Opinione scritta da GPC36

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    17 Luglio, 2018
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Il delitto Moro nella memoria di un bambino che qu

“I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria al contrario dei ricordi degli adulti che cambiano, escludono, dimenticano, tradiscono”: con questo incipit Marco Damilano offre la chiave di lettura del libro dedicato al delitto Moro. Un racconto di un evento tragico che coinvolse lo scrittore, bambino di dieci anni, quando visse il marasma che si verificò nella sua scuola, vicinissima a via Fani, il giorno del rapimento dello statista e dell’uccisione della sua scorta. Tornato a casa capì che tutta quell'agitazione riguardava lo statista che vedeva alla televisione e che non era per lui una persona sconosciuta, poiché il padre, giornalista, glielo aveva mostrato una mattina, mentre lo accompagnava a scuola, facendolo entrare in una chiesa dove Moro pregava.
Il ricordo di quel giorno e di quella figura, la prima persona importante che ha incontrato, rimane nitidamente fissato nella sua memoria, sino a quando, quarant’anni dopo, l’autore vuole dare corporeità a quell'ombra apparsa nella sua infanzia e si impegna nella ricerca di tutto ciò che può portarlo a capire il significato, la motivazione di una pagina tragica della storia della repubblica italiana.
Non è l’ennesimo saggio sul delitto Moro, ma la ricerca di quell'’“atomo di verità” che lo statista chiedeva in una delle lettere scritte durante la prigionia. L’autore è consapevole che, dopo tanti libri, processi, commissioni parlamentari non potrà trovare prove adeguate per una verità giudiziaria. Indica però con decisione come fattore determinante il trattato di Yalta, il duro accordo spartitorio del mondo in due blocchi, che ha consentito l’accadere di episodi tragici in Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia da una parte e in Cile dall’altra, senza reazioni se non di facciata. Un accordo che ha consentito di evitare nuovi, tragici conflitti mondiali, ma che ha comportato la rinuncia alla ricerca di verità e giustizia di fronte a episodi drammatici, conseguenti a fatti che potevano far temere alle due maggiori potenze che venisse minata la base del precario equilibrio internazionale.
L’autore sente il fascino dell’intelligenza di Moro e di un progetto che nella mente dello statista avrebbe dovuto portare ad un cambiamento radicale della politica italiana, aprendo la strada in prospettiva ad un’alternanza fra i due maggiori partiti, comportando una loro trasformazione. Tuttavia era evidente che l’alleanza fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, che doveva concretizzarsi il 16 marzo 1978 con il nuovo governo Andreotti, fosse vista negativamente da entrambe le superpotenze, per motivazioni diverse, ma convergenti nell'ostilità a questo accordo politico. L’azzardo di Moro, statista estremamente cauto, nel farsi protagonista di tale progetto, dopo che il dramma cileno di sei anni prima aveva dimostrato la durezza della reazione a cambiamenti radicali della linea politica all'interno dei blocchi, è comprensibile solo nella sua sensibilità etica, nella sua volontà di trovare in una nuova coesione politica la capacità di rispondere ad uno stato di emergenza, alle problematiche di un “Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”.
Damilano vuole dare a quell'ombra, apparsa ad un bambino, l’aspetto umano, scavando a fondo nella sua vita interiore. Ne cerca le tracce nelle pagine di Sciascia, ma anche nei luoghi dove lo scrittore scrisse “L’affaire Moro”. Damilano prende però le distanze dalla rappresentazione di Moro, visto unicamente come uomo di potere, per riportarlo “alla sua dignità di persona, pienamente sé stesso nelle ore liete del potere e nei momenti tragici della prigionia”. Per questa ricerca si reca nei luoghi dove aveva le radici politiche, nell’università in cui aveva insegnato; nella ponderosa raccolta di documenti e fotografie dell’archivio Flamigni; ad Hammamet, dai figli di Craxi, per cercare nei ricordi dell’unico leader politico che si era dichiarato a favore della trattativa con i brigatisti; nell’Archivio di Stato dove sono depositati gli atti giudiziari, sino al cimitero in cui riposa. Interroga chi visse con lui la vita politica e universitaria; si ferma con sofferenza, trasmessa pienamente al lettore, sulle lettere scritte durante i 55 giorni di prigionia: quelle sdegnate ai politici che, cinici o imbelli, non seppero o non vollero agire per la sua liberazione; quelle struggenti scritte alla moglie ed ai figli.
Fuori dalla prigione il vano agitarsi delle istituzioni, una micidiale miscela di cinismo, connivenze occulte e inanità, la totale inefficienza dei servizi, in totale contrasto con la rapidità di intervento che verrà dimostrata tre anni dopo con la liberazione in una quarantina di giorni del generale Dozier.
Non cerca di sapere altro dai responsabili materiali dell’omicidio di Moro e dei cinque uomini della scorta: nei loro confronti dichiara solo un assoluto disgusto, limitandosi ad inevitabili citazioni o a irriderne l’incapacità di capire il valore intellettuale ed umano del loro prigioniero e degli scritti durante la prigionia: nei loro confronti Damilano sembra optare per la “damnatio memoriae”. Una scelta condivisibile, anche se è su questi personaggi, tragiche marionette mosse da altri, che gravano gli interrogativi più pesanti ed inquietanti dei molti che ancora oggi circondano il delitto Moro-
Da questa ricerca emerge tutta la profonda umanità e l’intelligenza di una figura politica da non dimenticare o, per i giovani, da conoscere.
C’è un solo punto su cui si può formulare un rilievo: il libro ha come sottotitolo “Aldo Moro e la fine della politica in Italia”, ma la politica non ha fine, così come non l’ha la storia, nonostante le previsioni di Fukuyama. Assistiamo, invece, oggi al suo degrado, ad una politica che, come giustamente chiarisce Damilano, non coltiva più la speranza, ma la paura dei cittadini e la loro rabbia. Sembra oggi finita la Politica, con iniziale maiuscola, intesa come leva del cambiamento, in grado di fornire un orizzonte in cui identificarsi, di elaborare grandi progetti.
Una reale commozione trapela dalle pagine del libro, quella di un bambino che un giorno di quarant'anni fa è diventato grande. Una lettura consigliata sia a chi ha vissuto il dramma di quelle giornate del 1978 e non vuole limitarsi agli aspetti giudiziari, sia ai giovani che in queste pagine troveranno un’occasione per comprendere che la politica può essere qualcosa di ben più alto di quanto appare oggi nei dibattiti da talk show.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    11 Luglio, 2017
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Macron vs Ben Abbes

Potrebbe sembrare tardivo riprendere questo romanzo due anni dopo la sua pubblicazione e l’estinguersi delle fiammate polemiche che ne erano conseguite; ritengo, invece, particolarmente interessanti le considerazioni stimolate dalla sua lettura subito dopo le ultime elezioni in Francia, poiché le vicende più recenti consentono di valutare meglio la capacità di analisi politica di Houellebecq.
Credo sia ben noto il filo conduttore del romanzo, considerato il clamore suscitato a suo tempo: alle elezioni politiche del 2022 la situazione di crisi, di devitalizzazione dei due partiti che si sono alternati al potere dopo la costituzione, nel 1958, della Quinta repubblica, il loro contrasto con le posizioni del Fronte Nazionale di Marie Le Pen, aprono la strada ad un partito islamista che porta il leader Ben Abbes alla presidenza della Repubblica. Una società che ha perso la consapevolezza dei valori su cui è fondata, priva di idealità e indifferente al ruolo storico della Francia cede gradualmente, senza resistenze ad un’operazione di abile islamizzazione, condotta con scelte moderate, ma incisive, soprattutto nei confronti del mondo dell’istruzione e della cultura..
Vi sono, quindi, due fili conduttori consecutivi, in rapporto di causa – effetto: la perdita della capacità di mobilitazione e di coinvolgimento del sistema politico francese e il rischio di una potenziale islamizzazione. È sulla seconda tematica, sviluppata sino a configurare un modello distopico di società, che si è concentrata l’attenzione della critica e dei recensori, subito dopo la pubblicazione..
Oggi, dopo le ultime elezioni politiche, sembra invece giusto riportare in primo piano quello che Houellebecq considera fattore causale della ipotetica affermazione del partito islamista. La vittoria di Macron e di un partito creato dal nulla ha messo in evidenza le debolezze del sistema politico e la possibilità che vi si potesse aprire un varco per nuove aggregazioni. Così se Houellebecq descrive ironicamente la depressione di un noto editorialista politico, dopo la vittoria di Ben Abbes, perché “incapace di commentare una mutazione storica che non aveva previsto, che nessuno, a dire la verità, aveva previsto”, lo stesso stato d’animo dovrebbe valere per chi alle recenti elezioni non aveva intuito le possibilità di successo del nuovo protagonista della politica francese.
Lo scrittore coglie perfettamente il rischio di implosione del sistema binario centro destra – centro sinistra su cui è retto il sistema politico francese, con la sola differenza che tale implosione, anche per il concorso di situazioni particolari,si è verificata cinque anni prima del previsto. Appare, quindi, valida e ben centrata l’analisi di Houellebecq sulla crisi dei rapporti fra elettori e Stato, comprovata anche dall’elevata percentuale di astensioni e, di conseguenza, appaiono giuste le analisi di chi aveva visto in “Sottomissione” non tanto il timore di una deriva islamista, quanto la denuncia delle precarie condizioni di salute delle istituzioni democratiche francesi, storicamente fondate su una cultura laica ed illuminista.
La figura del protagonista è un ritratto della crisi di identità che Houellebecq vede nella società francese in generale, ma soprattutto nel mondo dell’istruzione e negli intellettuali. Francois è un docente universitario di letteratura che vive di rendita su una tesi di dottorato su Huysmans, esponente del decadentismo francese. É interessato più alle studentesse che alla comprensione delle tensioni intellettuali di un autore di cui, lui ateo, non riesce a cogliere le motivazioni che lo portarono alla conversione al cattolicesimo; solo alla fine ritiene di avere un'illuminazione, con una interpretazione guarda caso funzionale allo spirito del nuovo corso politico. Abulico, asociale e frustrato, buongustaio ed erotomane, disinteressato alla politica non esita, per qualche vantaggio che ne appaghi l’individualismo e il desiderio di prestigio ad accettare,con la conversione, quella sottomissione che potrebbe rappresentare “il culmine della felicità umana”.
Non è credibile che Houellebecq, ottimo conoscitore dei meccanismi elettorali e della realtà francesi, potesse nutrire un timore reale dell’affermazione di un partito islamista. “Sottomissione” è, essenzialmente, una forte provocazione che avrebbe dovuto stimolare una presa di coscienza del logoramento dei valori, politici e religiosi, fondativi della cultura occidentale. A futura verifica la valutazione se la vittoria di Macron significhi un reale ripensamento culturale della società francese.
Nella tradizione del pamphlet volterriano il libro offre una serie di frecciate, anche pesanti, nei confronti del mondo politico ed intellettuale. Tuttavia il suo interesse appare a questo punto superato; anche per molte cadute di stile la sua lettura mi sembra consigliabile solo a chi abbia piacere a fare una immersione nella realtà francese o a riflettere sui parallelismi fra la nostra realtà e quella dei cugini d’oltralpe.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    12 Aprile, 2017
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Il delitto non va in ferie

Con una simpatica iniziativa la direzione della Sellerio, volendo umanizzare i personaggi dei vari giallisti che operano nel cast editoriale, ha assegnato loro l’incarico di scrivere, in annate successive, raccolte di racconti aventi come tema feste comandate, importanti nella vita della maggior parte della gente: Natale, Capodanno, Ferragosto e le vacanze. Si intendeva così avvicinare i lettori agli indagatori che, con diverse caratteristiche e diverso stile, si arrovellano nella ricerca di bandoli di matasse più o meno imbrogliate e che, nelle circostanze tema dei quattro volumi, dovevano contemperare l’impegno dell’indagine con gli impegni, i condizionamenti o le situazioni che comunque possono segnare queste ricorrenze.
In “Ferragosto in giallo” ritroviamo così i cavalli di razza della scuderia Sellerio in questo ramo della narrativa: vecchie e nuove (per me) conoscenze con i consolidati triangoli scrittore – protagonista – contesto e l’abituale taglio stilistico: Andrea Camilleri – il commissario Montalbano – Vigata con un siculo – italiano più stringato del solito; Marco Malvaldi – Massimo e i quattro “vecchietti” del BarLume – Pineta e la costa versiliese in un racconto scritto con il consueto stile ironico, nel quale l’autore mette in evidenza le sue competenze in chimica; Antonio Manzini – il vicequestore Rocco Schiavone, sempre ai limiti (e oltre) delle regole del gioco – Roma (ancora per questo romanzo); Francesco Recami – il Luis De Angelis, difficilmente iscrivibile fra gli indagatori, - la casa di ringhiera milanese; Gian Mauro Costa – il detective Enzo Baiamonte – la Sicilia di Menfi. Con Alicia Gimenez Bartlett, unica penna non italiana e unica donna della squadra, il racconto si sposta fuori confine, a Barcellona, dove un caldo oppressivo non appanna la lucidità della ispettore Petra Delicado per la soluzione di un caso apparentemente scontato.
Se con libro da ombrellone si intende un libro piacevole, che non richiede eccessivo impegno intellettuale, compatibile con le conversazioni con i vicini di spiaggia, questo lo è doppiamente, sia per il contenuto che per il tema assegnato. Nonostante si possa presumere che la scrittura su ordinazione non sia graditissima agli scrittori i sette autori se la cavano molto bene, con racconti di buona consistenza e di coinvolgente intreccio.

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Politica e attualità
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    03 Aprile, 2017
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Un pugno allo stomaco

Ha la durezza e la dolorosità di un pugno allo stomaco questo libro di Saviano, poiché ci pone di fronte ad una realtà sociale che si vorrebbe negare, considerandola un incubo, una fantasia da romanziere, ma che le cronache della criminalità campana ci obbligano a riconoscere come vera.
La forma del romanzo, che consente di mettere a fuoco la personalità di tutti i ragazzini che compongono la “paranza”, l’annullamento in loro di ogni valore positivo, la distorsione nei modelli di vita cui fanno riferimento, l’assenza di anticorpi adeguati a contrastarne la devianza sociale, aggiunge tensione e drammaticità. Come in “Gomorra” il libro è basato sulla conoscenza della realtà sociale e trova supporto e conferma in un’azione giudiziaria che, pochi mesi prima della sua pubblicazione, ha portato alla condanna di 43 giovani imputati nella sentenza di primo grado.
Nel vuoto creato nella camorra napoletana, dopo i processi che hanno portato in prigione o posto agli arresti domiciliari i pezzi più importanti dei vari clan, un gruppo di ragazzini che hanno come modelli sociali le carriere dei capi della camorra, come obiettivi l’arricchimento rapido e il controllo di una parte del territorio, cerca la propria affermazione come gruppo di fuoco autonomo, con azioni feroci.
Saviano usa una combinazione tra narrazione e saggistica per metterci di fronte ad una situazione sociale angosciante, ma purtroppo reale, poiché le pagine di cronaca nera napoletana ci parlano di “stese”, le sparatorie a vuoto (quando va bene) che servono ad affermare il potere intimidatorio delle “paranze”, di aggressioni e omicidi giovanili.
Certo questa è solo la parte nera di una città in cui coesistono esasperate ed esasperanti contraddizioni; un parte sgradevole, ma più reale dell’immagine patinata ed oleografica che è stata data in una recente versione televisiva de “I bastardi di Pizzofalcone”, sicuramente più apprezzata dal primo cittadino di Napoli, che ha reagito con incomprensibile pesantezza alla pubblicazione di questo libro.
Nello stile Saviano cerca di ricreare il linguaggio reale dei ragazzini napoletani, un dialetto appesantito da interiezioni che rendono ancor meno piacevole una narrazione crudamente realistica.

