Opinione scritta da Nicolò Bonato

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    15 Gennaio, 2015
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Un grande pesce in un piccolo stagno

Ho letto questo romanzo anni dopo aver visto il film che mi piacque molto.
Nel libro ho fortunatamente ritrovato l'atmosfera sognante e fiabesca della trasposizione cinematografica, accompagnata da un'ottima capacità nel costruire i dialoghi tra i personaggi e interni al figlio.

In questo romanzo il rapporto padre figlio è colto con gli occhi di un bambino per il quale il genitore è un'entità quasi sovrannaturale, fortissimo, benevolo e benvoluto da tutti. Proprio questo ritratto rende la lettura adatta a tutte le età; i bambini ci si ritroveranno, gli adolescenti saranno in grado di ripensare il loro rapporto e di costruirlo al meglio e gli adulti probabilmente torneranno con la mente all'infanzia, quando tutti i giochi erano imprese avventurosissime e incredibili dalle quali si usciva sempre trionfanti ed illesi.

Il tema del padre morente è un topos molto affermato della letteratura anche contemporanea, nonché di un certo cinema meno popolare e più intimista. In un'epoca in cui il relativismo che ormai abbiamo introiettato anima la nostra filosofia e porta a rapidi processi di livellamento dell'autorità, è semplice metaforizzare questa mancanza di certezze con la morte del padre, ovvero la prima autorità che conosciamo.

A chi apprezzerà il libro consiglio la visione del film da esso tratto, nonché quella di "Wish I was here", simile per molti versi.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    07 Dicembre, 2014
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Complottismo sociale?

Nelle prime pagine l'autore non fa altro che ripetere concetti già espressi, tutto sommato banali, quindi bisogna mettere in conto questo scoglio iniziale se si vuole intraprendere la lettura di questo libro.
Lo stile dell'autore è apprezzabile, riesce a mantenere l'esposizione con un certo ritmo, senza più lasciarsi (dopo l'inizio) a lunghe e fiaccanti ripetizioni.

Tuttavia, nonostante una certa attitudine alla scrittura, Laffi non riesce a fare a meno di impantanarsi in alcuni giochi retorici piuttosto scontati che più o meno coscientemente vengono inseriti per convincere il lettore di alcune tesi che invece vengono quasi ridicolizzate da tali mediocri artifici.
Piuttosto grave a mio avviso il fatto che un adolescente (diciottenne al momento della scrittura) come me fatichi a riconoscersi nei presunti modelli di scuola, in particolare inferiore, e famiglia contemporanee secondo Laffi, che non coincidono affatto con ciò che ho vissuto e sto vivendo. Quindi, escludendo per praticità l'ipotesi di aver vissuto una fortunata tregua da un sistema scolastico oppressivo e sedativo, credo di poter sostenere che l'autore si basa su una scuola che non esiste più da anni, spero per (comunque deprecabile) ignoranza, piuttosto che malafede tesa a sostenere i propri argomenti.

Al di là di questa critica, va detto che l'autore analizza con certa competenza vari altri aspetti della realtà adolescenziale, tuttavia tende in tutto il libro a giustificare quasi la totalità dei comportamenti dei “giovani” del titolo, vittime pure e caste di una vera e propria congiura.
Il tutto mi sembra impregnato di un certo manicheismo, di una voglia di saltare a piè pari la barricata senza pensare che spesso la verità sta nel mezzo.

Voler credere che i giovani siano per forza meglio dei vecchi è una semplice illusione in un certo senso figlia di un positivismo sociale che va scontrandosi con una realtà molto più dura.
Va detto comunque che l'autore ha indubbiamente ragione quando sostiene la necessità di ricambio generazionale, seppure non siamo migliori di quelli che ci hanno preceduto e che sono ancora ai loro posti in età ultra-pensionabile, comunque potremo sicuramente portare un cambiamento, non per forza in negativo o in positivo, ma necessario per prevenire un totale immobilismo.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    05 Dicembre, 2014
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Un'annata mediocre

Scritto nel 1975, ma tradotto solo venti anni dopo, il libro dimostra indubbiamente l'età che ha, rendendo ancora più surreali le vicende ambientate in una Finlandia molto diversa da quella odierna.
La trama segue quello che penso di poter classificare come stile nordico, caratterizzato da una serie di situazioni surreali ed inverosimili, legate a doppio filo con una vera e propria avventura picaresca.

Come ne "Il migliore amico dell'orso", successivo a questo romanzo, anche qui è un animale a fare capolino nella vita del protagonista, spingendolo a mollare tutto e rinnovarsi completamente.
Questa idea dell'animale come motore catartico indubbiamente deve molto alle tradizioni e alle mitologie nordiche che vedono gli animali collaborare con gli uomini o essere vere e proprie incarnazioni divine.

