svolge intorno ad un incontro dei due coniugi in un modesto albergo, alternando il punto di vista di entrambi i protagonisti.

Il romanzo può avere diverse chiavi di lettura.
A livello propriamente terreno, c’è una sottile suspence sessuale. “Era stato tremendo, per me, non poterlo dire, non poterlo confidare a nessuno, ma la verità è che quei soldi, quella stanza mi servivano soltanto per andare a letto con mia moglie”.
Ma allo stesso tempo, la storia d’amore tra Fred e Kate è profonda e pura. È un rapporto che idealmente ha solide fondamenta, che si fonda su un sincero innamoramento. Ma che nel concreto trova difficoltà a proseguire, simbolo di un’epoca priva di certezze materiali.

C’è poi la Storia. Con una nazione, la Germania, sconfitta e distrutta. Avvolta in una sorta di lutto nazionale. Ma con barlumi simbolici di ripresa economica e di primi accenni al consumismo (i bar, il luna park colorato, le insegne pubblicitarie sgargianti, le vetrine dei negozi di vestiti, i suoni dei mezzi pubblici) che mostrano l’ottimismo e la speranza dello scrittore riposti in un’imminente ripartenza.

Altro tema fondamentale è la religione, un chiodo fisso dell’autore. Emblematica la morbosa passione di Fred per i cimiteri, dove si reca spesso indugiando tra le aiuole e le tombe, convinto del fatto che quel luogo sia testimone dell’unica certezza di cui non dubitare: ovvero del fatto che anch’egli morirà.
La religione per Böll ha una duplice valenza.
In primo luogo, è usata a scopo di satira. Ad esempio verso alcuni parroci, osservati da Fred durante una processione.
“Erano assai grassi e sembravano scoppiare di salute. Quasi tutti quelli che stavano sui marciapiedi, invece, erano malridotti, con un’aria esausta e un tantino smarrita”.
Oppure nei confronti della vicina di casa e proprietaria del monolocale. Una signora teoricamente cattolica, presidente delle organizzazioni parrocchiali. Ma in realtà pettegola, falsamente benpensante, approfittatrice, fintamente caritatevole.
“Discende da un’antica famiglia di commercianti. Ho l’impressione che facciano commercio del più prezioso di tutti i beni: Dio stesso”.
In secondo luogo invece, la religione assume una veste evangelica, intima. Di continua ricerca, di profonda speranza. È la religione di Fred e soprattutto di Kate, che come Cristo sopporta tante umiliazioni senza dire neppure una parola.

Con questa struggente opera, ho conosciuto un Heinrich Böll commovente, doloroso, realistico, amaro, seppur venato da tocchi surreali e satirici. Il tutto condensato da un linguaggio raffinato, non privo di tocchi lirici, degno di un Premio Nobel.
E con personaggi tristi ma potenti. Vinti, dalla fame e dalla Storia. Ma non perdenti.
Non mancherò di leggere altri romanzi di questo grande autore.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    06 Febbraio, 2020
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Non c’è viaggio senza meta

Roberto Costantini, nato a Tripoli nel 1952, è un autore interessante e capace di trasmettere nelle sue opere la stessa vivacità e dinamicità che contraddistingue la sua carriera lavorativa. Studente a Stanford, ingegnere, consulente aziendale, dirigente della Luiss di Roma dove insegna “Business Administration”, nonché autore della celebre e fortunata serie avente per protagonista il tormentato commissario Balistreri.

Dopo sei romanzi incentrati su tale figura, stavolta Costantini si è cimentato in una storia che ha per protagonista una donna di nome Aba Abate.
Madre di due adolescenti, Francesco e Cristina. E sposata con Paolo, che considera il suo uomo ideale. Colto ma non noioso, romantico ma mai melenso, presente e allo stesso tempo mai soffocante. Paolo sogna da anni di fare lo scrittore ed è l’incarnazione vivente del “vivi e lascia vivere”. Il perfetto contraltare di una donna estremamente meticolosa, efficiente ed organizzata come Aba.

Tutti, familiari compresi, credono che Aba sia un’impiegata amministrativa del ministero degli Interni, quando in realtà lavora sotto copertura, e con il nome in codice Ice, per i servizi segreti italiani. Coordina una rete di infiltrati nelle moschee situate in Italia. Una vera e propria seconda vita.
E proprio attraverso uno dei suoi infiltrati più affidabili, scopre che un pericoloso terrorista, dall’identità sconosciuta, sta per imbarcarsi dalla Libia. Pronto a raggiungere l’Italia per farsi esplodere in un imprecisato luogo affollato.
Il romanzo trae quindi spunto dall’attualità, affondando le radici in tematiche quali gli sbarchi, l’immigrazione, l’integrazione tra culture differenti, il terrorismo di matrice islamista, e le questioni economiche che si celano dietro questi aspetti.

E non mancano interessanti spunti di riflessione su quanto oggi sia difficile conciliare la vita familiare con un’attività lavorativa impegnativa e stressante.
Aba si divide infatti tra colleghi pieni di segreti e con punti di vista e interessi non sempre perfettamente collimanti, funzionari e mercenari libici che agiscono con procedure ed etiche del tutto diverse da quelle occidentali, e la cosa a cui tiene di più in assoluto. La famiglia. Ma mantenere un equilibrio sarà sempre più difficile, in una caccia all’uomo ansiogena e accentuata dalla suddivisione in capitoli secondo i giorni della settimana.

Incuriosisce lo stile narrativo scelto dall’autore. La storia si dipana infatti su tre piani, con differenti tipi di narrazione. La vicenda è narrata da Aba in prima persona quando si trova a casa o comunque in compagnia dei familiari. La narrazione si svolge invece in terza persona quando il focus si sposta sull’ambito lavorativo. Quasi come un simbolo della doppia vita della donna. Gli affetti e la complicità emotiva da una parte, e il necessario distacco dall’altra per svolgere bene il proprio mestiere. E infine il corsivo, che esprime i pensieri della protagonista, un mezzo utile per creare affinità con il lettore.

“Una donna normale” mette le basi per una probabile nuova serie. A mio avviso il confronto con i precedenti lavori del bravo Costantini è tuttavia a svantaggio di questo ultimo romanzo, che pur essendo un buon testo, non raggiunge i livelli di intrattenimento, maturità, carisma, profondità e introspezione psicologica dei personaggi che erano il punto forte delle travagliate indagini del commissario Balistreri.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    07 Gennaio, 2020
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Non c'è più tempo

Qualche anno fa avevo conosciuto Lorenzo Licalzi grazie a “Il privilegio di essere un guru”, simpatico testo sulle mirabolanti avventure di un dongiovanni di provincia che metteva in luce le doti ironiche e dissacranti dell’autore.
Caratteristiche presenti anche in questo romanzo, “Che cosa ti aspetti da me?”, seppur in quantità minore a causa della diversità di genere.

Stavolta si parla di persone anziane, in particolare di un fisico nucleare di nome Tommaso Perez, costretto a vivere in una casa di riposo per problemi di salute.
Burbero, cinico e disilluso tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Mister vaffanculo”; un motivo di orgoglio ad un’età in cui Perez ha capito di poter finalmente dire ciò che vuole e che davvero pensa, superando qualsiasi forma di ipocrisia e di pudore tipici delle persone più giovani, facendo sfoggio di irriverenza e franchezza tali da sfociare talvolta in pura maleducazione e cattiveria.
Forse si tratta di una magra consolazione, per un uomo non più autosufficiente a livello fisico ma ancora brillante nel pensiero, seppure tutti o quasi sembrano essersene dimenticati.

Ma la vita, anche per un vecchio decrepito divenuto la caricatura di se stesso, non smette mai di stupire ed emozionare. E così facciamo la conoscenza di Elena, che ha settantasette anni, gli occhi e la mente sognanti come quelli di una bambina, e che come il protagonista si è concessa il lusso della sincerità e dell’abbattimento di qualsiasi ipocrisia. Ma in modo molto diverso da Perez. Che si domanda se ci possa ancora innamorare alla sua età.

Curioso il fatto che Licalzi abbia fondato e diretto una casa di riposo, prima di dedicarsi completamente alla scrittura.
Non stupisce quindi il fatto che sappia toccare le corde giuste, descrivendo situazioni tragicomiche, malinconiche, pregne di frustrazione, di stanchezza e di attaccamento alla vita al tempo stesso.

“Che cosa ti aspetti da me?” è un breve romanzo che non colpisce per uno stile particolare o per altre caratteristiche da ricercare in libri di altra caratura. Ma riesce perfettamente a fare quello che, credo, l’autore si fosse prefissato.
Ovvero emozionare, scaldare il cuore con una storia semplice ma ricca di spunti e di riflessioni universali, senza tempo.

Perché i giovani di oggi, come me, saranno i vecchi del futuro. E come i protagonisti di questa vicenda, proveremo rabbia per le cose che non saremo più in grado di fare e ancora più per quelle che non abbiamo fatto o troppo a lungo rimandato. E forse soltanto allora capiremo quella frenesia, quell’irrequietezza tipica di alcuni anziani attivi che, al pari dei bambini, non sono contenti fino a che non realizzano qualcosa che si sono messi in testa.

Avere idee. Uno scopo, un progetto futuro. Sognare ancora ad occhi aperti. Anche a ottant’anni. Ne vale sempre la pena.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    24 Dicembre, 2019
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"Pareva, ma non era così"

La storica nascita del commissario Salvo Montalbano, datata 1994.
Stranamente non è stato il mio primo romanzo di Montalbano, preceduto da "La voce del violino", letto e recensito mesi fa e quarto in ordine cronologico della lunga e apprezzata serie.
Una lettura che mi aveva spinto a recuperare il tempo perso e ad acquistare i precedenti testi.
Primo fra tutti, "La forma dell'acqua".

Gli elementi che decreteranno ben presto il meritato successo della serie sono già tutti presenti.
Da Vigata, immaginario e pittoresco comune siciliano, fino al celebre e inconfondibile registro linguistico caratterizzato dall'uso vivace e colorato di termini dialettali, alcuni dei quali inventati dallo stesso Camilleri.
E poi i personaggi, brillantemente descritti dall' autore e resi successivamente ancora più riconoscibili e caratteristici dalla fortunata versione televisiva. Dall'istrionico Mimì Augello all'imbranato Catarella fino all'efficiente e fedele Fazio, per non parlare della bellissima Ingrid Sjostrom, svedese conturbante e disinibita, e dell'eterna (già all’epoca) relazione a distanza con la fidanzata Livia.

La vicenda, ben nota, inizia con il ritrovamento del cadavere dell'illustre ingegner Luparello. Da parte di due "munnizzari". In una zona malfamata, detta la "mannara".
E ovviamente un investigatore acuto come Montalbano non riesce a credere che un personaggio in vista come Luparello possa essere stato tanto sprovveduto da morire durante un focoso e pericoloso incontro con una prostituta, come si vuole far pensare.

Emergono fin da subito il carattere forte del protagonista, dotato di un’ampiezza di vedute tali da suggerirgli di non fidarsi mai delle semplici apparenze, il suo personale senso della giustizia, dell'etica e del buon senso.

Camilleri mostrava già nel 1994 abilità importanti nella costruzione di storie godibili e ironiche, tanto che si percepisce come la successiva trasposizione televisiva non debba essere stata troppo difficoltosa data la qualità della scrittura e la pulizia dell'intreccio.

E oltre a questo si aggiunge il fatto, immutato anche nei successivi romanzi, che quando Montalbano mangia avidamente le succulente pietanze preparate dalla domestica Adelina, una vaga sensazione di acquolina in bocca è sempre garantita. E di questo non ci si può mai lamentare.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    09 Dicembre, 2019
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Perchè io ho te e tu hai me

Pubblicato nel 1937 e tradotto da Cesare Pavese l’anno seguente, “Uomini e topi” è il libro più venduto, insieme a “Furore”, dello scrittore statunitense John Steinbeck. Nativo di Salinas, celebre centro agricolo della California.

Un testo divenuto in breve tempo leggendario, senza età.
In America, perché con questa opera di denuncia l’autore mostrò un lato del paese che gran parte del pubblico non conosceva ancora.
In Italia, perché queste furono alcune delle pagine che consentirono a molti scrittori di alienarsi e sognare un continente giovane e vergine ma già epico e ruspante, lontano dalla visione chiusa e rigida fornita dalla cultura fascista che considerava la letteratura americana sovversiva e pericolosa per la propaganda e la creazione del consenso popolare cui mirava il regime.

I protagonisti sono due lavoratori stagionali nella California del primo dopoguerra. Una terra arida, sommersa dalla galoppante crisi economica e descritta con poche ed efficaci pennellate.
Lennie Small, che a dispetto del nome è un gigante e ha la forza di un toro, ma la mente di un bambino. E George Milton, che oltre a pensare a se stesso deve preoccuparsi costantemente di Lennie, e che mostra la tipica risolutezza di chi già conosce l’amara lezione della vita.
Sono personaggi veri, umili. Abituati alla fatica, allo sfruttamento, alle ingiustizie sociali, alle discriminazioni razziali.
Ma che nonostante tutto, conservano un profondo senso della dignità. E un sogno. Quello di mettere da parte dei soldi per potersi comprare un pezzo di terra e non dover più lavorare per nessuno.

George, Lennie, gli altri lavoratori, sono perdenti. Ma desiderosi di riscatto.
Sono figure dotate di un fascino eroico, assimilabile al mito. I perdenti che soccombono di fronte ad imprese al di fuori della loro portata, gli uomini onesti sconfitti dal destino ineluttabile della loro esistenza, ma che acquisiscono un’aura immortale e inscalfibile grazie al coraggio e alla dignità dimostrati.

Lo stile di Steinbeck è misurato, affilato, ricco di dialoghi. Si attiene semplicemente ai fatti riportati senza ridondanti commenti personali, come in un articolo di giornale. Tanto è che il titolo in origine doveva essere semplicemente “Something that happened”. Qualcosa che è successo.

Le pagine finali, nella loro semplicità e brevità, sono perfette. Amare e dolorose, ma stupende e commoventi. Indimenticabili.
Come stupenda è la storia di amicizia narrata in questo breve romanzo, un rapporto vero ed autentico tra due persone che fino alla fine non hanno niente e nessuno e possono contare soltanto su se stessi e sull’altro.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    02 Dicembre, 2019
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Una personale scala di valutazione

Primo libro con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone.

Romano di Trastevere, ma trasferito ad Aosta per motivazioni che sicuramente avrò modo di conoscere nei romanzi seguenti.
Cinico e romanamente sarcastico fin dalla prima pagina, burbero con tutti e perfino con l' amante Nora, scontroso e manesco al punto da usare in più di un' occasione le maniere forti con gli indagati. Schiavone ha un carattere difficile e tutt'altro che onesto e fedele alle regole e ai doveri imposti dalla divisa indossata, ma si intuisce che successivamente potrebbe far conoscere un lato di sè ben diverso ed una sua personale integrità.
Tra le abitudini più singolari che lo caratterizzano, lo spinello fumato ogni mattina e da lui stesso definito "preghiera laica", e l' usanza di paragonare ad un animale ciascuna delle fisionomie umane che incontra.

Dotato di un ottimo acume investigativo, Schiavone ha modo di mettere in mostra le proprie qualità deduttive in un caso di omicidio avvenuto presso le piste da sci di Champoluc, frazione dell' alta val d' Ayas e rinomata meta turistica.

Facciamo ben presto la conoscenza di tutti i comprimari, tra cui gli agenti Italo Pierron e Caterina Rispoli, affidabili e competenti. Fino ai sottoposti imbranati e fantozziani, macchiette purtroppo o per fortuna eternamente presenti in ogni giallo, soprattutto italiano, che si rispetti.

L' intreccio è semplice, lineare, privo di particolari scossoni ma godibile. Il personaggio del vicequestore funziona e incuriosisce, riuscendo a far divertire in attesa che nei romanzi seguenti siano chiarite le motivazioni dei suoi tormenti interiori.
Ho giudicato fin troppo sbrigativo e ostentatamente scenografico il finale, ma in conclusione reputo "Pista nera" un buon esordio per una serie che tra prodotto cartaceo e televisivo, grazie all' interpretazione del bravo Marco Giallini, sta riscuotendo un grande successo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    25 Novembre, 2019
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Hai mai fallito ? Solo nella vita

Datato 2002, "Testimone inconsapevole" ha rappresentato l' esordio nella narrativa per Gianrico Carofiglio.
Un autore che in passato aveva svolto la professione di magistrato, poi abbandonata per dedicarsi in pianta stabile alla letteratura.
E che curiosamente ha scelto la figura di un avvocato come protagonista di quella che fino ad oggi è la sua serie di romanzi più riuscita e celebre.