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Gomorra; a chi non rifiuta una "discesa agli inferi"
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    12 Febbraio, 2017
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Intelligenze alla prova

Credo che tutti gli estimatori di Larsson, abbiano appreso con stupore e perplessità la notizia che, dopo la prematura scomparsa dello scrittore, la trilogia di Millennium sarebbe proseguita, affidandone la stesura ad una nuova penna. Perplessità accresciute dalla mancanza di tracce lasciate da Larsson, utilizzabili per il proseguimento della saga, anche se era noto il suo intendimento di continuarla. Inevitabile, quindi, che la lettura del quarto episodio sia stata segnata dalla curiosità sulla riuscita dell’operazione, sulla capacità di David Lagerscrantz di non far rimpiangere troppo Larsson.
Chiusa l’ultima pagina, il giudiziopuò essere complessivamente positivo, anche se con qualche riserva. Il compito assunto da Lagerscrantz era certamente non facile, rischiando di scadere nella scimmiottatura e dovendo affrontare lo stuolo di estimatori di Larsson, pronti con i fucili puntati; inoltre non vi erano precedenti di personaggi della letteratura tenuti in vita dopo la scomparsa del loro autore, se non nella forma di sceneggiature cinematografiche o televisive. Il nuovo episodio sembra dimostrare che Larsson ha dato vita a personaggi e ad un contesto narrativo tanto solidi da reggere al cambio di scrittore. Attorno alle figure di Michael Blomkvist e Lisbeth Salander, Lagercrantz ha creato una trama che pone al centro del nuovo episodio il tema dell’intelligenza artificiale e del conflitto per impossessarsi dei risultati delle ricerche del professor Frans Balder. Un conflitto che si risolve grazie all’intervento di altre due, diverse intelligenze: quella di Lisbeth e quella del tutto particolare del figlio autistico di Balder.
Lagerscrantz rispetta i due personaggi centrali, come descritti da Larsson, anche se il ruolo di Michael Blomkvist risulta meno centrale. Tuttavia, mentre i precedenti romanzi, in particolare il primo, erano focalizzati sulla realtà svedese, di cui Larsson dava un immagine ben diversa da quella convenzionale, in questo lo scenario si allarga agli Stati Uniti, coinvolgendo la National Security Agency. Così viene meno dilatato il contesto e si perde quella rappresentazione della società scandinava che aveva costituito un elemento particolarmente interessante di Millennium.
Lo stile è molto intenso, con un’articolazione dei capitoli su brevi scansioni temporali e un’abile tecnica narrativa in grado di avvincere il lettore, con l’interruzione della sequenza nel passaggio fra capitoli, spingendo ad accelerare la lettura. Il ritmo risulta, peraltro, tanto accelerato da rendere poco verosimile la trama. D’altra parte se Raymond Chandler sosteneva che il primo requisito di un buon romanzo giallo (o nero) deve essere la credibilità, requisito rispettato da Larsson in “Uomini che odiano le donne”, qui siamo in piena spy story, un filone in cui la plausibilità non è così essenziale, come insegna Ian Fleming.
L’entrata in scena di Camilla, nuova figura antagonista nei confronti di Lisbeth apre la strada al proseguimento della saga. D’altra parte è scontato che le galline dalle uova d’oro debbano essere tenute in vita il più a lungo possibile.

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La trilogia di Millennium
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    21 Gennaio, 2017
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I sogni infranti

La bomba che esplode nella tranquilla località di Old Rimrock nel New Jersey uccide una persona e distrugge un piccolo edificio che richiama un quadro di Hopper: un bazar e ufficio postale con un pennone dove il titolare ogni mattina issa orgogliosamente la bandiera americana. Un attentato che non comporta solo la fine del sereno percorso di vita di Seymour Levov (lo “svedese”), ma che è anche un segnale della caduta del “sogno americano”, del modello di vita che era stato invidiato e desiderato nel mondo anche da chi diceva di detestarlo.
Il conflitto generazionale, degenerato in uno spietato antagonismo della figlia Meredith, responsabile dell’attentato, nei confronti del padre, trova l’innesco nella guerra nel Vietnam e nei contrasti sociali che iniziano ad incendiare gli Stati Uniti. Fino allora Seymour aveva vissuto un’esistenza invidiabile, gratificato dal successo economico come imprenditore, dalla prestanza fisica che ne aveva fatto un brillante atleta del liceo, dal matrimonio con la bellissima Dawn Dwyer, miss New Jersey 1949, che ha sposato superando le resistenze del padre per le differenze di religione (lui ebreo, lei cattolica). Persona di assoluta rettitudine, ai limiti del conformismo, con un totale senso del dovere, aveva potuto vivere un’esistenza perfetta, tanto da non doversi mai chiedere “perché le cose sono così come sono?”, ignorando persino che ci si potesse porre tale domanda, si è trovato impreparato ad affrontare l’improvviso cambiamento della figlia, attirata dai movimenti di contestazione e dalla loro degenerazione nel terrorismo, provocando la crisi in una famiglia che appariva un modello del benessere americano.
Un dramma familiare cui fa da sfondo l’infrangersi di altri sogni: entra in crisi il sogno di uno sviluppo economico che sembrava senza limiti, poiché il peso dei conflitti sociali e razziali determina la delocalizzazione di imprese che lasciano macerie e zone di degrado, facendo decadere la fiorente economia della città di Newark; il tragico conflitto nel Vietnam incrina l’immagine degli Stati Uniti come modello di stato democratico e liberale, critico nei confronti della politica coloniale e imperialista di alcuni stati europei.
Si riprenderà dal frantumarsi del suo modello familiare lo “svedese”, con la caparbietà e la forza con cui usciva dalle mischie nel football, correndo verso la meta, ma il segno della ferita resterà indelebile, anche se non avrà il coraggio di parlarne quando incontrerà lo scrittore Nathan Zuckerman (alter ego di Philip Roth), per il quale aveva rappresentato un idolo sportivo quando era ragazzino e che ora dovrà costatarne l’assoluta normalità. Così come si riprenderà l’economia di Newark e il ruolo mondiale degli Stati Uniti, ma l’american way of live non sarà più il modello sfolgorante a cui si guardò dal dopoguerra agli anni sessanta.
Il Seymour descritto da Zuckerman sulla base di articoli di giornale, non è una biografia essendo in gran parte frutto della sua immaginazione; se tra flash back e capitoli di avvio il romanzo si svolge dal dopoguerra al 1995, la parte focale è ristretta in cinque anni, a partire dal 1968.
È un romanzo complesso “Pastorale americana” che pone al centro il lacerante, drammatico rapporto fra Seymour Levov e la figlia Meredith, con un approfondimento del suo dramma interiore, che unisce all'analisi psicologica anche interessanti spaccati di sociologia urbana e immagini di una società benestante che non sapeva cogliere ed interpretare le tensioni sociali in atto. Tuttavia non posso dire che lo stile di Philip Roth mi abbia entusiasmato. Da una parte il romanzo appare troncato nelle pagine conclusive, che racchiudono il dramma dell’episodio finale in poche righe, sommergendolo in una descrizione dettagliata della flora del New Jersey o nella banalità delle disquisizioni del vecchio Lou Levov. Dall'altra la straripante capacità narrativa di Roth riempie pagine di minuziose descrizioni (spiccano quelle sulle modalità di produzione dei guanti, attività di famiglia dei Levov) che se omesse o ridotte non avrebbero tolto alcun valore al romanzo e ne avrebbero alleggerito la leggibilità.
Per semplice assonanza mi trovo a confrontare il suo stile con quello dell’altro Roth, Joseph, essenziale ma incisivo, e a rinnovare tutta la simpatia ed il piacere di lettura provato per quest’ultimo.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    22 Novembre, 2016
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Un difficile equilibrio tra etica e regole

Nel quinto “legal triller” di Carofiglio con protagonista l’avvocato Guido Guerrieri, la parte dedicata agli aspetti giudiziari è nettamente predominante sulla parte investigativa. Non vi sono omicidi su cui indagare né episodi di criminalità organizzata da affrontare, ma la trama è completamente interna all'ambiente giudiziario, alle sue procedure, agli atteggiamenti di una casta alla quale Carofiglio toglie ogni manto di sacrale rispetto, presentandone senza remore debolezze, volgarità ed anche la parte ignobile. Comportamenti forse inevitabili in un consorzio umano, dominato dall'avidità, ma troppo spesso accuratamente celati all'immagine pubblica perché non si perda la speranza nella Giustizia terrena.
Un libro che può non essere gradito a chi preferisce trame d’azione o la dimostrazione della capacità deduttiva del personaggio centrale; l’ampio spazio dedicato ai passaggi giudiziari, alle sottigliezze procedurali può risultare gravoso per la lettura. Tuttavia questo romanzo ci porta in quel mondo giudiziario che i non addetti ai lavori guardano con diffidenza o quanto meno con distacco, anche se richiederebbe più attenzione dato il suo ruolo centrale per la corretta convivenza sociale. Un mondo che Carofiglio conosce molto bene, con un’esperienza professionale preziosa per poterci mostrare quanto sia complesso il percorso per la ricerca di una giustizia non solo formale e quanto sia difficile garantire la ricerca di un punto di sintesi, di equilibrio nel rispetto rigoroso delle regole processuali da parte di tutti gli attori: avvocati, inquirenti e giudici. Il capitolo con l’intervento oratorio tenuto dal giudice Larocca alla scuola forense sul tema “Etica e ruoli nel processo penale” è una brillante sintesi di tali regole e dei principi etici il cui rispetto è essenziale per avvicinarsi alla garanzia di una giustizia sostanziale. Mi chiedo però: se il Carofiglio ex magistrato si identifica, come può sembrare al lettore, nell'avvocato Guerrieri e nel suo rigoroso codice deontologico, il Guerrieri che applaude una relazione che esprime il “Carofiglio pensiero” non è un atto narcisistico?
La figura di Guido Guerrieri riconferma le caratteristiche del personaggio già descritte nei romanzi precedenti: un avvocato che svolge con rigore il proprio ruolo, cercando di evitare contaminazioni con assistiti e con reati non compatibili con una deontologia che talvolta risulta difficile coniugare con le esigenze di bilancio dello studio professionale. Un rigore che sarà messo alla prova con la richiesta di assistenza di un giudice sottoposto ad indagine perché accusato di corruzione, in una vicenda che richiederà doti di equilibrismo per essere risolta nel rispetto delle regole.
Al di fuori della professione un’esistenza solitaria, in cui trova il conforto di Mr. Sacco, su cui può scaricare le proprie tensioni, della vecchia amicizia con il poliziotto Tancredi e di quella più recente con Annapaola Doria, investigatrice: due figure che saranno preziose per districarsi nella soluzione del nuovo caso.
Lo stile è sempre impeccabile, la narrazione ha spesso digressioni per incontri occasionali, piacevoli o rudi, spunti gastronomici, ritorni al passato, malinconie esistenziali, ironiche riflessioni su temi vari ( gustose quelle sul gergo legale, spesso orribile, da usare comunque per essere riconosciuti come membri di una corporazione), con citazioni che vanno da Hanna Arendt a Linus. Tutti spunti che sono utili per rendere più scorrevole la lettura e per aprire delle parentesi nella parte cospicua dedicata a dibattiti giudiziari, vischiosità procedurali, tattiche legali.

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a chi è interessato ad una immersione nel mondo giudiziario
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    16 Ottobre, 2016
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La ricerca delle radici


Non vi è nelle pagine di Pavese l’immagine delle Langhe “Patrimonio dell’umanità”, dei paesaggi dove il lavoro dell’uomo ha rimodellato la natura, creando un habitat perfetto in cui i vigneti disegnano sontuosi panneggi e, poco più in alto, le schiere ordinate di noccioleti testimoniano la possibile armonia tra le coltivazioni e l’utilizzo industriale, in una scenografia dominata sullo sfondo luminoso dalla sagoma forte del Monviso che stacca dalla catena alpina.
Il mondo di cui parla Pavese, le Langhe dall’inizio del secolo sino al 1948, è ben altra cosa: un luogo di ricordi umili, di lavoro duro, il mondo di una comunità in cui il benessere era di pochissimi, ma dove si creavano solidi rapporti umani. Un mondo racchiuso fra S. Stefano Belbo e Canelli, dove “per farcela a vivere non bisogna mai uscirne” come dice Nuto, l’amico ritrovato, al protagonista del romanzo, un ‘io narrante’ di cui non viene detto il nome, ma solo il soprannome di Anguilla. Un mondo che crea un forte radicamento, da cui il protagonista, forse perché trovatello senza un luogo di nascita (“bastardo” come si autodefinisce), ha trovato la forza di staccarsi, emigrando negli Stati Uniti nel periodo del fascismo e della guerra. É però sufficiente incontrare in America un emigrato piemontese che gli parli di Nuto e delle Langhe per fargli sentire un richiamo tanto forte da lasciare tutto per tornare, avvertendo il bisogno di “mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione”.
Se al ritorno trova considerazione e rispetto perché era riuscito ad andarsene per tornare benestante, non trova però le facce e le mani che avrebbero dovuto toccarlo e riconoscerlo: di tanta gente viva allora resta solo Nuto a fargli riallacciare i rapporti con il tempo andato, pur essendo anche lui cambiato, segnato dagli anni e dagli eventi, ormai un uomo che ha appeso al muro il clarino con cui suonava nelle sagre per dedicarsi al lavoro e alla famiglia, “Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato”. Una comunità in cui i cambiamenti non erano soltanto dovuti agli anni trascorsi, ma anche, più dolorosamente, alla profonda ferita lasciata dalla guerra e dalla lotta di liberazione.
È però ancora viva la cultura contadina che attribuisce ai cicli della luna un ruolo importante per le attività agricole e che per rendere il raccolto più succoso confida nei falò, accesi nella notte di san Giovanni per bruciare i sarmenti, tanti da illuminare nel passato tutte le colline. Su uno dei falò, il più tragico, si chiude questo ritorno nel passato: un falò che segna anche una lacerazione dei rapporti sociali nella comunità, cui la guerra aveva portato.
Il linguaggio essenziale, segnato da piemontesismi, è una perfetta espressione del soggetto narrante e dello stile neo-realistico di Pavese. Presente e passato si fondono in un unico narrativo, segnando la forza del legame con i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, senza che si avvertano le cesure del flashback, se non per il periodo in cui “Anguilla” parla delle esperienze di emigrato negli Stati Uniti. Un ritorno intriso di malinconia, quando i ricordi portano le immagini delle figlie del proprietario che abitavano la villa in cui lavorava da ragazzo, allora viste come entità quasi mitiche, inavvicinabili e che si sono perse nel corso della vita; o nel ritorno al casolare dove era cresciuto con la famiglia cui era stato affidato e che poi si era dispersa. Qui incontra Cinto, ragazzo che resterà drammaticamente orfano, che lui aiuterà a riscattarsi da un futuro di povertà e che rinsalderà così il suo radicamento con questi luoghi. Invece, dopo l’ultima pagina del romanzo, si interromperà per sempre il rapporto di Pavese con le Langhe e con la vita.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    12 Ottobre, 2016
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Le radici dell’oggi nella Sicilia di ieri