Purtroppo in questo romanzo non ho trovato lo stesso mordente de "Il migliore amico dell'orso", la colpa va sicuramente distribuita tra la differenza temporale che separa i due romanzi, la conseguente maturazione dell'autore e probabilmente una parte della responsabilità va anche al traduttore, che sembra non essere stato in grado di gestire sempre al meglio la trasposizione del romanzo. Le carenze principali, da imputare a uno dei tre casi o a tutti, si ravvisano nei dialoghi, spesso costruiti molto poveramente, senza capacità di coinvolgimento.
Nonostante queste considerazioni, il romanzo rimane piacevole, anche se non il migliore di Paasilinna, come spesso viene etichettato.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    05 Dicembre, 2014
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Padre Orso

Attratto dalla copertina e dalle poche notizie riguardo questo libro in cui mi ero imbattuto online, ho deciso di affrontare la lettura di questo breve romanzo. E non ne sono rimasto affatto deluso. Anzi.
Paasilinna gestisce un romanzo colmo di situazioni incredibili e deliranti, riuscendo a renderle non verosimili, bensì adeguate al contesto della narrazione, che tratta una tematica non inedita quale il ritorno alla natura con una strategia particolare.

Questo ritorno alla natura è infatti spinto dall'improvviso arrivo di un cucciolo di orso in casa di un reverendo protestante. L'uomo, molto peculiare di suo, finirà per fuggire dal paese e dalle sue convenzioni, girovagando con il suo orso ammaestrato.
Ma viene spontaneo chiedersi se sia l'uomo ad addestrare l'orso o non sia piuttosto quest'ultimo che, come un padre accondiscendente, si presta ai giochi del figlioletto, restando comunque la figura di riferimento. Il pastore infatti rinuncia al suo ruolo di guida spirituale, quasi cedendolo all'animale, che lo porterà a vivere situazioni nuove e sconosciute, abbandonando ogni rimasuglio della sua vecchia vita.

È un vero e proprio invito a riprendere le redini della propria esistenza, che spesso lasciamo essere guidata solo da fattori esterni che ci sembrano incommensurabili, salvo essere spazzati via da un gioviale plantigrado.
Ammirevole infine l'abilità di Paasilinna nel non cedere alla faciloneria, rendendo l'orso un personaggio umano, bensì lasciandolo ben compreso nel suo ruolo di animale selvaggio, sebbene educato.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    26 Novembre, 2014
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800 pagine e non sentirle

Un romanzo corposo ma scorrevole, “L'armata dei sonnambuli” è caratterizzato da uno stile (più stili in realtà) fresco e accattivante, anche se non è propriamente un cosiddetto page-turner (letteralmente “giratore di pagine”, cioè un libro talmente avvincente da spingerti a continuare a leggerlo senza fermarti).
L'idea di base del romanzo, quella di rivisitare la rivoluzione francese seguendo delle tracce pseudo-storiche e sconfinanti nell'urban fantasy, non è particolarmente originale, però è ben sostenuta durante tutto il romanzo, facendo incuriosire il lettore.
La ridda di personaggi storici presentati, talvolta con personalità o vissuti al limite dell'incredibile, porta spesso a cercarne le biografie online, ricerca che permette di gustare appieno l'abilità dei Wu Ming nell'incastrare una serie di dati ed avvenimenti storici, riarrangiandoli in un romanzo certamente storico ma con una vocazione fantastica e umoristica.

Grattando un po'sotto la superficie di originalità e freschezza si notano una serie di tòpoi letterari per la verità piuttosto scontati e ampiamente rodati, ma proprio per questo sempre efficaci.
Non ci si può quindi aspettare una grande opera innovativa e rivoluzionaria, ma sicuramente è qualcosa di più di un “semplice” bel libro, riuscendo a fornire spunti di riflessione e di ricerca interessanti e ben presentati.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    20 Novembre, 2014
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La grammatica del ricordo

Massimiliano Brodar è un marinaio di stanza a Trieste.
Ma questo lui non lo sa. Il pover'uomo in una notte del 1943 è stato aggredito e un forte colpo alla nuca gli ha completamente cancellato la memoria.
Brodar riprenderà coscienza solo dopo alcuni giorni, ritrovandosi a bordo di una nave ospedaliera tedesca, nelle mani di un medico finlandese che lo ha riconosciuto come un compatriota.
Brodar non può negare, in quanto non sa più nulla di sé, neppure la sua lingua o il suo nome.
Comincia così il romanzo di Diego Marani, catapultandoci presto in un mondo di lezioni di cultura e grammatica finlandese impartite dal medico allo sventurato marinaio.

Il dottore è in fuga dalla patria, per la quale prova un rapporto di amore ed odio, e cercherà di riavvicinarvisi tramite Brodar, tentando insieme a lui di ricostruire un'identità mai esistita.
Dopo i mesi di recupero necessarie, Brodar si dirige verso quella che è convinto essere la sua terra natale, in cerca di un passato.
Tutta la vicenda è narrata nel diario personale di Brodar, rinvenuto e corretto nella forma dal dottore stesso, che vi si è imbattuto molti anni dopo, comprendendo finalmente l'enormità del suo errore, che ha condotto un uomo completamente inconsapevole in una crisi d'identità molto sentita e narrata in modo molto efficace.
Lo stile di Marani fa rivivere davvero le due città, Trieste ed Helsinki, ricreando un'ambientazione palpabile soprattutto per chi, come me, ha avuto la fortuna di visitarle entrambe.