"Testimone inconsapevole" ha inaugurato la stagione del thriller legale di stampo italiano, sulla scia del clamoroso successo avuto dal genere negli anni novanta sia in ambito letterario (un nome su tutti, John Grisham) che cinematografico ("Codice d' onore", "Il socio", "Il rapporto Pelican", "Philadelphia", "Schegge di paura" e tanti altri).
Carofiglio è stato abile nel non copiare lo stile americano del legal thriller, fin troppo propenso a colpi di scena sensazionalistici e situazioni fantasiose.
Una scelta che non avrebbe pagato e sarebbe risultata falsa, considerate le profonde differenze tra il nostro sistema giudiziario e quelli dei cinquanta stati statunitensi.

Ecco che invece l' autore ha dimostrato di poter rendere godibile, in formato letterario, un meccanismo complesso e burocratico come quello dello dei nostri processi in aule di tribunale.
Mescolando sapientemente le questioni giuridiche, qui facilmente accessibili e mai monotone, alle vicende professionali e personali di un protagonista, l' avvocato trentanovenne Guido Guerrieri, che nel suo percorso umano e intimista conquista e trascina fin da subito.

Guerrieri è alle prese con la separazione dalla moglie Sara e le relative riflessioni introspettive e non banali.
In profonda crisi sentimentale, personale e lavorativa, viene coinvolto nel caso spinoso dell' omicidio di un bambino per difendere dalle accuse di colpevolezza un venditore ambulante senegalese.
La narrazione è equilibrata, godibile, dotata di ottimo ritmo, impreziosita da curiosi e graditi riferimenti alla musica e alla letteratura, e facilitata da uno stile fluido, veloce e non privo di fini capacità ironiche.

Carofiglio e l' avvocato Guerrieri mi hanno decisamente convinto, e non mancherò di leggere anche i successivi romanzi della serie.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    18 Novembre, 2019
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"Ci si abitua a tutto"

"Lo straniero" di Albert Camus, datato 1942, è considerato un mostro sacro della letteratura.
Raramente non è presente nelle classifiche dei libri più belli che siano mai stati scritti.
Ed è per questo motivo che, una volta terminato il romanzo, mi sono sentito in leggera difficoltà.
Perchè per quanto sia stata un' ottima lettura, piacevole a livello puramente stilistico e suggestiva nella parte finale , non ho avuto l' impressione tangibile di avere tra le mani un grande ed indiscutibile capolavoro della letteratura mondiale.

Non sono riuscito ad entrare in sintonia con un protagonista, Meursault, tremendamente impersonale, indifferente e vuoto nei confronti di tutto quello che lo circonda. Non sono stato coinvolto, non mi ha emozionato.
Meursault non sceglie, non giudica. Subisce in maniera passiva. Anche se devo ammettere che il suo atteggiamento, totalmente scevro di filtri, menzogne e privo dell' umana e terrena necessità di apparire anche soltanto in minima parte diversi da quello che si è, è sempre straordinariamente coerente con la propria apatica interiorità.
A tratti la lettura ha rappresentato per me una vera e propria sofferenza, tanto grandi erano l' aridità, la desolazione, la fastidiosa assenza di qualsiasi prospettiva avvertita tra le righe.
Come se un' esistenza valesse l' altra, senza distinzioni. "Ci si abitua a tutto".

Poi però arriva la parte finale. La migliore del romanzo, e non a caso la più commovente e scomoda.
Quando Meursault capisce di aver distrutto un equilibrio, di aver interrotto il silenzio eccezionale che lo circondava, di aver bussato alla porta dell' infelicità.
Diventa finalmente introspettivo, si pone alcune domande, capendo troppo tardi alcune cose di sè e della vita.
Ma sarà carne da macello. Il colpevole perfetto. Non tanto per il gesto in sè, del quale è effettivamente colpevole. Ma perchè, anche se ci fossero dei dubbi, non potrebbe essere altrimenti. Non cambierebbe niente.
Una preda facile e passiva nelle fauci di una comunità della quale vengono finemente denunciate, con un linguaggio tagliente, la solitudine, la difficoltà di ascolto, di comunicazione e di comprensione tra le persone, l' estraneità del singolo individuo nella collettività.

"Lo straniero" è un testo suggestivo (in parte, ovvero nel finale) e respingente al tempo stesso. Impeccabile a livello stilistico. Ma personalmente ritengo sovrastimato il contenuto, brillante e acuto in alcuni sprazzi ma complessivamente non imperdibile.
Sicuramente una lettura da fare almeno una volta nella vita, se non altro per la notorietà del romanzo.
Forse potrebbe essere un libro che, letto in circostanze e momenti diversi della nostra esistenza, potrebbe assumere differenti sfumature, significati e valori.

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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    01 Gennaio, 2019
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Se non sali adesso, non sali più

Ho letto “Novecento” con curiosità e timore.
62 pagine sfogliate, recensite ed elogiate da un numero sterminato di lettori.
E ora lette da me, che mi sono sempre sentito allergico, non so neanche per quale motivo preciso, a Baricco.
Non è la prima volta che leggo qualcosa dell’ autore. Non saprei dire se questa sia grande letteratura. O se Baricco sia soltanto un grande affabulatore. Se sia apprezzabile che la vera letteratura abbracci la dimensione del grande pubblico o se questo sia il sintomo che per cercare quella, la vera letteratura, si debba guardare altrove.

Io non lo so se “Novecento” meriti il successo che ha avuto. Non sono un critico letterario. Sono soltanto un semplice, per quanto appassionato, giovane lettore.
E non ho ancora deciso se il modo di scrivere di Baricco mi stia simpatico o meno.
Ma credo sia oggettivamente doveroso riconoscere un grande merito del monologo. L’ universalità.
Parla di noi, tutti. Delle nostre storie.
Parla della paura quotidiana di staccarsi da quello che è sicuro, conosciuto, per abbracciare nuovi e imprevedibili orizzonti.
La paura, umana e terrena, di vivere un’ esistenza intrappolata nel nostro amato finito, sognando di gettarsi ad occhi chiusi verso un infinito che potrebbe essere migliore, ma che forse non si avrà mai il coraggio di raggiungere.
La paura di chi si rifugia nei propri porti sicuri.
La paura del mondo, delle persone.
Di non farsi trovare pronti al momento giusto.
Di non cambiare un lavoro che non ci fa sentire realizzati. O viceversa, di non cercare quello che davvero abbiamo sempre sognato.
Di non avere la risposta pronta quando servirebbe.
Di non saper staccare i cordoni ombelicali che ci tengono ancorati ad un’ infanzia e ad un’ adolescenza che in qualche modo a volte ci portiamo ancora dentro da adulti.
Di non fare quel viaggio che nella nostra testa abbiamo già immaginato migliaia di volte.
Di non compiere quei pochi passi che ci separano dalla donna che abbiamo sempre desiderato conoscere, nonostante gli sguardi si siano già incrociati almeno una volta di troppo.
Con il sincero augurio che quando sarà il nostro turno, sapremo scendere quei dannati scalini delle nostre navi, qualunque esse siano.

Quando un testo intercetta i sentimenti di così tanti lettori, non può lasciare indifferenti.
E allora forse ha ragione Dave Eggers, quando afferma che “ dovremmo gioire le rare volte in cui la letteratura entra nel mainstream, non rinfacciarle la popolarità”.

“La vita è una cosa immensa, lo volete capire o no ? Immensa”.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    28 Dicembre, 2018
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Questa città non è quello che sembra

“Almost blue” è il primo romanzo di Carlo Lucarelli che ho avuto occasione di leggere.
È probabilmente la sua opera più celebre, o almeno quella che più ha contribuito ad ampliarne la fama di scrittore di successo, giornalista, conduttore televisivo.
Il romanzo, datato 1997, è ambientato a Bologna. Nessuno vuole ammetterlo, primo tra tutti il questore, ma tra le strade del capoluogo emiliano si aggira un assassino seriale che colpisce studenti universitari.
Soltanto l’ispettore Grazia Negro, inviata da Roma, è riuscita ad intuire collegamenti tra vari omicidi che nessuno aveva mai messo in correlazione.
Ma deve muoversi in una città a lei sconosciuta, contraddittoria, tentacolare. E grande. “Questa che lei chiama Bologna è una cosa grande che va da Parma fino a Cattolica, un pezzo di regione spiaccicato lungo la via Emilia, dove davvero la gente vive a Modena, lavora a Bologna e la sera va a ballare a Rimini. Questa è una strana metropoli di duemila chilometri quadrati e due milioni di abitanti, che si allarga a macchia d’olio tra il mare e gli Appennini e non ha un vero centro ma una periferia diffusa che si chiama Ferrara, Imola, Ravenna o la Riviera”.
Grazia cerca un killer spietato che dopo ogni assassinio si impossessa di un componente della vittima (abitudini, vestiti, oggetti personali) e che per questo viene soprannominato Iguana: si mimetizza e cambia pelle continuamente alla ricerca del vero se stesso.
Nel frattempo un ragazzo cieco di nome Simone passa le sue giornate utilizzando uno scanner radio che gli permette di ascoltare tutte le comunicazioni private e pubbliche della città.

Il romanzo contiene molte tematiche che poi saranno riprese in numerose opere e trasmissioni televisive dell’autore: una trama gialla che contiene elementi di analisi sociale, atmosfere jazz velatamente cupe e malinconiche, uno stile giornalistico incisivo ed avvincente, un’attenzione particolare rivolta alla sfera geografica.
Particolare la scelta di alternare il punto di vista dei tre protagonisti della storia, per creare un romanzo fatto di sensazioni, colori, suggestioni, odori diversi a seconda che le vicende siano raccontate attraverso le percezioni di Simone, la follia dell’assassino o la passione lavorativa testarda e selvaggia di Grazia.

“Almost blue” è un thriller efficace che in appena 190 pagine racchiude buona parte di ciò che nel genere non dovrebbe mai mancare: pochi e solidi personaggi, un intreccio riuscito, un’ambientazione suggestiva.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    28 Dicembre, 2018
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Il passato rispecchia il futuro

Ancora una volta è la gelida Svezia a fare da teatro ad un nuovo, il terzo, romanzo della serie incentrata sulla figura del commissario Joona Linna.
A Sundsvall, città di piccole dimensioni situata a nord di Stoccolma, c’ è una località di nome Birgittagarden che ospita una casa d’accoglienza per minori dai 12 ai 17 anni con alle spalle problemi di tossicodipendenza, comportamenti autolesivi, disturbi alimentari.
In una notte vengono uccise l’ infermiera Elisabeth Grim ed una ragazzina di nome Miranda.
La prima sospettata è Vicky Bennett, una delle ragazze in cura, data per dispersa dopo gli omicidi e il cui letto viene ritrovato coperto di sangue.
Jonna Linna, nel frattempo impegnato a fronteggiare un’ inchiesta della commissione disciplinare nei suoi confronti, indaga in maniera non ufficiale sul caso. Con lo sporadico aiuto di una misteriosa e giovane ragazza che dichiara di avere continue e confuse visioni sui delitti.

Attendevo con una certa curiosità la lettura del terzo romanzo della saga ad opera dei coniugi Lars Kepler, dato che è opinione diffusa che proprio con “La testimone del fuoco” si verifichi un innalzamento qualitativo del livello della serie.
Aspettative soltanto in parte rispettate.

Sicuramente la trama mi ha stuzzicato maggiormente rispetto al passato, con un intreccio più avvincente, una gestione dei colpi di scena più credibile e parsimoniosa, ed un finale che lascia finalmente un pizzico di curiosità per il successivo capitolo.

La lunghezza, il numero dei personaggi e la quantità di tematiche affrontate restano eccessivi, ma è un problema purtroppo comune in molti polizieschi moderni.
Continuo a ritenere deficitaria la gestione dello spazio, elemento che ritengo imprescindibile in questo genere letterario. Le vicende sono ambientate a Stoccolma, ma ce ne accorgiamo solo da qualche sporadico richiamo al freddo e all’ onnipresente grigiore del cielo (mentre, considerando altri giallisti scandinavi come termine di paragone, la Norvegia di Jo Nesbo o la Fjallbacka di Camilla Lackberg sono a tutti gli effetti veri e propri personaggi aggiunti).

E per quanto il genere non sia necessariamente garanzia di accurata introspezione psicologica dei personaggi, il livello di questa si riconferma modesto.
Anche stavolta ho avuto l’ impressione che i Lars Kepler si siano riconfermati autori commerciali. La classica “lettura da spiaggia” contenente tanti omicidi, tanto sangue, con spruzzatine di sesso gettate nella mischia.
Niente di scandaloso, intendiamoci. “La testimone del fuoco” rimane comunque un thriller sufficiente per intrattenimento offerto e facilità di lettura, ideale da alternare a letture più serie e non necessariamente di genere diverso.
Ritengo infatti che anche nella sottocategoria dei gialli di tipo commerciale, ci siano autori e opere più validi.
Con la speranza che i due coniugi mi facciano ricredere nella prossima puntata.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    14 Settembre, 2018
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Abbi fede e persegui il tuo fine ignoto

Non credo che il nome di James Patterson abbia bisogno di presentazioni.
Direttore creativo e presidente di una importante agenzia pubblicitaria newyorchese prima, autore di romanzi thriller più conosciuto e venduto al mondo poi.
Nonostante la mia storica passione per il genere, non avevo mai letto un libro di questo autore, forse perché spaventato dall’ idea che se mi fosse davvero piaciuto avrei dovuto recuperare la sua enciclopedica produzione che viaggia a ritmi da circa dieci romanzi sfornati all’ anno.
O forse perché da irriducibile romantico non apprezzo più di tanto il fatto, ormai non più segreto, che solo una piccola parte di essi siano effettivamente scritti da Patterson, il quale si avvale da anni di numerosi autori che redigono al suo posto le opere dietro compenso.
Il nativo di Newburgh, insomma, spesso si preoccupa soltanto di fornire la trama iniziale e di revisionare i lavori compiuti.
E in fin dei conti ha ragione lui, perché il suo nome è un marchio e una garanzia di successo.
Ma questa è un’ altra storia.

Ho deciso quindi di acquistare quello che è considerato uno dei suoi romanzi più famosi.
“Il Collezionista”, da cui è stato tratto l’ omonimo e onesto film del 1997 con Morgan Freeman e Ashley Judd colpevole di ricordare vagamente le atmosfere di “Seven” di David Fincher senza toccarne le stesse vette.
Il romanzo fa parte della serie con protagonista Alex Cross, talentuoso profiler di serial killer nonché psicoterapeuta della sezione omicidi di Washington.
Ancora scosso dalle improvvise quanto effimere luci della ribalta in seguito alla cattura di un rapitore seriale, Cross deve fronteggiare la scomparsa di Naomi, sua nipote ventiduenne e studentessa di legge in una cittadina del North Carolina.
Una zona che di recente non è sinonimo di tranquillità, dato che sono già scomparse numerose ragazze accomunate tutte da una indiscutibile ed evidente bellezza.
Il detective dovrà destreggiarsi in un territorio a lui sconosciuto, con la polizia locale che non si distingue per accoglienza e gentilezza e le pressioni di una famiglia intera che vuole riabbracciare la giovane Naomi.

Convinto che fosse il miglior romanzo della serie o quasi, sono rimasto in parte deluso da una lettura che tra pregi e difetti a mio avviso giunge a malapena alla sufficienza.
Probabilmente lo stile di Patterson è migliorato con il passare del tempo, dato che qui è fin troppo elementare e sbrigativo.
In questi casi ho sempre il dubbio dell’ efficacia della traduzione, ma considerata la generale competenza nel campo, sono certo che non sia colpa della trasposizione italiana.
Per non parlare di alcune folgoranti deduzioni a dir poco improvvise e di un paio di esagerazioni da puro film di avventura spericolata davvero evitabili.
Ma se da una parte lo stile è fin troppo semplicistico, dall’ altra non posso negare che proprio grazie a tale spensierata facilità di lettura, “Il Collezionista” risulta un prodotto godibile e accessibile da inserire in mezzo a ben altro tipo di letture non necessariamente di genere diverso.
In alcuni passaggi il romanzo è perfino avvincente, e i personaggi nonostante tutto non mancano di empatia.
Insomma, mai la definizione di “lettura da spiaggia” fu più azzeccata.
Anche se l’ estate, come diceva una vecchia canzone dei Righeira, sta finendo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    23 Luglio, 2018
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Firenze 1964

Dopo una lunga pausa dal familiare e accogliente sito di QLibri, dovuta ad impegni universitari irrinunciabili, torno finalmente ad inserire la recensione di un romanzo.
E non esiste genere letterario più adatto del giallo per rituffarsi gradualmente e senza sforzo nel piacere della lettura a mesi di distanza dall' ultimo libro affrontato.