Sorprende questo romanzo storico e sociale di Pirandello così lontano dalle sue tematiche preferite e dal suo stile narrativo. Sorprende anche che non abbia la notorietà che avrebbe meritato sia per le vicende che narra che per lo scorcio della storia e della società siciliana e italiana in un’epoca apparentemente lontana, ma che si riflette sulla storia successiva del nostro Paese.
Con maestria da grande scrittore di teatro Pirandello muove una folla di personaggi che compongono un quadro drammatico, in cui nessuno è realmente eroe o figura principale, ma dando per ognuno una descrizione incisiva ed introspettiva, anche se limitata a rapide pennellate per i personaggi minori. Tra queste figure alcune spiccano, fissandosi nella memoria: il principe Ippolito Laurentano, ben diverso dal Gattopardo di Tommasi da Lampedusa, poiché rifiuta il nuovo corso storico e si chiude sdegnosamente nel suo feudo, con una piccola guarnigione in divisa borbonica; il figlio Gerlando con cui ha un rapporto antagonistico, perché questo sente le ansie e le insoddisfazioni della nuova generazione e si schiera a favore del movimento dei Fasci siciliani, pur se con spirito critico; il deputato Ignazio Capolino, simbolo della nuova classe politica preoccupata solo della propria carriera; il garibaldino Mauro Mortara.
Al fratello del principe, don Cosmo, una figura che può rientrare nella serie dei “folli” presenti nell'opera dello scrittore siciliano, viene affidata la conclusione del romanzo in cui si ritrova la tematica rigorosamente pirandelliana dell’«io diviso»
“Una cosa è triste, cari miei: aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà... “
Non è certo pessimistico il duro giudizio critico di Pirandello nei confronti di un periodo storico, ma è un’impietosa analisi delle tensioni e delle situazioni di crisi e di conflitto che nel 1893 hanno segnato la storia italiana e siciliana. Lo scandalo della Banca Romana aveva minato la fiducia della popolazione nelle istituzioni, dimostrando come le fiammate del Risorgimento si fossero spente in una fangosa realtà politica, dominata da affaristi ed intrallazzatori, svuotandone le tensioni ideali. La realtà della Sicilia postunitaria aveva generato profonde delusioni in chi, partecipando spesso a caro prezzo alla battaglia garibaldina, dalla nuova realtà politica si attendeva (o si illudeva di poter avere) profondi cambiamenti, mentre doveva assistere all'intristirsi di un sogno deluso. I conflitti sociali, portati dall’azione dei Fasci Siciliani a violente manifestazioni di piazza, venivano repressi con assurda brutalità dal governo, incapace di coglierne le motivazioni.
Trasversale a tutto questo un conflitto tra generazioni, tra i vecchi che erano stati gli interpreti di un’azione gloriosa, ma che avevano poi consentito il crollo delle tensioni risorgimentali, ed i giovani bloccati nell’inazione di “un’età sterile, come tutte quelle che succedono ad un tempo di straordinario rigoglio”; il contrasto tra il “fare” della precedente generazione e il “dire” in cui la nuova si sentiva costretta.
Una storia che letta a distanza di un secolo consente di cogliere come, apparentemente soffocate le tensioni sociali e politiche, queste abbiano covato sotto la cenere per infiammarsi a distanza di pochi anni, quanto il desiderio di “fare” sboccherà nell'interventismo e poi nel fascismo, che usurpò il simbolo dei Fasci siciliani, nati su posizioni antitetiche. Così la delusione per i risultati del processo unitario avrebbe alimentato i movimenti autonomisti e la crescita della mafia come stato nello stato.
Uno stile inappuntabile, di affascinante classicità, fa di questo romanzo un libro da non farsi mancare se si ama immergersi nella storia del Paese.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    05 Giugno, 2016
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L'agnello e la tigre

“L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei”: una frase apparentemente irrilevante nel romanzo che capovolge il significato di un verso della poesia “La tigre” dai “Canti di esperienza” di William Blake, in cui il poeta si chiede stupito come chi ha creato la tigre possa aver creato anche l’agnello . Questa frase dovrebbe costituire la chiave per l’interpretazione sia del titolo del romanzo, sia del percorso distruttivo e autodistruttivo del personaggio centrale. Inutile chiedersi se per ottenere questo era necessario ricorrere ad un passaggio così artificioso, con una frase criptica che si chiarisce solo alla fine del romanzo, dato che di passaggi criptici e di frasi barocche è disseminato il testo, così come lo è di dettagli inutili. Lo stile, in particolare nella prima parte del romanzo, è caratterizzato da un fraseggio che sembra l’applicazione del puntinismo pittorico alla scrittura, con periodi brevissimi, accatastati così da rendere faticosa ed incespicante la lettura e da continui flashback che possono essere necessari in una vicenda che inizia dall'episodio che conclude la vita di Clara Salvemini, ma che sono inseriti a sorpresa, sovrapponendo e confondendo passato e presente,
Lascia, quindi, perplessi trovare in un’intervista di Nicola Laloggia la dichiarazione che si era posto l’obiettivo di scrivere un romanzo molto leggibile, poiché è proprio nella leggibilità l’aspetto più negativo: una forma di narcisismo nella ricerca stilistica che appesantisce e sovraccarica il testo e svuota la “grande tensione emotiva”, altro obiettivo dichiaratamente perseguito dall’autore.
Ed è un peccato, poiché la tensione emotiva è presente, in una drammatica vicenda neorealista che ruota attorno al nucleo familiare dei Salvemini, dominato dalla figura di Vittorio, padre – padrone che per raggiungere i suoi obiettivi di grosso imprenditore immobiliare non ha nessuno scrupolo non solo nei rapporti con le figure dominanti nel labirinto amministrativo in cui deve muoversi, ma anche nel rapporto con i familiari, strumentalizzati con un cinismo totale, spinto oltre i limiti della credibilità. Il suo potere gli consente di tenere soggiogati moglie, figli e genero, personaggi del tutto anaffettivi, legati solo dall'interesse economico: unica eccezione il figliastro Michele, soggetto schizofrenico legato alla sorella Clara da un rapporto simbiotico interrotto dalla scissione nel loro percorso di vita; un rapporto che lui cerca di far rivivere dopo la tragica morte di lei.
Il premio Strega ha dimostrato, anche in questo caso, di essere un ottimo propulsore per le vendite. Si spera sappia conservare il suo ruolo storico di selettore del meglio nella letteratura italiana, o, rovesciando la prospettiva, che nella schiera degli scrittori sappia sempre trovare firme all'altezza del palmarès dello Strega: ciò che, a mio parere, non è successo con l’edizione che ha premiato Lagioia.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    15 Mag, 2016
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Un secolo di storia nel microcosmo di una comunità

Guardare la storia del nostro Paese al microscopio, fermandosi non sui grandi numeri degli eventi tragici che l’hanno segnata, ma sui loro riflessi nella più marginale delle comunità, per coglierne meglio le conseguenze sulla realtà umana e sociale e rendere più evidenti i dolori, le lacerazioni e le trasformazioni. Per fare ciò Vassalli pone al centro del romanzo una delle tante, piccolissime località che, nell'intero arco alpino, si trovano alla fine di vallate minori, dove si chiude la viabilità e oltre le quali vi sono solo impervi percorsi montani che portano alle grandi vette. Località diverse, ma con storie e caratteristiche analoghe a quelle di Rocca di Sasso, piccolo comune dominato dal Macigno Bianco, che all'inizio del secolo scorso, quando inizia il romanzo, era collegato con il resto del mondo solo da un’ansimante corriera. Una distanza che non porta, però, a evitare che il percorso della storia lasci anche qui un segno profondo. Storia di una comunità i cui personaggi principali Vassalli presenta con ritratti benevolmente ironici, per nome e professione, ma soprattutto con il soprannome, elemento un tempo determinante per l’identità personale. “Soprannomi dialettali e colti, caricaturali ed ironici, benevoli e malevoli”, a cui Vassalli dedica una piacevole digressione, espressioni di una cultura locale, destinati anch'essi a dissolversi nella trasformazione sociale.
Così come si evolve e dissolve una religiosità profondamente radicata, tale da far costruire cento chiese nella valle più grande, alle quali si aggiungono le due chiese, quelle dei richiamati alla grande guerra e quella dei pochi reduci di Rocca di Sasso. Una fede cristiana che si unisce ad una religiosità naturale che porta tutti, credenti e non credenti, ad un impegno solidale per la realizzazione delle due chiese. Una religiosità che in un secolo si svuota gradualmente, lasciando deserte le cento chiese, prive di fedeli e di tutto ciò che poteva essere sottratto. Vassalli, da vecchio socialista, affida la speranza del futuro ad un’altra religione, quella del lavoro che trova nell'inno dell’Internazionale, nato fra le montagne, la sua bandiera: ma su questo le riflessioni diventerebbero lunghe e forse meno ottimistiche.
Passa la grande guerra, il fascismo, la seconda guerra e la liberazione. Se le due figure di Ansimino e del maestro Prandini, della loro amicizia che diventa contrapposizione sotto la spinta della storia, sono il filo conduttore del racconto questo mantiene però un carattere corale. Vassalli narra non solo le vicende delle persone e della comunità, ma anche il cambiamento dei costumi, con uno stile gradevolissimo, con una penna leggera e profondamente umana, che lascia trasparire talvolta una vena di rimpianto dei costumi scomparsi, come quando confronta l’amore dei nostri tempi “quando gli uomini e le donne sono diventati intelligenti” e l’amore una cosa da nulla, un amore veloce, con l’’’amore lento ( e stupido) di una volta fatto di sguardi, di carezze, di parole sussurrate o anche solo pensate.
Di pensieri. Di silenzio. Di nulla”.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    18 Aprile, 2016
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Un lascito ed un commiato

Vi è una vena di malinconia nelle riflessioni con cui inizia il libro che chiude l'avventura letteraria di Eco: riflessioni su una società che ha perso i punti di riferimento essenziali, una "società liquida" come è stata definita da Bauman, una società postmoderna in cui prevalgono la ricerca dell'apparire, considerato come valore, l'individualismo che genera rapporti antagonistici ed é in crisi il senso della comunità. Una società che per essere capita e superata richiede nuovi strumenti che né la politica né l'”intellighenzia” appaiono in grado di offrire poiché non sembra abbiano compreso la portata del fenomeno.
Parte la nave di Teseo, la nuova sfida editoriale, ma Eco non sarà al timone e di questo distacco sembra essere stato ben consapevole, accomiatandosi con questo libro che è un lascito del suo pensiero e un'ultima testimonianza del suo stile nel trattare i tanti temi che ha affrontato: acutezza dell'analisi e ironia pungente sono l'elemento comune ad una serie di riflessioni sugli argomenti più disparati.
Non un nuovo romanzo, quindi, ma una raccolta di "bustine di Minerva", come aveva intitolato la rubrica che teneva su l''"Espresso", prendendo lo spunto dal piccolo spazio bianco nelle bustine di fiammiferi, su cui possono essere annotate brevi note e riflessioni.
Il ventaglio di argomenti è amplissimo, né Eco ritiene vi debba essere un filo conduttore: premette, anzi, che si tratta di una raccolta sconnessa di “bustine” che riflettono la “natura liquida” della nostra società negli ultimi quindici anni e ricorda che nella prima delle “bustine”, nel 1985, aveva premesso e promesso che in quella rubrica avrebbe parlato di “ciò che gli frullava in testa”. Eco si è limitato ad aggregare le bustine in 14 filoni tematici, che vanno dal progresso a passo di gambero alla ricerca dell’apparire, dai telefonini al rapporto fra religioni e filosofia, dal complottiamo ai mass media. Ciò che unisce questi “appunti” è lo stile pungente e dissacratorio con cui tratta i diversi argomenti, inserendo però in un periodare apparentemente scanzonato la citazione colta che richiama il lettore a evitare la superficialità.
In un ventaglio così ampio di tematiche sembra giusto ricordare la bustina “Alto, medio, basso” in cui parte da un articolo dedicato ai tre livelli in cui un saggista americano identifica le espressioni culturali, inserendo tra la cultura elitaria e la cultura di massa la Midcult. Una divisione rigida che poteva avere un senso nel passato, quando la provocazione era un fine e la non leggibilità dell’opera assumeva un valore. Oggi tra questi livelli culturali vi è un’osmosi non solo dall'alto verso il basso, ma anche – sostiene Eco – viceversa. Di tale osmosi Eco è stato artefice: se “Il nome della rosa” ne è l’esempio più alto, il romanzo “La misteriosa fiamma della regina Loana” ha portato il mondo dei fumetti all'onore dell’inclusione in un romanzo impegnativo.
Nell'articolo da cui prende lo spunto, si cita la partecipazione di massa al funerale di Victor Hugo, segno che lo scrittore non apparteneva solo all'alta cultura, ma il suo valore era riconosciuto da tutti: una citazione preveggente, come un commiato, che porta al ricordo della folla presente ai funerali di Eco.
Il lascito è in una serie di spunti di riflessione, non certo per una condivisione acritica del pensiero di Eco, ma per farvi riferimento per lo spirito ed il metodo con cui affronta i vari temi e per aprire, se si vuole, un confronto dialettico virtuale con la mente più brillante della nostra cultura contemporanea. Il livello di approfondimento è inevitabilmente discontinuo, anche per l'ampiezza dei temi trattati, ma questo può essere uno stimolo al lettore per un confronto e per andare più a fondo.Un libro, pertanto, da leggere e tenere a portata di mano.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    18 Marzo, 2016
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Inettitudine e psicanalisi