Curiosamente, il romanzo parte da un'idea molto fantasiosa e surreale per sviluppare una trama profonda e molto verosimile, proprio come nella letteratura picaresca e umoristica nordica (penso ad autori come Paasilinna).
Il libro di Marani però non è affatto ironico, è invece la tragedia personale di un uomo che è stato violentemente privato del suo passato, di tutto ciò che poteva definirlo.
In definitiva, un ottimo romanzo sulla ricerca dell'identità e l'importanza delle radici e tradizioni.

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Arto Paasilinna
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    25 Ottobre, 2014
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Il Jurassic Park dell'orrore

Il tema dell’oppressione del regime comunista la fa da padrone in gran parte della produzione letteraria ceca, ma qui è trattato in modo innovativo e magistrale.
Un gruppo di ragazzi, per i motivi più disparati, decide di reagire a modo proprio alla cicatrice lasciata dagli orrori del regime, così anziché nasconderli decide di metterli in mostra, di creare “il Jurassic Park dell’orrore, il museo all’aperto dei totalitarismi”.

Uno spirito leggermente hippie e molto naif li pervade mentre il successo della loro impresa guadagna prime pagine e interviste televisive.
In tutto ciò si vede la contrapposizione tra un oriente più mistico e ingenuo e un occidente spregiudicato e capitalista, che non teme di mostrare le proprie scabrose cicatrice pur di ottenere un guadagno economico.
Queste due filosofie così estremizzate sono anche la metafora della concezione della vita dei Paesi dell’est Europa, perennemente in bilico tra il blocco sovietico e l’occidente americanizzato.
In un susseguirsi di dialoghi asciutti, spesso brutali, e descrizioni ad onor del vero non sempre avvincenti, Topol ci porta ad un climax di orrore nel finale, quando finalmente quello che può essere considerato il protagonista capisce dove la loro concezione di museo della memoria si sia spinta.

Cadono così le sue ingenuità adolescenziali, brutalizzate da una verità nuda e cruda in cui nessuno è fedele fino in fondo ai suoi principi veri od enunciati, e ciò che può sembrare idealmente bello e giusto può trasformarsi immediatamente in qualcosa di terribile e raccapricciante.
Il libro svergogna anche l’esibizionismo, e la macabra curiosità che lo alimenta, che spesso aleggiano attorno a vicende di questo tipo, sbattendo in faccia al lettore le conseguenze estreme del considerare ogni ferita come un qualcosa da ostentare, una piaga in cui rigirare il coltello per dimostrarne la dolorosità.

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Bohumil Hrabal - Ho servito il re d'Inghilterra
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    23 Ottobre, 2014
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L'uomo dal cuore di gatto

Frank è un gatto, lui stesso si etichetta così, e con il felino condivide la sorniona indifferenza, spesso confusa con la malvagità.
Ma Frank non è malvagio, semplicemente è un cinico. È diventato cinico, o lo è sempre stato? Impossibile dirlo, forse qualcosa ha fatto scattare in lui un interruttore che non aspettava altro che essere attivato, fatto sta che ora Frank è un autentico bastardo, o almeno si comporta da tale. E gli piace pure.

Giorgio Mosetti, l'autore, ci coinvolge così nella vita di questo suo odioso protagonista, talmente detestabile, disgustosamente immorale, da impedire a chiunque di schierarsi con lui. O forse non proprio. Qualcuno parteggia per Frank, qualcuno crede ancora in lui. Ed è lo stesso Mosetti. Ma non come narratore onnisciente, super partes, come un burattinaio. Niente di tutto ciò. Mosetti si lancia letteralmente nell'azione, diventa personaggio, esorcizzando sé stesso in un Giorgio di carta ed inchiostro, sicuramente più idiosincratico di quello reale.

Riuscirà il buon Giorgio, scrittore naif, a salvare Frank, il suo nuovo amico e allo stesso tempo figlio, in quanto generato dal suo cervello, dalla sua penna?

Il romanzo, molto breve, riesce eccellentemente a tenere focalizzata l'attenzione del lettore sulla vicenda di Frank, che sembra portare ad un'ovvia conclusione, completamente stravolta nel finale degno del migliore Stefano Benni.
Un libro davvero sorprendente, fresco e piacevole, nonostante qualche errore (spero) di battitura da far accapponare la pelle.

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Dottor Niù di Stefano Benni
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    22 Settembre, 2014
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La morte della morale

Raffinato, ipotattico ed etereo, Mann ci costringe a parteggiare per il mostro, l'orco, l'eccitabile anziano che vorrebbe sedurre il bambino non ancora ragazzo.
Che lo guarda, lo spia, lo segue, mentendo a sé stesso, giustificandosi e ammantando blandamente quest'ossessione con l'epiteto, mai espresso, di pura pederastia.

Ma non è niente di tutto ciò, l'attrazione del vecchio Aschenbach per il ragazzo di cui non conosce neppure il nome è morbosa, anzi va oltre il morbo, il colera indiano che erode una Venezia già sanitariamente debole e fiaccata dalla canicola estiva.