"Una brutta faccenda", datato 2003, è il titolo del secondo romanzo della serie dello scrittore fiorentino Marco Vichi avente come protagonista il commissario Franco Bordelli.
Un personaggio che col passare degli anni si conferma sempre più apprezzato dai lettori, come dimostrato dalla produzione dell' autore giunta ormai al settimo romanzo della saga.
Un poliziotto che preferisce frequentare occasionali e relativamente innocui ladruncoli ed anziane ex prostitute, che per lui rappresentano una compagnia più piacevole e interessante rispetto a pomposi superiori, burocrati e funzionari di Stato vari.
Poco incline ai compromessi, sue peculiarità si confermano la sovrumana capacità di fumare quantità incalcolabili di sigarette, la spiccata tendenza ad avere la risposta pronta in ogni occasione ed il categorico rifiuto di risolvere un' indagine senza prima capire le motivazioni che spingono una persona apparentemente normale a compiere atti tanto efferati.
E infatti il caso che il commissario si trova a dover risolvere è tutt' altro che facile e comune.
Un caso per stomaci forti, perchè le vittime sono bambine rinvenute con evidenti segni di strangolamento sul collo e con strani morsi sulla pancia.
E l' assenza di qualsiasi tipo di indizi non aiuta il commissario, seguito passo dopo passo dal fedele agente Piras.

La vicenda è ambientata nella primavera del 1964, in una Firenze coperta da un cielo grigio a simboleggiare il tardivo arrivo della bella stagione ed il clima di tensione che si respira.
L' amore e la profonda conoscenza che lo scrittore nutre nei confronti della città nativa traspare con forza dal testo, tanto che Vichi si conferma in questo secondo romanzo come un autore più attento all' ambientazione e ai personaggi che non all' intreccio, seppur la complessità del caso da risolvere sia maggiormente approfondita rispetto al più lineare precedente capitolo.
Emerge la bellezza maestosa e nostalgica di Firenze, in anni complicati vicini al primo vero boom economico che colpisce l' Italia ma ancora caratterizzati dalle difficoltà nel far rimarginare le ferite che la guerra conclusa da un ventennio ha lasciato aperte.
Ed è proprio il secondo conflitto mondiale ad essere il protagonista di qualche divagazione di troppo che smorza momentaneamente l' interesse nella ricerca del colpevole.
Bordelli infatti è un uomo piuttosto incline al ricordo dei tempi passati, soprattutto quelli vissuti in prima linea a fianco della Resistenza.
Ricordi gradevoli e significativi per l' evoluzione del personaggio, ma a mio parere fin troppo numerosi; il commissario è un protagonista già caratterizzato a sufficienza senza l' ulteriore necessità di così tanti flashback.

"Una brutta faccenda" è un buon romanzo non esente da piccoli difetti ma che appassiona per sentimenti e sincerità di un protagonista forte e sanguigno, proprio come il capoluogo toscano che lo accompagna cupo e tenebroso in questa indagine.

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"Il commissario Bordelli", primo capitolo della serie.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    05 Marzo, 2018
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Una voce di fìmmina

Con un’ ammissione di colpevolezza devo ammettere che mentre non mi sono mai perso un episodio televisivo del commissario Montalbano, il mio primissimo approccio alla letteratura di Camilleri è arrivato soltanto di recente grazie a questo romanzo.
“ Che la giornata non sarebbe stata assolutamente cosa il commissario Salvo Montalbano se ne fece subito persuaso non appena raprì le persiane della càmmara da letto “.
E già dallo spiritoso incipit l’ immedesimazione col personaggio televisivo è stata immediata, tante sono le volte in cui ho visto il meteoropatico commissario svegliarsi da un sonno agitato per affacciarsi in terrazza ad osservare il mare.
“ La voce del violino “ è il quarto romanzo della serie e come sempre è ambientato a Vìgata, cittadina sul mare in provincia di Montelusa; la prima ispirata a Porto Empedocle e la seconda ad Agrigento.

Il commissario si sta recando ad un funerale con alla guida lo spericolato agente Gallo, quando quest’ ultimo tampona un’ auto ferma sul lato della strada. Montalbano lascia sotto al tergicristalli della macchina il numero del commissariato, ma nessuno si farà mai vivo. E il motivo è chiarito quando viene ritrovato il cadavere della proprietaria della macchina, una bellissima ventinovenne originaria di Bologna.

In queste 206 pagine ho ritrovato tutti gli ingredienti che hanno decretato il successo dell’ autore e del suo più celebre personaggio letterario.
Innanzitutto la particolarità della lingua, un’ invenzione di Camilleri che con simpatia mescola italiano e dialetto agrigentino in una miscela frizzante, varia, piacevole.
Poi la capacità di raccontare una Sicilia avvolgente ed evocativa, densa di colori e sapori. Gli stessi sapori ricercati dal commissario, vero e proprio amante della buona cucina tradizionale.
E infine ci sono i personaggi. A partire dall’ introverso e verace Montalbano, tanto competente quanto volubile, sarcastico e allergico alla burocrazia.
Per non parlare di Catarella, Augello, Fazio, il giornalista Zito, la storica fidanzata Livia residente a Genova. Tutti dotati di caratteristiche uniche e divertenti, ognuno complice a modo suo di un commissario abilissimo nel compiere il proprio mestiere e capace di diffondere all’ occorrenza un non tradizionale e personale criterio di giustizia basato sul buon senso.

Appena ho terminato il romanzo mi sono promesso di acquistare almeno le prime opere di questa lunga serie e non escludo un giorno di poterle recuperare tutte, tante sono state la velocità e la piacevolezza con cui ho affrontato questa lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    05 Marzo, 2018
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Per tutta la vita

Ho accolto con entusiasmo la possibilità di recensire per la redazione il nuovo romanzo di John le Carrè, scritto alla veneranda età di 86 anni e distante ben 56 primavere dal suo esordio letterario.
L’ autore ha ancora molto da dire sul tema dello spionaggio, una realtà che conosce a fondo essendo stato per qualche anno un agente segreto al servizio del Secret Intelligence Service.
Ed in quella che potrebbe essere la sua ultima fatica letteraria, non potevano mancare i personaggi che ne hanno sempre decretato il successo in termini di critica e di vendite.

Il protagonista della vicenda è Peter Guilliam, un anziano agente segreto inglese felicemente ritiratosi dell’ attività e propenso a godersi il meritato riposo in Bretagna.
Una serena pensione, fino a che non arriva un’ improvvisa convocazione al quartier generale di Londra.
E guai a rifiutarsi, perché “ per i membri del Circus l’ obbligo a prestare servizio si protrae per tutta la vita “.
Peter, fedele discepolo del celebre George Smiley, è chiamato a chiarire i fatti riguardanti una particolare operazione di spionaggio denominata Windfall che ebbe luogo a Berlino nel pieno della Guerra Fredda. In quella missione perse la vita l’ abile ed esperto agente Alec Leamas, e a distanza di decenni il figlio minaccia di rivolgersi ad un tribunale per capire i motivi che portarono alla scomparsa del padre.

Le Carrè si diverte a confrontare il modo di agire delle spie del passato con i sistemi di intelligence moderni, basati su enormi flussi di dati ed informazioni in tempo reale.
Il protagonista, dolorosamente costretto a scavare attraverso numerosi fascicoli e flashback nei ricordi di un’ epoca che credeva sepolta, deve motivare agli attuali vertici dell’ MI6 fatti e decisioni che essi sembrano non comprendere a causa di una mentalità profondamente mutata nel corso degli anni.

Come di consueto i romanzi di Le Carrè si distinguono per una pressoché totale assenza di azione, elemento che da sempre lo ha posto in contrasto con un altro celebre autore come Ian Fleming, creatore del mitico e affascinante James Bond abituato a destreggiarsi tra esplosioni, sparatorie e belle donne.
La perfetta antitesi di George Smiley, il vice-capo del Circus che non compariva in un romanzo dell’ autore dal lontano 1990 e che viene sempre descritto come un uomo grigio, ricurvo, goffo nella vita quotidiana ma dotato di straordinarie dosi di memoria, pazienza e deduzione.
I personaggi, realistici ed umani, sono il punto di forza di questo romanzo oltre ad uno stile frizzante, ironico, venato di nostalgia e romanticismo.

Stavolta però l’ intreccio desta meno curiosità dei precedenti, e in più di un passaggio la comprensione della trama può sfuggire di mano se non si pone attenzione alla lettura.
Può essere considerato come una sorta di seguito del celebre romanzo “ La spia che venne dal freddo “, basato proprio sulla vicenda di Alec Leamas, senza tuttavia aggiungere alcun elemento sconvolgente.
Resta immutato l’ affetto per un gigante della letteratura spionistica come Le Carrè, ancora capace ad 86 anni di sfornare un libro godibile con l’ indubbio merito di invitare a leggere o a rileggere “ La spia che venne dal freddo “.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    16 Febbraio, 2018
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Acqua dolce

Nel terzo capitolo della fortunata serie che ha decretato il successo editoriale di Camilla Lackberg la vita della coppia formata dal poliziotto Patrick Hedstrom e dalla scrittrice Erica Falck viene sconvolta dalla nascita della primogenita, la piccola Maja.
A subirne le conseguenze è soprattutto Erica, le cui energie fisiche e mentali sono risucchiate dalla bambina a tal punto che la donna sembra accusare una forma di depressione post parto.
Patrick vorrebbe passare più tempo a casa per aiutare Erica e la figlia, ma un nuovo e macabro caso da risolvere gli impedisce di farlo.
La tranquillità dell’ incantevole Fjallbacka è interrotta dalla terribile scoperta di un pescatore che intento a recuperare le nasse per la pesca delle aragoste in mare aperto, trova il cadavere di una bambina di soli sette anni di nome Sara.
Il responso della scientifica aggrava la situazione : nei polmoni della bambina si segnala la presenza di acqua dolce. Ciò significa che la vittima è stata annegata altrove ed in un secondo tempo gettata in mare.
Le indagini sulla famiglia della piccola Sara portano a galla antiche ruggini, presenze rigide ed ingombranti sia all’ interno del nucleo familiare che fuori.

Anche stavolta l’ autrice conferma il proprio feeling con la tecnica del cliffhanger, seguendo una tradizione che ha fatto le fortune di numerosi autori tra i quali ricordo Jeffery Deaver.
Ed è così che ogni volta che la narrazione coincide con un colpo di scena o con un momento di rilevante tensione, la Lackberg cambia scenario; la Svezia del presente cede il passo a quella del passato, con numerosi flashback aventi ad oggetto personaggi e situazioni inerenti al caso da risolvere.

Il romanzo conferma i pregi che già si erano intravisti nella serie : il fascino dell’ ambientazione, una trama da sviluppare piuttosto densa , complessa e priva di eccessivi cali di tensione, uno stile di scrittura semplice ed immediato ma non per questo banale ed elementare, personaggi ben delineati tra i quali spiccano i poliziotti della stazione di Tanumshede diversi tra loro per fisionomie e atteggiamenti, la consueta cura riservata alle caratterizzazioni delle controparti femminili.
Ne è un’ eccezione il personaggio di Erica, che anche stavolta ha un ruolo marginale nella vicenda. La biografa energica e partecipe alle indagini del primo romanzo è un lontano ricordo. La gravidanza nel secondo libro ed una presunta depressione post parto nel terzo ne hanno ridimensionato notevolmente ruolo ed importanza all’ interno di una trama di genere giallo, con il risultato che a trarne beneficio è un Patrick sempre più presente e centrato sul lavoro da svolgere.

Infine ho trovato il finale eccessivamente frettoloso e condensato in poche pagine; piccoli difetti che non pesano più tanto sul giudizio di un thriller che a mio avviso resta comunque di buon livello ed in linea con le precedenti opere della serie.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    13 Novembre, 2017
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Piccola comunità, grandi segreti

In realtà non avevo intenzione di leggere “ La ragazza nella nebbia “, o almeno non per il momento. Avevo altri romanzi sparsi sul comodino vicino al letto e pronti ad essere aperti, ma la scoperta dell’ omonimo film in uscita poche settimana fa mi ha convinto a divorare il libro per potermi gustare la versione cinematografica capitanata dai bravi Toni Servillo, Alessio Boni e Jean Reno sotto la regia dello stesso Donato Carrisi.

Stavolta il celebre autore ha scelto come ambientazione un immaginario e piccolo paese di montagna di nome Avechot. Tremila abitanti, la maggior parte dei quali accomunati da una rigida tradizione religiosa.
L’ esperto psichiatra Flores riceve una telefonata nel cuore della notte. Si tratta della Polizia, che richiede la sua presenza per sincerarsi delle condizioni di un uomo ritrovato in stato confusionale in seguito ad un incidente d’ auto. Ma non è una persona qualunque, è l’ agente speciale Vogel. Lo stesso che poco tempo prima era giunto ad Avechot per occuparsi della misteriosa ed improvvisa scomparsa di una sedicenne di nome Anna Lou.
E senz’ altro è proprio Vogel il personaggio più interessante e innovativo del romanzo, laddove gli altri non sempre reggono il confronto.
L’ agente speciale ha la capacità di fiutare quello che definisce un “ caso mediatico “, una storia in grado di appassionare milioni di telespettatori.
Si preoccupa di coinvolgere i media nelle indagini perché sa che se i riflettori dell’ opinione pubblica sono puntati sul caso le forze dell’ ordine ne beneficiano in termini di risorse e mezzi a disposizione.
Ma stare al centro dell’ attenzione ha un prezzo. La pressione è alta, il pubblico è affamato e ansioso di dare un volto e un nome alla paura. Nessuno più di Vogel sa che il colpevole da sbattere in prima pagina va trovato in fretta. E forse non è un caso che l’ ultima indagine di Vogel sia finita male, con il sospetto che siano state alterate alcune prove per incastrare un capro espiatorio.

Tra i tanti aspetti che mi avevano incuriosito nelle scelte stilistiche di Carrisi c’ era quella di non ambientare alcuni dei suoi romanzi in un posto specifico. “ Perché il male è ovunque “.
Stavolta l’ autore è stato più preciso. E se i nomi di molti personaggi non bastassero a chiarire che la trama ha luogo nel nostro paese, ci sono svariati indizi a suggerircelo.
E così il paesino di montagna fa pensare al delitto di Cogne, il furgone bianco che seguiva gli spostamenti di Anna Lou a Brembate, e i sospetti di manipolazione delle prove ricaduti in passato su Vogel al caso Unabomber.
Una scelta furba da parte di Carrisi, che paga qualche scopiazzatura di troppo ma il cui risultato è quello di incuriosire il lettore. Così come non mancano i riferimenti cinematografici. I più nostalgici avranno senz’ altro accomunato la figura dell’ agente speciale venuto da fuori a risolvere un’ indagine in una piccola comunità alla trama dell’ immortale Twin Peaks.

Chiudono il quadro uno svolgimento dei fatti privo di particolari colpi di scena e un finale che ho trovato forzato e sbrigativo, difetti che tuttavia inficiano solo in parte il mio giudizio su un giallo di buona fattura , privo di cali di tensione, con un’ ambientazione affascinante e originale nella trattazione del ruolo dei media.
Consiglio anche la visione dell’ omonimo film, fedele al romanzo e caratterizzato da un cast di assoluto livello.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    18 Ottobre, 2017
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Dancing in the dark

“ Ballando nel buio “ è il quinto romanzo della saga con protagonista il commissario Michele Balistreri.
Nei quattro libri precedenti i numerosi salti temporali, vero e proprio marchio di fabbrica di Roberto Costantini, avevano fatto luce sulla giovinezza trascorsa da Balistreri a Tripoli fino al 1970 e su una serie di indagini ambientate nel 1982 o negli anni 2000.
Mancava un pezzo. Era lecito chiedersi cosa avesse trasformato l’ irascibile commissario del 1982 nel rassegnato Balistreri degli anni 2000.