Lettura accantonata per troppi anni, dopo che – essendo appena entrato nella bella stagione dei quarant'anni - mi aveva irritato, nella lettura del romanzo precedente di Svevo, vedere attribuita ad un Emilio Brentano, neppure quarantenne, una condizione di “Senilità” ritenendo (allora come oggi) che per quel personaggio si trattasse di inettitudine, mancanza di volontà, incapacità di cogliere la realtà dei rapporti umani. Insomma, una questione personale tra me e Italo Svevo, che mi aveva fatto desistere da altre letture dello scrittore.
Soltanto ora, entrato nella senilità reale, ho preso in mano la sua opera più significativa.
Se “La coscienza di Zeno” non è il primo “romanzo di analisi” di Svevo, poiché si lega per molti aspetti ai precedenti “Una vita” e “Senilità”, divengono più nette nella sua impostazione narrativa le caratteristiche che ne fanno un modello di tale filone letterario.
Viene superata la sequenza cronologica, con un’articolazione tematica nelle quattro parti: il fumo; la morte del padre; la storia del matrimonio; l’associazione commerciale con il marito della donna che avrebbe voluto sposare e la conclusione dedicata alla psicanalisi.
La narrazione è in prima persona ed il soggetto narrante, che rimane pressoché avulso dal contesto storico e ambientale, si concentra sul proprio malessere esistenziale.
Un malessere che si manifesta nella sua inettitudine (“non so fare altro che sognare o strimpellare un violino per cui non ho alcuna attitudine”), nell'incapacità di affrontare e vincere le sfide della vita, condizione che ne fa un perdente o una persona che subisce le decisioni di altri nei momenti cruciali: il fumo è vissuto come malattia contro cui è inutile combattere; la sua non affidabilità nell'attività commerciale viene risolta dal padre mettendolo sotto tutela; l’ultimo gesto del padre morente, vissuto come uno schiaffo, determina un senso di colpa che non genera alcuna reazione positiva; arriva al matrimonio con Augusta, quella delle sorelle Malfenti che aveva scartato appena conosciuta per lo scarso fascino, dopo essere stato respinto dalle altre due sorelle in età da marito; dall'amante viene lasciato proprio quando, quella che aveva vissuto come un’avventura insignificante, sembra coinvolgerlo passionalmente.
Niente sembra generare in lui reali slanci emotivi: né verso la moglie, né verso l’amante, né nel rapporto con i figli, né per l’inizio della grande guerra.
Vivendo la sua inettitudine come una malattia si affida alla psicanalisi, che nei primi anni del secolo scorso era agli inizi e costituiva oggetto di curiosità scientifica. Il rapporto con lo psicanalista è la finzione letteraria che dà lo spunto al romanzo, presentato come una confessione scritta su richiesta del medico terapeuta. Nello stesso tempo è anche oggetto di una valutazione sarcastica nel capitolo finale, il più interessante e vivace, in cui parla della psicanalisi come di una “ciarlataneria”. Giunto ad una reale maturità constaterà che non la psicanalisi, ma il commercio l’avevano guarito. A quel punto, rovesciando la convinzione che lo aveva portato ad affidarsi alla psicanalisi, afferma che non esistono persone sane e malate, esistono persone persuase di essere malate e persone convinte dalla massa e dalla società a considerarsi sane.
Lo stile è il punto a mio avviso più debole del romanzo, con un’esposizione monocorde, senza slanci narrativi né emotivi. Certamente tale esposizione può essere attribuita alle caratteristiche del personaggio narrante; è però difficile evitare un confronto, pur con i rischi di questi paragoni, con lo stile scintillante, ironico di un altro romanzo di analisi “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, che ugualmente ha un inetto come personaggio centrale. In tale confronto il divario stilistico appare evidente.
Solo nel capitolo finale lo stile si vivacizza sino alla sconcertante conclusione che sembra prefigurare –nel 1915 !- un’umanità distrutta da un’esplosione nucleare.

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A chi non vuol farsi mancare la conoscenza di un testo fondamentale della letteratura italiana
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    25 Febbraio, 2016
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Come rendere più leggera l'esistenza

Un metodo rigorosamente soggettivo di valutazione di un libro è la sua rispondenza alle nostre aspettative al momento dell’acquisto. Da un libro di Francesco Piccolo, piacevole affabulatore, anche se talvolta scade nel cazzeggio(termine sdoganato dalla Treccani), mi attendo momenti di lettura gradevole, rilassante e non impegnativa. La sua ironica visione della quotidianità ci aiuta a non trascurare gli aspetti positivi anche in fatterelli che sono solo apparentemente inezie (come nel precedente “Momenti di trascurabile felicità”) o a trovare nella condivisione delle sensazioni fastidiose, create da episodi di scarsa rilevanza, quel tanto di conforto che ci aiuta a comprendere che si tratta, per l’appunto, di “trascurabile infelicità”.
Si può rimproverare a Piccolo di avere fatto un semplice esercizio di rovesciamento della prospettiva per mettere a frutto il brillante risultato editoriale di “Momenti di trascurabile felicità”; oppure di essere un po’ prolisso in qualche parte o un po’sbrigativo in altre, ad esempio con la raffica di aforismi – certamente non a livello di quelli leopardiani- nella parte conclusiva; di non toccare in questo libro il livello del suo lavoro di sceneggiatore che ci ha regalato alcuni dei migliori prodotti del cinema italiano degli ultimi anni.
Tuttavia, pur con questi limiti, il libro contribuisce ad alleggerire il peso della noia e dei piccoli fastidi quotidiani, con il piacere di qualche franca risata. Ad esempio il raccontino “Io, mia madre ed il Presidente” è da antologia dell’umorismo e vale da solo l’acquisto del libro.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    04 Gennaio, 2016
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Un Don Chisciotte dark

Un bell'incontro quello tra Emmanuel Carrère e Eduard Sevenko “Limonov”, che ha dato vita a questo romanzo – biografia, consentendo loro di ottenere un reciproco vantaggio.
A Limonov, che ha temuto più volte nella sua vita di uscire di scena come un milite ignoto, senza lasciare traccia della sua personalità, ha assicurato un’esposizione mediatica più che sufficiente ad esorcizzare tale preoccupazione. A Carrère la vita di un personaggio fuori dalle righe, ha fornito ampio materiale per scrivere un libro avvincente, in cui la storia di Limonov è inserita in una realtà storica, politica, sociale, che sembrava di conoscere poiché appartenente a un passato non lontano, mentre il romanzo rende evidente come molti aspetti siano rimasti in ombra, almeno per l’informazione corrente..
Nellabile narrazione di Carrère, Limonov prende i connotati romantici del personaggio di un romanzo di cui si tende a seguire le vicende, dimenticando che si tratta della biografia di un personaggio reale, la cui vita presenta molte zone oscure o che sono solo sfiorate: le amicizie con le brigate serbe nella guerra dell’ex Jugoslavia; il rapporto con i servizi segreti russi; l’impegno politico come fondatore di un partito nazional – bolscevico, con un simbolo che riesumava quello nazista(un fondo rosso, con un cerchio bianco in cui era inserita la falce e martello al posto della svastica). Un simbolo insultante per un Paese che ha perso oltre venti milioni di persone nella lotta contro il nazismo, ma nello stesso tempo una presenza politica funzionale agli interessi di Eltsin sia per poter dimostrare il possibile pluralismo nella nuova Russia sia per sottrarre ai nostalgici del bolscevismo un consenso elettorale alimentato dalle conseguenze del traumatico cambiamento del sistema politico.
Un personaggio che non desta simpatia, che d’altra parte non ha mai cercato nei rapporti personali, ma che ci porta ad un trascinante viaggio nelle diverse manifestazioni della marginalità: quella del mondo underground nell’URSS del periodo brezneviano, quella sociale e umana a New York, la marginalità culturale del gruppo di redazione de l’Idiot International a Parigi, quella politica nel marasma che ha seguito il crollo dell’URSS e l’avvio della Russia negli ultimi 50 anni. In questo viaggio le lotte di Limonov sembrano quelle di un Don Chisciotte dark. Cavaliere forse senza paura, ma tutt'altro che senza macchie: al posto di Dulcinea vi sono partner di una ostentata, scabrosa bisessualità; la scelta dei mulini a vento contro cui lanciarsi lo vede sistematicamente dalla parte perdente. Carrère sintetizza il personaggio scrivendo “Bisogna dare atto di una cosa a questo fascista: gli piacciono e gli sono sempre piaciuti soltanto quelli che sono in posizione di inferiorità. I magri contro i grassi, i poveri contro i ricchi, le carogne dichiarate, che sono rare, contro le legioni di virtuosi, e il suo percorso, per quanto ondivago possa sembrare, ha una sua coerenza, perché Eduard si è schierato sempre, senza eccezione, dalla loro parte». Una valutazione a mio avviso benevola, che concede ipotetici slanci di altruismo ad un soggetto in realtà totalmente egocentrico.
Quindi uomo contro “a prescindere”, indifferente alle proprie contraddizioni: contro il regime post staliniano, ma anche contro i dissidenti che, rischiando la propria esistenza, denunciavano gli errori e gli orrori del comunismo sovietico e che Limonov ostentatamente disprezza; contro Gorbaciov, contro le riforme liberiste di Eltsin, ma anche contro la restaurazione autoritaria di Putin; contro il capitalismo, ma salvato dallo sprofondare in un abisso senza ritorno da un capitalista liberal a New York; contro i sistemi democratici, ma portato alla notorietà come scrittore da un editore francese dell’area anarchico – libertaria, testimonianza della libertà d’espressione garantita da tali sistemi.
Lo stile di Carrère è spigliato, la lettura scorrevole, il ritmo narrativo coinvolgente; tuttavia gli spazi che riserva ad ampi stralci autobiografici appaiono una concessione anche troppo generosa al proprio narcisismo. La parte iniziale, in cui può avvalersi di romanzi in chiave autobiografica scritti da Limonov risulta più dettagliata, mentre nel finale Carrère sente la mancanza di una conclusione epica che probabilmente sarebbe piaciuta anche a Limonov.

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Se si è interessati a vedere la storia della Russia da un'angolazione particolare
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Romanzi storici
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    16 Settembre, 2015
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Nei vortici della storia

Il titolo del romanzo sintetizza in modo sin troppo esplicito il suo contenuto: la storia di una famiglia che è nello stesso tempo storia della comunità askenazita, il ceppo ebraico dell’Europa orientale. Ambientato nelle province polacche dell’impero russo, in un arco temporale che va dalla seconda metà dell’ottocento al secondo decennio del novecento, la narrazione delle vicende di una famiglia ebraica è, come nel “La famiglia Karnowsky”, il filo conduttore di una storia ben più ampia.
I due fratelli gemelli, rappresentano due volti di un’identità ebraica che Singer ritrae con autenticità, senza sconti, partendo dal loro padre, Abraham Hirsh, ricco commerciante e capo della comunità ebraica della città di Lodz, rigoroso osservante della cultura chassidica, studioso del Talmud. Il rigido rispetto di una serie dettagliata di norme di comportamento, di minuziose ritualità, la scala di valori che deriva dalla inflessibile ortodossia ne fanno una figura sconcertante agli occhi degli estranei alla cultura dell’ebraismo dell’Europa orientale: la sua principale preoccupazione per gli ebrei della sua comunità, prigionieri dopo una sommossa contro l’occupazione russa, non è cercare di farli uscire di prigione, ma evitare che si trovino a mangiare cibo non rispondente ai principi della cucina kosher; considera apostata un ebreo della comunità locale che lavora come tessitore in un’azienda tedesca, un “crimine che andava oltre qualsiasi misfatto che potesse aver commesso in passato”, perché sarebbe stato obbligato a lavorare di sabato, avrebbe mangiato cibo non kosher e forse persino carne di maiale;
La parte iniziale del libro è un’immersione nella tradizione, nelle ritualità e nella cultura chassidica. Israel Singer, figlio e nipote di due rabbini, di due scuole diverse, la descrive con precisione e ricchezza di dettagli, ma anche con distacco emotivo. Non vi sono segni di rimpianto per un mondo che all'epoca della pubblicazione del libro (1936) mostrava già segni di declino e che la shoa avrebbe poi tragicamente sradicato. Gli stessi due figli, nonostante la speranza di Abraham Hirsh, di farne “ebrei timorati di Dio” si staccano dalla tradizione, dalla frequentazione della sinagoga, anche se restano legati alla comunità ebraica, in particolare con un matrimonio deciso dalle famiglie con il supporto di mediatori . Questa parte, ricca di descrizioni e particolari, può essere indigesta a chi non è interessato o incuriosito dalle regole ossessive dell’ebraismo chassidico.
Il romanzo decolla quando i due fratelli gemelli iniziano il loro percorso di vita autonomo. Due percorsi distinti, contrapposti, antagonistici fra Simcha Meyer, il primo nato, quindi anche se per pochi minuti con i diritti di primogenitura, e il secondogenito Jacob Bunim. L'uno determinato, caparbio, intelligente e astuto, spregiudicato mira unicamente al successo economico; il secondo troverà nelle sue qualità estetiche e nella simpatia suscitata da un carattere gioviale le armi vincenti per una carriera altrettanto brillante, ma fortemente aiutata da fattori esterni alle sue scelte e alla sua volontà.
Il racconto della vita dei due fratelli si dilata in una trama più ampia che diviene romanzo storico, in cui entrano via via la rivoluzione industriale, l’evoluzione economica della città di Lodz, le conseguenti tensioni sociali, la prima guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre. Una sequenza di avvenimenti cui fanno da sottofondo le tensioni ed i conflitti interni ad una comunità in cui si trovano a convivere, interagendo per i rapporti economici e di lavoro ma senza integrarsi, polacchi, russi, tedeschi ed ebrei; questi ultimi destinati ad essere oggetto a ripetizione di gravi atti di pesante intolleranza. I conflitti dei “gentili” contro gli ebrei sono il primo segnale della tempesta in arrivo, il terreno di coltura dell’antisemitismo nazista che il romanzo non fa a tempo a cogliere. Singer descrive con giusta indignazione il pogrom di Leopoli degli anni venti, in cui morirono settantadue ebrei, senza poter immaginare che la stessa città, alcuni anni dopo la pubblicazione del libro, sarebbe stata teatro di un eccidio ben più tragico, con l’annientamento di una comunità ebraica stimata in duecentomila persone.
Il romanzo presenta una ricca galleria di personaggi che si arricchisce progressivamente: fra questi spicca Nissan, l’ebreo che dedica la propria esistenza alla lotta proletaria, sino alla rivoluzione d’ottobre, mettendo nell'adesione ideologica al marxismo lo stesso rigore che il padre rabbino metteva nell'applicazione del Talmud e ricadendo nelle stesse amare frustrazioni per le delusioni causate dalla realtà dei comportamenti umani.
Non vi è spazio per i sentimenti in questo libro, né sembra possano esserci in una comunità ebraica in cui le donne hanno un ruolo pesantemente marginale: una comunità in cui hanno un ruolo determinante interessi economici e stratificazione sociale come Singer descrive senza remore e sfumature apologetiche. Solo nella lotta di Simcha Meyer, nel suo cadere e risollevarsi si può vedere l’allegoria di una comunità gravata dal “fardello primordiale dell’essere ebrei, il duplice peso di questo mondo e del prossimo” e che negli anni venti inizia a fare i primi passi per tornare alla terra promessa della Palestina.
Non vi è in questo libro l’emozione dei sentimenti che si trova in “Giobbe” di Joseph Roth né la rigorosa scansione temporale e spaziale del successivo romanzo di Singer “La famiglia Karnowsky”; Lo stile è asciutto, il libro è corposo. Tuttavia il romanzo, con una vigorosa e rigorosa descrizione delle tragiche vicende in quella parte dell’Europa che è stata epicentro delle tragedie del secolo scorso, offre un quadro storico di notevole interesse.

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"Giobbe" di Joseph Roth; La famiglia Karnowski
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    14 Settembre, 2015
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Un meccanismo collaudato

Inizia male il più recente romanzo dedicato al commissario Montalbano: un primo capitolo in cui il beneamato poliziotto si trova infilato in situazioni poco credibili e comunque poco lusinghiere per la sua professionalità: una sequenza di piccoli episodi che ci si rende conto che hanno solo la funzione di giustificare il titolo del libro. Poi il romanzo riparte con il consueto cast di attori: Fazio, Mimì Augello, Catarella, il questore e, sempre più defilata ed evanescente, Livia. Lo stile riprende vigorosamente il lessico siculo – italiano, copyright di Camilleri, accentuando la componente siciliana che in alcuni recenti romanzi sembrava più sfumata.
Montalbano teme di perdere colpi, di sentire il peso degli anni, ma poi il suo scatto intuitivo arriva, anche se un po’ in ritardo e come al solito vince la sua ennesima battaglia.
L’impianto è così collaudato da non creare apprensioni: come sottolineava Camilleri in una recente intervista i suoi romanzi con Montalbano hanno un numero di capitoli (da 17 a 19) e un numero di pagine (250-260) pressoché fissi.
Capisco chi lo critica perché trova ripetitivo lo schema o non digerisce il suo linguaggio, ma per chi lo ama Camilleri è come una rada che offre un approdo sicuro e tranquillo. Un suo nuovo romanzo è l’attesa occasione per mettersi in poltrona, con la sicurezza di trovare qualche ora di distensione; così come per la versione televisiva che si vede e si rivede e ogni volta ci si accorge che i nervi si rilassano.
Qualche cenno sulla trama? No, è un poliziesco e non sarebbe corretto. Poi stasera c’è Montalbano in televisione e non voglio fare tardi.