Il breve romanzo fa apprezzare pienamente l'abilità espressiva e la ricchezza quasi barocca della prosa di Mann, che quasi sempre riesce nell'ardua impresa di utilizzare un linguaggio raffinato e ricercato senza tediare il lettore.

Certo, non sempre ci riuscirà, a volte parrà di doversi trascinare stancamente per qualche pagina in cui Mann non sembra far altro che ritirare intorno ad un medesimo concetto, ma bel complesso l'opera risulta relativamente scorrevole anche se certo non facile.

La morte a Venezia non è tanto quella fisica del protagonista, per la verità piuttosto prevedibile, quanto quella della sua morale mitteleuropea, contaminata dal clima meditteraneo e vacanziero e infine del tutto decaduta nel momento in cui egli pronuncia a sé stesso le fatidiche parole di un amore inconfessabile.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    19 Settembre, 2014
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Cinque notti in bianco

Nella recensione svelo più o meno esplicitamente il finale e altri punti salienti.

Libro breve ma intenso.
Sembra banale ma è così; la relazione tra i due personaggi si intensifica a velocità incredibile, sembra quasi che le quattro notti bianche non siano una successiva all'altra, bensì dilazionate in un ampio arco di tempo durante il quale Nasten'ka e il narratore si sono frequentati e conosciuti reciprocamente, all'insaputa del lettore.

La storia procede rapida ed essenziale fino al finale, che non può essere considerato a cuor leggero un finale triste, pur non essendo certo il classico lieto fine.

L'ambientazione è quasi inesistente, sappiamo dalle parole del narratore che ci troviamo a Pietroburgo.
Questa certezza vaga rinforza il clima onirico che pervade il romanzo, infatti, come nei sogni, sappiamo di essere in un luogo pure se non abbiamo nessuna certezza che si tratti proprio di esso.

Il personaggio di Nasten'ka risulta frivolo, quasi odioso, mentre calpesta con egoistica inconsapevolezza le chimere del narratore, sognatore ad occhi aperti, che vive le sue giornate in una dimensione onirica.
Ma che smette per lei di sognare, infatti le sue visioni torneranno repentinamente solo quando lei lo abbandonerà.

“E di cosa potrò sognare, se nella realtà sono stato tanto felice vicino a voi!”

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    18 Settembre, 2014
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GOGOL CI PIGLIA PER IL NASO?

Un racconto completamente folle, tanto da sembrare una favola per bambini, nasconde in realtà una critica efferata alla burocrazia russa.
Proprio per questa critica e per la surreale serenità con la quale il protagonista accetta la sconvolgente perdita che subisce, questo racconto ricorda molto le opere di Kafka, principalmente “Il processo” (nella critica ad un apparato burocratico lento e pachidermico, gestito da persone incompetenti e superficiali) e “La metamorfosi”.

Assistiamo così decisamente spiazzati alla tragica scoperta di Kovalev, piccolo burocrate, che si risveglia senza la sua appendice olfattiva.
Anzichè consultare un medico o comunque dimostrare grande stupore per questo fatto assurdo, Kovalev, dopo aver tentato la denuncia di scomparsa, comincia a pensare a chi possa aver avuto interesse a privarlo del naso, imprescindibile accessorio per la vita in società.

Kovalev infatti è uno yuppie ante-litteram, intenzionato a scalare la piramide sociale grazie alle sue doti affabulatorie e la sua presunta avvenenza.
Ma tutto ciò è impossibile senza naso!

Quello che quindi potrebbe sembrare un innocuo divertissement è invece, ancora una volta, una critica ad una società in cui Gogol si trova immerso e dalla quale non prende aristocraticamente le distanze, puntualizzandone comunque idiosincrasie e follie varie.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    18 Settembre, 2014
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PER 80 RUBLI AKAKIJ PRESE IL CAPPOTTO

Akakij Akakievic è un impiegato di bassa lega, si occupa di copiare e ricopiare lettere e documenti, sa fare solo quello e solo quello brama fare.
La sua vita scorre monotona ma tutto sommato soddisfacente, quando un’improvvisa tragedia lo colpisce.
Il suo fidato cappotto, ormai ripetutamente sdrucito e rammendato, si logora irrimediabilmente.
Il suo sarto di fiducia non può porvi rimedio e consiglia al povero Akakij di acquistarne uno nuovo.

Il nostro fantozziano impiegato quindi lavora duramente per mesi, prostrato da rinunce e digiuni per racimolare i soldi necessari ad acquistare un nuovo cappotto.
Dopo lungo tempo riesce nella sua impresa, il cappotto nuovo non solo lo protegge più efficacemente, ma gli fa da ascensore sociale, permettendogli di inserirsi nei circoli bene della sua azienda.
Ma non tutto andrà per il verso giusto.

Gogol crea un racconto che sa essere surreale ma allo stesso tempo crudamente verista.
Testimonia così una società superficiale, in cui già il cambio di cappotto garantisce un’alterazione della propria immagine pubblica.

Lo stile è balzano, Gogol racconta il tutto come se si trattasse di una qualche leggenda metropolitana di cui ha sentito parlare, anche se improvvisamente aggiunge dei particolari molto minuziosi, che stonano positivamente con la vaghezza di altri passaggi.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    15 Settembre, 2014
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Umani, troppo umani

Di felicità, in questi racconti, sembra davvero essercene ben poca.
Tra separazioni, famiglie troppo larghe, omicidi e suicidi, la Munro dipinge un affresco di una società tranquillamente triste.
Non c’è spazio per la depressione teatrale, per la follia omicida sbandierata o per simili esternazioni.
I personaggi spesso vivono la loro tristezza in modo riservato, senza neppure dover fare lo sforzo di trattenersi, sembra proprio che nulla, né in loro né nell’ambiente che li circonda, li spinga ad aprirsi, a manifestare i loro segreti e le loro solitudini, silenziosamente sofferte.

Questa presentazione non deve far pensare ad un libro deprimente, in quanto l’autrice riesce con grande maestria a farci percepire il realismo verista di queste vicende, senza tuttavia scaricare sul lettore la negatività dei personaggi, alle cui vite sembra di assistere per caso, non visti, come spiando dalla serratura.

Quindi fatevi tentare dalla curiosità, ficcate il naso nelle vicende altrui, ammirate il quadro che Alice Munro dipinge lentamente per voi, tenendovi per mano mentre costruisce vari racconti, brevi e meno brevi.
Come le sapienti pennellate di un grande artista, ogni racconto potrà concludersi in maniera serena, in linea con la narrazione, oppure con un’imprevisto sbaffo artistico che saprà sorprendervi.

Gli ultimi tocchi saranno dati dal racconto eponimo, una curiosa biografia di un personaggio particolare, una matematica russa vissuta alla fine del diciannovesimo secolo.
Forse l’unica, nella raccolta, a godere di vera felicità. Magari troppa.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    14 Settembre, 2014
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Camilleri in gonnella? E che significa?

Ennesimo libro italiano che deve moltissimo a Camilleri.

La signorina Olga è un'ottantenne della campagna piemontese trasferitasi in un paese vicino Milano.
Nove anni dopo il suo trasloco in un condominio abitato da un quadretto umano di una banalità sconcertante, la signorina Olga viene trovata morta con una corda attorno al collo.

Cominciano le indagini, condotte dal commissario Gilardi e dal suo vice, Santino.
I due, in una pessima imitazione di Montalbano e Fazio, indagano a lungo, immergendosi nella palude di pettegolezzi e faide di condominio.
La trama procede piuttosto innocua per un certo numero di pagine, si hanno delle pseudo-rivelazioni e prima di impantanarsi del tutto, l'indagine viene chiusa.
Ma ovviamente il commissario, che evidentemente non ha niente di meglio da fare, continua a pensarci.

Dopo qualche mese si ritrovano tutti al condominio per un nuovo assassinio, ma ciò accade solo nelle ultime cento pagine, in quando l'autrice nel frattempo si fa prendere la mano e il romanzo, da un giallo sbiadito, scivola in uno stiracchiato rosa, con la signora Lanza (autrice) che tenta impacciatamente di rendere vivi e reali personaggi palesemente finti e piatti.

Insomma, una prosa inoffensiva sposa malauguratamente una scarsa capacità di caratterizzazione, confezionando un romanzo che può tranquillamente essere ignorato.
Anacronistico, nella mia esperienza di condomino, il legame sia positivo che negativo che si viene a creare tra gli abitanti del condominio, ricordo di un tempo passato in cui si dava molta più importanza all'apparenza del buon vicinato e si cercava in tutti i modi di conoscere i propri vicini.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    13 Settembre, 2014
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Storie di una (lunga) vita incredibile

Allan Karlsson è un arzillo centenario la cui unica particolarità sembra essere la veneranda età raggiunta.
In realtà Allan ha trascorso la sua vita con alcuni dei protagonisti del ventesimo secolo, Stalin e Franco, giusto per nominarne due.
Il libro narra della fuga di Allan dalla casa di riposo dove alloggia, proprio alla vigilia dei festeggiamenti per il suo centenario.

La trama principale, di stampo picaresco, è intervallata da ampi flashback riguardanti l'incredibile vita del protagonista, costellata di incontri fortuiti e grandi colpi di fortuna, in un susseguirsi di piccoli ed enormi eventi che ricordano le avventure ignare e ingenue di Forrest Gump.

Oltre a "Forrest Gump", altri paragoni cinematografici meno immediati ma sempre validi secondo me sono quelli con "Big Fish - Storie di una vita incredibile" e "Miracolo a Le Havre".
Il primo per quanto riguarda l'assurdità dei racconti di Allan, che mantengono tuttavia un certo livello di verisimiglianza, se non di credibilità.
Il secondo per la leggerezza fiabesca con cui le peripezie di Allan, sia nel passato sia nel presente della sua folle fuga, anch'essa costellata di avvenimenti surreali, vengono narrate e riescono ad approdare ad una certa serenità.

Nel complesso, un romanzo decisamente godibile, segnato da un umorismo leggero, che non vi farà erompere in gran risate, ma che spesso saprà farvi sorridere.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    12 Settembre, 2014
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Liberi di pensare

Questo libro è un qualche tipo di di catalogo bibliotecario.
Il catalogo della biblioteca ideale di Fernanda Pivano, come dice la copertina in alcune edizioni.
Si tratta di cento titoli, recensiti dalla celebre traduttrice, scrittrice e studiosa di letteratura americana.

Cento titoli che raccontano altrettante sfaccettature della complessa ed allotropica società americana; cento titoli divisi spartanamente in quattro grandi categorie che ricordano le quattro libertà del discorso di Roosevelt.
Così le quattro categorie formano le quattro parti del libro: libertà dalla morale, sessuale, di parola e dalla violenza.

In questi quattro gruppi ritroviamo libri famosi, altri libri meno conosciuti e anche qualche autore che fino ad ora non avevamo mai sentito nominare, tutti americani certi, ma anche autori con radici straniere, come il giovane Jonathan Safran Foer, e che hanno magari imperniato l'opera descritta nel libro proprio su qualche paese straniero dal quale loro, o la loro famiglia, provengono.

Le recensioni della Pivano sono ricolme di curiosità, tratti biografici, aneddoti sugli autori e le loro famiglie, diventando di fatto qualcosa di più di una semplice opinione personale, trasformandosi in brevissimi saggi, in lettere d'amore verso la letteratura.

La lettura di questo libro vi farà conoscere, scoprire e riscoprire molti titoli che avevate letto, che avreste voluto leggere, di cui non avevate mai sentito parlare e anche libri che avevate sempre istintivamente disprezzato ma che magari, grazie a Fernanda Pivano, rivaluterete ed apprezzerete.
Quindi, buona lettura e ricordate, Libero chi legge.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    11 Settembre, 2014
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L'arte di scrivere

Jasper Gwyn è uno scrittore londinese, di discreto successo, ma ha deciso di smettere.
Smettere di pubblicare, smettere di scrivere, smettere di vivere? Non si può dire, il suo agente è preoccupato, sia sul piano personale che su quello professionale, cerca di stimolare la sua vena creativa.
Ma la vena creativa di Mr Gwyn è già stimolata da un nuovo progetto. Diventerà un ritrattista.
Non un ritrattista come tanti, con il pennello in una mano e la tavolozza in un'altra. Mr Gwyn scriverà i suoi ritratti, nel suo studio, arredato con precisione e un certo gusto teatrale.

La sua fortuna sarà una ragazza che diventerà la sua assistente, la sua fonte di pubblicità e in un certo senso la sua erede spirituale, raccogliendo il suo peculiare testimone.
Il tocco da maestro di Baricco in questo libro è la sua scelta di creare un personaggio ampolloso, manierista, con ostentate pose da bohemienne, rendendolo lievemente antipatico ma incredibilmente vero.
Lo stesso stile barocco di scrittura rende l'immersione nella mentalità del personaggio più immediata e coinvolgente.

Non tutto è oro quel che luccica, comunque.
Baricco tradisce uno dei comandamenti predicati da scrittori e insegnanti di scrittura, lo "Scrivi di ciò che conosci" di Hemingwayiana (ma esiste questa parola?) memoria.
Forse l'autore ha vissuto a Londra, ma certo non la conosce abbastanza da poterla far vivere al lettore, infatti la storia funziona benissimo completamente slegata dal suo contesto cittadino, il cui maldestro tentativo di definizione rende superflue alcune pagine del libro, che comunque scorrono rapide.

Il realismo magico, direi incantato, di questo libro ricorda quello delle opere di Carlos Zafon, ad esempio "L'ombra del vento", non nella storia, ma nelle atmosfere create.

Il personaggio più peculiare è la vecchia con il foulard impermeabile, che fa immediatamente pensare a Bedrosian Baol, protagonista di "Baol" di Stefano Benni.
Un personaggio, quello della vecchia, che probabilmente non esiste se non come ideale puro, come entità immaginaria, metafora della nostra volontà e che tuttavia vive, o ha l'illusione di vivere, una ua vita personale, proprio come il succitato Bedrosian.

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Carlos Zafon (L'ombra del vento, Il gioco dell'angelo...)
Gabriel Garcia Marquez
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Narrativa per ragazzi
 
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    11 Settembre, 2014
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Un romanzo non rosa

Ho conosciuto questo libro tramite una canzone prodotta per l'adattamento cinematografico.
La canzone era piacevole, ma il trailer sembrava promettere la solita storia d'amore adolescenziale decisamente stucchevole e ripetitiva, così ho rapidamente accantonato l'idea di leggere il libro.

Poi ci ho ripensato, anche in seguito al consiglio di un amico, e per fortuna l'ho letto, in Inglese, cosa che mi sento di consigliare a tutti.

La cosa che mi ha stupito di più è stata scoprire l'autore del libro, John Green, una piccola celebrità di YouTube, insieme al fratello Hank.
Sono rimasto stupito appunto dal fatto che l'autore fosse un uomo, in più impegnato in qualcosa di piuttosto distante dalla produzione di melensi best-seller alla Nicholas Sparks.

Ho letto quindi con curiosità il libro e lo ho molto apprezzato.
La storia d'amore che fa da cardine al romanzo e che temo sia stata esagerata nel film, è in realtà la storia di un'amore che nasce un po'per necessità, la necessità di sentire vicino qualcuno che possa più o meno capire lo stato della protagonista, affetta da cancro.
Come da copione la ragazza detesta chiunque si abbandoni a qualunque forma di pietismo nei suoi confronti e trova in Augustus un compagno ideale.

Augustus Water è probabilmente il personaggio meglio caratterizzato del libro, sebbene la protagonista e narratrice in prima persona sia la sedicenne Hazel.
Augustus è un ragazzo che ha subito l'amputazione di una gamba in seguito ad un osteosarcoma; il diciassettenne ex giocatore di basket decide così di sopperire alla carenza di un arto riempiendo quel vuoto con un'espansione del suo istrionico ego, diventando di fatto un personaggio teatrale, inverosimile ma reso credibile proprio dalla vicinanza con personaggi estremamente credibili.

John Green aggira il tentativo di trattare con leggerezza la malattia delegando questo compito ad Augustus che diventa quindi non un'incarnazione di un'adolescenziale incoscienza e convinzione di immortalità, bensì di un ironia sottile benché sbandierata.

--Questi due ultimi brevi paragrafi svelano in qualche modo dei punti salienti del romanzo, in modo velato ma comunque comprensibile, ne sconsiglio quindi la lettura a chi vuole farsi sorprendere dal libro.--

Vorrei inoltre sottolineare un secondo tema del libro che mi sembra sia eccessivamente sottovalutato mentre io lo ritengo importante quanto la malattia e la storia d'amore, ovvero il viaggio alla ricerca dell'autore di “Un'imperiale afflizione”, libro che ha stregato Hazel portandola ad idealizzarne l'autore che ha deciso di isolarsi nei Paesi Bassi.

La ricerca e l'incontro con questo autore distruggerà le illusioni di Hazel, come anche quelle del lettore, facendoci definitivamente capire che questo non è un romanzo leggero ed idealista permettendoci di prevedere il tragico epilogo che avrà la vicenda, epilogo che non è possibile credere evitabile una volta capito lo stile leggero e allo stesso tempo serio dell'autore.

Un libro fortemente consigliato, fosse solo per capire perché qualcuno dovrebbe tenere in bocca una sigaretta senza aver mai fumato né aver avuto intenzione di farlo.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    05 Settembre, 2014
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Quando l'unione fa la forza

Cronaca romanzata del delitto Kammerer, evento primigenio della Beat Generation.

Nell'Agosto del 1944 Lucien Carr, giovane e attraente studente della Columbia University uccide con un coltello l'amico e pretendente David Kammerer di 33 anni, a quanto pare eccedendo nella difesa dalle pressanti insistenze sessuali di quest'ultimo.

Due giorni dopo la polizia arresta due amici di Lucien, sospetti di complicità o quantomeno di aver coperto il giovane assassino.
I due sono William S. Burroughs, pecora nera di una ricca famiglia americana, e Jack Kerouac, un giovane di origine canadese.

Nel '44 questi due nomi sono sconosciuti, in quanto mancano ancora dieci anni alla pubblicazione dei loro grandi successi, “Il pasto nudo” (Burroughs) e “Sulla strada” (Kerouac).
Questa coppia di autori che cercano di emergere, dopo la loro liberazione dietro cauzione, decidono di esprimere la loro versione dei fatti nel modo che conoscono meglio: scrivendo.
Così compongono un breve romanzo a quattro mani in cui troviamo loro ed altri protagonisti di quella che sarà definita la Beat Generation mascherati dietro vari pseudonimi, consuetudine ripresa da Kerouac anche nel suo “Sulla strada”.

Seguiamo quindi le vicende di Will Dennison, barista del nevada e Mike Ryko, giovane marinaio finlandese, alter ego rispettivamente di Burroughs e Kerouac.
Tra pomeriggi oziosi, arricchiti da folli discussioni alimentate da alcol e droghe varie, e notti perennemente illuminate dai neon dei locali, la vicenda di Carr e Kammerer naviga inesorabilmente verso il suo tragicamente noto finale.

Ma non è la storia in sé a colpire, quanto la capacità dei due autori, a mio parere molto più evidente in questo romanzo piuttosto che in quelle che sono considerate le loro opere maggiori.
Kerouac dimostra infatti di meritare appieno l'appellativo di poeta Jazz, con i suoi dialoghi incalzanti, battute brevi che si alternano a riflessioni più lunghe e articolate, con una lucidità solo in parte alterata dalle droghe.
Burroughs dal suo canto mostra già alcuni aspetti della passione per la dimensione onirica che svilupperà in seguito tanto da essere considerato uno scrittore di fantascienza interiore, diventando francamente eccessivamente delirante, mentre in questo libro le sue sregolatezze letterarie non fanno altro che dare un adeguato controcanto alle sregolatezze del suo personaggio (autobiografico) e in generale del circolo che frequenta.

Un libro sicuramente consigliato a chiunque sia interessato alla Beat Generation e anche a chi non ne ha mai sentito parlare e vorrebbe avvicinarvisi.
Consigliata un'enciclopedia (o un collegamento internet) a portata di mano per capire al meglio le varie citazioni, da Yeats a Rimbaud, e orientarsi meglio nel contesto geo-storico della città di New York nell'estate del '44.

Leggetelo, almeno per scoprire il perché dello stravagante titolo.

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Sulla strada di Keoruac e Pasto Nudo di Burroughs, ritenendoli magari troppo lunghi. Non rimarrete delusi questa volta.
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    05 Settembre, 2014
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Istericamente realistico

Il rumore bianco è quello delle allucinazioni. E non metaforicamente.

È proprio così, un "rumore bianco" è privo di periodicità nel tempo e con ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze.
Il rumore statico della radio ad esempio è assimilabile ad un rumore bianco, ed il suo ascolto in particolari condizioni (occhi semicoperti e luce rossa soffusa) può provocare allucinazioni.

Allo stesso tempo il rumore bianco è rilassante, tranquillizzante, quasi narcotizzante.
Come gli asettici "mall" frequentati da Jack, il protagonista, con la sua famiglia molto allargata.
Jack è un professore universitario, specializzato negli studi su Hitler, sebbene non conosca il Tedesco.
DeLillo vuole con questa metafora restituirci la fotografia di una società che grazie ad una facilità immensa di acquisizione delle nozioni pensa di poter vantare un'enorme conoscenza, senza però capire di aver perso la capacità di comprendere approfonditamente.

La prima metà del romanzo si concentra sulla vita tutto sommato tranquilla, quasi monotona di Jack e dei suoi conoscenti.
Poi qualcosa irrompe nella vita del protagonista, un incidente aereo che diffonde una nube tossica, costringendolo a evacuare la sua casa.

Nel dramma di un'evacuazione improvvisa dovuta al timore di misteriosi effetti collaterali, la società in cui Jack vive reagisce con un'apatia disarmante, ricostruendo tutte le sovrastrutture sociali della loro vita "normale".
Così nel campo rifugiati la televisione e la radio continuano incessanti ed ignorate a sgomitare per entrare nelle vite di tutti, intromissione tradotta da DeLillo con la trascrizione di alcuni stralci che i personaggi non possono fare a meno di sentire ma che in realtà non comunicano niente.

Ma l'evento tossico aereo non è l'unico problema di Jack, messo alle strette da una imminente convention fra studiosi Hitleriani, organizzata proprio nel college dove insegna, per la quale sarà costretto a tenere almeno un discorso introduttivo proprio in Tedesco.

Un romanzo certo non semplice, esponente iconico di una corrente letteraria chiamata, appropriatamente, realismo isterico (o ricercato) data la quantità di divagazioni apparentemente senza senso ma che vanno lette nell'insieme di un libro che cerca di realizzare un ritratto di una società che viene percepita non solo come negativa, ma anche indolentemente invariabile.

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David Foster Wallace, altri romanzi di Don DeLillo
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    04 Settembre, 2014
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Comici spaventosi diorami

In un futuro imprecisato l'Italia, o almeno questa pare, è divisa in 6 zone.

Cinque di esse sono dei giganteschi parchi a tema, dei diorama che ricostruiscono puntigliosamente le ultime quattro decadi del secolo scorso e la prima del nuovo millennio.
Le cosiddette zone Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e Zero.
La sesta zona è il quartier generale. Da qui, ogni dieci anni un esercito di netturbini-poliziotti dilaga per le cinque zone requisendo tutti gli oggetti posseduti dai cittadini per sostituirli con oggetti consoni al nuovo decennio che sta per cominciare. Ovvero il vecchio decennio appena concluso.

Così a Sessanta il disco Abbey Road, del 1969, viene prontamente sostituito con un altro del 1960 e trasferito a Settanta, che sta per vedere di nuovo il primo gennaio 1970.
Ma l'intervento del quartier generale non si limita al Riassortimento a cadenza decennale.
Ogni giorno gli spazzini ispezionano i rifiuti delle varie zone per trovare indizi di contrabbando e catturare i responsabili, chiamati traveller.

Il protagonista del romanzo, Leo, è uno spazzino, figlio di genitori divorziati, l'uno residente a Sessanta e l'altra ad Ottanta.
Scherzosamente vessato dal suo capo e felicemente amico della sua ex moglie, Leo trascorre un'esistenza piuttosto piatta e monotona, finché non troverà qualcosa di molto particolare tra i rifiuti, un qualcosa decisamente fuori dal suo tempo.
Un romanzo distopico e satirico, in cui l'umorismo dell'autore non distrae da una serie di rivelazioni en passant che mostrano un futuro a dir poco terrificante.

Un romanzo che pur facendo parte di un genere ampiamente esplorato, riesce a portare una ventatà di originalità.
L'atmosfera creata da Fontana ricorda quella di Baol, di Stefano Benni, con la medesima, scanzonata ironia sui regimi e con le avventure di una scalcagnata squadra di eroi.
Consigliatissimo per la facilità della lettura che tuttavia non si traduce in una semplicità del romanzo, inevitabile innesco di lunghe riflessioni sulle false sicurezze date dall'abitudinarietà e dalla delegazione, certo parziale, della propria libertà di scelta.

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Baol di Stefano Benni
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