La storia di “ Ballando col buio “ inizia nel 1974, a Roma. Sono passati quattro anni dalla fuga di Mike dalla Libia e la rabbia ed il dolore per la misteriosa e irrisolta morte della madre Italia sono ben lontani dall’ essere metabolizzati.
Il ventiquattrenne Michele è un idealista convinto di cambiare il mondo, in contrapposizione a quello che lui considera uno Stato debole e opportunista. Si mantiene lavorando in una palestra e frequenta alcuni movimenti organizzati di estrema destra formatisi dopo la chiusura di Ordine Nuovo. Non è nuovo a rappresaglie e scontri con fazioni di schieramenti politici diversi, ma sa che c’ è una bella differenza tra il liberare un’ università occupata dai comunisti e la deriva terroristica che alcuni soggetti all’ interno del movimento sembrano voler intraprendere.
Dieci anni dopo, nel 1984, Balistreri è già da qualche tempo commissario alla sezione omicidi. Un funzionario di polizia senza stimoli, servitore di un paese in cui non si riconosce. Fino a quando l’ uccisione di un vecchio compagno di Ordine Nuovo divenuto nel frattempo un parlamentare della DC, lo ricaccia con violenza nel pieno degli anni della militanza.

Il colonialismo italiano. L’ ascesa e la caduta di Gheddafi. L’ immigrazione. I rapporti tra Chiesa e Stato. Sono solo alcuni degli argomenti più o meno attuali, spesso storie rimosse dalla memoria collettiva, che l’ autore aveva brillantemente tratteggiato nella serie con un sapiente mix di letteratura gialla e noir, cui vanno in questo caso ad aggiungersi la strategia della tensione e le stragi tristemente note degli anni di piombo come quella a Brescia del 1974.
E anche stavolta nel proprio ambizioso ritratto verosimile e storicizzato Costantini si affida ad una schiera di personaggi per la maggior parte menefreghisti, superficiali, egocentrici.
Il tutto capitanato dall’ onnipresente Balistreri. Un antieroe estremamente riuscito dotato di caratteristiche tutt’ altro che empatiche, ma che non può non farsi apprezzare per schiettezza e coerenza ad un proprio e personale codice morale.
Il ritmo della vicenda è incalzante, l’ alternanza temporale suscita curiosità nel lettore ansioso di voltare pagina per scoprire gli sviluppi dell’ indagine e per aggiungere nuovi tasselli alla storia personale del commissario.

Il livello qualitativo della serie continua ad attestarsi su ottimi livelli.
Credo che l’ autore abbia compiuto un salto in avanti in termini di maturità letteraria.
Anni fa i primi due romanzi della serie mi avevano a dir poco entusiasmato, ma se riconsiderati oggi con un pizzico di esperienza da lettore in più soffrivano di lunghezza e intreccio fin troppo lunghi e complessi. Il terzo aveva chiuso dignitosamente il cerchio aperto dai primi due, conservandone le stesse caratteristiche.
Credo che dal quarto romanzo in poi Costantini abbia trovato la giusta dimensione con un numero di pagine minore e storie mature, lontane dall’ epicità delle precedenti opere probabilmente impossibile da mantenere nel corso di una produzione seriale, ma più intimiste.
Proprio come Balistreri, che si lascia conoscere e capire sempre meglio col trascorrere del tempo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    04 Ottobre, 2017
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Per l' eternità

Ernest Hemingway è uno dei tanti autori tra i quali cito anche Joyce, Steinbeck, Fitzgerald, le sorelle Brontë, che ho iniziato ad approfondire circa cinque anni fa grazie al programma scolastico dell’ ultimo anno del Liceo del mio professore di inglese, volto a farci conoscere i maggiori esponenti della letteratura otto-novecentesca.
Nonostante la buona volontà di quel professore e la sua passione per l’ avventuroso Hemingway, ho rimandato la lettura del mio primo romanzo di questo autore fino a qualche giorno fa.
E quale opera migliore per cominciare se non quella che ha permesso al nativo di Oak Park di vincere un premio Pulitzer e un Nobel.

“ Il vecchio e il mare “ tratta le tematiche preferite di Hemingway, siano esse il coraggio dell’ essere umano e il suo immergersi nella natura consapevole di sfidarne le avversità senza poterne allo stesso tempo fare a meno.
Inutile soffermarmi sulla trama o sui personaggi arcinoti come ogni classico degno di essere chiamato tale.
Cercherò di dare maggior risalto alle sensazioni che mi ha trasmesso la lettura, facilitato da uno stile apparentemente asciutto e semplice ma in realtà evocativo e comunicativo.

Mi ha colpito il rapporto di affetto tra il vecchio pescatore, Santiago, e il giovane Manolin. I genitori lo hanno convinto ad allontanarsi da quel vecchio che non porta a casa un pesce da mesi e sembra colpito dalla sfortuna, ma il ragazzo continua ad occuparsi di quello che considera a tutti gli effetti un maestro di vita.
Traspare dalle righe il profondo rispetto che il vecchio ha per il mare e per il pesce che lo terrà occupato per tre giorni, un marlin tenace e determinato.
Entrambi lottano per qualcosa. Il pesce combatte per la propria sopravvivenza. Santiago lotta per dimostrare a se stesso di avere ancora un valore e un orgoglio, di essere superiore a un periodo di pesca sfortunata. Sa che prima o poi la ruota della fortuna girerà dalla sua parte, e deve farsi trovare pronto e più coraggioso che mai. Come un pugile che sul finire della carriera mantiene ancora dentro di sé l’ energia, il fuoco per un ultimo grande incontro.
Ma nonostante sappia cogliere al volo l’ occasione di catturare il gigantesco marlin, Santiago e la sua barca finiscono talmente al largo che per concludere l’ impresa e portare il pesce integro a casa, si trova costretto a difenderlo dagli attacchi degli squali in una battaglia dall’ esito scontato ma che non scalfisce la statura morale di un protagonista con sufficiente esperienza per non esasperare né la vittoria né la sconfitta.

Hemingway ha sempre rifiutato di considerare questo romanzo come un’ allegoria, una metafora della vita stessa.
Eppure è impossibile non associare le figure di Santiago e del pesce a quello che vorremmo essere, strenui lottatori orgogliosi di difendere qualcosa in cui ci riconosciamo; quella poetica e insidiosa del mare alla vita quotidiana, capace di offrire opportunità, porre ostacoli e misurare quanto siamo disposti a investire in qualcosa in cui crediamo. E il ragazzo, Manolin, a ciò che in realtà spesso siamo, consapevoli che non sempre un qualcosa che è oggettivamente meglio per noi è quello che istintivamente ci sentiremmo di fare.

Non ho mai avuto l’ abitudine di rileggere i libri dopo una prima volta, ma credo che “ Il vecchio e il mare “ sia uno di quei pochi casi in cui un romanzo comunica sempre qualcosa di diverso a seconda del momento in cui viene aperto.
Credo che sia una lettura che si apprezza maggiormente con il trascorrere degli anni, a patto di affrontarla ogni volta in silenzio, in solitudine e con la concentrazione che merita.
E credo che mi resterà in mente per sempre, per tutta la vita.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    04 Ottobre, 2017
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Nido di vespe

“ La sedia vuota “ è il terzo romanzo della serie ad opera di Jeffery Deaver che ha per protagonista Lincoln Rhyme, il criminologo quadriplegico più famoso della letteratura.
Accompagnato dall’ assistente Thom e dalla sempre presente Amelia Sachs, poliziotta dalla folta capigliatura rossa tanto affascinante quanto competente, lo scorbutico Lincoln si reca in una piccola cittadina del North Carolina per sottoporsi ad una delicata operazione chirurgica.
Un intervento rischioso dalle conseguenze imprevedibili, ma che potrebbe garantirgli un parziale miglioramento rispetto all’ attuale condizione nella quale è in grado di muovere soltanto la testa e l’ anulare sinistro.
Ma proprio quando mancano pochissimi giorni alla data dell’ operazione, la straordinaria esperienza di Rhyme è richiesta dalla polizia locale per risolvere un caso di omicidio e di scomparsa di due giovani ragazze. Secondo le prime indiscrezioni l’ identità del sospetto sembra inequivocabile; uno strano adolescente problematico e sociopatico con una morbosa passione per il mondo degli insetti.

Dopo i primi due splendidi e metropolitani capitoli della serie ambientati a New York, Deaver immerge Lincoln e Amelia in una zona rurale dell’ est degli Stati Uniti piena di minacciose paludi.
Non è una caso che nel testo ricorra spesso l’ espressione “ pesce fuor d’ acqua “ per sottolineare la difficoltà del meticoloso protagonista nel fronteggiare un’ area geografica di cui per la prima volta non conosce la storia, il terreno, la flora e la fauna.

Ogni volta che mi trovo di fronte ad un thriller di un maestro del genere come Deaver, non posso fare a meno di ammirare la meticolosità di un tessuto narrativo che resta sempre verosimile nonostante salti temporali, indizi e colpi di scena siano degni delle più complesse matrioske.
Stavolta però l’ inizio è più macchinoso e occorre tempo prima di provare il desiderio di non mollare più la lettura fino al termine delle pagine.
Un’ ambientazione così vasta, sonnolenta e labirintica non consente a Deaver di mantenere costante la frenesia del racconto, anche se l’ autore nativo di Chicago si fa ampiamente perdonare con una parte finale avvincente e imprevedibile che eccelle per ritmo e qualità dei colpi di scena capaci di stupire anche i lettori più smaliziati.
Un altro pregio che ancora una volta ho riscontrato in questa serie è dato dal fatto che un personaggio come Rhyme è una tale miniera di conoscenze scientifiche, geografiche e mediche che dopo ogni avventura si ha la piacevole sensazione di possedere qualche curiosa e utile nozione in più rispetto a prima.

In conclusione “ La sedia vuota “ si attesta su livelli ottimi grazie ad un elettrizzante finale, seppur complessivamente non sia a mio parere al pari dei migliori e precedenti lavori dello scrittore.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Settembre, 2017
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Cheyrem ? Cheyrem.

Eroe di guerra, diplomatico, aviatore, cineasta, scrittore, pittore. Se la quantità di mansioni svolte non bastasse a dare un' idea della personalità di un autore istrionico come Romain Gary, un episodio in particolare tra i tanti è curioso per descriverne le gesta.
Basti pensare che dopo aver già vinto nel 1956 il prestigioso premio letterario Goncourt, un riconoscimento che non può essere attribuito ad uno scrittore più di una volta, riuscì a rivincerlo nel 1975 sotto mentite spoglie usando uno pseudonimo.
La verità fu scoperta soltanto dopo il suicidio di Gary avvenuto nel 1980.

Il protagonista nonchè voce narrante del romanzo è Momo, un bambino arabo di circa dieci anni che accoglie il lettore parlando immediatamente del sesto piano del palazzo in cui vive. Un palazzo vecchio situato a Belleville, nella periferia di Parigi più colorata, multietnica.
Salire e scendere ogni volta le scale per arrivare al sesto piano è una vera fatica. Soprattutto per Madame Rosa, l' anziana e ingombrante ex prostituta ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento tedeschi che si occupa di allevare e crescere i figli di altre donne che fanno ancora " la vita ", " il mestiere ".

Lo stesso Momo è figlio di una prostituta, e si è abituato nel corso degli anni ad intrattenere un rapporto di affetto nei confronti di Madame Rosa per cui l' uno non può fare a meno dell' altra.
Ha l' aspetto e il candore di un bambino, ma pensieri e affermazioni tradiscono una maturità ed una crudezza degne di un adulto scafato. O di un ragazzino cresciuto troppo in fretta.
Momo ne ha già viste tante nella sua breve esistenza, sa che a certe condizioni non c' è bisogno di motivi per avere paura e che avere tutta la vita davanti può essere una terribile sciagura.
" Banania sorrideva sempre. Quel birbante non era di questo mondo, aveva già quattro anni ed era ancora contento ".

Frequenta persone disperate come e più di lui. Poveracci, orfani, travestiti.
Ma ne parla con il candore e l' ingenuità tipici dei bambini capaci di fidarsi delle prime sensazioni e di vedere gli altri nel profondo, nella loro reale essenza indipendentemente da razza, sesso, religione.
In una periferia come Belleville non ci sono tempo e modo per selezionare le conoscenze sulla base di gusti e preferenze, in una selva di colori e odori dove condividere usanze e aiutarsi è necessario per la sopravvivenza.

Quella di Momo e di questo spicchio di periferia cittadina è una storia che racchiude alcuni tra i più grandi e affrontati temi della letteratura. Il dolore e la morte. La sopraffazione dei più deboli, marionette con scarso margine di manovra che con dignità tirano avanti in un mondo fin troppo duro e reale. Una storia di infanzia e vecchiaia, del rispetto e della devozione che spetta ai più anziani.
Nonostante le premesse, le ingiustizie, la realtà emarginata e le tematiche strappalacrime tra le quali non manca anche un accenno all' eutanasia, la lettura non mi ha emozionato o commosso come ho spesso sentito dire.

Non posso tuttavia negarne l' assoluta e incondizionata simpatia del piccolo protagonista e l' utilizzo di un registro linguistico raffinato e umoristico capace di trasformare argomenti difficili in una sorta di favola.
Senza contare che Gary è stato un precursore, il primo cantore di quella Francia multietnica che in seguito farà le fortune di Pennac, tra i tanti altri.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Settembre, 2017
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Sabbia e sangue, terza parte

Terzo e ultimo capitolo di una trilogia che ha consacrato Roberto Costantini come uno dei più apprezzati autori italiani di romanzi gialli degli ultimi anni, " Il male non dimentica " si propone di risolvere un mistero, avvenuto nel secondo romanzo della serie, che da più di quaranta anni rappresenta un chiodo fisso per l' ombroso Commissario Balistreri.

In una caotica Roma del 2011 tanto stupenda quanto colma di violenza, una serie di omicidi costringe Balistreri a confrontarsi dopo tanti anni con alcune vecchie conoscenze. Volti mai dimenticati come quelli del senatore Busi e di Monsignor Pizza. Gli stessi che Michele aveva imparato a conoscere da ragazzo negli anni vissuti a Tripoli, sempre intenti sin dai primi sussulti delle loro carriere a progettare affari e congetture politiche tra l' Italia e la Libia con il padre, il facoltoso ingegner Balistreri.
Riaffrontare i vecchi demoni sarà per il commissario l' occasione di dipanare la matassa di omissioni e menzogne che gli hanno sempre impedito di scoprire il volto dell' assassino della madre Italia, caduta in circostanze misteriose da una scogliera della costa libica nel 1969 e precipitosamente dichiarata suicida.
Lo stesso anno dell' ascesa al potere di Gheddafi. E sono proprio la Libia del 1969 e la Roma del 2011 i due teatri messi in scena dall' autore per scoprire una verità troppo a lungo celata.

Costantini si mantiene fedele ai due elementi principali che avevano contraddistinto i due precedenti e riusciti romanzi : l' alternanza temporale tra due epoche lontane ma accomunate dagli stessi personaggi, e l' utilizzo del genere investigativo di ampio respiro e imponente mole per evidenziare le contraddizioni e i lati oscuri di un paese nel corso degli ultimi decenni tra corruzione, intrighi politici e finanziari.
Uno stratagemma letterario che tra i tanti ha fatto la fortuna di un certo Stieg Larsson.
Ritroviamo nel Commissario Balistreri del 2011 un uomo che non ha mai smesso di fare i conti con gli errori e i fardelli del passato. Stanco e solitario ma tuttavia sereno, abituatosi a passare le giornate tra sigarette, whisky e cd di Leonard Cohen, in contrasto con l' energico e ribelle Michele degli anni libici.
Così come non tardiamo, durante la lettura, a riprendere confidenza con il brillante mix di misteri, colpi di scena, interessi politici e monetari, personaggi affascinanti che caratterizzano le circa 1800 pagine della trilogia.

Stavolta si accentuano alcuni difetti che nelle prime opere erano a malapena marginali, tra i quali un' eccessiva lunghezza della stesura in rapporto a ciò che succede, una certa predisposizione alla fanta-politica e una sospetta puntualità delle coincidenze che tuttavia non stonano completamente nel romanzo e soprattutto nel genere.
A mio avviso potevano essere gestite meglio le ripetizioni di alcuni fatti ambientati nella Libia degli anni '60 e '70 e già descritti in " Alle radici del male " . E con ripetizioni intendo interi pezzi di testo, a volte capitoli, ricopiati dal precedente romanzo. Un espediente che se da una parte facilita la comprensione della trama, dall' altra fa storcere la bocca a quei lettori perennemente affamati di novità tra un libro e l' altro di una stessa serie.