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Ai tifosi di Camilleri e Montalbano. A chi non li ha ancora letti
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    12 Luglio, 2015
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Tragedia al circolo dei nobili di Vigata

A Vigata si verifica una anomala sequenza di decessi, seguita da una strage con quattro morti in un colpo: una nuova sfida per Montalbano? No, perché il commissario non era ancora nato né come personaggio, visto che questo romanzo di Camilleri è stato scritto nel 1992, quindi antecedente a “La forma dell’acqua”, il primo libro in cui compare la figura del commissario; né soprattutto per l’anagrafe, poiché “La stagione della caccia” si svolge nella Vigata del 1880.
Avendo un ricordo molto positivo della prima lettura l’ho ripescato dalla zona della libreria dedicata a Camilleri, dove giaceva da almeno due decenni, alla ricerca di un libro piacevole per le letture o riletture estive.
La scelta ha confermato il divertimento del primo incontro con uno dei migliori libri dello scrittore siciliano, anche se mi è mancato, ovviamente, il colpo di scena finale che, alla precedente lettura, avevo trovato all'altezza dei migliori gialli. Se il contesto geografico è quello di Vigata, il racconto ci porta nella realtà sociale ed urbana del periodo storico immediatamente successivo all'unificazione italiana. Dopo una serie di morti "naturali"che colpiscono la famiglia di un marchese locale, la vicenda vira repentinamente in un giallo-nero, che sconvolge la monotona quotidianità del "Circolo dei nobili" di Vigata. La concatenazione degli eventi luttuosi sarà svelata, come da regola dei libri gialli, nelle pagine finali, ma non grazie alle indagini di qualche soggetto preposto a tale compito.
Entra in scena, per uscirne in sequenza, una serie di personaggi, descritti con graffiante ironia, divertenti figurine che fanno da contorno alla storia di una caparbia infatuazione. Il racconto, in cui abbondano episodi boccacceschi, è narrato con lo stile che é proprio di Camilleri: in questo libro nel siculo- italiano, che è una sua esclusiva, la componente siciliana è più marcata rispetto a romanzi successivi, tanto che nella citazione di piante o di animali si vorrebbe disporre di un glossario.
Dopo la lettura si veda la nota finale in cui Camilleri racconta quale episodio storico gli ha fornito lo spunto per il romanzo: a dimostrazione che alla creatività basta uno stimolo da poco per elaborare una bella trama.

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I romanzi di Camilleri dedicati alla Vigata pre- Montalbano
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    26 Giugno, 2015
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Il gladiatore sconfitto

Dato l’avvicinarsi all’età del protagonista., è stato difficile sottrarmi alla lettura di un romanzo che ha come tema centrale non la badante, certamente più attraente come titolo, ma la fase finale del ciclo vitale dell’ultra ottantenne professor Italo Guerrini, pur sapendo di correre il rischio di un’ operazione masochistica.
Un tema difficile quello della vecchiaia nella nostra società, se lo scrittore cerca un rapporto introspettivo con il suo personaggio e vuole cogliere, senza averne un’esperienza diretta, la complessità degli stati d’animo che segnano un’esistenza avviata al tramonto e all'attesa della notte definitiva. In questa fase della vita il timore di affrontare le prospettive future porta in genere ad abbandonarsi al rimpianto del passato, senza cogliere le opportunità ancora offerte dal presente. A tale declino non intende assoggettarsi il protagonista, ex docente universitario che, pur bloccato su una sedia a rotelle, mantiene la vitalità dello spirito e dell’intelligenza. La sua è una vecchiaia agiata, essendo sostenuto, dopo la vedovanza, dalla presenza della sorella, di una cognata e del figlio, giovanotto disoccupato, e accudito da una cameriera e dalla badante. Pur in una situazione confortevole sente il peso dell’isolamento, dell’estraneità al mondo esterno, con cui non ha più rapporti diretti: un’estraneità che viene confermata in un episodico contatto con la realtà urbana circostante. Solo l’incanto delle notti lunari lo rasserena: tuttavia la solitudine, cosi come l’avvicinarsi della conclusione della vita, non lo spaventano e sono oggetto di una riflessione continua, stimolata dalle riproduzioni di tre quadri di forte espressività simbolica, posti davanti alla sua scrivania. È una figura che desta rispetto, descritto con forte incisività da Collura, nella prima delle tre parti del libro; un intellettuale che ama le citazioni, con un ampio ventaglio di nomi che rendono evidente la vivacità della mente, anche se ogni tanto la memoria vacilla.
Nella seconda parte, dedicata alle conseguenze di un imprevisto colpo di scena che scuote il tranquillo assetto familiare, il livello qualitativo del romanzo subisce una caduta di qualità. Tuttavia nella terza parte, la più breve, Collura dimostra un tocco descrittivo di notevole delicatezza, di grande sensibilità nel decifrare i segni, le ombre dei rimpianti e dei ricordi nel volto di un vecchio che, come un gladiatore ferito e vinto, attende il segnale che ne determinerà la fine.
Mi chiedo con curiosità quali potranno essere le valutazioni di lettori più giovani, che penso difficilmente attratti da questa tematica.

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Romanzi
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    30 Mag, 2015
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L'ironia amara di Eco

Il fatto che “Numero zero” sia l’unico tra i romanzi di Eco letto in poche ore può essere un dato indicativo della scorrevolezza del testo e di una trama coinvolgente, ma anche del minore impegno dello scrittore, che ci ha abituati a libri che richiedono, dopo l’ultima pagina, almeno una pausa di riflessione. In questo romanzo l’impianto è molto più semplice rispetto ad altri, certamente molto più di “Il cimitero di Praga”, il lavoro precedente a cui appare più legato. Entrambi hanno come elemento comune la dissimulazione della verità: nel primo utilizzando documenti falsificati e fuorvianti, in “Numero Zero” con la manipolazione dell’informazione, sintetizzata nella massima “i giornali non sono fatti per diffondere l’informazione, ma per occultarla”.
La trama del romanzo, il lavoro che impegna uno scombinato gruppo redazionale per un paio di mesi nel 1992 per la preparazione del numero di prova di un quotidiano trash, finanziato da un commendatore che vuole disporre di uno strumento di potenziale ricatto per poter accedere ai “salotti buoni”, è semplicemente il supporto per altre due tematiche.
Come in tutti i suoi romanzi Eco si avvale di dati e documenti reali sui quali innesta il suo racconto. In questo caso parte dall’ipotetica sostituzione di Mussolini con un sosia, che ossessiona uno dei redattori, Braggadocio, delirante dietrologo e millantatore (in inglese “bragger”). che partendo da tale fissazione pensa di trovare un filo connettivo che leghi tutti gli intrighi e le trame oscure che hanno segnato la vita italiana, con un’indagine che gli costerà cara.
Sarebbe interessante sapere se la trasmissione BBC “Operation Gladio” (ancora visibile su You Tube), ritrasmessa a cura di Augias in Italia nel 1992, riportata nella fase finale del romanzo, sia stata la fonte ispiratrice di questa riesumazione degli italici veleni o se è stata utilizzata da Eco per segnare il 1992 come anno di svolta, dopo decenni di oscuri intrighi, per arrivare non “al migliore dei mondi possibili”, dato che nessuno più di Eco è lontano da Candide, ma per approdare quanto meno ad una condizione di “calma sfiducia nel mondo che ci circonda, un mondo in cui la vita è sopportabile, basta accontentarsi”.
Il secondo filone, disseminato in una serie di considerazioni nelle riunioni del gruppo di redattori, mette a nudo le diverse modalità di distorsione dell’informazione, con pagine sarcastiche sui dossier, sulle tecniche di diffamazione, sulle frasi fatte, sulle interpretazioni alternative degli annunci matrimoniali, sui filtri delle notizie pubblicabili: pagine divertenti, ma spesso di limitato valore aggiuntivo.
Come nel suo stile Eco utilizza a piene mani ironia e/o sarcasmo, così da rendere più accettabile il suo pessimismo di fondo.
È una iattura per un romanziere debuttare con un capolavoro, perché tutti i romanzi successivi saranno letti partendo dall’interrogativo “sarà all’altezza di …?”con rischio di relativa delusione. Questo sembra essere il destino di Umberto Eco, partito con “Il nome della rosa”, un capolavoro assoluto, da leggere e interpretare a più livelli, seguito da opere pregevoli, com’è certamente “Baudolino”, ma di valore meno elevato o meno coinvolgenti.
Dal punto di vista del lettore possiamo mettere a merito di questo libro che una volta tanto non ci si sente soverchiati dall’ostentazione di una cultura impressionante, come capita nelle altre opere; le citazioni sono di livello nazional – popolare, almeno per chi conosce la storia recente del nostro Paese, con l’unico vezzo dell’”infundibulo cronosinclastico”, attinto da un libro di fantascienza, la cui comprensione ha richiesto il ricorso a Wikipedia.
Mi auguro che Eco arrivi ad ottenere l’agognato Nobel della letteratura, che a mio avviso meriterebbe per tutta la sua produzione letteraria: se così sarà non lo dovrà certamente a questo romanzo, che è comunque leggibile, essendo consapevoli che si tratta di un Eco “light”.

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ai lettori di Eco che non nutrono troppe aspettative
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    05 Mag, 2015
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Le poche certezze dell’identità umana

Un romanzo che si racchiude fra le due minicertezze di un personaggio, esempio di inettitudine: l’incipit “Una delle poche cose, anzi la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal” ed il finale “Caro mio … io sono il fu Mattia Pascal”.
In mezzo il percorso di vita di un uomo che trova, in circostanze fortuite, la possibilità di liberarsi del peso della propria squallida condizione di vita e di assumere una nuova identità, vista come momento liberatorio, come conquista, salvo poi scontrarsi con l’impossibilità di dare alla nuova “maschera” una pienezza esistenziale. Il nuovo “io” è in realtà come un’ombra che lo segue, che “aveva un cuore, ma non poteva amare; aveva denari, ma chiunque poteva rubarglieli; aveva testa, ma per pensare e comprendere che era la testa di un’ombra”.
Dopo un’immersione in anni lontani nella lettura di Pirandello con le “Novelle per un anno” avevo staccato, omettendo proprio il romanzo in cui si trova tutta l’essenza del suo pensiero: il contrasto tra la realtà e l’illusione, tra il volto individuale e la maschera sociale; l’umorismo inteso come “sentimento del contrario” (la scelta che avrebbe dovuto dare la libertà a Mattia Pascal ha in realtà liberato la moglie da cui voleva staccarsi, mentre lui è rimasto prigioniero della nuova identità); il senso dei limiti della percezione umana della realtà universale, inserita nel contesto del romanzo con la “filosofia del lanternino”, esposta da Anselmo Paleari, il padrone di casa di Pascal/ Meis, la cui presenza consente allo scrittore il modo per inserirsi nel racconto, fatto in prima persona dal protagonista, con proprie considerazioni.
Lo stile brillante, di gran pregio, si unisce alla profondità del pensiero, alla lucida provocazione (non siamo come l’albero … a noi uomini è toccato un triste privilegio, quello di sentirci vivere), all'argomentare sottile. Il contesto ambientale è appena accennato, quasi claustrofobico, mentre la narrazione è focalizzata sulla tormentata psicologia di Mattia Pascal. Il risultato è un’opera fondamentale della letteratura, un romanzo la cui analisi ha generato un’enorme bibliografia di saggi critici.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    26 Aprile, 2015
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Ancora Montalbano e la sua squadra

Camilleri non ha mancato nel 2014 l’appuntamento annuale con gli appassionati lettori di Montalbano. Dopo “La piramide di fango” ha regalato loro in un unico volume otto racconti lunghi o, se si preferisce, romanzi brevi.
Dato che, a differenza di Maigret, il territorio di competenza del commissariato di Vigata ha una dimensione limitata e il tasso di criminalità, che si evince dalla serie di romanzi e racconti di cui è protagonista Montalbano, risulta già elevato anche per un territorio con vivace propensione criminogena, Camilleri ha evidentemente ritenuto opportuno diluire in un arco temporale più ampio i nuovi episodi. Per la verità per fare ciò è ricorso a qualche piccolo trucco. Il volume ha come sottotitolo “e altre indagini del giovane Montalbano” e in due indagini sono inseriti richiami a episodi della storia del nostro bel Paese: la morte di Sindona (1986) e l’attentato a Giovanni Paolo II (1981). In tal modo il lettore si convince che le vicende riguardino un periodo lungo e remoto dell’attività del commissario.
In realtà tali episodi non sono rilevanti per la trama, gli altri racconti hanno richiami temporali marginali (si parla di lire,non di euro; il questore è quello che ha un rapporto d’amicizia con Montalbano), mentre sono quelli di sempre “location” e “cast”, compresa l’eterna fidanzata Livia, il cui ruolo di donna oggetto mi stupisce non abbia suscitato, per quanto mi risulta, una ferma protesta di movimenti femministi. Come d’abitudine è ricca e vivace la galleria di personaggi di contorno.
Il lessico siculo – italiano, peculiare della scrittura di Camilleri, dà alla narrazione una particolare musicalità, la sensazione di ascoltare il racconto di un grande affabulatore. La lettura scorre così piacevolmente, pur essendo lontani dai libri migliori della serie perché la brevità di ogni episodio non consente un approfondimento dei caratteri e non sempre l’indagine è coinvolgente. Tuttavia non viene meno il gradevole rapporto con un commissario che opera con intelligenza e determinazione, con un rapporto disinvolto con le procedure, ma con una lineare interpretazione dell’umanità del suo ruolo.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    20 Aprile, 2015
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Doppia identità di una persona e di una città