" Il male non dimentica " chiude dignitosamente una trilogia che ho letteralmente divorato e che consiglio a chiunque per qualità media dell' intreccio e spessore dei personaggi, pur risultando il capitolo meno riuscito e trascinante.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    26 Luglio, 2017
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" Divampino le libido "

La genesi di un autentico capolavoro come “ Qualcuno volò sul nido del cuculo “ non poteva non essere alquanto singolare.
Negli anni ’50 Ken Kesey è un giovane e talentuoso scrittore affascinato dagli slogan rivoluzionari della Beat Generation. Dedito all’ uso di sostanze stupefacenti, si fa assumere come inserviente nel reparto psichiatrico di un ospedale e stando a stretto contatto con i pazienti si convince del fatto che non siano affatto pazzi ma semplicemente rifiutati dalla massa, superficialmente dichiarati non idonei alle rigide imposizioni della società.

E proprio un ospedale psichiatrico è il luogo dove sono ambientate le vicende di questo intramontabile romanzo datato 1962.
In particolare ci troviamo catapultati nella corsia dei Cronici, ovvero coloro che non nutrono sufficienti speranze di guarigione, e dei volontari, cioè pazienti fragili che si ritengono non idonei a condurre una normale esistenza al di fuori delle pareti della struttura.
Il narratore è Bromden, un gigantesco pellerossa che da anni si finge sordo e muto e che accompagna il lettore tra realtà e visioni notturne causate dalle pillole che tutti sono costretti a ingurgitare prima di andare a dormire.
La direzione del reparto è affidata a Miss Ratched, fredda infermiera che dietro l’ apparenza forzatamente cordiale e rilassata nasconde una personalità crudele e tirannica, maniaca del controllo e della routine.

E poi arriva lui. Il boscaiolo impettito con i pollici infilati nelle tasche e i rinforzi di ferro sotto le scarpe. Lo spavaldo giocatore d’ azzardo. Il rissoso irlandese dai capelli rossi. Randle McMurphy.
Giunto all’ ospedale per sfuggire alla galera e ai lavori correzionali, l’ energico e provocatore ultimo arrivato ci mette poco a creare un piacevole scompiglio all’ interno del reparto con richieste e proteste non convenzionali, audaci scommesse, giochi d’ azzardo e mirabolanti racconti di donne innamorate, risse nei bar di periferia e bevute interminabili.
Tutto questo con il solo e dichiarato obiettivo di risvegliare dal torpore i compagni di corsia e di sfiancare Miss Ratched, da subito individuata da McMurphy come il simbolo della tirannia ospedaliera.

Il testo è un’ altalena di emozioni tra situazioni divertenti e riflessioni profonde volte al graduale recupero di identità private da troppo tempo di orgoglio e leggerezza.
Soltanto grazie alle gesta del rosso irlandese gli indimenticabili e originali pazienti riscoprono il potere terapeutico di una sana risata, di quanti benefici sono in grado di apportare anche solo un pizzico di coraggio e spavalderia.
Impareranno che non è mai troppo tardi affinchè anche persone stravaganti, incomprese, emarginate e destinate alla sconfitta come loro possano definirsi libere.
“ Si deve ridere delle cose dalle quali si è feriti per mantenere l’ equilibrio. Non si può essere realmente forti finchè non si vede l’ aspetto divertente delle cose “.

“ Qualcuno volò sul nido del cuculo “ è un romanzo coraggioso. Impossibile non notare le critiche all’ eccessivo uso di elettroshock e lobotomia tipico di quegli anni. “ A noi fanno ingurgitare pillole per impedire gli attacchi, e ad altri danno la scossa per farglieli venire”.
Così come forte nella società descritta da Kesey è il razzismo nei confronti di un certo tipo di individui, siano essi i pazienti o i pellerossa come Bromden.

Mi è occorso davvero poco tempo per capire che ero di fronte ad uno struggente capolavoro, destinato ad entrare nella testa e sotto la pelle di qualsiasi lettore. Al pari del bellissimo omonimo film che ne è stato tratto, girato da Milos Forman e con uno strepitoso Jack Nicholson nei panni dell’ inimitabile Randle McMurphy.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    26 Luglio, 2017
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Il Texas è uno stato mentale

“ Mucho mojo “, datato 1994, è il secondo romanzo del poliedrico Joe R. Lansdale della serie che ha come protagonisti gli inimitabili Hap Collins e Leonard Pine.
Descritto in copertina come il miglior capitolo della serie dall’ autore stesso, il testo ha rispettato in pieno le mie alte aspettative.

I protagonisti, come dicevo, sono sempre loro.
L’ uno bianco e liberale, l’ altro nero e repubblicano. Uno romantico ed eterosessuale, l’ altro cinico ed omosessuale. Diversi ma inseparabili, accomunati da un sarcasmo e da un’ ironia esaltati dai sempre meravigliosi e taglienti dialoghi di Lansdale.
I due amici si stanno riprendendo dall’ ultima estenuante avventura narrata in “ Una stagione selvaggia “ quando la morte dello zio di Leonard movimenta un’ estate texana calda e fino a quel momento immobile.
Leonard riceve infatti in eredità la casa dello zio e convince Hap, impegnato a lavorare nei campi per racimolare qualche spicciolo, ad aiutarlo a dare una sistemata alla tenuta per poi rivenderla.
Impegnati a scoperchiare le assi del vecchio pavimento, scoprono una scatola con all’ interno i resti del corpo di un bambino. E a quanto pare nel vecchio quartiere nero le improvvise sparizioni di bambini poveri non sono affatto una novità.

La bravura dell' autore si evince dal fatto che un libro di culto per gli appassionati del genere come “ Mucho mojo “ abbia tutto sommato un intreccio appena sufficiente.
I colpi di scena sono pochi e scontati, così come la ricerca del colpevole non richiede grande acume investigativo neanche nella mente del lettore più disattento. E fanno sorridere questi due giustizieri solitari appassionati di arti marziali e sostanzialmente nullafacenti che riescono a destreggiarsi in un’ indagine meglio di chiunque altro, polizia compresa.

Ma sembra che tutto questo a Lansdale non interessi. E alla fine ha ragione lui.
Perché in ogni sua opera c’ è una commistione di generi e temi affrontati difficilmente riscontrabile in altri autori. “ Mucho mojo “ non risparmia nessuno, dal tema del razzismo all’ avversità per un certo tipo di fanatismo religioso.
Perché scrive dialoghi fantastici e sa caratterizzare personaggi irripetibili come Hap e Leonard che colpiscono per carisma e originalità espressi in qualsiasi situazione da quelle comiche e rocambolesche a quelle più riflessive.

E perché è un maestro nel tratteggiare le piccole comunità rurali della sua amata terra, il Texas.
Si ha davvero la sensazione di poter prendere una birra e una sedia, di affacciarsi sulla veranda e di sedersi accanto a loro, Hap e Leonard.
Per respirare l’ immobilità dell’ aria polverosa in attesa del prossimo violento temporale. Per guardare all’ orizzonte le terre di una provincia chiusa, contraddittoria, sporca e arretrata ma che conserva un profumo e un fascino immutati nel tempo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    12 Mag, 2017
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" Capo, credo di aver risolto il caso "

Con un misto di curiosità e colpevole ritardo mi sono avvicinato a questa breve raccolta di racconti che ha rappresentato il mio primo incontro con uno scrittore leggendario per qualità e prolificità, Georges Simenon.
Nel 1938 circa Simenon è già una figura di spicco della letteratura francese, quando decide di alleggerire il tono noir e drammatico che da sempre lo aveva contraddistinto per dedicarsi alle vicende tanto poliziesche quanto simpatiche e giocose dell’ Agenzia O.

Il capo ufficiale di questa rispettata agenzia investigativa è l’ impassibile Torrence, ex ispettore della Polizia giudiziaria ed ex braccio destro per ben quindici anni del celebre commissario Maigret.
Ma ormai il buon vecchio Torrence dà il meglio di sé solo a tavola, e il ruolo del detective acuto e deduttivo è affidato al giovane Emile che dietro il fisico allampanato, i capelli rossi e gli occhiali tartarugati nasconde notevoli doti investigative.
Completano il quadro la segretaria Berthe e, in un ruolo marginale, l’ esperto in pedinamenti nonché ex borseggiatore Barbet.

I racconti raccolti nel libro sono quattro : “ Le tre barche della caletta “, “ La fioraia di Deauville “, “ Il biglietto del métro “ ed “ Emile a Bruxelles “.

Quattro avventure all’ insegna di indagini frizzanti tra giovani mogli allegre e conturbanti, esclusive località turistiche, città affollate, preziosi oggetti scomparsi, omicidi irrisolvibili per tutti tranne che per Emile e improvvisati colpevoli da assicurare alla giustizia.
Il tutto senza troppo affaticarsi, preoccupandosi tra una ricerca e l’ altra di trovare il tempo necessario per godere di una tavola ricca di specialità culinarie e generose dosi alcoliche.

La lettura scorre rapida e nonostante la leggerezza delle situazioni affrontate è indice della irrisoria facilità di comunicazione di Simenon, in attesa di affrontare sue letture più impegnative che già mi attendono sulle mensole sempre più affaticate dalla piacevole e massiccia presenza di libri.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    12 Mag, 2017
Top 100 Opinionisti  -  

Nel vento e nel mare

Come spesso mi capita, arrivo a scoprire un autore di successo soltanto anni dopo il picco massimo di diffusione e popolarità di cui ha goduto.
Preferisco prendermi il mio tempo, cercare di essere il meno influenzato possibile, vedere se il successo e la qualità di una serie si sono mantenuti negli anni prima di affrontarne il primo capitolo.
Ed è così che recentemente ho scoperto Maurizio De Giovanni e la celebre figura del commissario Ricciardi, ben undici anni dopo la sua prima comparsa.

Un bel tipo, questo trentunenne commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della regia questura di Napoli in piena epoca fascista.
Ad una prima occhiata si potrebbe affermare che tale Luigi Alfredo Ricciardi non goda tuttavia di particolare originalità bensì di caratteristiche ricorrenti che hanno fatto la fortuna del genere.
Prova ne sono il tipico carattere ostinatamente solitario e tenebroso che tuttavia non lascia indifferenti le donne che ne fanno la conoscenza, lo sguardo doloroso e trasparente, la pettinatura ribelle, l’ atteggiamento sarcastico nei confronti dei superiori ed una scelta professionale in contrasto con l’ ambiente familiare in cui è cresciuto.

C’ è però spazio per una trovata letteraria peculiare in grado di renderlo differente da qualsiasi altro personaggio, ovvero il Fatto. Ricciardi vede i morti, le anime lontane dai rispettivi cadaveri a reclamare attenzione, la loro immagine ed espressione nell’ attimo prima della fine. Sente le loro emozioni e le ultime parole ripetute nell’ ansia di trattenere l’ ultimo lembo di esistenza che scivola via.
Una capacità con cui ha imparato a convivere sin da bambino. Una condanna, una dannazione per un’ anima destinata all’ inquietudine. Quella stessa inquietudine che lo spinge a tenere sempre in movimento le mani piccole e nervose, a nasconderle nelle tasche per non rivelare la propria tensione, e a non dare un minimo di confidenza a nessuno al di fuori della devota e premurosa tata Rosa, del brigadiere Maione e del medico legale Modo.

Ed è così che ha imparato ad indagare sfruttando la conoscenza delle emozioni umane più che le parole dei testimoni. E affidandosi al fatto che i peccati originari di ogni infamia capaci di scatenare qualsiasi tipo di violenza sono la fame e l’ amore.
E proprio grazie al Fatto Ricciardi cerca di districare l’ intricata matassa dell’ omicidio di Arnaldo Vezzi, il più grande tenore del mondo la cui bravura è pari solo alla propria arroganza. Uno smacco per il regime e per il questore, che ama ripetere quanto la città sia sana e pulita.

La riuscita del romanzo sussiste nell’ eleganza dello stile di De Giovanni, abile a tracciare un giallo raffinato insolitamente attento al lato emotivo dei personaggi più che all’ azione e insuperabile nel delineare il profilo di una Napoli ventosa, contraddittoria e affascinante. Sono i notevoli pregi che ho riscontrato in questo ottimo esordio, ancora più rimarchevoli a mio avviso di un personaggio comunque interessante e intenso come Ricciardi che credo abbia espresso tutto il suo potenziale nelle successive opere.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    21 Aprile, 2017
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Non si può ripetere il passato

Ricordo che durante gli ultimi due anni del Liceo il professore di inglese ebbe la brillante idea di inserire nel programma scolastico una dettagliata panoramica sui più importanti autori britannici e americani da William Wordsworth fino a Samuel Beckett.
Uno dei nomi che più mi è rimasto impresso è proprio quello di Francis Scott Fitzgerald, per il quale ho sempre provato una certa simpatia, dovuta forse alla curiosità suscitata dal nome vagamente aristocratico o forse alla biografia travagliata di quest’ uomo che in breve tempo ha avuto tanto, ha sperperato tutto e ha goduto di fama leggendaria solo nei decenni successivi alla sua precoce morte.
“ Il grande Gatsby “ fu infatti un successo di critica più che di pubblico e solo anni dopo sarà eletto ad opera più rappresentativa della cosiddetta età del jazz.

Il capolavoro di Fitzgerald è una storia di solitudine e indifferenza e solo secondariamente una storia d’ amore.
C’ è un narratore, un aspirante scrittore di nome Nick Carraway. Ha 30 anni e nel 1922 si trasferisce a West Egg, nella zona dei nuovi ricchi di New York. E’ un solitario ed un acuto e distaccato osservatore, e nel ruolo di uomo comune catapultato nel bel mezzo di eventi speciali racconta la storia di Jay Gatsby, uno dei personaggi più romantici e infelici che la letteratura ci abbia regalato.
Chi è Gatsby ? E’ un uomo che in gioventù ha amato follemente una ragazza fascinosa e benestante senza avere i mezzi economici per mantenerla. Poi dopo alcuni anni scopre che ha sposato un altro uomo e decide di dedicare la propria vita ad accumulare in modo più o meno lecito prestigio e ricchezza, e di dare feste sfarzose e roboanti al solo scopo di poterla rincontrare. E in effetti ci riesce. Ma sono cambiati i tempi, i modi, le esigenze, le persone. Sono cambiati tutti tranne Gatsby.

Prima della lettura mi chiedevo quale fosse il segreto di questo breve romanzo simbolo di un’ epoca, quale punto di forza lo avesse consegnato all’ immortalità letteraria.
Non certo la trama, struggente ma tutt’ altro che originale e inizialmente lenta a carburare. Neanche lo stile, che reputo eccelso e straordinariamente limpido ed essenziale ma al pari di altri della propria epoca e non solo.

Poi l’ ho capito. Il segreto sta nella delicata amarezza dei dettagli. In una storia illuminata da un sole cocente, sono soltanto due le volte in cui scende la pioggia. La prima ha su Gatsby lo stesso effetto che ha sulle piante. Coltiva e rafforza le sue speranze prima e durante l’ incontro a lungo atteso con Daisy. La seconda è malinconica. Suggella uno strepitoso e doloroso finale emblema della distruzione del sogno americano, della sconfitta di un uomo romantico inadeguato a sopravvivere in un mondo vuoto e cinico, profetico nel condannare la materialità di un boom economico che sembrava infinito e che avrebbe conosciuto l’ abisso della crisi del 1929.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    03 Aprile, 2017
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Fango

Periferia romana. Un concentrato di persone, odori, immagini. Decine di zone industriali e palazzi grigi dove a storie di dignità, sopravvivenza e riscatto fanno da contraltare degrado e abbandono.
Una banda di quattro modesti criminali ha deciso di rapinare una banca per fare il colpo grosso. Per svoltare.
Sembra un colpo facile, tutto è stato preparato nei minimi dettagli. Ma qualcosa va storto e le sirene dei carabinieri arrivano più in fretta del previsto.
Nel frattempo un ingegnere, un onorevole, un generale dell’ esercito e il direttore generale di un ente pensionistico si accordano per risolvere a modo loro un problema che affligge il paese.
Ovvero il problema delle pensioni. O meglio, dei pensionati. Ce ne sono talmente tanti da aver superato di gran lunga il numero dei lavoratori e da rappresentare un freno all’ economia. Serve un taglio netto, una scrematura. Qualcuno in grado di selezionarli in base a specifici requisiti, e qualcun altro in grado di eliminarli.