Vi è una granitica coesione tra l’immagine sociale e l’auto rappresentazione dell’identità dell’ingegner Guido Marchisio, manager affermato nella sede torinese di una multinazionale, in piena ascesa sia nella vita professionale che in quella di coppia. Gli status symbols che segnano il suo ruolo, inclusa fra questi anche la sua compagna giovane, bellissima e intelligente, comprovano una solida condizione economica, non infastidita da pulsioni sentimentali o da sensibilità alle questioni sociali.
Nella sua torre d’avorio si apre però una crepa, quando un episodio puramente accidentale fa sorgere dapprima il dubbio poi la certezza di avere in sé una duplice identità: quella attribuibile ai fattori genetici dei genitori naturali e quella derivante dall’ambito familiare in cui è cresciuto. Due identità che hanno origini agli antipodi: una coppia di potenziali terroristi e una famiglia della borghesia torinese che l’ha adottato.
La curiosità, ma anche il senso di fastidio con cui aveva iniziato a indagare sulle proprie radici diventa, dopo un episodio drammatico, un processo dirompente. Se i padri hanno la colpa di esigere che i figli rendano conto delle loro azioni, questa pretesa diventa insostenibile se vi sono due padri antitetici. Tale lacerazione porterà l’ambizioso ingegner Marchisio ad afflosciarsi nella realtà di un “uomo senza qualità”.
Sulla duplice identità, sulle tensioni laceranti che ne son o generate, vi sono pagine fondamentali nella letteratura. Tuttavia in questo romanzo vi è una specificità: la stretta connessione fra le due identità in una persona e quelle che segnano la realtà urbana e sociale di Torino, con le sue caratteristiche del tutto peculiari. Una città in cui per decenni tutti sono cresciuti “ sotto l'occhio vigile della stesa matrigna, quella che una volta dettava il ritmo del nostro lavoro, del nostro riposo, che definiva l'orizzonte dei nostri sogni e che oggi, invecchiata e indebolita, è come quelle donne, un tempo bellissime, che del loro passato di creature magnifiche e crudeli, non hanno saputo conservare che la spietatezza". In questa immagine vi è la sintesi di un'evoluzione del sistema industriale e dei mutamenti sociali, delle dolorose tensioni che ne sono conseguiti.
Svanito con la fine di un protezionismo benevolo il rapporto tra la grande industria e la comunità torinese, idealizzato da Valletta, nulla sarà più come prima: la logica della competizione imprenditoriale porterà alla delocalizzazione di imprese, alla chiusura dei capannoni, alle tensioni che sfociarono nella “marcia dei quarantamila”. Una conflittualità che ha fatto emergere la contrapposizione tra due anime della città: una cultura torinese propria della borghesia, di cui Perissinotto tratteggia ironicamente in un flash un modo di essere, un valore, quello della discrezione: “Far piano, non disturbare, parlare a bassa voce, non chiamare le persone da una stanza all’altra”, e un nucleo antagonistico che ha fatto di Torino un epicentro del terrorismo.
Di tale realtà, “Le colpe dei padri” traccia un quadro vivo, con un’analisi della realtà torinese altrettanto ricca, ma certamente più coinvolgente di una ricerca di sociologia urbana. Lo stile è particolarmente gradevole, con efficaci pennellate che ampliano la narrazione a problematiche più generali, a considerazioni sulla storia del nostro Paese (da segnalare le frecciate sulle “creature dell’ombra”).
I frequenti rinvii a citazioni di film possono essere piacevoli per chi ama- come lo scrivente - il rapporto cinema – letteratura; possono, tuttavia, rappresentare un elemento di disturbo agli occhi di chi usa criteri più rigidi di valutazione dello stile narrativo

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    30 Marzo, 2015
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Più cinismo che eroismo

Fabrizio del Dongo, che passa fra i combattimenti di Waterloo senza capire se aveva partecipato ad una battaglia e la svolta storica che ne sarebbe seguita, è stato citato in un articolo di A. Cazzullo come modello della società attuale che vive un tornante della storia senza rendersene conto. Questa chiave di lettura del personaggio principale della "Certosa di Parma" mi ha convinto a riprendere in mano un libro che avevo iniziato molti anni or sono e che avevo abbandonato a metà percorso, deluso e annoiato.
La delusione era dovuta a un testo che, dopo un promettente inizio come romanzo storico, cambia rotta e si immerge nelle vicende di una corte parmense di pura fantasia, che fa da cornice alle vicende romantiche che costituiscono l'elemento portante del libro.
Avevo trovato, inoltre, noiosa una narrazione, troppo dettagliata, di vicende senz'anima. Il romanzo risente dell'epoca storica in cui si svolge: spenta la fiammata bonapartista, non ancora accesa quella risorgimentale, il periodo della restaurazione è un grigio momento della storia e gli intrighi nella corte di un principato da operetta mi erano apparsi ben poco emozionanti. Inoltre tali intrighi sono raccontati in modo così dettagliato che lo stesso Stendhal a un certo punto se ne scusa con il lettore.
Sensazioni che ho ritrovato in questa nuova lettura, pur nel tentativo di andare più a fondo nei personaggi e nel loro rapporto con lo scrittore. Zola, ammiratore di H. Beyle/Stendhal, lo paragonava ad un entomologo “la sua umanità non simpatizzava con quella dei suoi eroi, restava superiore alla loro miseria e alla loro follia, si contentava di fare il suo lavoro di dissezione, esponendo in tutta semplicità i risultati del suo lavoro”.
Accettando questa definizione si deve prendere atto che i quattro personaggi principali sono un campionario poco entusiasmante della miseria umana.
Fabrizio del Dongo è di fatto un antieroe, pilotato nelle sue scelte di vita dalla zia Gina, duchessa Sanseverina. Di fatto un personaggio bello e stolido, visto che le poche volte in cui agisce in autonomia rischia grosso e mette in difficoltà chi lo protegge: amante senza amore, ecclesiastico senza fede, lo stesso Stendhal ne fornisce un ritratto poco accattivante “voleva bene a Napoleone (però della sua morte non c’è traccia emotiva nel romanzo), ma nella sua qualità di nobile pensava di essere fatto per la felicità e trovava ridicoli i borghesi. Dopo il collegio non aveva più aperto un libro e quelli che aveva letto erano tutti riveduti e corretti dai gesuiti”. Lo stesso duello che lo incastra per l’uccisione di un teatrante non è esaltante né per l’oggetto della contesa, né per lo svolgimento, né per il suo comportamento dopo l’omicidio. Solo l’incontro con Clelia riesce ad accendere in lui il sacro fuoco di un amore che appare però del tutto insensato per come nasce, per come lo vive e per come si conclude.
In tale rapporto Clelia Conti, unica figura aliena da intrighi e bassezze, diventa nelle conclusioni il classico agnello sacrificale.
La zia Gina, duchessa Sanseverina, bellissima e spregiudicata, intelligente e gioiosa, liberale, ma a pieno agio negli intrighi di una corte dispotica, cinica al punto che lo stesso Stendhal nella prefazione ne prende le distanze, per amore del nipote – un amore che sente quasi incestuoso, anche se rimane platonico – diventa autrice di operazioni spericolate per salvarlo, con l’impeto e la passione di un’eroina romantica.
Il Conte Mosca è un intelligente cortigiano, eminenza grigia del principato, in bilico tra un Machiavelli ed un Metternich su piccola scala: solo nel rapporto con la Sanseverina subisce il fascino e il gioco della donna di cui è innamorato al punto di mettere a rischio per lei patrimonio e carriera, anche se poi è l’unico che riesce a conseguire i propri, concreti obiettivi.
Spesso nella letteratura la passione amorosa si accende ed esplode solo quando si scontra con i muri dei divieti, delle negazioni, delle regole da infrangere. Non sono però riuscito a trovare in questo romanzo il pathos o la poesia che possono dare emozioni profonde.
Il romanzo è stato scritto in 53 giorni, un tempo da Guinness dei primati: tale rapidità di stesura ha però comportato un pesante squilibrio nella sua struttura. Solo la prima parte, sino al capitolo V, è ricca di tensioni ideali, di belle pagine con piacevoli descrizioni del paesaggio lacustre. La parte successiva, sino alla conclusione (quindi l’ottanta per cento del romanzo) è dedicata a intrighi, veleni e sgherri, peripezie, slanci amorosi e frenate, il tutto con un dettaglio descrittivo che non regge la potenziale tensione narrativa. La conclusione, che dovrebbe essere la parte più emozionante, è invece sintetizzata in metà del capitolo finale, sembra su sollecitazione dell’editore che chiese a Stendhal di tagliare trecento pagine. Il libro si chiude come “La forza del destino” verdiana per l’uscita di scena di quasi tutti gli attori.
Diventa difficile non pensare, con ammirazione e affetto, al confronto con il nostro buon don Lisander che nello stesso periodo dedicava ai “Promessi sposi” dodici anni e tre edizioni.
A merito di Stendhal si può ascrivere il ricorrente richiamo all’italianità, al carattere ed al temperamento degli italiani portati a motivazione di comportamenti ed atteggiamenti diversi da quelli che attribuisce ai francesi. Valutazioni che esprimono il suo amore per il nostro Paese, anche se basati su stereotipi che fanno sorridere, ben poco realistici in un Paese frammentato come l’Italia di allora, dove l’italianità era tutta da costruire come affermò D’Azeglio anni dopo. Tuttavia, quei richiami ad una identità unitaria, espressione di una realtà nazionale, possono aver contribuito ad alimentare l’idealismo risorgimentale.
Mi sento di consigliarlo solo a chi non vuol farsi mancare la lettura di un testo iscritto fra i classici della letteratura romantica.





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GPC36 Opinione inserita da GPC36    17 Marzo, 2015
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Britannia felix

Leggere “Il Circolo Pickwick” significa aggregarsi all'allegra combriccola di quattro componenti di un club con velleità scientifiche che nel 1827 iniziano a scorrazzare per l’Inghilterra, sotto la guida del munifico e gioviale Mr. Pickwick. Significa provare con loro le scomodità del viaggio sull'imperiale delle diligenze, entrare in locande dell’epoca con insegne roboanti, sedersi a tavola per generose abbuffate di pasticci di carne, di ostriche e di roast-beef, accompagnati da libagioni di birra e ponce. In questi viaggi, che li portano a toccare diverse località di un’Inghilterra serena, i quattro sodali incorrono in molte e divertenti disavventure, ma anche in piacevoli incontri. Il Circolo Pickwick è una ricchissima galleria di personaggi: oltre a Mr. Pickwick ed ai tre amici Snodgrass, Tupman e Winkle riempiono la scena il servitore Sam Weller e suo padre, Jingle un folcloristico truffatore, il simpatico ed ospitale Mr. Wandle, le figure femminili essenziali per il lieto fine del romanzo e una serie di comparse che contribuiscono in vario modo a vivacizzare il racconto.
Dickens usa una bonaria ironia per le avventure e disavventure del gruppo di amici, ma il tono diventa pungente quando descrive lo scontro in un collegio elettorale, le lotte fra i giornali locali o le dispute di carattere pseudo scientifico ed assume il tono di un acre sarcasmo quando prende di mira l’ambiente dei tribunali e i diabolici avvocati Dodson e Fogg
Nell'impianto narrativo del “Circolo Pickwick”, primo romanzo di Dickens, si intrecciano tre diversi filoni letterari. Il romanzo picaresco, che ha avuto in Don Chisciotte l’espressione più alta, lo si ritrova nel rapporto tra Samuel Pickwick e il fedelissimo Sam Weller, nuovo Sancho Pancia, ma anche nella determinazione di Pickwick che, come don Chisciotte contro i mulini a vento, entra nella prigione per debitori per ribellarsi ad una sentenza ingiusta. Inoltre il Circolo Pickwick è considerato la pietra miliare della letteratura umoristica inglese che si ritroverà poi in Chesterton, J. K. Jerome e Wodehouse e in molte altre firme. Infine, nella descrizione della prigione per debitori di Marshalsea, che Dickens conosceva per aver ospitato suo padre, vi sono le prime pagine della letteratura sociale ottocentescadi cui Dickens è stato il precursore e il maggior esponente.
Nel “Circolo Pickwick”, lo stile è chiaro, godibile, con una narrazione infiorata dalle pittoresche uscite di Sam Weiler e del padre e intervallata dall'inserimento di raccontini, estranei alle vicende del gruppo di amici, narrati da occasionali interlocutori. Uno stile adatto alla finalità di rendere il romanzo, pubblicato in dispense mensili, accessibile a un’ampia area di lettori, come avvenne con il raggiungimento di un picco di diffusione eccezionale per l’epoca. Uno stile che ancor oggi fa scorrere velocemente le quasi mille pagine del libro.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    28 Febbraio, 2015
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Una Francia sconfitta e senza eroi

Non ricordo libri nei quali le emozioni della lettura sono state così forti e così strettamente connesse con la vita di chi li ha scritti, come mi è successo leggendo Irene Nemirowsky. Considerazione che vale per l’infelice rapporto con la madre che si riversa in “Il ballo”, ma che vale soprattutto per “Suite francese”. Il libro doveva essere costituito da cinque parti, ma è rimasto, purtroppo, incompleto per la tragica fine della scrittrice ebrea, imprigionata ad Auschwitz e morta nei lager. I quaderni, dove sino al 1942 aveva scritto il testo, sono statti salvati dalle figlie e sono arrivati alle stampe solo nel 2004.
La prima parte “Temporale di giugno” descrive lo sbandamento dei parigini dopo il crollo del fronte antitedesco. Nell'esodo sembrano cadere le barriere tra i personaggi dell’alta borghesia, gli snob e la massa popolare, ma subito dopo l’armistizio lo spirito di solidarietà di fronte alla tragedia si allenta, e gradualmente si cerca di ricostituire le situazioni di privilegio, disposti ad accettare le squallide condizioni del collaborazionismo della repubblica di Vichy.
La seconda parte “Dolce” descrive il rapporto tra i residenti in un paese occupato e gli invasori, con le contrapposizioni che tendono ad allentarsi sino a sfiorare una storia d’amore tra la moglie di un militare francese prigioniero ed un ufficiale tedesco, alloggiato nella sua abitazione
Colpisce drammaticamente il rispetto della Nemirowsky per coloro di cui sarà vittima, quando riconosce tratti di umanità nell'ufficiale tedesco, annullati comunque dal rigore della disciplina militare, mentre, particolarmente nella prima parte, la rappresentazione della viltà e della pochezza dei singoli personaggi ritrae un campionario della società francese sconfitta, che esce a mal partito dalla penna dura ed impietosa della scrittrice.
Il libro è notevole per lo stile scorrevole, la penetrante descrizione delle persone e dell’ambiente. L’ironia alleggerisce solo a tratti la superficie dei ritratti.
Nel testo incompleto e non revisionato dalla scrittrice vi sono le premesse per un grande romanzo nella tradizione dei maggiori romanzieri autori dell’ottocento, in particolare di Balzac; comunque, pur nei limiti di questa stesura, il libro è da classificare tra le opere da leggere e da ricordare.
Resto in attesa della versione cinematografica, di prossima uscita, con il fondato timore che la vicenda sentimentale prevalga, soffocando la denuncia sociale e il dramma personale. Pronto, ovviamente, a ricredermi se necessario.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    22 Febbraio, 2015
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Indagini fra una briscola e il biliardo

Il gruppo di vecchietti del “BarLume” ritorna in scena per affrontare in questo giallo ben due casi. Il contesto è quello già noto ai lettori di Malvaldi: il BarLume nella località di Pineta, solo apparentemente tranquillo luogo balneare del litorale pisano. In realtà il successo del gruppo di investigatori dilettanti, protagonisti con questo di cinque romanzi, ha comportato, come per la Vigata di Montalbano o la Gubbio di don Matteo, una lievitazione del tasso di criminalità locale.
Anche in questo romanzo i vispi ottantenni agiscono da gruppo di sostegno del “barrista” Massimo, vera mente del nucleo d’indagine, applicando scientificamente il TFP ( teorema fondamentale del pettegolezzo) che trova nel bar “unico luogo oggettivamente democratico” la sede fondamentale per il pettegolo.
Come per tutti i romanzi gialli meno si parla del contenuto criminoso più si fa contento l’autore e il potenziale lettore. È sufficiente dire che la conclusione delle indagini è la sintesi di un brillante lavoro di squadra dove, scontato il supporto dei “quattro soprammobili di modernariato semoventi”, le capacità logiche e tecnologiche di Massimo operano in brillante sintonia con la grinta della nuova commissaria di polizia: una sintonia che sembra preludere a futuri sviluppi e a nuovi romanzi. Questo sempre che chi ha la competenza in materia tenga in buona salute i quattro vecchietti ai quali, anche per affinità anagrafiche, va tutta la mia simpatia.
Lo stile è quello già collaudato con successo: un vernacolo toscano simpaticamente sboccato, un’ironia spumeggiante che coinvolge anche note di costume, una raffica di battute che consigliano cautela nella lettura in ambiente pubblico per evitare imbarazzanti sghignazzate. Il punteggio pieno ha una precisa motivazione: se la lettura serve anche (non solo, per carità!) ad aiutarci a rendere più gradevole l’esistenza, questo libro lo merita pienamente.