Antonio Manzini, celebre per la serie del vicequestore Rocco Schiavone, mescola noir, tragedia e comicità in questo interessante e concitato romanzo datato 2007.
Il linguaggio mi ha in parte ricordato Ammaniti, mentre i personaggi principali mi hanno fatto tornare in mente il personaggio de “ Lo Zingaro “ del celebre ed emozionante film “ Lo chiamavano Jeeg Robot “, un altro delinquente di periferia alla costante ricerca del botto, del colpo grosso.

Le tematiche affrontate con ironia tragica da Manzini sono molto più profonde di quanto lo stile vagamente splatter e grottesco potrebbe lasciar supporre.
Emerge un curioso scontro tra generazioni. Tra quella dei lavoratori, di età compresa tra i 30 e i 50 anni, e quella degli anziani pensionati descritti nel libro come beati egocentrici, approfittatori.
Come se i giovani non perdonassero alla generazione precedente di aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità e di aver contribuito a creare una situazione di crisi economica scaricando tutto sulle spalle degli attuali lavoratori e contribuenti.
Non mancano riflessioni ciniche su una certa categoria di politici preoccupati a mantenere le proprie posizioni di potere, sul fenomeno dei falsi certificati di invalidità, delle pensioni anticipate o eccessivamente onerose.

I protagonisti però non sono la politica, né l’ Inps, né lo scontro generazionale. Sono gli emarginati, quelli a cui la vita non ha mai regalato niente e che oscillano tra rassegnazione e desiderio di scappare. Piccole marionette prive di senso di comunità, criceti che corrono attorno ad una giostra.
E se guardi solo davanti la giostra non ha vie di fuga, e torna sempre al punto di partenza.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    15 Marzo, 2017
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Parenti serpenti

“ Si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti; la più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia “.
La famosa citazione è tratta da “ Uomini che odiano le donne “ di Stieg Larsson. Più precisamente è l’ affermazione con cui l’ industriale Henrik Vanger affida al giornalista Mikael Blomqvist il compito di indagare all’ interno della propria famiglia alla ricerca del colpevole della scomparsa della nipote.
Il paragone tra il primo capitolo della trilogia Millennium pubblicato nel 2005 ed il secondo della celebre serie di Camilla Lackberg è tanto inevitabile quanto ingiusto. Anche “ Il Predicatore “ affida le sue fortune editoriali e commerciali al collaudato enigma a camera chiusa in stile Agatha Christie con al centro dell’ attenzione una famiglia celebre in un piccolo contesto ambientale. Verrebbe naturale dire che è una parzialmente riuscita scopiazzatura del capolavoro di Larsson. In realtà il confronto regge fino ad un certo punto; l’ opera del compianto scrittore è non solo dotata di un respiro ed un’ ambizione maggiori ma soprattutto è temporalmente successiva a quella della Lackberg, datata 2004.

L’ accoppiata sentimentale scrittrice-poliziotto tra Erica Falck e Patrick Hedstrom procede a gonfie vele, se si escludono le inevitabili fatiche vissute dalla protagonista giunta all’ ottavo mese di gravidanza. Nel bel mezzo delle ferie il dovere chiama, e Patrick è costretto a tornare in servizio per risolvere un caso insolito. Sotto al corpo di una giovane donna trovata senza vita vengono scoperti i resti di due ragazze scomparse ventiquattro anni prima nell’ estate del 1979. Il caso non era stato risolto ma aveva sconvolto l’ opinione pubblica. Gabriel Hult aveva dichiarato di aver visto il fratello Johannes in compagnia delle ragazze. Il successivo suicidio di Johannes era sembrata una tacita ammissione di colpevolezza. A complicare la faccenda il contesto familiare dei due fratelli, figli del discusso ed eccentrico pastore nonconformista Ephraim Hult che dopo la sua morte aveva lasciato tutto in eredità ad un solo ramo della famiglia trascurando l’ altro e creando non pochi dissidi.

Camilla Lackberg prosegue con un genere particolare di poliziesco che affianca l’ indagine alla vita quotidiana dei protagonisti donando alla lettura una sfumatura rosa in grado di allargare il bacino di lettori e lettrici affezionati. Rispetto al precedente “ La principessa di ghiaccio “ la riuscita è opposta. Il caso da risolvere è più affascinante e la qualità della trama migliore. La vicenda della famiglia Hult appassiona ed ho apprezzato il lento, razionale e realistico proseguire dell’ indagine affidato non solo alle intuizioni di Patrick e colleghi ma soprattutto alla parte scientifica e di laboratorio con l’ analisi delle prove acquisite, spesso trascurata nel genere. Lodevole anche il contrasto tra la spensierata tranquillità dell’ ambientazione marittima, l’ incantevole Fjallbacka, e l’ atmosfera cupa e opprimente che si respira nelle tenute padronali degli Hult.
Funziona meno invece l’ altro lato della medaglia. Nel primo romanzo la reciproca scoperta tra Patrick ed Erica e la storia della sorella di quest’ ultima, Anna, alle prese con un marito violento rappresentavano piacevoli diversivi. Stavolta il compito è affidato a ripetitive, evitabili e marginali comparse di parenti e amici desiderosi di approfittare dell’ ospitalità dei protagonisti per godersi le bellezze di Fjallbacka e piuttosto insolenti e improbabili nel pretendere di essere serviti e riveriti da una donna in avanzato stato interessante.

“ Il Predicatore “ resta un giallo intrigante, di facile e piacevole lettura che nonostante qualche riserva mi ha convinto a proseguire la serie di questa autrice di successo.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    09 Marzo, 2017
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Al lupo ! Al lupo !

“ A cantare fu il cane “ è l’ ultimo romanzo di Andrea Vitali, medico originario di Bellano e scrittore di straordinaria prolificità. Si pensi ad esempio che nel 2014 l’ autore è riuscito nell’ impresa di pubblicare sette libri.
Non è stato il mio primo incontro letterario con Vitali, di cui avevo già letto il simpatico “ Galeotto fu il collier “.
L’ ambientazione è la medesima, la graziosa Bellano degli anni ‘30 immersa in un’ insopportabile calura estiva che neanche il vicino Lago di Como riesce a stemperare.

“ Al ladro ! Al ladro “. Il grido di Emerita Panicarli, residente in via Manzoni, irrompe nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1937. Poco dopo il maldestro e noto delinquente locale Serafino Caiazzi viene acciuffato dalla guardia notturna Romeo Giudici in seguito ad uno scontro fortuito.
Cosa ci faceva il Caiazzi nei paraggi di casa Panicarli proprio quando quest’ ultima gridava “ al ladro “ ? Possibile che abbia cercato di addentrarsi in quella casa che tutti sanno essere presidiata da un temibile e vigile cane bastardino pronto ad azzannare chiunque non sia della famiglia ?
Sembra un caso di facile risoluzione per il maresciallo dei carabinieri Ernesto Maccadò. Una ghiotta occasione per l’ ampolloso corrispondente del quotidiano locale Fiorentino Crispini, da tempo a secco di articoli significativi.
A complicare la situazione la scomparsa del giovane paesano Filippo Buonavigna e la presenza temporanea del Circo Astra, la cui fama è dovuta alla conturbante escapologa eritrea Omosupe.

Anche stavolta, il romanzo di Vitali è garanzia di genuino divertimento.
I capitoli brevissimi, l’ ambientazione paesana e una galleria variopinta di personaggi più o meno pettegoli e intrecciati tra loro accompagnano rapidamente il lettore al termine della seppur non breve lettura ( 416 pagine ) con il sorriso perennemente stampato in faccia.
Personaggi comuni in cui ognuno di noi si riconosce almeno parzialmente, testimoni e attori di una piccola realtà paesana dove, specialmente all’ epoca, ognuno sapeva veramente tutto di tutti.

Le vicende narrate sono cariche di garbato umorismo e a sorprendermi di Vitali è ancora una volta l’ abilità nel sapere raccontare una storia, qualunque essa sia. Non meno rimarchevole è la capacità di utilizzare un lessico dalla particolare punteggiatura, frenetico e rapido, impreziosito di alcuni vocaboli desueti e per questo ancora più simpatici.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    08 Febbraio, 2017
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Ci si salva da soli, se si vuole

Tra i libri più venduti e premiati del 2015. Tradotto in numerosi paesi.
Un film del pluripremiato Gianni Amelio liberamente ispirato al romanzo che uscirà nelle sale cinematografiche italiane ad aprile 2017 e che avrà tra i protagonisti Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno oltre al talentuoso Elio Germano.
Dopo tali premesse, non potevo rimandare oltre la lettura del libro del bravo Lorenzo Marone.
Per una volta il successo è meritato, e di questi tempi non è così scontato.

La storia è raccontata in prima persona da Cesare Annunziata. 77 anni, vedovo da cinque e reduce da un infarto ma non per questo riluttante al fumo, al vino e alla preziosa pillola blu che gli consente di avere ancora abituali incontri con la matura ex infermiera, ora prostituta, Rossana.
Un settantasettenne burbero, egoista, schietto, convinto del fatto che ad un anziano sia permesso pensare solo a se stesso. Rifiuta qualsiasi tipo di socializzazione che esuli dalla inevitabile frequentazione dei propri condomini e dei due figli Sveva e Dante che cerca di frequentare e influenzare il meno possibile pur accorgendosi di tutto ciò che li circonda.
Perché Cesare è un uomo acuto, lucido e mai banale nell’ analizzare un passato pieno di rimorsi, possibilità mal sfruttate, paletti mentali e parole non dette. Stando ben attento a non risultare malinconico, perché la malinconia è una cosa da vecchi e lui non ha la minima intenzione di sentirsi vecchio.
Poi nell’ elegante condominio arriva una giovane coppia, e l’ arzillo protagonista si convince del fatto che l’ uomo abbia la brutta abitudine di picchiare la compagna. Lei si chiama Emma, e Cesare per una volta nella vita potrebbe non far finta di non vedere. “ Non mi è bastata una vita per imparare a porgere la mano senza tremare “.

Non è mai troppo tardi per prendersi cura di qualcuno ?
Se lo chiede Cesare e me lo sono chiesto io, infatti se c’ una cosa che lo stile frizzante di Marone è in grado di suscitare è l’ immedesimazione nel protagonista.
Perché in fondo “ La tentazione di essere felici “ è un racconto di formazione originale che non tratta dell’ infanzia né dell’ adolescenza ma della vecchiaia, è l’ evolversi di una consapevolezza di se stesso che non ha mai fine.
È una lunga riflessione sui bilanci di una vita, sull’ essere anziano e ancor prima uomo, marito, padre di famiglia e nonno. E tutti noi possiamo rispecchiarci in almeno una di queste fasi dell’ esistenza.
Un inno al carpe diem favorito da un personaggio straordinario e da un linguaggio ironico e sagace che si erge a maschera e strumento di difesa per affrontare il peso del quotidiano che può essere schiacciante. Cesare ci rende partecipi di una storia divertente, commovente e genuina che fa vibrare corde emotive universali. Una storia che spinge la testa a voltarsi lontano dal libro, perché dietro le numerose sentenze e frasi che mi sono trovato a rileggere più di una volta prima di proseguire ci sono verità scomode che ben conosciamo e che spesso preferiamo ignorare.
Forse persino troppe verità, troppe sentenze, troppi aforismi e insegnamenti vagamente retorici laddove il confine tra saggezza e ovvietà non è sempre di facile demarcazione.
Ma è anche vero che gli argomenti delicati di cui si fa carico il testo sono tanti, tutti trattati con sensibilità, e se c’ è un personaggio a cui non stonano così tante dure verità in bocca quello è proprio Cesare.
Completa il quadro una Napoli borghese, colorata e profumata, lontana dalle periferie degradate e che non viene spesso raccontata.

Forse ci sono troppi ammiccamenti al lettore, forse il finale è un po’ frettoloso, ma resta vivo e impresso il messaggio di una lettura emozionante. Non è mai troppo tardi per capire chi siamo, per godersela e per essere, o almeno tentare di essere, felici. Anche dopo tanti sbagli. Anche dopo 77 anni.

PS : sfido chiunque abbia letto il libro a non aver pensato di compilare una propria lista di “ mi piace “.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    08 Febbraio, 2017
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Morire non è il peggiore degli incubi

Sulla scia di Stieg Larsson, i Lars Kepler proseguono idealmente un filone di letteratura poliziesca scandinava che sfrutta il genere thriller senza rinunciare ad una critica sociale e politica volta a scardinare l’ idea di paese pulito e immacolato che contraddistingue la Svezia.
Non a caso il nome fittizio della coppia di coniugi scrittori è un omaggio non soltanto allo scienziato Keplero ma anche al compianto Stieg Larsson.

In questo caso si parla di armi, in particolare dal romanzo la Svezia risulta essere l’ ottavo paese esportatore di armi al mondo.
Ed è in questo terreno minato che si muove l’ indagine dell’ ispettore finlandese Joona Linna, collocato alla sezione omicidi della polizia di Stoccolma.
Già nel primo romanzo della serie, il caso editoriale “ L’ ipnotista “, abbiamo avuto modo di conoscere la scaltrezza, la straordinaria capacità deduttiva e la sensibilità del protagonista. Ad aiutarlo nell’ indagine un personaggio che con ogni probabilità troverò anche nei successivi libri della coppia di scrittori. Sto parlando di Saga Bauer, commissario della Sapo tanto bella quanto competente.
Ma di quale indagine si tratta ? I casi da affrontare sono apparentemente due. Il primo ha tutta l’ aria di essere un suicidio e riguarda la morte del direttore generale dell’ Autorità per il controllo dei prodotti strategici, un ente che si occupa di autorizzare le operazioni di esportazione di armi.
Il secondo è a tutti gli effetti un omicidio, a bordo di una barca. Sembra si tratti di Penelope Fernandez, una nota e convinta pacifista e attivista.

“ L’ esecutore “ è stata la mia terza fatica letteraria targata Lars Kepler.
La prima, “ L’ ipnotista “, fu dettata dalla curiosità di un successo in termini di vendite clamoroso. Curiosità parzialmente ripagata da un onesto romanzo d’ intrattenimento. Invece portare a termine la seconda, l’ autoconclusivo “ Il porto delle anime “, fu una vera e propria fatica.
“ L’ esecutore “ per fortuna ricorda più la prima della seconda, pur soffrendo di eccessiva lunghezza, avvertita soprattutto nella parte centrale e non corrisposta da un’ adeguata qualità dei colpi di scena che in compenso sono numerosi.
Laddove il primo romanzo della serie si dilungava in flashback in parte evitabili, qui c’è più azione di stampo cinematografico.
La tensione emotiva è tutt’ altro che elevata ma i capitoli brevi snelliscono la lettura ( e rimandano il sonno ) oltre a favorire un ritmo narrativo tutto sommato incalzante.

Resta il consueto fascino della capitale svedese, anche se stavolta la vicenda è ambientata in estate e non c’ è spazio per il tipico romanticismo da paesaggio invernale. Come spesso capita in una serie di romanzi, dal secondo capitolo in poi inizia un percorso di approfondimento psicologico dei protagonisti da proseguire nelle prossime letture che stando a quanto ho letto e sentito dire dovrebbero essere di un livello superiore rispetto a “ L’ esecutore “ che resta tuttavia un dignitoso thriller.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    15 Dicembre, 2016
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Onesto nella coscienza

Quarantottenne di bell’ aspetto, brillante, mentitore cronico, circondato da donne di vario genere ma ugualmente seducenti.
È Danio Ascari. Psicologo milanese separato dalla conturbante moglie Eliana, attualmente fidanzato con la giovane Chiara ma sempre attento alle necessità delle pazienti che affollano il suo studio. Tra le quali spicca Cristiana, “ dea bresciana “ dalla sensualità sfrenata.
La vita di Danio scorre relativamente tranquilla tra lavoro, buona musica e qualche brutto sogno di troppo pronto a ricordargli i fantasmi di un passato oscuro.
Fino al giorno in cui trova un diario sulla panchina di un parco. Un diario di una diciottenne che ne ha sparsi altri cinque per la città, come messaggi nelle bottiglie nella speranza che qualcuno si accorga di lei.

Raul Montanari scrive bene, me ne ero già accorto nell’ eccellente “ Il regno degli amici “ e qui ne ho avuto la conferma.
Una sintassi magnetica la cui potenza espressiva è amplificata dalla focalizzazione interna che permette al lettore di entrare nella testa dello stravagante protagonista.

Ho ritrovato numerosi temi propri dei principali e più riusciti romanzi dell’ autore.
Intanto l’ ambientazione, una controversa Milano spettatrice di situazioni e temi attorno ai quali è cresciuto il genere del post-noir : verità nascoste, difficoltosi rapporti familiari, violenza, crudeltà, disorientamento. Il tutto lontano dalle figure di commissari e ispettori tipici del noir.
Sono sufficienti gli uomini comuni, con le loro infinite debolezze, per imbastire una trama che indaga l’ animo umano, il senso della vita, l’ amore.
Torna poi il tema del pericolo di un passato inesorabile che può essere ritardato ma mai eluso, che prima o poi presenta il conto.
È di questo che parla infatti “ Strane cose, domani “, della ricerca della redenzione e di come un uomo, nella fattispecie Danio, si pone di fronte al proprio personalissimo giudizio universale. C’ è una sorta di manifesta inferiorità dell’ essere umano rispetto al destino, alla quotidianità, ai colpi di scena di un’ esistenza che riavvolge il nastro, rievoca situazioni ingenuamente ritenute sepolte come nelle migliori teorie nichiliste dell’ eterno ritorno e del tempo ciclico.

Simbolica nel testo la frequente presenza di due mongolfiere vicine e immobili nel cielo, emblemi forse di un presente costantemente incerto e della facilità con cui la vita può spingerci e talvolta obbligarci a prendere una strada o l’ altra. O forse un invito a vedere le cose da prospettive diverse, perché tutto è più bello se osservato dalla giusta panoramica come nel caso di una mongolfiera.
Ma chi lo sa, in fondo Montanari è un autore mistico. E non lo dico io, l’ ha detto Camilleri. Io aggiungo soltanto, e non credo di sbagliare, che è davvero un bravo scrittore.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    09 Dicembre, 2016
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Intra ecclesiam nulla salus

Roma, 1624. Per le sorti ed il futuro della Chiesa Cattolica è un momento delicato.
Il cielo sopra Campo de’ Fiori sembra riflettere ancora le fiamme che bruciarono Giordano Bruno all’ inizio del secolo. Nel frattempo la Chiesa ha occhi e orecchie puntati in direzione delle idee non convenzionali di un fisico e astronomo di una certa fama, Galileo Galilei. La crescente diffusione della stampa e di ideali eretici minacciano l’ integrità della Controriforma stabilita in seguito al Concilio di Trento.

In una notte fredda e buia avviene un delitto. Il corpo di un religioso viene trovato schiacciato in un torchio tipografico, nella bottega di uno stampatore. Ha la bocca piena di fogli scritti. Ed è un membro dell’ Indice, una Congregazione che funge da strumento di censura verso testi e libri ritenuti anticlericali, sobillatori.
Si capisce subito che il movente dell’ omicidio può essere religioso. Ma il periodo è turbolento, e manca poco al prossimo Giubileo. Serve l’ intervento di un inquisitore in grado di indagare nel silenzio, “ senza il chiasso dei birri “.

Uno come Girolamo Svampa, frate domenicano dal passato oscuro e dal carattere ombroso, insensibile, scontroso. Una sorta di Sherlock Holmes del Secolo di Ferro.
“ Ama dar ragione solo a sé stesso “. Lo Svampa prende le distanze dal metodo inquisitorio e dalla cultura del sospetto. Giudicare in base al sospetto equivale a commettere un peccato mortale. Soltanto il passato ha carattere di certezza, osservandolo con razionalità si possono ricostruire eventi già accaduti grazie alle prove e ai rapporti di causa ed effetto tra le coincidenze.
Il compito di aiutare Fra’ Girolamo in questa ardua impresa spetta al fedele bravo Cagnolo Alfieri, e al segretario dell’ Indice, Padre Capiferro.
E se la realtà dovesse farsi fin troppo opprimente, lo Svampa può sempre contare su una boccetta di laudano che porta sempre con sé, un composto a base di alcol e oppio capace di offuscare i pensieri più soffocanti.

L’ ambientazione dona al romanzo fascino ed originalità e compensa una trama fitta e ben congegnata ma di non immediata e facile comprensione.
Immagino che le vicende dello Svampa avranno un futuro, è evidente che la creazione di questo personaggio ha avuto una “ gestazione “ elaborata e lunga nella mente di Marcello Simoni, che con uno stile ed una scrittura raffinati ha saputo creare un protagonista forse non capace di rapire il lettore in quanto ad emotività, ma dal sicuro potenziale letterario.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    26 Novembre, 2016
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Quella cosa non è mia figlia

Era il 1973 quando nelle sale cinematografiche di tutto il mondo faceva la sua comparsa “ L’ Esorcista “. Vero e proprio capolavoro del genere horror, la pellicola di William Friedkin sconvolse un pubblico non ancora abituato alla crudeltà e al terrore di certe immagini, tanto da diventare nel tempo uno dei film più imitati della storia.
L’ importanza del film è tale che pochi ricordano che fu tratto da un romanzo di William Peter Blatty datato 1971, a sua volta ispirato ad un probabile caso di possessione demoniaca avvenuto nel Maryland.
L’ unico difetto che riscontro nel romanzo è che non ha più segreti, ha ormai esaurito dopo ben 45 anni l’ effetto dei numerosi colpi di scena e delle sequenze inquietanti che riempiono le pagine.

Tutti conoscono la vicenda della dodicenne Regan MacNeil, figlia dell’ attrice Chris.
Una famiglia benestante immersa in una realtà rassicurante, una figlia modello. Fino a che le cose, lentamente, iniziano a cambiare. I colpi in soffitta, gli sbalzi di temperatura nella camera della bambina, le crisi di sonnambulismo, l’ amico immaginario, l’ improvvisa tendenza al turpiloquio e alla violenza fisica.
Entrano in gioco dottori,perfino preti. Spicca la figura di Padre Karras, un gesuita specializzato in psichiatria che attraversa una crisi di fede e che prende a cuore il caso della piccola Regan.
Cercano di spiegare l’ inspiegabile, l’ eterna lotta tra bene e male, tra fede e scienza.

La trama ossessiva oscilla tra la volontà di rifugiarsi nel porto sicuro delle spiegazioni razionali e plausibili ( isteria, autosuggestione, schizofrenia ) e il terrore di trovarsi al cospetto dell’ ignoto, del demonio, di ciò che si riteneva fossero soltanto antiche superstizioni medievali.
Semplicemente è successo che la tenera Regan un giorno si è svegliata e si è trasformata in un’ altra persona.
Per questo il testo è ancora così conturbante, perché al termine della lettura restiamo con la sensazione che possa accadere a chiunque. Perché il libro non parla di mostri o altre creature mitologiche tipiche del genere, bensì del Male che si insinua in un contesto quotidiano, normale, e che trova terreno fertile nelle nostre debolezze e nevrosi, nelle distrazioni e nelle disillusioni che ci portiamo dentro.

Colpiscono l’ impressionante perfezione strutturale del romanzo, la prosa raffinata e geometrica, la brillantezza dei dialoghi e ancora di più la profondità dell’ analisi psicologica degli indimenticabili personaggi, impareggiabile in alcune scene per qualità delle sfumature narrative e ricchezza contenutistica.

Cercare di commentare “ L’ Esorcista “ è un’ impresa ardua, quasi inutile.
Ci sono opere per le quali i riconoscimenti, la fama mantenuta nel tempo e le molteplici interpretazioni e imitazioni sono sufficienti a tracciarne un profilo di eccellenza.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    17 Novembre, 2016
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Arancia meccanica

Copenaghen, 2008. Sulla scrivania dell’ ispettore Carl Morck arriva un altro caso.
Ma chi è Carl Morck ? Il protagonista dei romanzi di Jussi Adler Olsen, celebre scrittore danese salito alla ribalta con i romanzi della Sezione Q.

Carl non si è ancora ripreso dalla tragica sparatoria in cui un anno prima ha perso la vita un collega ed un altro è rimasto paralizzato in un letto d’ ospedale. Un avvenimento indelebile e impunito.
I superiori hanno pensato di allontanarlo dai quartieri alti della centrale di Polizia, relegandolo in una specie di ampio scantinato dimesso e rinominato appunto Sezione Q. Con l’ aiuto del curioso assistente siriano Assad, Carl si occupa di risolvere vecchi casi insoluti, e il recente intrigo della scomparsa della parlamentare Merete Lyngaard ( analizzato nel primo romanzo della serie ) ha contribuito a far tornare nel burbero protagonista la passione per il proprio mestiere.

Stavolta il caso è diverso. Il fascicolo dice chiaramente che un colpevole c’è, che l’ assassino di due fratelli brutalmente uccisi venti anni prima si è consegnato alle autorità e si trova in carcere. Bjarne Thogersen.
Allora chi è stato a lasciare l’ incartamento del caso sulla scrivania di Carl ? E soprattutto, chi sono gli amici che Thogersen frequentava ai tempi dell’ università e che destarono molti sospetti agli inquirenti ? Un gruppo di giovani di successo cui la vita ha riservato potere e soldi in abbondanza, gente influente abituata a sfide di ogni genere, a pensare in grande. Eppure circolano storie macabre sugli anni del college. Violenze dimenticate. Labbra cucite. Possibile che Thogersen non fosse l’ unico assassino ?

Dopo poche pagine, anche un lettore non pratico di thriller si accorge che manca l’ elemento strutturale su cui si basa il genere ovvero il mistero sull’ identità del colpevole, nota fin dall’ inizio della vicenda.
L’ autore è abile nel trasformare quello che apparentemente può sembrare un difetto, una mancanza di suspense e di colpi di scena, in un punto di forza. Sono il perché ed il come che interessano il lettore, non il chi.

La storia scorre rapidamente tra l’ evolversi dell’ indagine e alcuni riusciti momenti comici tra Carl, poliziotto asociale e con un personale senso della giustizia che saprà entrare nel cuore degli appassionati, e Assad, assistente bizzarro e simpatico tanto che solo la sua comparsa tra le pagine strappa un immediato sorriso.
Ai due originali elementi si aggiunge un’ altra assistente, Rose. Sfacciata, sarcastica, vagamente demenziale e fin troppo spontanea per i gusti di Carl, il nuovo acquisto della Sezione Q completa un trio estremamente frizzante ed empatico.

“ Battuta di caccia “ è il secondo romanzo di una serie che conta fino ad ora sei volumi. Un thriller non convenzionale e non privo di difetti ma che appassiona per la freschezza della narrazione e per gli irresistibili protagonisti che popolano la Sezione Q.
Completa il quadro una Copenaghen avvolgente, città che ho visitato e che ricordo sempre volentieri.

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Romanzi storici
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    20 Ottobre, 2016
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Solo se io ho la tua anima

Langhe. Piemonte. Novembre 1944. Il poco più che ventenne partigiano Milton, uscito in pattuglia con un compagno, si trova davanti alla villa di Fulvia, una coetanea di cui è follemente innamorato e con cui era solito trascorrere intere giornate ad ascoltare canzoni straniere e a tradurle.
Fulvia non c’ è, si è trasferita per sfuggire alla pericolosità della guerra. La guardiana della villa, rimasta a presidiare la residenza, riconosce Milton e gli permette di entrare nella tenuta per affievolire la nostalgia del luogo che attanaglia il giovane.
Dalla conversazione con la donna, intuisce che negli ultimi tempi Fulvia ha intrecciato una relazione segreta con Giorgio Clerici, partigiano nonché suo migliore amico.
Milton deve sapere, deve trovare Giorgio e scoprire fino a che punto gli appartiene il cuore dell’amata Fulvia. "Non poteva più vivere senza sapere, e soprattutto, non poteva morire senza sapere".

"Una questione privata", pubblicato postumo nel 1963, ha molteplici chiavi di lettura.

Si tratta in primo luogo di un romanzo sulla Resistenza. Perché se per larghi tratti la vicenda parla appunto di una questione privata, in ogni pagina si respira il clima collettivo del periodo, i rapporti con i fascisti, con la popolazione e tra i partigiani stessi divisi in più schieramenti.
Sentiamo addosso la pressione di una natura personificata, descritta magnificamente, e che tra nebbia, pioggia e fango sembra accompagnare lo smarrimento, la difficoltà e la solitudine della ricerca. Proviamo compassione per questi giovani uomini fragili considerati vecchi a venticinque anni e a cui resta con ogni probabilità poco da vivere.
E per non correre il rischio che la questione personale oscuri la Storia generale, Fenoglio ricorda al lettore che nessuno è innocente, come nel capitolo crudo e opprimente dedicato alle due giovanissime staffette partigiane giustiziate.

Un romanzo ariostesco, come lo definì Calvino, per la cieca ossessione amorosa che lo pervade, per la ricerca irrazionale e pericolosa per se stesso e per gli altri che intraprende Milton, e per la chimera di una verità illusoria, irraggiungibile.

Un romanzo sulla solitudine, non soltanto perché Milton agisce da solo, ma soprattutto perché è un protagonista atipico per una storia sulla Resistenza. Curvo, magro, dotato di un'ottima formazione scolastica e culturale, quasi a voler assecondare la tendenza della letteratura otto-novecentesca a trattare della figura dell'intellettuale isolato.

Infine un romanzo di formazione che racconta di un amore infantile e idealizzato, in contrasto con la maturità che esige la vita partigiana tra fatiche, dolori. Con protagonisti comuni ventenni trovatisi in circostanze eccezionali e defraudati della spensierata giovinezza.

Nel sentimento amoroso Milton trova una via di fuga. Anteponendo lo scopo privato alla causa generale non è un inetto o un vigliacco, è soltanto un giovane uomo imperfetto che cerca rassicurazioni e felicità laddove sembra impossibile trovarne.
Niente ha senso, neppure la Resistenza, se alla fine della guerra non ci sarà Fulvia ad aspettarlo tra le sue braccia. Come se la Resistenza fosse una tappa transitoria, un contorno sfumato eppure inevitabile e necessario.

Il tutto è impreziosito da uno stile asciutto, essenziale eppure capace di raffinate descrizioni e squisiti lirismi.
"Una questione privata" è una delle tante perle imperdibili della letteratura italiana del Novecento.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    10 Ottobre, 2016
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La Tragedia

Sono passati quattro anni dai fatti del precedente romanzo, “La verità sul caso Harry Quebert”, in cui Marcus Goldman, astro nascente della letteratura americana, si era scoperto detective improvvisato in un caso di omicidio che aveva coinvolto un suo professore universitario nonché maestro di vita.
Joel Dicker rispolvera il personaggio principale del fortunato esordio che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e anche stavolta, ne “Il libro dei Baltimore”, emerge la figura del protagonista-scrittore capace di portare alla luce vecchie verità e segreti inconfessabili, in una sorta di catarsi liberatoria.

Al centro della lente di ingrandimento c’è una grande famiglia, quella dei Goldman.
Ci sono i Goldman di Montclair, nel New Jersey, di cui fanno parte Marcus e i propri genitori. Una tranquilla famiglia della classe media.
E poi i Goldman di Baltimore, capitanati dallo zio avvocato, dalla zia dottoressa e dai cugini di Marcus, Hillel e Woody. Quattro elementi che sembrano appartenere ad un’altra specie. Disinvolti, venerati, facoltosi.
La vicenda narrata inizia nel 2004, quando lo zio Saul chiama Marcus pregandolo di recarsi urgentemente a Baltimore. Manca un mese alla cosiddetta “Tragedia”.
Otto anni dopo, nel 2012, Marcus decide di raccontare la storia della propria famiglia tra gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e delle vacanze trascorse con i cugini nelle numerose e sfarzose residenze dei Goldman di Baltimore. Fino al giorno della “Tragedia”.

Il romanzo ha molti punti di contatto con la precedente opera. Innanzitutto il medesimo e collaudato espediente che divide la narrazione tra passato e presente, come in un gioco a livelli in cui per muoversi verso le tappe successive, verso il futuro, è necessario aver completato i passaggi precedenti.
Rimane, come già anticipato, la figura dello scrittore che indaga e scopre la verità. Cambia totalmente la materia di analisi. Il primo romanzo, un giallo in piena regola, affrontava la risoluzione di un omicidio. Questo romanzo non è un poliziesco, ma una saga familiare lunga più di venti anni.