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Gli altri libri della serie e a chi non li ha letti, ma vuole avere il piacere di una lettura rilassante
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Romanzi storici
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    11 Febbraio, 2015
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Avvertenze per l'uso

Come faceva Schopenhauer anche I. Yalom non si pone evidentemente il problema dell’effetto commerciale del titolo, ponendo al centro il nome di un filosofo(come farà anche nei due successivi volumi con Nietzsche e Spinoza). È però un onesto segnale che il libro si colloca a cavallo tra il romanzo e il saggio.
Né tende a creare un rapporto empatico con un incipit che mette il lettore di fronte agli interrogativi più pesanti e difficili che la vita può porre “che senso ha avuto la mia esistenza?”, “come posso affrontarne la fase finale, se mi è stato detto che sono in dirittura d’arrivo?”. Interrogativi che, anche se in forma ipotetica il secondo, dovrebbero essere ben presenti nel percorso esistenziale, ma che in una società secolarizzata si tende a rimuovere accuratamente.
Interrogativi che deve porsi il personaggio centrale del romanzo, lo psicoterapeuta Julius Hertzfeld, a seguito di una diagnosi medica che gli assicura solo un anno di vita. Dopo la crisi iniziale, decide di affrontare razionalmente la situazione, tracciando un bilancio della propria vita professionale: assieme alla gratificazione per gli aiuti dati a chi ha beneficiato delle terapie, si chiede le motivazioni dei pochi fallimenti e vuole verificare se vi siano stati effetti positivi successivi . Sceglie fra questi casi il più ostico, quello di Philip Slate che ha seguito anni prima in terapia individuale, per aiutarlo a uscire da una situazione ossessiva di dipendenza sessuale. Lo ritrova guarito perché convinto di aver trovato nel pensiero di Schopenhauer il giusto antidoto. Non persuaso dei risultati Julius riesce a trovare gli argomenti per inserirlo in un gruppo terapeutico, dove Philip intende portare le sue riflessioni sul maestro del pessimismo..
Da questo punto nel libro si intrecciano tre fili: l’attesa del momento finale per Julius, l’attività del gruppo terapeutico, la vita ed il pensiero di Schopenhauer, narrati in sequenza alternata con i capitoli dedicati al gruppo terapeutico. Tre argomenti potenzialmente micidiali che I. Yalom, da affermato psicoterapeuta, riesce invece a narrare coinvolgendo il lettore, fornendogli spunti a raffica per una riflessione sul senso dell’esistenza, grazie anche all’apporto degli aforismi e delle citazioni del pensiero di Schopenhauer.
La lettura del libro è consigliata SE:
• Si considerano gli interrogativi sul percorso esistenziale non argomenti disturbanti, ma stimoli a una riflessione di fondo, con un possibile, positivo effetto terapeutico per chi è ancora in tempo per apportare correttivi di rotta;
• Nei confronti delle terapie di gruppo si prova una forma, quanto meno, di curiosità, che può benissimo coesistere con una (sana) diffidenza. In questo caso il libro offre uno scorcio interessante delle dinamiche, delle interazioni, dell’articolazione dei sentimenti, del lessico ed anche delle aggressività in un gruppo di persone con problematiche diverse. Prevale, comunque, sull’interesse per i singoli casi quello sul metodo di lavoro e sui risultati. Ovviamente ciascuno dei lettori trarrà poi le proprie conclusioni, sull’opportunità di provare tali esperienze o di starne alla larga;
• Pur non disponendo, come lo scrivente, di una solida base in filosofia si prova interesse per conoscere il pensiero e la vita di un filosofo, raccontati in forma chiara e scorrevole. Sono pagine che consiglierei di assumere in piccole dosi, con pause di riflessione che il pensiero di Schopenhauer merita, anche se non è condiviso/condivisibile.
A queste condizioni, quando si chiude l’ultima pagina di un libro certamente non lieve, si può avere, come ho avuto, la piacevole sensazione di aver imparato e di aver ricevuto sollecitazioni importanti per riflessioni non banali: e questo sappiamo che non succede frequentemente con la lettura.

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Romanzi
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    09 Febbraio, 2015
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Il dolore che si prova e quello che si provoca

Un romanzo che inizia dalla fine: dalla fine di una storia d’amore, con una decisione che Connie comunica al marito nel mezzo della notte. Inizia così la presa d’atto di una situazione di crisi in una coppia che ricorda il quadro “La promenade” di Chagall: lui, Douglas, soggetto narrante del romanzo, ricercatore biochimico, solidamente ancorato al suolo dalla sua cultura scientifica, attento alla realtà economica, cresciuto in una famiglia rigidamente conservatrice, tendenzialmente introverso; lei, Connie, aspirante pittrice, svolazzante in un ambiente di artisti, libera ed anticonformista. In un rapporto di complementarietà Douglas trova un’apertura a nuovi interessi ed è spinto a uscire dal bozzolo in cui tendeva a chiudersi, lei ne riceve sicurezza e protezione per liberarsi da una situazione a rischio.
Il rapporto ha funzionato bene, almeno dal punto di vista di Douglas, per venticinque anni. La perdita di una figlia appena nata aveva consolidato il loro legame, mentre con la successiva nascita di un figlio inizia ad aprirsi una leggera fessura fra loro, che si allarga sino al momento della rottura quando Albert deve lasciare la famiglia per andare al college. In questi anni Douglas ha cercato di educare il figlio alla sua visione della vita, illudendosi di poterlo plasmare, senza rendersi conto che le divergenze nei loro interessi erano semplicemente le manifestazioni delle sue affinità con la madre e che come tali andavano accettate.
Nonostante la decisione di chiudere il rapporto coniugale, Connie vuole confermare il programma già fatto di un Grand Tour in Europa con il figlio, premio per il suo ingresso nel mondo degli adulti. Un viaggio che Douglas ha accuratamente programmato nelle sue tappe, a cui ora ha aggiunto un decalogo di comportamento per tentare di riconquistare la moglie.
Dal momento in cui inizia il viaggio il romanzo prende un ritmo vorticoso nel tempo e nello spazio. Un amore che finisce porta a rievocare tutti i passaggi di una storia, i momenti felici e quelli più dolorosi e nel romanzo vi è un continuo intreccio tra il viaggio ed i ricordi del passato. Lo stesso vale per un amore verso il figlio che non riesce a trovare il modo per essere ricambiato. Douglas ritorna su tali momenti, con una precisione di dettagli da autobiografia, quasi autolesionistica, rendendo evidenti le radici familiari della sua esigenza di affetto..
Il romanzo si snoda nel viaggio in Europa, con tappe a Parigi, Amsterdam, Monaco, Venezia, Siena, Madrid e Barcellona, con pagine in cui Nicholls indulge un po’ a descrizioni da guida turistica, peraltro piacevoli. Come le tensioni in un viaggio a tre, cui si aggiunge una fisarmonicista da strada, portino Douglas ad un’eroica dimostrazione del suo amore per i famigliari e quali saranno i risultati lo lasciamo scoprire ai lettori.
Nicholls riesce molto bene a far sentire la profondità del dolore di Douglas, a far riflettere sulle ferite che si aprono per un amore che finisce o per un amore paterno (in questo caso) non corrisposto, sulla insensibilità per il dolore che si provoca. La tensione dolorosa è ammorbidita da una scrittura ironica e da passaggi divertenti che rendono molto piacevole la lettura di un romanzo innegabilmente british nel self-control di Douglas e nello humour della narrazione .

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Gialli, Thriller, Horror
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    19 Gennaio, 2015
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Camilleri è un'altra cosa

No, non c’è nessuno fuori di testa, annegato nel golfo di Napoli dove Max Gilardi (personaggio principale del precedente romanzo “Niente lacrime per la signorina Olga”) si è trasferito dopo la morte della moglie, sua collega nella polizia, abbandonando il ruolo di commissario per tornare alla sua città e alla professione familiare di avvocato.
Il titolo si riferisce ad una posizione degli scacchi, in cui il re subisce lo scacco matto perché non può muoversi essendo bloccato dai propri pezzi. Si richiama a questa figura Elda Lanza per descrivere la situazione che consente a Max Gilardi di dare scacco all’assassino di un giovane dell’alta borghesia napoletana. A questo primo caso, brillantemente risolto, si concatena un secondo episodio in cui si intrecciano camorra, criminalità pugliese e figure politiche locale. La vicenda è ambientata in una Napoli ben lontana da Scampia, ma non per questo meno inquinata dai rapporti con la criminalità.
È ammirevole, stupefacente la vitalità di Elda Lanza, oggi novantenne, che racconta in 410 pagine le due vicende. Averla battezzata la “Camilleri in gonnella” è stata certamente una felice definizione, una bella operazione di marketing, essendo i due autori di polizieschi coetanei. Tuttavia tale definizione trascina inevitabilmente un confronto che vede uno stacco netto dello scrittore siciliano. Lo stile della scrittrice lascia uno spazio eccessivo al dialogo, ai personaggi minori, alle vicende sentimentali e di letto di Max Gilardi, alle descrizioni degli eventi mondani, nei quali Elda Lanza ha una notevole e consolidata competenza, mentre la narrazione è troppo diluita, facendo calare la tensione sulle inchieste. Il risultato è che nel primo episodio il lettore arriva alla soluzione del caso cinquanta pagine prima di quando è risolto nel romanzo; nel secondo, la soluzione, compressa nelle pagine finali, ha un impianto indiziario che lascia aperti molti interrogativi, che sarebbe interessante vedere quanto reggerebbe alla prova di un’aula di tribunale. Ma questa è un’altra storia ….

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Racconti di viaggio
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    27 Dicembre, 2014
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Tra scetticismo e spiritualità

Mentre si avvia alla fine il decennale della morte di Tiziano Terzani appare giusto proporre la lettura del libro che scrisse dieci anni prima, per narrare un’esperienza personale destinata a segnare il suo futuro.
Una lontana predizione di un indovino che aveva previsto il pericolo di un incidente aereo nel 1993 diede a Terzani lo spunto per evitare per un anno di volare, continuando, comunque, l’attività di corrispondente in Asia di Der Spiegel. Per tutto il 1993 si è spostato in lunghi, faticosi viaggi nei paesi asiatici usando ogni altro mezzo di trasporto -treni, navi, scooter, auto ed anche a piedi-, evitando i “non luoghi” degli aeroporti e riscoprendo in tal modo la ricchezza delle esperienze di viaggio che consentono di stabilire un contatto diretto con la realtà umana e sociale dei paesi visitati. Per inciso tale scelta gli ha evitato così di imbarcarsi su un elicottero dove si troverà il collega di der Spiegel che l’aveva sostituito e che cadde!
Il rapporto con l’indovino accese la curiosità di Terzani che in ogni tappa cercò di indagare il mondo dei veggenti e chiromanti, diffusissimi nei paesi asiatici, incontrando maghi, ciarlatani, ma anche figure che pongono interrogativi sugli aspetti di una realtà culturale che la razionalità occidentale tende ad irridere.
Il viaggio lunghissimo, che partì dalla Thailandia, toccando Laos, Birmania, Singapore, Cambogia, Vietnam, Cina, Mongolia e via Transiberiana il ritorno in Europa, riporta la testimonianza dei segni delle guerre che nel secolo scorso hanno generato tragedie sanguinose e della pesante transizione dalla realtà sociale e culturale del passato, in cui spiritualità e magia avevano un ruolo forte, ad un modello globalizzato, pesantemente influenzato dalla Cina e dalla sua evoluzione dopo la rivoluzione culturale.
A memoria degli aspiranti rivoluzionari è utile riportare la considerazione di Terzani sulla rivoluzione maoista: “Strano destino quello di Mao! Aveva voluto dare vita ad una nuova Cina, rifondando la sua civiltà, imponendole nuovi valori e aveva finito per distruggere quel poco che ancora restava della vecchia. È stato Mao a voler togliere ai cinesi quell’ultima coscienza di essere diversi grazie alla loro civiltà per mettere loro in testa che erano diversi perché rivoluzionari. È bastato dimostrare che quella rivoluzione era un fallimento perché la tragedia arrivasse al suo epilogo, perché i cinesi andassero alla deriva e fossero presi dalla corrente dei tempi: quella di diventare come tutti.”
Vi è spesso in Terzani il rimpianto di civiltà e culture perdute, senza però poter dimostrare come tali “civiltà” avrebbero potuto garantire un’esistenza migliore, tanto più che nella storia del sud est asiatico le guerre interne e le stragi ( con l’apice di Pol Pot e dei Kmer rossi) sono state molteplici e sanguinose. Certo che appare difficile anche difendere il modello attuale, dove droga, Aids e prostituzione pervadono la realtà sociale, sia pure in misura diversa nei singoli paesi. Peraltro neppure l’ordine rigoroso di Singapore attira Terzani, anche se ammette di essere diviso tra ammirazione e disgusto.
L’esperienza di quell’anno, che si concluse con la partecipazione ad un corso di meditazione buddista, lasciò evidentemente una traccia profonda sul successivo percorso esistenziale di Terzani, segnato dalla ricerca di un punto di incontro tra una spiritualità non dogmatica e la razionalità della cultura occidentale, di una risposta agli interrogativi che tormentano, al termine di una vita, un’intelligenza mai totalmente appagata.

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Romanzi storici
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    21 Novembre, 2014
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Mano leggera per una cupa realtà

Con mano lieve Markus Zusak accompagna il lettore nel periodo più cupo della storia dell’ultimo secolo. Scrittore già affermato, con esperienze di libri per ragazzi, si rivolge ai giovani con forme accattivanti, con un fraseggio breve, con l’inserimento di variazioni grafiche e di disegnini, assegnando alla morte il ruolo di soggetto narrante. Questa figura – una morte anche benevola, senza la falce, una raccoglitrice di anime –è un elemento spiazzante per i lettori più maturi, in quanto irrazionale e artificioso. Tuttavia tutti gli espedienti narrativi contribuiscono ad avvicinare i lettori più riluttanti o amanti del fantastico, così che anch’essi possano beneficiare del più bel regalo che in questi anni uno scrittore abbia fatto ai giovani.
Zusak mostra loro l’orrore di una guerra insensata, portandoli oltre quello che possono trovare nei libri di storia, per mostrare la realtà umana di una comunità trascinata dalla follia di un leader. Per far ciò parte da un angolo di visuale particolare: il microcosmo di Himmelstrasse in un paesino bavarese, dove la tragedia della seconda guerra mondiale si traspone senza sconti, dall’avvento del nazismo, alla persecuzione degli ebrei sino alla distruzione conclusiva.
Nell’ambiente cupo della catastrofe incombente, in un contesto di povertà e di fame, solo i libri offrono a Liesel una possibilità di evasione dalla realtà. Arrivata faticosamente e fortuitamente alla lettura, partendo dal “Manuale del necroforo”, la “fame” di nuovi libri è più forte di quella causata dalla mancanza di cibo, tanto che quando decide di rubare con il suo amico Rudy lo trascina ad un furto di libri nella biblioteca del sindaco. Il romanzo trasmette quindi un messaggio forte, coinvolgente sul valore della lettura e della parola.
Parlare di un libro rivolto ai ragazzi non ha tuttavia il significato riduttivo di un libro PER i ragazzi. Come non sentire emozione e commozione seguendo il passaggio di Liesel dall’infanzia alla preadolescenza? O la profonda umanità dei genitori adottivi, ruvida in superficie la madre, capace di tenero affetto il padre, disposti a rischiare tutto, ospitando un ragazzo ebreo, per mantenere fede ad una promessa? Si sorride,prima della fine, per Rudy, il tenero amico di Liesel, e si freme per la sorte di Max, il ragazzo ebreo. Su tutto aleggia pesante e greve l’ombra della dittatura e della guerra.
“Storia di una ladra di libri” è un romanzo che tutti dovrebbero leggere e, genitori ed educatori, far leggere.
Il romanzo, per mesi collocato nelle top ten delle vendite, ha avuto nel film un trampolino di lancio, tanto da essere stato riedito, dopo l’uscita nelle sale cinematografiche con lo stesso titolo, cambiando quello precedente “La bambina che salvava i libri”. Un bell’esempio di rapporto positivo tra cinematografo e letteratura.



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Romanzi
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    11 Novembre, 2014
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Difficile essere maestri di vita

Acquistato e riposto nel cumulo dei libri da leggere vi è rimasto per qualche anno, per istintiva diffidenza. Dopo essermi deciso a prenderlo in mano ho dovuto constatare che le perplessità erano motivate.
Il primo, a mio avviso fondamentale, limite del romanzo è la scelta di un titolo che anticipa la chiusura. Così, durante tutta la lettura, si è portati a chiedersi se la nonna che scrive una lettera fiume alla nipote, alla quale si apre con la narrazione di tutte le proprie esperienze, ha la credibilità necessaria per essere maestra di vita o se la lettera è solo una confessione liberatoria, lo sfogo nella parte finale di un’esistenza inaridita dalla mancanza di affetti. Un’esistenza segnata dall’impossibilità o dall’incapacità di comunicare –con la madre, con la figlia, con il marito e con la nipote- perché subisce le chiusure degli altri o perché non riesce a manifestare le proprie esigenze, a rivendicare il proprio diritto di essere amata. Anche la lettera è una manifestazione di tale incapacità: le lettere che non sono alla base di un epistolario, di uno scambio reciproco, le lettere unidirezionali valgono come mezzo di denuncia, di rivendicazione, non come strumento per un’effettiva comunicazione.
L’immagine della nonna che emerge da questa confessione è irritante. Una vita protetta dagli agi di una condizione alto borghese (il padre era un barone), si è svolta senza una tensione positiva: un insegnamento indiano “il fato possiede tutto il potere, lo sforzo di volontà è solo un pretesto” sembra soddisfare la protagonista, fornendole un alibi per la propria filosofia esistenziale. Una vita arida e inaridita, in cui l’unica fiamma passionale è vissuta in modo da evitare danni e mantenere i vantaggi. Non ci sono in questo personaggio né Emma Bovary né Anna Karenina; non vi sono, cioè, le passioni che si ritiene abbiano nel cuore la loro sorgente e che comportano spesso conseguenze laceranti.
Solo nella confessione finale emergono le cicatrici delle grevi responsabilità che si è assunta con il peggiore dei tradimenti che una donna può commettere, concependo la figlia con un amante, e con il trauma che ha provocato alla figlia la rivelazione della paternità, possibile causa indiretta della sua morte in un incidente d’auto.
La constatazione conclusiva che la vita non si svolge con un percorso rettilineo, ma ci pone di fronte ad una serie di bivi e che molte volte le nostre scelte sono inconsapevoli, è quella cui si arriva spesso nella fase della vita in cui ci si rivolge al passato perché il presente è tendenzialmente grigio ed il futuro ristretto e preoccupante. Va certamente a merito di Susanna Tamaro l’essersi calata nella psicologia di una persona ottantenne,. Trarre da tale considerazione l’ammaestramento di scegliere seguendo il cuore appare però incongruente con il bilancio della sua esistenza: quanto meno verrebbe da aggiungere una postilla ironica, parafrasando uno slogan di moda tempo fa “Prima di andare dove ti porta il cuore verificare che il cervello sia collegato”.
Ciò che è da riconoscere all’autrice è lo stile con spunti di reale poesia e l’essersi quasi incarnata nel personaggio, reso con una piena partecipazione. Si spera sia questa la ragione del successo editoriale.

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Romanzi
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    06 Novembre, 2014
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All'ombra dell'Atomium

Attirato alla lettura dal richiamo ad un avvenimento lontano, a cui avevo avuto l’occasione di partecipare in età giovanile, ho ritrovato nel libro di J. Coe spirito ed emozioni di un evento che – con buona pace dei conterranei milanesi – non saranno più eguagliati nelle Expo successive. Nell’Expo di Bruxelles vi erano tutte le speranze di un futuro di benessere dopo la tragedia bellica, ma anche i segnali della guerra fredda che, dopo poco tempo, si sarebbe materializzata nel muro di Berlino e che allora si manifestava nell’avvio della competizione spaziale, con lo sputnik orgogliosamente esposto nel padiglione dell’Unione Sovietica.
In tale contesto, scenario ideale per le attività di spionaggio, J. Coe ambienta una spy story che è un piacevole mix di thriller e di humour inglese: Ian Fleming, che negli anni ’50 aveva pubblicato i primi libri su James Bond, shakerato con Woodhouse. Thomas, il protagonista, è una figura agli antipodi di 007, di cui è comunque un estimatore: imbranato seduttore, spia suo malgrado, si trova invischiato in una vicenda di intelligence, reale e non priva di vittime. Solo nella fase finale si rende conto fino in fondo di essere stato manovrato da una coppia di personaggi che, solo con apparente signorilità, lo arruoleranno suo malgrado. Trattandosi di un thriller di più non diciamo!
Il libro è di piacevole lettura, la ricostruzione storica ed ambientale dell’Expo accurata anche nei dettagli , la vicenda sufficientemente plausibile per piacere agli amanti del thrilling.

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Thriller ironici e leggeri
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Classici
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    04 Novembre, 2014
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Il buio dell'animo umano

Narrazione nella narrazione, Marlow – protagonista del romanzo - racconta ai suoi compagni, a bordo di una nave alla fonda alla foce del Tamigi, l’avventura di un suo viaggio al centro dell’Africa. Verso la fine dell’ottocento, al comando di un battello rabberciato, aveva risalito per centinaia di miglia un fiume nel cuore del continente, alla ricerca di Kurtz, un agente della compagnia dedita al commercio dell’avorio, diventato una leggenda sia per la quantità di avorio procurato sia per la fama di personaggio fuori dal comune.
Il viaggio è un’immersione in un ambiente oscuro, tenebroso, ma le tenebre della foresta sono un’immagine di un buio più profondo, quello che si trova nel cuore degli uomini quando la luce ingannevole delle illusioni si spegne. Infatti Cuore di tenebra è non solo una denuncia sferzante del colonialismo, ma anche un’amara riflessione sull’umanità e sulle illusioni. L’illusione di Marlow che, animato inizialmente da uno spirito di avventura, si era via via caricato dell’attesa di conoscere un personaggio eccezionale, ma poi delle doti di Kurtz riesce solo a cogliere pochi scampoli e a raccogliere le sue ultime parole “Che orrore!Che orrore!”. L’illusione di Kurtz, che aveva seguito un sogno di grandi cose, manifestate nel delirio dell’agonia, ma poi ridotte ad un dominio sulle popolazioni locali, affascinate dalla sua personalità: le sue ultime parole ne sintetizzano il dramma esistenziale “La sua era una tenebra impenetrabile. Lo guardai come si scruta un uomo che giace in fondo ad un precipizio dove non splende mai il sole”.
L’illusione più amara e la tenebra più cupa è tuttavia quella di una società convinta di portare nel cuore dell’Africa una testimonianza di civiltà, ma in realtà protagonista solo di un’operazione di conquista e di spoliazione, non dissimile da quella degli antichi romani in Bretagna, suggestionati dal fascino dell’abominio della devastazione – come dice Marlow riprendendo una frase evangelica (Matteo 25:14). Non vi è civiltà portata nel mondo africano, ma avidità e sfruttamento schiavistico, smania di spoliazione delle ricchezze del territorio.
Rimarrà viva solo l’illusione della fidanzata di Kurtz, a cui Marlow porta un pacchetto di lettere, che si aspetta di essere stata ricordata nel momento finale, in ciò rassicurata dalla pietosa menzogna di Marlow, e che conserverà per sempre il ricordo di un uomo che vede ancora come eccezionale.
Il libro ha una componente autobiografica, poiché Conrad vi riporta stati d’animo e riflessioni frutti dei suoi viaggi nel Congo, dove era in atto lo sfruttamento colonialistico di Leopoldo II. Tuttavia il romanzo non si presta solo ad una lettura storicizzata, poiché l’avidità umana non ha una limitazione nella storia, come dimostra la sua trasposizione nel passato prossimo del Vietnam, fatta da F. F. Coppola in Apocalipse now.
Lo stile è di grande pregio, classico, con una splendida descrizione del contesto ambientale.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    28 Ottobre, 2014
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Per lo scaffale dei classici

Il libro è tanto coinvolgente e di tale rilevanza che non ho saputo sottrarmi al desiderio di unirmi alle belle recensioni già ospitate.
Definire “La famiglia Karnowski” una saga familiare può apparire riduttivo, per un romanzo in cui si intrecciano strettamente i rapporti tra la comunità ebraica e i”gentili”, la loro evoluzione nella fase della nascita e della conquista del potere da parte dei nazisti, i dissidi culturali interni al mondo ebraico, la drammatica tensione interiore che nasce dalla ricerca di un punto di equilibrio per la convivenza fra le due identità di ebreo e di tedesco, con le lacerazioni che ne derivano nei rapporti intergenerazionali..
Il romanzo è articolato in tre parti, corrispondenti alle figure centrali di tre generazioni, ma anche ai tre paesi in cui è ambientato: Polonia, Germania e Stati Uniti.
David, la figura cui è dedicata la prima parte, è un appassionato cultore delle tradizioni e della religione ebraica, tanto da lasciare la Galizia per Berlino a seguito di una disputa religiosa. In questa parte I. J. Singer, figlio e nipote di rabbini, conduce il lettore non ebreo nei rituali, nelle tradizioni e nella cultura yiddish, nelle citazioni talmudiche ed anche nei conflitti di pensiero del mondo ebraico. È la parte più suggestiva, con una ricca terminologia yiddish, resa accessibile da un glossario, che ci riporta ad una Germania vitale, in cui la componente ebraica e la società prussiana convivono senza amalgamarsi, ma con un reciproco rispetto basato anche su concreti interessi. David sintetizza la possibilità e la regola di convivenza nel principio "ebreo in casa, tedesco fuori".
Un equilibrio che si rompe già con il figlio Georg, indifferente a tutto ciò che riguarda l’identità ebraica, sino al punto di sposare una cristiana. Tale scelta porta alla rottura dei rapporti con il padre che constata amaramente l’inversione del suo principio di vita in quello di “essere goyim in casa ed ebreo fuori”. Un’inversione pericolosa quando l’antisemitismo diventa elemento fondante del nazismo al potere, provocando per i Karnowski il crollo della situazione di notevole benessere acquisita.
Non solo il matrimonio non è sufficiente per l’osmosi tra le due identità e per sfuggire alle persecuzioni, ma è causa di una pesante lacerazione per il loro figlio Jegor, affascinato dalla nuova ideologia e insofferente ad un’identità ebraica cui si sente condannato dai caratteri somatici, dalla circoncisione e che lo porta a subire umiliazioni dolorose. Una lacerazione che solo passando da un’esperienza drammatica potrà essere ricucita.
Come in “Giobbe” di Joseph Roth (un romanzo con cui vi sono, pur nella diversità del contesto, interessanti parallelismi) New York, dove si rifugiano per sfuggire al nazismo, non è la Nuova Gerusalemme, ma è solo la spiaggia su cui approdano dei naufraghi che dovranno ricostruire, faticosamente e dolorosamente, una nuova esistenza.
Pubblicato nel 1943, la shoa non compare ancora in tutta la sua dimensione, ma le ombre cupe del nazismo che dominano la scena ne fanno già prevedere i tragici sviluppi.
Oltre alla trama, la narrazione splendida e la ricchezza di personaggi accuratamente tratteggiati, fanno di questo libro una lettura imperdibile. Un grazie ad Adelphi per averlo recuperato!

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Giobbe di P. Roth
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Gialli, Thriller, Horror
 
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    29 Agosto, 2014
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I gironi di un romanzo

Chandler sosteneva che la plausibilità è un requisito essenziale per un buon thriller: se si dovesse accogliere questo parere come criterio di valutazione allora il giudizio su “Inferno” potrebbe essere solo negativo, visto che al confronto i romanzi di Fleming su 007 sono testi da neorealismo.
Tuttavia se, iniziata la lettura, al termine di ogni capitolo (“Inferno” ne comprende ben 104!) ci si butta sul successivo con l’interrogativo “Voglio vedere come ne vengono fuori (Dan Brown e il professor Langdon) da questo –apparente- vicolo cieco” (che potrebbe essere un criterio alternativo per valutare un thriller) e il risultato è che in quarantott’ore la lettura è terminata, beh! allora bisogna ammettere che lo scrittore ha raggiunto l’obiettivo di coinvolgerci nella vicenda.
Vi sono tuttavia anche altre ragioni che rendono “Inferno” un libro da consigliare. Dan Brown pone al centro dell’intreccio la tematica del sovrappopolamento demografico, un tema cruciale per il futuro del’umanità. Se la soluzione ventilata appartiene alla fantascienza ed è quindi una “non soluzione” – né potrebbe essere diversamente trattandosi di un romanzo – per lo meno il romanzo costituisce una provocazione che potrebbe/dovrebbe sollecitare una maggior attenzione per una questione elusa dal dibattito politico. Per questo motivo ritengo che “Inferno” meriti un giudizio più positivo rispetto al – a mio avviso – sopravvalutato “Codice da Vinci”.
Inoltre Dan Brown/Langdon dimostra ancora un amore profondo per la ricchezza del nostro patrimonio culturale, tale che meriterebbe un riconoscimento ufficiale da parte del Ministro della Cultura e del Turismo (finalmente riuniti in un unico ministero).
A fronte di questi aspetti le sviste trovate da chi ha analizzato a fondo il libro appaiono marginali ed anche la più vistosa (quella sulla data della maschera mortuaria di Dante Alighieri) è ininfluente sulla dinamica della storia.

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Dan Brown, ma anche a chi non l'ha letto; I limiti dello sviluppo del Club dui Roma
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