Ad una buona prosa e una capacità indubbia di intrattenere il lettore si contrappongono dialoghi non sempre all’altezza, esageratamente carichi di emozioni e sentimenti forzati o pronunciati da personaggi vagamente stereotipati. Difetti che, in minor parte, affliggevano anche “La verità sul caso Harry Quebert”.
Che un ramo familiare, i Goldman di Baltimore, sia composto da un famoso avvocato, da una stimata dottoressa, da un ragazzino che a dieci anni tiene testa a presidi scolastici e insegnanti dimostrando profonde conoscenze storiche e politiche, dall’altro figlio dotato di un fisico tale da poter eccellere in qualsiasi sport, i quali vanno ad aggiungersi ad un cugino divenuto scrittore affermato e ad una celebre cantante, mi è parso fin troppo eccessivo. Inoltre le tematiche affrontate sono talmente tante che il testo, in alcuni punti, finisce per ricordare una soap opera pomeridiana.

Al netto di questi evidenti limiti, e di un intreccio meno interessante e accattivante del precedente, il romanzo raggiunge una risicata sufficienza parlando della bellezza fragile dell’adolescenza, di quelle promesse di tenera fedeltà che facciamo da ragazzini e che poi a volte scopriamo di non poter mantenere, dei mali che si possono annidare nelle famiglie quando l’invidia e i sotterfugi prendono il sopravvento. E se ho letto quasi 600 pagine in pochi giorni, evidentemente il libro non manca di scorrevolezza e buona gestione del ritmo narrativo.

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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    26 Settembre, 2016
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Ogni uomo è un poeta

Un’agenzia che distribuisce riviste, una redazione di un quotidiano, un magazzino contenente pezzi di ricambio per auto, una fabbrica di biscotti per cani, un negozio di abbigliamento, una ditta di impianti di luce al neon, un’altra specializzata in articoli natalizi, un albergo.
Henry Chinaski, alter ego letterario di Charles Bukowski, è un “factotum”. Svolge con quotidiana indifferenza una serie interminabile di squallide mansioni, nei più disparati posti di lavoro, da una parte all’altra dell’America tra New Orleans, Los Angeles, New York, Filadelfia, Miami, St Louis.
“Fare i bagagli è sempre divertente”.

“Factotum” è il racconto di un uomo solitario che vive alla giornata tra umiliazioni di vario genere, ubriacature pesanti, scommesse alle corse dei cavalli, estemporanee compagnie discutibili ed occasionali donne più o meno disperate. Un individuo fondamentalmente passivo, privo di ambizioni, che passa da un incarico all’altro in modo quasi casuale, con la sola preoccupazione di guadagnare quel poco che basta per bere, mangiare, trovare un posto dove dormire.
Bukowski descrive il personaggio (e di conseguenza se stesso) senza alcun intento moralistico o rivoluzionario. Non c’è il fascino del ribelle, del maledetto, del “bad boy”. È semplicemente la storia di un perdente che si racconta per quello che è e tratta il fallimento con un’indifferenza opposta all’ideale del sogno americano, imbevuto di determinazione ferrea e quotidiano duro lavoro.
Non è assolutamente adatto a vivere in un universo competitivo, nel quale si esigono requisiti idonei per svolgere perfino le mansioni più ripugnanti. Non sopporta i colloqui di lavoro. Detesta i moduli per l’impiego da compilare. Così come il fatto che per essere assunto deve omettere le diciotto segnalazioni per ubriachezza molesta e i lunghi periodi di disoccupazione, passati in compagnia di qualche poveraccia in fuga da un manicomio o da un matrimonio disastroso.
Non riesce a capire come possa essere divertente alzarsi alle sei di mattina, saltare giù dal letto, mangiare qualcosa controvoglia, andare in bagno, buttarsi nel traffico per raggiungere un luogo dove si fanno i soldi per conto di qualcun altro. Preferirebbe restare a letto, a bere. Perché quando beve, il mondo è sempre là fuori ad aspettarlo, ma per un breve lasso di tempo sembra concedergli una tregua.

E in mezzo alla totale assenza di una trama tradizionale e alla fastidiosa sensazione che niente possa mai cambiare nel protagonista, Bukowski sa sempre regalare perle rare, disperate, di sincera consapevolezza e conoscenza dell’animo umano.

“Quella notte dormii al parco. Fui svegliato da quello che sembrava un ruggito. Non sapevo che gli alligatori ruggissero. Sentii un rumore secco di mascelle che si chiudevano. In mezzo allo stagno c’era un marinaio ubriaco e teneva uno degli alligatori per la coda. L’animale cercava di voltarsi e addentare il marinaio ma aveva qualche difficoltà. Le mascelle erano spaventose, ma lente e sconclusionate. Un altro marinaio e una ragazza stavano a guardare e ridevano. Poi il marinaio baciò la ragazza e se ne andarono insieme, lasciando l’altro a lottare con l’alligatore”.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    20 Settembre, 2016
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"Syttende mai"

Oslo, 1999. Harry Hole, investigatore della sezione omicidi, ha un ulteriore motivo per essere più asociale e distaccato del solito. Un’inaspettata promozione da ispettore a commissario ed il conseguente trasferimento ai servizi di sicurezza lo allontanano dalle uniche due persone che mostrano un sincero interesse nei suoi confronti: la competente e premurosa collega Ellen ed il capo divisione Moller, che tanto desidererebbe trasferirsi in un ufficio con meno politica e relazioni da gestire.
Tra vecchie scartoffie ed il monitoraggio dei crescenti movimenti neonazisti che vanno affermandosi nella penisola scandinava, l’attenzione di Hole è rivolta al ritrovamento di un particolare tipo di bossoli appartenenti ad un raro e potente fucile di precisione di fabbricazione tedesca, il cui proprietario risulta sconosciuto così come ignoti sono i canali utilizzati per aver fatto entrare illecitamente un’arma di tale calibro nel paese.

Dopo due episodi introduttivi come “Il pipistrello” e “Scarafaggi”, ambientati rispettivamente in Australia e in Thailandia, con questo terzo libro il livello qualitativo si alza.
Il romanzo è strutturato secondo uno stratagemma collaudato, che prevede l’alternanza narrativa tra il presente ed un’ambientazione collocata nel passato.
Sono infatti presenti numerosi flashback che hanno per protagonisti un piccolo gruppo di soldati norvegesi, impegnati a combattere a fianco dell’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale. Cinque giovani con grandi conflitti interni, spinti dalla sfiducia nei confronti di un governo nazionale arrendevole, costretto a rifugiarsi a Londra durante l’occupazione straniera.

Gli ingredienti miscelati da Nesbo sono tanti, forse troppi. La guerra, il neonazismo, la politica, il traffico d’ armi.
L’autore, uno dei migliori nel panorama del genere poliziesco contemporaneo, è tuttavia abile tanto nella gestione dei personaggi e nella loro evoluzione umana e psicologica, quanto nella scelta, azzeccata, di rinunciare alla classica dicotomia tra bene e male pronta a prendere il sopravvento ogni volta che si parla di un tema come il conflitto mondiale.

La veridicità storica non è necessariamente un parametro fondamentale per la riuscita di un thriller, ma “Il pettirosso” ha il pregio di incuriosire il lettore sul ruolo che la Norvegia ha avuto nel conflitto, sul tema delle successive epurazioni ed esecuzioni, sul fatto che gli alti vertici di una nazione abbiano il potere di diffondere una precisa e limitata versione della vicenda, idonea a creare un certo tipo di ricordi passati e di eredità futura.

E infine c’ è Harry Hole. Solitario, testardo, ombroso, intuitivo, con una forte tendenza a ricadere nei fantasmi della depressione e dell’alcolismo. Sono caratteristiche riscontrate in molti altri personaggi appartenenti allo stesso filone letterario, ma risulta decisiva la capacità dell’autore nel tratteggiare una personalità unica e carismatica, per quanto complessa.

“Il novanta per cento dei pettirossi migra verso sud. Alcuni si affidano alla sorte e rimangono qui. Sperano che l’inverno sia mite, per scegliersi i luoghi migliori per la nidificazione prima che gli altri ritornino. Può andare bene, ma se sbagliano muoiono. Questo è un rischio calcolato. Se decidi di rischiare può darsi che una notte tu cada da un ramo congelato e non ti scongeli prima della primavera. Se sei un vigliacco può darsi che al ritorno tu non riesca ad accoppiarti. Sono gli eterni problemi che affrontiamo nella vita”.

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Classici
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    07 Settembre, 2016
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Una rete nell'acqua

La bimba apparve, si fermò interdetta, poi corse verso Duroy battendo le mani, tutta contenta nel vederlo, e gridò: “Ah, Bel Ami!”.
La Signora De Marelle scoppiò a ridere: “Ma pensa! Bel Ami! Laurine l'ha battezzata! È un bel nomignolo amichevole; la chiamerò anch'io Bel Ami!”.

Bel Ami è Georges Duroy, uno dei personaggi più machiavellici, manipolatori e calcolatori che la storia della letteratura ricordi.
Figlio di un oste, privo di qualsiasi titolo studentesco e con alle spalle una breve ed inconcludente carriera militare, Duroy si trasferisce a Parigi nella speranza di diventare ricco e affermato come quei signori così ben vestiti e altezzosi che vede frequentare i locali più in vista della capitale francese.
Sarà l’incontro con Charles Forestier, vecchio commilitone di Georges ed ora caporedattore politico di un poco stimato quotidiano, ad aprirgli le porte di una scalata sociale di cui l’iniziale modesto impiego a “La Vie Française” è soltanto l’inizio.

Se un freddo ed egoista arrampicatore sociale riesce nell’impresa di non risultare eccessivamente respingente, il merito è di uno scrittore arguto come Guy De Maupassant.
Formidabile nelle descrizioni, ironico e brillante nei dialoghi, frizzante e beffardo nello stile, l’autore compie un lavoro certosino nella caratterizzazione di Duroy.
Perché se da un lato non possiamo fare a meno di storcere la bocca di fronte all’arrogante e vigliacca ascesa di Georges, dall’altra non si può non riconoscergli una smisurata voglia di fare, un’innata ambizione animata da una passione e da una volontà di emergere tali da permettergli di essere sempre un passo avanti, infallibile nel capire come e quando muoversi, nello sfruttare le debolezze altrui, consapevole di possedere un certo ascendente sulle donne che, se ben sfruttato, lo porterà a gioire come può gioire solo un uomo che ha raggiunto i suoi scopi soddisfacendo al contempo la propria sete di sensualità e vanità.

“Sarei un bello scemo a farmi della bile. Ciascuno per sé, e Dio per tutti. La vittoria arride agli audaci. Tutto al mondo è egoismo”.

Le donne, il principale mezzo usato da Bel Ami per proseguire la sua scalata inarrestabile, non resistono al portamento fiero di Duroy, al corteggiamento galante ed audace, al fascino dei suoi ottocenteschi baffi curati. E sebbene esse appaiano talvolta superficiali, viziate ed incoerenti, anche qui l’abilità di Maupassant si manifesta nell’equilibrio, nella dimostrazione di una certa conoscenza dell’universo psicologico femminile, tanto che il romanzo non è misogino né maschilista.

“Bel Ami”, datato 1885, è in estrema sintesi un capolavoro, un affascinante e spietato ritratto della Francia della Terza Repubblica dove amore, politica, affari e giornalismo sono vasi comunicanti di una società vuota, simbolo premonitore di certe dinamiche e tentazioni che resistono nonostante il trascorrere del tempo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    28 Luglio, 2016
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Scelta di Hobson

In questo secondo episodio della serie incentrata sul protagonista Neal Carey, il camaleontico ventiquattrenne non si è ancora ripreso dagli strascichi della prima indagine e trascorre le proprie giornate esiliato dal resto del mondo in un cottage nello Yorkshire, immerso tra letteratura ottocentesca e generose dosi di whisky.
Il riposo forzato termina con la visita di Joe Graham, un metro e sessantadue centimetri di cattiveria e astuzia. L’uomo che ha cresciuto Neal fin da adolescente, da quando suo padre era scomparso e la madre faceva la prostituta, insegnandogli come pedinare una persona, come entrare e uscire da un appartamento, come avere rispetto per se stesso. Un’enciclopedia vivente dell'investigatore privato.
Stavolta il compito di Neal è quello di ritrovare un biochimico esperto in fertilizzanti, il dottor Pendleton, scomparso dopo aver partecipato ad un convegno alla Stanford University in compagnia di una seducente donna cinese.

La saga prosegue con un episodio che conferma i pregi ed i limiti riscontrati nel precedente capitolo, “London Underground “. Un noir eccessivamente spettacolarizzato ed ingarbugliato, ma capace di divertire con un protagonista empatico, una buona dose di ironia e scenari esotici ed evocativi.

Stavolta l’ambientazione, come è facilmente intuibile dal titolo, è la Cina della fine degli anni '70. Un popolo alla ricerca della propria identità economica, dopo che nei decenni precedenti si sono succeduti il fallimento del grande balzo in avanti ideato da Mao dal 1958 al 1961, la rivoluzione culturale lanciata nel 1966, l’ascesa al potere di Hua Guofeng che sarebbe terminata nel 1981 con l’avvento del riformista Deng Xiaoping.
La parte riguardante la cultura cinese mi ha ricordato i tipici approfondimenti di un altro scrittore, Qiu Xiaolong, creatore della fortunata serie dell'Ispettore Capo Chen, anche se le precisazioni socio-culturali del nativo di Shanghai sono ben più puntuali, precise e dettagliate.

In definitiva le indagini di Neal Carey, racchiuse in cinque romanzi pubblicati dal 1991 al 1996, alternano qualità e difetti tipici di uno scrittore esordiente che, nel corso degli anni, è diventato uno dei migliori esponenti del genere poliziesco contemporaneo con titoli come “L’inverno di Frankie Machine”, “Il potere del cane”, “Il cartello”.

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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    21 Giugno, 2016
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Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo

Maria ha sei anni, è la quarta ed ultima figlia indesiderata di una vedova disattenta e scostante. Vive a Soreni, un minuscolo paese dell’entroterra sardo.
Il romanzo è ambientato in un periodo storico nel quale, in certe località, era diffusa la pratica del “fillus de anima”, un accordo privato che prevedeva l’affidamento volontario e consensuale di un figlio ad altre persone.
Maria viene “adottata” da Tzia Bonaria Urrai, l’anziana sarta del paese, una misteriosa nubile che tutti sembrano osservare con rispetto e timore.
Tra le due nasce un legame forte. Bonaria dosa saggezza, affetto e severità, permettendo alla bambina di crescere sana e responsabile, consapevole che ci sono cose che possono essere fatte, limiti da non superare e domande che non devono essere poste. Per questo Maria resta in silenzio, soffoca la curiosità, quando scopre che a notte fonda alcune persone bussano alla porta di Bonaria e vede la madre adottiva uscire avvolta nel suo solito vestito nero. Nella piccola comunità di Soreni tutti sanno tutto di tutti ed il conteggio delle dicerie ha raggiunto cifre incalcolabili, ma una tacita consapevolezza impone la presenza di segreti che devono restare tali, per non compromettere la convivenza comune

Un aspetto che colpisce è l’ambivalenza temporale del romanzo. L’attaccamento alle antiche tradizioni, la superstizione spirituale, la descrizione di una natura onnipotente che sovrasta l’essere umano, donano al testo una dimensione arcaica, mitica, fiabesca, collocabile nel secondo dopoguerra.
Allo stesso tempo Michela Murgia tratta argomenti complessi ed attuali, come l’eutanasia, periodicamente alla ribalta delle cronache nazionali.
Con altrettanta curiosità ho notato la disparità caratteriale che divide le figure femminili da quelle maschili.
“Accabadora” è infatti un romanzo incentrato sull’universo femminile. La parte attiva della trama, le decisioni, le azioni compiute, hanno come uniche protagoniste le donne.
Gli uomini, sia per motivi caratteriali che fisici o psicologici, si trovano tutti in una condizione passiva, di reazione più che di azione.

Ho apprezzato meno la parte che precede il finale, un cambiamento di scenario fin troppo sbrigativo e che aggiunge un’ulteriore, eccessiva, tematica importante ad un testo che fino a quel momento si regge su un equilibrio perfetto.
Ma questo aspetto non scalfisce particolarmente il valore di un romanzo importante, maturo e ben scritto, vincitore del Premio Campiello nel 2010.

“Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere quando qualcuno se ne accorge”.

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La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia