Opinione scritta da Vincenzo1972
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Una rondine tatuata sul braccio
"Forse ho sbagliato libro" - è la prima cosa che ho pensato mentre leggevo questo romanzo.
Infatti l'ultimo romanzo di Michel Bussi, acclamato scrittore francese di gialli, il più venduto oltralpe, si discosta non poco dalla sua precedente bibliografia: nessun omicidio stavolta, nessun assassino sulle cui tracce indagare.
Bensì una storia d'amore. Nella sua forma più gettonata, più coinvolgente e quindi anche più romanzata: l'amore adultero.
Tuttavia, superato l'impasse iniziale e una volta persa definitivamente la speranza che un killer possa comparire sulla scena, ci si ritrova avviluppati nella trama sentimentale ed è troppo tardi per uscirne.
Perchè, forte dell'esperienza maturata nel genere noir e poliziesco, l'autore ci presenta la sua storia d'amore come fosse un buon vino, da far decantare prima, centellinandola, offrendola al lettore a piccoli sorsi ed aggiungendo ogni volta una nota diversa, un indizio che possa farne percepire la sua struttura, la sua consistenza, svelandola gradualmente.
Una storia d'amore, quindi, architettata da un maestro della suspense che riesce a dosare in perfetto equilibrio ingredienti variegati: sospetto, dubbi, bugie, passione, tenerezza e l'eterno dissidio cuore-ragione, tra chi si lascia trasportare dal destino senza una meta ben precisa ma inseguendo un sogno e chi invece cerca di mantenere ancorata la propria vita a punti di riferimento solidi e sicuri.. con le rime di una struggente canzone d'amore che fanno da trait d'union tra ricordi del passato che riaffiorano prepotentemente sottoforma di misteriose coincidenze, sino al clamoroso colpo di scena con sorpresa finale, targato Michel Bussi.
A pensarci bene, comunque, un amore adultero nasce sempre dalla 'morte', in senso lato, di una relazione precedente: un 'omicidio' senza spargimento di sangue, ma non per questo meno doloroso. Un omicidio magari non premeditato ma che si concretizza in un istante e senza troppi rimorsi, basta uno sguardo o un sorriso o qualche frase pronunciata nel momento giusto, e il danno è fatto; dopo non si può più tornare indietro, solo occultare, trovare alibi.. insomma niente da invidiare ad un vero e proprio thriller.
Tanto più se a muovere i fili della storia c'è un autore come Bussi in grado di delineare la personalità dei due amanti, e dei vari personaggi a contorno, con un'accuratezza via via crescente, passando dalle sfumature del loro carattere sino ai tratti più marcati, come con un identikit che apparirà sempre più chiaro proseguendo nella lettura.
Si allarga anche il confine geografico: a differenza dei precedenti romanzi tutti ambientati nella Normandia, in "Forse ho sognato troppo" l'autore ci porta in giro per il mondo viaggiando sui voli intercontinentali della Air France, la compagnia presso la quale Nathalie lavora come hostess da ben 30 anni ormai.
Cinquantenne, mora, con un ciuffo ribelle che spesso le cade sul viso coprendole gli occhi grigi con sfumature tra il verde e l'azzurro, ama il suo lavoro perchè è l'unico che le consenta di appagare il suo istintivo bisogno di libertà, di evasione. E' l'altro piatto della bilancia, la metà di Nathalie che funge da contrappeso alla metà più docile ed accondiscendente, quella felicemente sposata con Olivier e con cui ha avuto due splendide figlie, Laura e Margot.
Olivier è un uomo perfetto: ancora affascinante nonostante l'età, molto apprezzato nel suo lavoro come falegname a cui si dedica con grande zelo, sempre premuroso ed affettuoso nei confronti delle figlie e della moglie; non ha mai ostacolato Nathalie nel suo lavoro, pur mostrandole spesso il suo disappunto ogni volta che preparava il trolley da viaggio, allontanandosi per intere settimane dalla casa e dalle figlie e tornando ogni volta stremata a causa del jetlag.
Ma non ci sono mai state discussioni o litigi, alla fine seppur a malincuore, Olivier accettava comunque la solita conclusione di Nathalie:
'Il mio lavoro è la mia libertà. Tu rimani e io volo.'
Un marito perfetto, quindi. Invidiato anche dalle sue colleghe, 'un marito capace di amare la moglie senza attaccarla alla catena'. Ma si può amare un uomo perfetto?
Settembre 1999: Nathalie ha in programma tre voli intercontinentali, con destinazioni Montreal, Los Angeles e Jakarta. Mentre è in attesa al gate di imbarco per Montreal viene rapita dal suono di una chitarra, poche note ma capaci di incantarla, come il pifferaio magico con i topi.
Lui, Ylian, un ragazzo esile ma dallo sguardo dolce e penetrante, come la sua musica, berretto scozzese e lunghi capelli ricci. E' sullo stesso aereo per Montreal e Nathalie - la rondine - ha già spiegato le sue ali, pronta a volare con lui.
Settembre 2019: sono trascorsi 20 anni, ma per un'assurda ed apparentemente inspiegabile casualità, Nathalie si ritrova a dover affrontare nuovamente lo stesso programma di volo, persino nella stessa sequenza, Montreal, Los Angeles, Jakarta e, cosa più straordinaria, con lo stesso equipaggio di bordo, lo stesso comandante e le stesse hostess di 20 anni fa, in particolare la sua migliore amica Flo.
Ylian stavolta non c'è ma durante il viaggio, durante la permanenza nelle città di scalo, tra le strade ed i locali già visitati 20 anni prima, tutto sembra rimasto come allora: troppe coincidenze per essere solo frutto del caso, del destino. Sembra quasi che qualcuno abbia organizzato tutto ciò per prendersi gioco di lei, per farle rivivere quella travolgente storia di amore consumata nel giro di due mesi ma che ancora le brucia dentro.
Speravano che il tempo facesse la sua parte e avevano sigillato il loro amore con una promessa, quella che nessuno dei due avrebbe mai più cercato l'altro, e con un dono, la più grande dimostrazione d'amore che avrebbero potuto scambiarsi.
Una decisione difficile ma necessaria: "bisogna scegliere (...) prima che la scelta si riduca a essere liberi di perdersi in una foresta di rimpianti".
Nathalie sarebbe tornata da Olivier e dalle figlie mentre Ylian avrebbe continuato a girare per il mondo in cerca di fortuna, inseguendo il suo sogno di diventare un grande musicista. Che follia! Come potevano sperare di dimenticare. In quei due mesi trascorsi con Ylian, tra un volo e l'altro, Nathalie si era sentita viva come mai in tutto il resto della sua vita.
Ha cercato di mantenere la promessa fatta a Ylian, per amore verso Olivier. Già amore, perchè 'se la passione è aver voglia di fuggire con qualcuno, l'amore non è forse apprezzare la propria prigione?'
Ma nonostante il tempo trascorso, è stata sufficiente una scintilla per far divampare nuovamente l'incendio.
"La vertigine senza vestigia, lo strappo, l'abbandono, il dono, il vuoto insondabile, insopportabile, che tuttavia avevo sopportato per tutti questi anni. Che ho colmato con Laura, poi con Margot. Che ho colmato.. Ci sono donne che colmano e donne realizzate."
Ma Nathalie è una rondine, come quella che si è tatuata sul braccio, ed una rondine deve volare via.
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..perché gli abbracci non sono arte nostra..
Il treno dei bambini si muove lungo i binari della memoria, attraversa spazi popolati di ricordi che si affacciano riflettendosi sui finestrini mentre il treno corre e punta dritto al cuore.
E ci arriva al cuore.. almeno al mio. Perché al centro della storia c'è il rapporto tra una madre e il proprio figlio in cui ho potuto facilmente immedesimarmi.
Forse perché è tipico del meridione, e leggendo il libro ne rimango sempre più convinto: sono tanti gli aspetti che distinguono un meridionale da un settentrionale, uno di questi credo sia proprio il rapporto madre-figlio, basato su un sentimento di amore allo stato grezzo, quasi primitivo oserei definirlo, essenziale e scarno nelle sue esternazioni, un amore fortemente protettivo ed esclusivo che considera una potenziale minaccia qualsiasi intrusione proveniente dal mondo esterno nel suo guscio avvolgente.
E Antonietta, madre di Amerigo Speranza, ricalca fedelmente questo stereotipo: vivono entrambi in un 'basso' dei quartieri spagnoli di Napoli, in cui la miseria regna sovrana e l'ombra della seconda guerra mondiale appena terminata ancora aleggia tra i cuori della gente.
Non è facile per Antonietta mantenere suo figlio, tanto più che il padre sembra sia partito per l'America e chissà se un giorno tornerà: Amerigo questa speranza se la porta sempre dietro, anche nel cognome.
Nel frattempo Amerigo cresce tra le strade del suo quartiere, recuperando pezze logore che sua madre rattopperà per poi rivenderle al mercato; a scuola non ci va più, 'la maestra teneva la scucchia e parlava con la zeppola in bocca e a chi la sfotteva gli arrivava una scoppola sulla testa. Io in cinque giorni ne ho avute dieci'.
Non sa ancora leggere e scrivere ma sa contare fino a 100, tanto gli basta per il gioco che più gli piace, quello di contare le scarpe dei passanti: "Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male."
Quel giorno Antonietta è più taciturna del solito mentre lo accompagna .. dove? E' una sorpresa, "dice che è per il mio bene. Invece ci sta la fregatura sotto, come per i pidocchi. E' per il tuo bene, e mi ritrovai con il mellone'.
E aveva ragione Amerigo. Dopo qualche giorno, si ritrova insieme a tanti altri bambini come lui su un treno direzione Nord Italia, dove verranno affidati a diverse famiglie che si prenderanno cura di loro a proprie spese, offrendo loro una casa, l'affetto di una famiglia e la possibilità di frequentare scuola o imparare un mestiere.
Un treno speciale, il treno dei bambini. Una lodevole iniziativa del partito comunista messa in atto tra il 1945 e il 1952, quando il comunismo in Italia era un'ideale non ancora degenerato in ideologia corrotta da interessi e compromessi politici, che in nome della solidarietà tra compagni e compagne delle varie regioni di Italia si proponeva di garantire un'opportunità di maggior benessere ai bambini provenienti dalle famiglie più disagiate del centro-sud Italia.
Amerigo però tutto questo non lo sapeva; e neanche Antonietta poteva immaginare quale sarebbe stato il destino di suo figlio, tanto più che le voci del popolo non erano proprio incoraggianti: "Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all'America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se non niente fosse, perchè è ignorante assai."
Sicuramente però se Amerigo fosse rimasto lì con lei il suo destino sarebbe stato più che certo e simile al suo, un destino di fame, povertà e sofferenza.
Per questo Antonietta non ci pensa due volte e non ha dubbi quando accompagna il suo Amerigo in stazione; lei resta giù, insieme alle mamme degli altri bambini, in attesa che il treno parta, gli ha lasciato solo una mela da mangiare durante il viaggio, nient'altro perché ci penseranno i suoi nuovi genitori a prendersi cura di Amerigo, la sua nuova famiglia. Amerigo le lascia invece un abbraccio e lei resta sorpresa, 'perché gli abbracci non sono arte nostra'.
Già.. gli abbracci, le parole di conforto, un bacio o una carezza... non è 'arte' per una madre come Antonietta: l'amore c'è, ed è anche grande, Antonietta sarebbe disposta a tutto per il bene di suo figlio, ma è un amore concreto che si palesa nei fatti e non nelle 'smancerie', come se quelle potessero sminuirlo.
-Perchè? Chi ti manda via ti vuole bene?
-Amerì, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene.
Un sentimento di amore austero, rigido, forse perchè temprato da una vita fatta di stenti e di privazioni, tanto da impoverire, riducendoli all'essenziale, anche i sentimenti: un amore involutivo, rimane arginato nel cuore e mai manifestato.
Ben diverso da quello che Amerigo sperimenterà in Emilia Romagna, dove verrà affidato alle cure di Derna, di sua cugina Rosa e del marito Alcide con i tre figli Rivo, Luzio e Nario (che se chiamati in quest'ordine ricalcano anche nel nome lo spirito e l'ideologia politica del padre).
Nonostante le comprensibili difficoltà che Amerigo incontrerà inizialmente per ambientarsi in questa nuova realtà, sarà ben presto travolto dalla generosità e dall'affetto spassionato della sua nuova famiglia 'adottiva' e in un clima di ritrovata serenità riuscirà anche a riprendere gli studi a scuola e persino a coltivare una sua grande passione, quella del violino.
Tuttavia, non dimenticherà mai sua madre Antonietta nè tantomeno il suo legame con lei verrà scalfito dalla lontananza; bensì sarà proprio il desiderio di rivedere sua madre che compenserà in parte la tristezza con cui Amerigo riprenderà il treno verso Napoli dopo circa un anno.
Nella sua città, però, nulla è cambiato: anzi, degrado e disoccupazione imperversano ovunque riducendo in povertà diverse famiglie. Anche sua madre sembra cambiata: pare quasi ostile nei suoi confronti, indifferenre ai racconti delle sue esperienze vissute al Nord, quasi come fosse stata una scelta di Amerigo quella di andar via lasciandola sola e non una sua decisione.
Una situazione che diventerà ben presto insostenibile per Amerigo e che esploderà quando, un giorno, dopo aver saputo che la madre aveva venduto l'unico oggetto a cui era fortemente legato, il violino regalatogli da Alcide, Amerigo scapperà via prendendo quel treno che lo riporterà nel Nord, dalla sua famiglia adottiva, questa volta senza ritorno.
Seppur ambientato in uno spaccato storico in cui l'Italia, il meridione in particolare, a stento cercava di risollevarsi dopo il crollo economico e il disordine politico determinato dall'ultimo conflitto mondiale, il romanzo di Viola Ardone porta con sè un messaggio positivo, di rinascita e trasformazione, incarnato nel personaggio di Amerigo e soprattutto nella speranza che anima la sua vita e suo unico conforto: la speranza delle scarpe nuove, la speranza che il padre torni da lui, la speranza di imparare a suonare il violino.
Speranze e sogni di un bambino raccontati con le parole, l'animo e gli occhi di un bambino: una scelta stilistica per nulla banale (perchè non è facile abbassarsi e descrivere il mondo ad altezza di bambino) che conferisce al romanzo una forte carica emotiva concentrata nei pensieri e nei dialoghi di Amerigo, fatti di frasi brevi, spesso sgrammaticate ed intrise di termini dialettali, ma che puntano dritte al cuore di chi legge:
"In questa scuola la maestra è un maschio e si chiama signor Ferrari. E' giovane, non ha i baffi e tiene la erre moscia. Dice agli altri che io sono uno dei bambini del treno e che mi devono accogliere e farmi sentire a casa mia. A casa mia non avevo niente, penso. Quindi è meglio che mi accolgono come a casa loro."
E se la prima parte del romanzo, legata all'infanzia di Amerigo, commuove ed intenerisce per la dolcezza e la tenacia con cui il bambino cerca di non lasciarsi sopraffare dal dolore per l'allontanamento dalla madre e dalla sua casa e la paura di non essere ben voluto nella nuova famiglia, d'altro canto la seconda parte del libro, con un Amerigo ormai adulto, trasmette la malinconia, il risentimento e la rabbia delle occasioni perse, la consapevolezza amara di un vuoto profondo nella propria vita che l'orgoglio gli ha impedito di colmare, respingendo un amore, quello della madre, altrettanto fiero, incapace di scendere a compromessi, che pretende solo riconoscimento e gratitudine per i sacrifici e l'abnegazione mostrata ma non sa donarsi in una carezza, in un abbraccio, in quelle semplici manifestazioni di affetto che lo rendono meno distaccato e più schietto, istintivo, sincero.
"Come tutte le cose che si lasciano in sospeso, si rimandano al giorno dopo senza sapere che il giorno dopo non ci sarà."
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I libri saranno le nuove streghe.
Da buon ingegnere, terminata la lettura di questo romanzo, riflettevo su come la storia dell'uomo possa essere rappresentata efficacemente da una funzione sinusoidale: alti e bassi, buio e luce, splendore e decadenza, distruzione e rinascita che si alternano con un periodo di ampiezza secolare.
Sembra quasi che l'uomo sopperisca alla sua innata tendenza autodistruttiva, alimentata dalla congenita brama di potere e supremazia che scatena inevitabilmente guerre e disastri, con una altrettanto istintiva e tenace capacità di ricostruzione, alimentata dai sensi di colpa per il danno causato.
Come quando un bambino cerca di riparare il vaso rotto con la palla raccogliendo i cocci di quello che è rimasto.
Il problema è che l'uomo, così come il bambino con la palla, dimentica: perde memoria dei suoi errori, e delle relative conseguenze, e quindi continua a rompere per poi riparare, distrugge e ricostruisce. Cicli e ricicli della storia.
Fahrenheit 451 è un monito a non dimenticare. La memoria dei propri errori è l'unica difesa contro l'inesorabile propensione dell'uomo al proprio annientamento.
E Montag ora l'ha capito. Troppo tardi forse, ma in tempo per salvare almeno se stesso: adesso i suoi occhi vedono oltre quella cortina di fumo che avvolge l'intera società e che egli stesso ha contribuito ad alimentare, ubbidendo agli ordini di un sistema che ha lentamente corrotto e corroso la mente di uomini e donne sfruttando la tecnologia per renderli felici; una felicità illusoria, però, come quella indotta dalle droghe, che appaga i desideri più futili e reprime ogni possibile fonte di preoccupazione, di disagio, di incertezza. Inclusa anche la ragione e il pensiero.
Montag è un pompiere, ma nel suo mondo del futuro i pompieri non sedano il fuoco bensì lo appiccano, non placano le fiamme con estintori ma le nutrono con cherosene.
E bruciano libri. Perché i libri sono una minaccia per la stabilità del paese: i libri seminano dubbi, inducono al confronto e mettono in discussione le certezze facendole vacillare, creando così contrasti, divergenze, caos che sono le controindicazioni della libertà di opinione e di pensiero.
Quindi bruciano i libri per rendere gli uomini tutti uguali: "non tutti nati liberi ed uguali, come dice la Costituzione, ma tutti 'resi' uguali. Ogni uomo dev'essere l'immagine degli altri, perché allora tutti sono felici, non ci sono montagne che li fanno tremare, cime con cui devono confrontarsi. Ecco perché un libro è come un'arma carica nella casa del vicino. Brucialo, togli le munizioni dall'arma."
Ma senza uno scambio di idee ci sarebbe omologazione di cervelli, livellamento ed appiattimento culturale: non sarebbe più una società, ma 'una serie di tubi dove l'acqua entra da una parte ed esce dall'altra'.
E Montag l'ha capito. L'ha capito quando ha visto una donna lasciarsi bruciare con i libri nascosti nella sua casa:
"Nei libri dev'esserci qualcosa, non possiamo immaginare cosa, che spinge una donna a bruciare con la sua casa. Dev'essere così, non ti fai ardere vivo per niente."
L'ha capito quando ha conosciuto Clarisse, una ragazza che abitava vicino casa sua, e che gli ha insegnato ad aprire gli occhi, a guardare il mondo con attenzione, senza lasciarsi trascinare dalla massa che sfreccia lungo l'autostrada della propria vita senza sosta alcuna, bensì prendendosi il tempo necessario per ammirare lo spettacolo della natura, il movimento delle foglie in balia del vento o la rugiada di prima mattina.
"Riempiti gli occhi di cose meravigliose e vivi come se dovessi morire tra dieci secondi."
E l'ha capito osservando sua moglie Mildred, praticamente lobotomizzata come tutte le sua amiche, privata di ogni minima capacità critica tale da poter discernere il vero dal falso, ridotta ad uno stato semivegetale di totale dipendenza dalle voci artificiali che bombardano la sua mente giorno e notte creando il vuoto dove prima c'era massa cerebrale.
"Montag ricordò di aver pensato che se fosse morta, era sicuro che non avrebbe pianto. Sarebbbe stata la morte di una sconosciuta, una faccia vista per strada, una fotografia sul giornale, e a quel pensiero era scoppiato a piangere improvvisamente: non per la morte ma all'idea di non piangere la morte, uno stupido uomo al capezzale di una sciocca dalla testa vuota che il serpente affamato continua a svuotare."
Il romanzo di Ray Bradbury entra a pieno titolo tra i grandi classici della letteratura distopica, tra cui spicca anche 1984, il capolavoro di Orwell.
In entrambi i casi, sorge quasi spontaneo ammirare la notevole lungimiranza di questi autori e l'incredibile attualità delle loro storie: oggi non abbiamo ancora muri e pareti che ci parlano (ancora per poco forse) ma trascorriamo gran parte della nostra giornata con gli occhi fissi sullo schermo di un cellulare, interagiamo con esso molto più che con un essere umano, lasciandoci persino condizionare nelle nostre scelte e nel nostro stile di vita.
A pensarci bene, non siamo poi così distanti dal futuro di Bradbury.
"Prova a chiederti cosa vogliamo più di tutto, in questo paese: la felicità, non è vero? Non l'hai sentito ripetere tutta la vita? Voglio essere felice, dice la gente, e noi cerchiamo di fare in modo che lo sia. La teniamo occupata, la facciamo divertire. E' per questo che viviamo, no? Vogliamo il piacere, ci piace essere eccitati, e bisogna ammettere che la nostra cultura è prodiga di tutto questo."
E quando si perderanno di vista anche gli altri valori, quando tutto diventerà secondario, anzi peggio ostativo, alla ricerca della felicità, inizieremo anche noi a bruciare tutto.
"Quelli che non sono capaci di costruire finiscono per dar fuoco alle cose. E' una verità antica come la storia."
E come negarlo: si appiccavano roghi nel medioevo, si bruciano libri nel futuro di Fahrenheit 451.. i libri saranno le nuove streghe.. cicli e ricicli della storia.
Quando non ci sono più stimoli per l'intelletto sopravviene il buio, la paura del cambiamento, e la società permane in uno stato di decadenza spesso favorito dal potere che può cosi agire indisturbato, sopprimendo - bruciando - tutto ciò che potrebbe alterare lo status quo. Sino alla rivoluzione successiva, alla guerra che rasa tutto al suolo e, sulle macerie e sui morti, spiana la strada per la ricostruzione.
Perciò è importante non dimenticare.
"Quando ci chiederanno cosa facciamo, dobbiamo rispondere: Noi ricordiamo. E' così che vinceremo, alla fine. E un giorno ricorderemo a tal punto che costruiremo la più grande pala a vapore della storia e scaveremo la fossa più gigantesca di tutti i tempi: là seppelliremo la guerra e la ricopriremo."
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Straordinario nella sua ordinarietà
William Stoner è un uomo come tanti altri: senza particolari virtù né rimarchevoli difetti.
Alcuni potrebbero anche immedesimarsi in lui, altri, forse la maggioranza, potrebbero addirittura infastidirsi per la sua imperturbabilità dinanzi a qualsiasi evento avverso, un'imperturbabilità ai limiti dello stoicismo che rischia di essere confusa per debolezza o irresolutezza.
Indubbiamente però, quasi come trascinate da una forza d'inerzia misteriosa, le pagine di questo romanzo, pregne della vita di un uomo qualunque, ci scorrono dinanzi agli occhi come in un film destando un interesse quasi inspiegabile se rapportato all'ordinarietà di quella vita; eppure sono certo che pochi, una volta conosciuto William Stoner, decideranno di abbandonarlo al suo destino piuttosto che seguirne sino alla fine le sue vicissitudini, per quanto poco straordinarie esse siano.
Innegabile, quindi, il merito dell'autore John Wiliams che ha saputo costruire un romanzo intenso, emozionante e coinvolgente ispirandosi all'esistenza di un uomo qualunque: ciò perchè ogni episodio, ogni dialogo, ogni pensiero espresso o represso, persino le movenze e gli sguardi, sono descritti con tale dovizia di dettagli e con oculata scelta di termini da rendere vivida e limpida l'immagine di William Stoner nella mente di chi legge, quasi fosse reale, quasi fosse un amico di vecchia data.
Altrimenti non saprei come giustificare diversamente l'impeto di rabbia che più volte ho provato nei suoi confronti, il desiderio forte di entrare nel suo studio, sedermi al suo fianco e parlargli da buon confidente, cercando di scuoterlo, di rompere quella corazza di impassibilità dietro la quale si nasconde ogni qual volta il destino gli si abbatte contro.
Una corazza che gli è stata forgiata addosso praticamente dalla nascita, provenendo da un'umile famiglia di contadini residente a Booneville, un paesino nel Missouri a circa 40 miglia da Colombia.
I ricordi della sua infanzia ruotano tutti intorno all'immagine del padre con la schiena ricurva sui campi nel tentativo disperato di sottrarre alla scarsa generosità di quei terreni il minimo necessario per la sussistenza della sua famiglia; ed il ricordo della madre con il volto sempre ottenebrato dal timore di non farcela, di soccombere prima o poi sotto un cumulo di debiti da pagare.
"Benchè i suoi genitori, all'epoca, fossero ancora giovani - suo padre aveva 25 anni, sua madre neppure venti -, Stoner, fin da piccolo, aveva sempre pensato che fossero anziani. A trent'anni, suo padre ne dimostrava già cinquanta; piegato dalla fatica, fissava disperato l'arido pezzo di terra che di anno in anno dava da campare alla sua famiglia. Sua madre sopportava la vita con pazienza, come una lunga disgrazia destinata a finire."
E quando Stoner decide di abbandonare la fattoria dei genitori per studiare presso l'università di Colombia, nella valigia oltre a pochi abiti consunti ci saranno proprio quei ricordi e la speranza intravista negli occhi senza lacrime dei suoi genitori che egli possa continuare in modo proficuo gli studi di agraria all'università e magari, un giorno, con l'ausilio delle nuove tecnologie, rendere meno impervia la loro quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Ed è con l'ingresso di Stoner all'università che prende corpo il racconto della sua vita: lo vedremo rassegnarsi dinanzi allo studio di materie tecniche che non stimolano il suo interesse e lo vedremo invece cedere alle lusinghe della letteratura che diventerà sin da subito la sua più grande passione.
"L'amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana ed imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l'amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio."
Si innamorerà Stoner. O forse non era amore quello che provava per Edith, lo capirà meglio dopo; forse era solo il desiderio di uscire dalla sua sfera di solitudine, di sollevare lo sguardo dai libri ed iniziare a guardare anche il resto del mondo, una donna, degli amici.
Pochi momenti felici, l'emozione del contatto fisico con una donna, il piacere di una serata in compagnia dei due migliori amici e la possibilità di insegnare come docente di materie letterarie una volta completati i suoi studi. Ma il destino è sempre in agguato.
Ci sarà la prima guerra mondiale, che spazzerà via la vita di un suo amico e di tanti che come lui decisero di onorare la patria prestando servizio volontario in quell'assurdo conflitto. Si sposerà, avrà una nuova casa ed una bellissima figlia che diventerà ben presto l'unica benedizione di quel matrimonio trasformatosi sin da subito in una guerriglia subdola e logorante da cui troverà riparo solo nel suo studio, tra i suoi libri, le poesie e le lezioni per i suoi studenti.
E conoscerà anche l'amore, questa volta quello vero, quello che brucia dentro, che ti avvolge e dissolve il mondo intorno: solo lui e Katherine, il professore e la studentessa.
Troppo bello per essere vero, perchè possa durare sotto i colpi di mannaia del collega professor Lomax, deciso a vendicare un affronto subìto minando alle fondamenta quel rapporto già di per sè precario.
Giungerà poi la malattia e la morte, e sono queste forse le pagine più intense di tutto il romanzo: ci troveremo anche noi al capezzale di quest'uomo, stringendogli magari la mano, mossi da sentimenti contrastanti: compassione e rabbia.
Compassione verso un uomo che ha cercato e voluto una propria rivalsa personale, rabbia verso quello stesso uomo che incassa gli affondi del destino parando i colpi, piegandosi su se stesso ma senza mai reagire, con la stessa stoica resistenza dei suoi genitori che continuavano a piegare la schiena su quei campi che prima o poi li avrebbero inghiottito:
"Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi. Lentamente l'umidità e la putrefazione avrebbero infestato le bare di pino che raccoglievano i loro corpi, e lentamente avrebbero lambito la loro carne, consumando le ultime vestigia della loro sostanza. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro."
Mi auguro di essere riuscito nel tentativo di farvi percepire la grandiosità di questo romanzo che vi permetterà di amare o odiare Stoner, ma certamente non vi lascerà indifferenti, sicuramente vi travolgerà l'onda emotiva che l'autore è in grado di suscitare descrivendo gli episodi della vita di Stoner inquadrandoli da vicino, presentandoci quei dettagli che in una visione più superficiale potrebbero sfuggire ma che, al contrario, diventano significativi nel momento in cui vengono focalizzati, consentendo al lettore un'immediata immedesimazione nel contesto.
Ecco così che, zoomando sulle espressioni del volto o su particolari movenze del corpo, accentuando determinate tonalità nella caratterizzazione dei dialoghi, prolungando una risata sino a renderla beffarda o un silenzio sino a renderlo testimone di una verità fin troppo taciuta, l'autore riesce ad elevare Stoner da 'uno qualunque' ad 'uno di noi', un nostro conoscente, la cui vita non ci sarà più estranea ma ci coinvolgerà a tal punto che ci sentiremo in diritto di giudicarla, nel bene o nel male, approvando o condannando le sue scelte ed i suoi comportamenti: tutti però alla fine potremo dire di aver conosciuto William Stoner.
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Dio è un bambino, non lo sapeva?....
"Dio è un bambino, non lo sapeva? Per questo quando ci fa del male non se ne rende conto."
Non era un giorno come tutti gli altri per Samantha: dopo una notte insonne trascorsa pensando a quanto le aveva confidato la sua migliore amica, non vedeva l'ora che facesse giorno per poter constatare quanto quella confidenza fosse vera o se si trattasse di un semplice malinteso. 'Si era rigirata nel letto per tutta la notte come l'indemoniata di alcuni film dell'orrore, provando a ipotizzare i motivi che spingevano uno dei ragazzi più carini della scuola - e del creato - a voler scambiare frasi di senso compiuto proprio con lei'. "Tony Baretta vuole parlarti" le aveva sussurrato in un orecchio la sua amica il giorno prima durante l'ora di ginnastica e quelle parole continuavano a ronzarle nella mente prepotentemente cacciando via ogni altro pensiero mentre percorreva la strada verso la scuola. Solo una preoccupazione riuscì a distoglierla: nella fretta di uscire, aveva trascurato di nascondere con un pò di trucco le occhiaie causate dalla lunga veglia notturna e temeva fossero ora troppo evidenti. Un minivan bianco con i finestrini a specchio parcheggiato lungo la strada sembrava fosse stato piazzato lì dalla provvidenza. Tuttavia, il sollievo per aver constatato che le borse sotto gli occhi erano quasi invisibili durò pochi secondi: il suo volto riflesso sul finestrino poco alla volta scompariva sostituito da quello di un coniglio con gli occhi a cuore che diventava sempre più nitido nei suoi lineamenti man mano che si avvicinava al portellone del minivan.
Samantha aveva 13 anni quando conobbe per la prima volta Bunny, il coniglio dagli occhi a cuore, il suo rapitore.
Dopo ben 15 anni, Samantha viene ritrovata nuda in un bosco e mentre la polizia indaga nei pressi del bosco cercando tracce del rapitore, nella stanza di ospedale in cui Samantha viene ricoverata il dottor Green indaga nella mente della ragazza, ormai donna, nel tentativo di riportare alla luce ricordi di quei 15 anni trascorsi tra le pareti umide e grigie del 'labirinto', così come Samantha definiva il luogo in cui era stata segregata, delineando un possibile profilo psicologico del mostro e cercando di sottrarre Samantha dal 'buio', dal baratro di orrore, disperazione e follia in cui inevitabilmente precipitano coloro che sopravvivono a tali soprusi. Fuori dalla stanza isolata dell'ospedale, in una città oppressa da un caldo asfissiante, quasi infernale, si muove sulle tracce di Bunny anche Bruno Genko, un investigatore privato che fu contattato dai genitori disperati di Samantha subito dopo la sua scomparsa senza però ottenere alcun risultato; a 15 anni di distanza, Genko gioca le sue ultime carte per rimediare al suo primo fallimento cercando così di placare almeno in parte il rimorso di non aver fatto tutto il possibile per salvare la bambina. E sarà una corsa contro il tempo la sua: un foglio che porta sempre con sè nella tasca della sua giacca, la diagnosi di una grave malattia al cuore, gli ricorda che mancano solo pochi giorni al suo appuntamento con la morte.
Con L'uomo del labirinto, l'italiano Donato Carrisi conferma ancora una volta il suo talento nel filone sempre in voga del thriller psicologico, ormai saturo di titoli spesso accomunati da una trama con pochi spunti di originalità che induce inevitabilmente nel lettore un senso di deja-vù. Carrisi invece riesce a rendere speciale ed inconsueto ogni suo romanzo, seppur ruotando tutti intorno ad un comune denominatore: il male nella sua forma più subdola, più viscida e perversa, che si trasmette come un virus dal carnefice alla vittima, come il passaggio di un 'testimone' la follia del mostro contagia chi ne è inizialmente succube trasformandolo a sua volta in un mostro. Non si tratta di serial killer, il loro fine non è uccidere, anzi la morte è un fatto puramente marginale: sono sadici consolatori. "Lo scopo principale di questi psicopatici è trasformare la vittima in un essere abietto. Nella prigione di un sadico consolatore si viene sottoposti a prove crudeli, plagiati con la paura, costretti ad atti abominevoli.. E' in questo modo che loro consolano se stessi per il fatto di essere dei mostri."
Carrisi trascina il lettore sin dalle prime pagine in un vortice di tensione e follia da cui è impossibile sottrarsi; si viene letteralmente soggiogati dalla ricostruzione graduale della prigionia di Samantha nel 'labirinto' di Bunny e man mano che riaffiorano nella sua memoria le efferatezze subite si aggiungono nuovi tasselli alla trama rendendola essa stessa un labirinto, in cui basta poco per perdersi tra vari anfratti, dubbi ed interrogativi che l'autore lascia volutamente sospesi. E quando finalmente sembra delinearsi l'epilogo della storia, Carrisi rimescola nuovamente tutte le carte in gioco disorientando definitivamente il lettore che si ritrova così catapultato in una storia parallela, in un altro luogo ed in un altro tempo, in cui la nuova vittima diventa Mila Vasquez, l'investigatrice specializzata nella ricerca delle persone scomparse e che molti ricorderanno come protagonista dei primi romanzi di Carrisi, Il Suggeritore e L'ipotesi del male.
Ecco, personalmente, seppur ritenendo estremamente coinvolgente la lettura di questo romanzo, ho poco apprezzato la scelta dell'autore di introdurre nel finale un collegamento con un probabile nuovo capitolo della serie del Suggeritore: mi sembra una scelta dettata da fini puramente commerciali che a mio parere sminuisce non poco la qualità dell'opera. L'uomo del labirinto rimane comunque un romanzo che non deluderà di certo le aspettative degli appassionati del genere.
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Se sogno, sogno ciò che mi viene vietato
A Giverny, alta Normandia, Jerome Morval medico rinomato oftalmologo, viene trovato riverso sulle rive del piccolo ruscello dell'Epte che attraversa il paese con il cranio fracassato e chiari segni di accoltellamento.
Pochi gli indizi che possano lasciar intuire un possibile movente, motivo per cui l'ispettore Serenac ed il suo vice Benavides brancolano nel buio senza il minimo sospetto verso un plausibile omicida. Nessun testimone sulla scena del delitto solo una cartolina di auguri nella giacca del medico, per un compleanno di 11 anni, con sopra una frase strappata dalla pagina di un libro ed incollata sulla cartolina: 'Acconsento che si instauri il delitto di sognare.'
Mai come per questo romanzo, ogni parola in più potrebbe essere rivelatrice di una trama solo apparentemente lineare e poco tortuosa che invece si paleserà nelle ultime pagine in tutta la sua ineccepibile ingegnosità ed originalità, a riprova del talento dell'autore Michel Bussi nel genere giallo poliziesco confermato anche dal successo di pubblico e critica dei romanzi successivi.
Ma non è solo il finale ben congegnato l'unico punto di forza di Ninfee nere.
Come molti forse già sapranno, Giverny è anche la città di Claude Monet, considerato uno dei padri dell'impressionismo francese, che proprio in questa piccola cittadina trascorse gran parte della sua vita sino alla morte avvenuta nel 1926. Ed è proprio dalla sua casa a Giverny, oggi importante museo che espone gran parte delle sue opere attirando ogni giorno migliaia di turisti, che il grande maestro dipingeva le sue famose ninfee, ritraendole in modo quasi ossessivo da varie angolazioni e in diversi momenti della giornata per coglierne tutte le possibili e cangianti sfumature di colore. Qualsiasi colore tranne il nero che per Monet era assenza di colore: una leggenda narra però che in punto di morte, lo stesso Monet abbia voluto immortalare su una tela (mai ritrovata) la propria morte nel riflesso delle ninfee. Ninfee nere appunto.
Questa e tante altre curiosità sulla vita del pittore francese durante la sua lunga permanenza a Giverny arricchiscono le pagine del romanzo fungendo non solo da piacevole contrappeso alla tensione narrativa derivante dall'indagine poliziesca ma diventando anche parte integrante di essa.
Non è difficile immaginare infatti che se da una parte questa piccola cittadina abbia goduto dei vantaggi economici derivanti dall'enorme afflusso turistico, dall'altra abbia perso una propria identità, diventando essa stessa il riflesso delle ninfee di Monet:
"Chi si sognerebbe di andare a vivere altrove? Un paese così bello... Ma le dico una cosa: è una scenografia cristallizzata, pietrificata. C'è il divieto di decorare qualsiasi casa in maniera diversa, di ridipingere un muro, di cogliere un fiore. Dieci leggi lo proibiscono. Qua viviamo in un quadro, siamo murati vivi! Crediamo di essere al centro del mondo, siamo convinti che valga la pena di fare un viaggio per venire qui, ma alla fine il paesaggio, la scenografia ti cola addosso, come una specie di vernice che ti incolla alla scena. Una vernice quotidiana di rassegnazione, di rinuncia.. "
E non potrete non avvertire questa sensazione di prigionia, di arrendevolezza e remissività nei personaggi del romanzo, in particolar modo quelli femminili.
Sono tutti accomunati da una nota grigia, in aperto contrasto con i colori vivaci dei giardini che circondano la casa di Monet, come se quelle donne, giovani o adulte che fossero, non facessero parte di quel quadro, di quel paesaggio: tutte desiderose di evasione, di libertà, di una vita che non fosse quella dipinta per loro da un marito troppo geloso e possessivo o da una madre protettiva, una vita destinata inesorabilmente a spegnersi nel rimpianto delle occasioni perdute o di un amore soffocato sul nascere.
"Perchè fuggire? La risposta alla sua domanda è banale e vecchia come il mondo, è la malattia delle ragazze che si sognano diverse, la sete d'amore della Berenice di Aragon, la noia insopportabile della donna che peraltro non ha niente da rimproverare all'uomo con cui vive... Nessuna scusa, nessun alibi. Solo la noia e la certezza che la vita sia altrove, che da un'altra parte esista una complicità perfetta, che quei capricci non siano dettagli ma cose essenziali."
In Ninfee nere le vite stroncate non sono soltanto quelle delle vittime assassinate ma anche quelle private della loro essenza, della libertà di sognare e di trasgredire, incorniciate e rinchiuse senza via di scampo in un mondo apparentemente idilliaco ma realmente angusto e deprimente:
"Acconsento che si instauri il delitto di sognare.
Se sogno, sogno ciò che mi viene vietato
Mi dichiarerò colpevole. Mi piace avere torto
Agli occhi della ragione il sogno è un bandito."
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State buoni.. se potete
C'è gran fermento in Paradiso: il capo sta tornando da una settimana di ferie e tutti si adoperano per rendergli il ritorno in ufficio il meno traumatico possibile, a dimostrazione che la sindrome da rientro è un disturbo sempre più diffuso negli ultimi tempi e non risparmia proprio nessuno.
Ma nonostante lo sforzo di tutti, angeli e santi del Paradiso, l'umore del capo scende ai limiti della disforia quando scopre come sia peggiorata la situazione sulla Terra durante il suo periodo di ferie (ah, per chi non lo sapesse, una settimana in Paradiso corrisponde a circa mezzo millennio sulla Terra): guerre di religione, intolleranze razziali, la Chiesa che predica amore e fratellanza in lungo e in largo e poi ripudia gli omosessuali ed occulta i preti pedofili, senza tralasciare i danni arrecati all'ambiente, buco dell'ozono, foreste disboscate, aria ed oceani inquinati.
Eppure il suo messaggio, l'unico messaggio che Dio aveva rivolto agli uomini, era semplice, chiaro e conciso: 'Fate i bravi!'
Tralasciando le colpe di Mosè che per vanagloria e di sua iniziativa ha voluto sostituire quell'unico comandamento con altri dieci più pomposi e - a suo parere - più confacenti ad un diktat di origine divina, com'è possibile che gli uomini abbiano raggiunto un tale livello di degrado sociale e morale?
"In confronto, un congresso di stupratori e usurai è un simposio di santarellini".
Urge un intervento immediato e quale alternativa migliore per il buon Dio se non rimandare sulla Terra il figlio, suo unico portavoce ufficiale?
Rieccolo quindi Gesù, di nuovo in mezzo agli uomini, nella culla dell'umanità direi, a New York, squattrinato, senza un lavoro fisso se non qualche serata a suonare in pub e locali col suo gruppo di sfigati. Ma Gesù ha un talento, è un bravo chitarrista e cantante, anche se nessuno l'ha ancora notato tranne i suoi amici, tanto da convincerlo a partecipare al più seguito e famoso programma televisivo americano dedicato alla scoperta dei nuovi talenti, sul genere di X-Factor per intenderci. E quale migliore occasione per Gesù di divulgare il messaggio paterno ad una platea così ampia e variegata rispetto ai pochi passanti che talvolta si fermavano ad ascoltare i suoi sermoni per strada scambiandolo inesorabilmente per uno svitato... già il fatto di chiamarsi Gesù Cristo..
Per chi avesse già letto il romanzo di esordio di John Niven 'Uccidi i tuoi amici' non sarà difficile riconoscere anche in questo libro i tratti peculiari del suo stile: sarcastico, dissacrante, ironico e schietto. Se nel primo romanzo viene preso di mira e messo a nudo il mondo discografico, da cui lo stesso autore proviene, in cui ogni sano valore etico e morale è sottomesso all'interesse e al successo personale, in 'A volte ritorno' è senza dubbio la Chiesa il bersaglio principale. E tutto ciò che la Chiesa ha costruito artificialmente intorno alla figura di Dio. In realtà Dio è e continua a rimanere un mistero per tutti noi, un'entità suprema in cui credere o meno. Molti potrebbero storcere il naso dinanzi alla caratterizzazione che l'autore ne fa qui, umanizzandolo negli atteggiamenti e persino nel linguaggio, sin troppo sboccato. Ma è semplicemente un'esigenza stilistica, la satira nasce proprio dal contrasto tra un Dio irriverente e tendenzialmente hippie con una Chiesa pomposa ed intransigente. Ma ripeto, non è Dio il problema, ognuno è libero di immaginarselo come più gli aggrada: ciò che l'autore critica col suo sarcasmo è la figura di Dio che la Chiesa vuole imporci e ancor più i comandamenti e le leggi che secondo la Chiesa traggono origine dal volere divino ma che sinora hanno solo determinato divisioni, guerre ed intolleranze:
"Che cazzo è successo ai cristiani? - chiede Dio. - Ci sono cristiani dappertutto, cazzo.
- La cosa, ehm, si è un pochino involuta, - risponde Pietro.
- Involuta? Cosa c'era di potenzialmente involuto in "fate i bravi?"
- Se posso permettermi, Signore.. - fa Matteo, alzandosi. Dio fa un cenno per dirgli che i presenti sono tutt'orecchi. - C'è stata una certa frammentazione. Ovviamente ci sono i cattolici.
-Ok, fuori uno, -risponde Dio.
-Ahimè, non proprio uno, Signore. Fra i cattolici ci sono, ehm, diversi sottogruppi. C'è la Chiesa maronita, quella greco-melchita, quella cattolico-rutena o bizantina, quella caldea, quella..
-Bè, qual è la differenza? - chiede Dio.
-Quasi tutti credono che il papa sia il Suo rappresentante sulla Terra..
-Col cazzo, - risponde Dio.
-Però.. - continua Matteo. -Ci sono divergenze di natura teologica su... Vediamo, per esempio sulla raffigurazione latina del Purgatorio.
-C'è qualcuno a cui frega una cippa di minchia della raffigurazione latina del purgatorio?- reagisce Dio, versandosi dell'altro caffè."
Ovviamente la Chiesa non è l'unica imputata; poi ci sono gli uomini. Come abbiano potuto nel giro di pochi secoli trasformare il pianeta terra in un'enorme discarica a cielo aperto è un mistero che neanche il Creatore riesce a comprendere. E ancor più inspiegabile è il decadimento etico e morale di una società in cui consumismo sfrenato, desiderio di potere e ricchezza, egoismo ed edonismo prevaricano su valori più sani ed ormai dimenticati come l'amicizia, il rispetto altrui e l'amore. E se il grande poeta Thomas Eliot si chiedeva: "È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?", leggendo il libro di Niven e riflettendo seriamente sull'amara realtà che Niven attutisce con la sua ironia, verrebbe spontanea la risposta al dubbio di Eliot: si sono persi entrambi, la Chiesa e gli uomini.
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Siamo uomini o ominicchi?
Amurusanza: è un termine mancante nel dizionario della lingua italiana perché è stato coniato e tramandato dalla cultura e dalla tradizione popolare siciliana che impregna col suo vernacolo le pagine dell'omonimo romanzo di Tea Ranno, purtuttavia senza mai risultare tedioso ed ostico: indubbio merito dell'autrice che ha saputo orchestrare armoniosamente le parole attraverso una scrittura d'impatto che si rivela tale soprattutto nei dialoghi tra i vari protagonisti, ma nello stesso tempo permeata di una certa musicalità che ammalia ed incanta il lettore, come se quei termini, per quanto sconosciuti, divenissero subito chiari nel significato e comprensibili a tutti, siciliani e non.
Amurusanza è una parola che raccoglie in sé tutto ciò che può far bene all'anima, che la riscalda e la ricolma di amore: gesti, pensieri, piccoli doni, parole dolci sussurrate ma anche passionali ed impetuose dimostrazioni di affetto.
E Agata Lipari, la bellissima e sensuale Tabacchera, di amurusanza ne ha ricevuto tanta dal marito Costanzo Di Dio, e tanta ne ha donato a quell'uomo di cui era
follemente innamorata: un uomo tutto d'un pezzo, fervido ed accanito sostenitore dell'ideologia comunista in un'epoca e in una società in cui l'ideologia - qualunque essa fosse - era sempre più schiava e sottomessa all'interesse personale:
S'era innamorata di lui appunto ascoltandolo nei discorsi che l'infiammavano in piazza, o davanti al negozio, ogni volta che qualcuno esibiva l'entusiasmo facile per un'Italia nuova, forte, azzurra e televisiva, fatta di sorrisi e belle ragazze, di un liberismo che vuole dire:"Io penso a me, alla panza mia, chi resta s'arrangia".
E sarebbero vissuti per anni in perfetta armonia, magari con tanti figli e nipoti al seguito, trascorrendo le afose giornate estive nella Saracina, la splendida tenuta di campagna che Costanzo possedeva e che aveva curato personalmente, se un infarto non avesse stroncato cuore e sogni di Costanzo lasciando Agata sola e vedova in un paese dove già prima le donne la invidiavano per la sua statuaria bellezza, fonte di cattivi e peccaminosi pensieri per i propri mariti, e dove gli uomini altro non desideravano se non trasformare quei pensieri in fatti e azioni.
'Ma lei niente. Ferma. Muta. Si limita a scavarli con gli occhi cercandogli negli occhi l'anima meschina che corre a infrattarsi nel carbone delle colpe, dietro il sipario delle palpebre calate, nel fondo opaco della loro coscienza, semmai ne possedessero una. "Condoglianze" dicono le mogli. "Condoglianze" dicono i figli. E intanto la guardano, tutti la guardano Agata Lipari, ora vedova Di Dio. Alta, bella che belle come a lei non ce ne sono, snella e slanciata, le caviglie sottili, il petto superbo, il collo lungo, bianco, carezzato da capelli neri che scendono fin oltre le spalle. La guardano.'
E aveva ragione Costanzo, una compagnia di porci erano i suoi concittadini, "anime nere" senza onore e rispetto per se stessi e gli altri, agli ordini del sindaco 'Occhi janchi' che tra tutti era il peggiore: mafioso e corrotto politicamente, riusciva a domare le menti poco acculturate dei suoi compaesani piegandole al suo volere, con promesse di favori e piaceri in cambio del loro consenso e appoggio alla sua amministrazione, la stessa che aveva già favorito la costruzione di un stabilimento petrolchimico vicino al paese e che avrebbe presto ottenuto finanziamenti e concessioni per lo smaltimento dei rifiuti, trasformando poco alla volta quell'angolo di paradiso in un quartiere industriale che avrebbe probabilmente risollevato il tasso di disoccupazione ma anche quello dei decessi per tumori e inquinamento ambientale.
Fortunatamente però, il marcio non ha ancora insozzato la coscienza di tutti: in quel piccolo paese c'è ancora qualcuno che crede nella giustizia, divina e terrena, c'è ancora chi sia disposto a sacrificare il proprio interesse personale a favore di quello collettivo e chi decida di non barattare la propria dignità di uomo in cambio di un posto di lavoro o una concessione a proprio vantaggio, e c'è persino chi trova il coraggio di opporsi al pregiudizio e ad un'omologazione di massa verso un atteggiamento fortemente maschilista sedimentato nel corso dei secoli e che solo una vera e propria rivoluzione culturale potrebbe sgretolare.
E' così che lo scontro tra la 'tabacchera' ed 'occhi janchi' diventa rappresentativo della Sicilia perbene che cerca di emergere dalla melma fatta di omertà, corruzione, clientelismo ed arretratezza culturale che sembra aver sedimentato su questo territorio nel corso degli anni, infangando luoghi che avrebbero potuto distinguersi - se opportunamente valorizzati - per la loro bellezza paesaggistica ed infettando come una metastasi ogni (seppur rara) cellula buona, debole baluardo di sani valori come l'integrità morale, l'onestà ed il rispetto del prossimo.
Il messaggio quindi è chiarissimo: c'è ancora tempo e modo di salvare la Sicilia, se ogni siciliano singolarmente riuscisse a scrollarsi dalla coscienza quel fango e con fierezza riprendesse possesso della propria dignità di uomo.
Nel romanzo c'è ottimismo, c'è fiducia nella possibilità di cambiamento: per quanto la trama evolva attraverso episodi a volte farseschi, riportando spesso alla mente la commedia napoletana con tanto di presenza soprannaturale (quasi fosse necessario l'intervento dell'anima defunta di Costanzo per smuovere e risvegliare gli animi sopiti dei suoi concittadini), si avverte forte il desiderio da parte dell'autrice che la speranza di una Sicilia più 'pulita' (e non solo dal punto di vista ambientale) non si riduca ad una mera utopia.
Cosa servirebbe? Ce lo dice proprio nel titolo: amurusanza.
"Parola d'ordine ci vuole,
mio signore,
per accedere alle stanze
della vita,
parola stramma
di desiderio e ardimento
che squaglia il gelo
e splende sparpaglio
di bellezza e luce.
La sapesse, Vossia,
quella parola?
La covasse da mill'anni
in petto?"
"Amurusanza"
fa lui senza esitazione.
E le porte si spalancano
e il sole ride
e la vita
canta.
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Noi siamo buoni.. e portiamo il fuoco.
Una strada da percorrere. Senza inizio e senza fine. Non conosciamo il punto di partenza nè tantomeno dove possa condurre. Attraversa luoghi sconosciuti, irriconoscibili perchè hanno perso la loro identità, tracciati su mappe ormai inutili perchè disegnate su un mondo che non c'è più. Distrutto, incendiato, non è dato sapere cosa sia successo esattamente, quale sia stata la causa, ciò che rimane è l'effetto: una coltre di cenere e polvere che ha avvolto la terra inquinando aria e acqua, persino la luce ha perso le sue tonalità più calde quasi fossero state assorbite dall'unica dominante grigia. E poi l'oscurità: assoluta, incontaminata, l'essenza del buio, senza luna o stelle nel cielo che possano turbare con la loro presenza quella infinità immobile, nera ed avvolgente.
"Oscurità della luna invisibile. Le notti erano solo leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira attorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano."
Un padre e il proprio figlio procedono lungo la strada, non seguono un percorso, inseguono una speranza: il mare potrebbe essere la loro salvezza, forse il mare è stato risparmiato. Una speranza flebile, tenue, come la forza che li tiene in vita: diventano l'uno il sostegno dell'altro, condividono tutto, da quel poco di cibo che riescono a racimolare per le strade al calore dei loro corpi quando dormono stretti in un unico abbraccio sotto un telo di plastica sul ciglio della strada. Solo i sogni non condividono: perchè non possono, perchè il bambino è nato quando il mondo era già devastato e sfigurato e nella sua mente non ci sono ricordi di un mondo diverso, illuminato dal sole, popolato da animali e piante e in cui gli uomini non mangiano altri uomini per sopperire alla mancanza di cibo, un mondo come quello in cui l'uomo spesso si rifugia per non morire dentro, per non soccombere alla disperazione come già accadde a sua moglie che, abbandonando lui ed il bambino al proprio destino, preferì la morte ad una sopravvivenza fatta di stenti e dolore.
Nella pistola che l'uomo porta sempre con sè ci sono ancora due proiettili, uno per lui ed uno per suo figlio: tante, tante volte è stato sul punto di premere il grilletto puntando la pistola alla testa di suo figlio, per poi fare la stessa cosa su di sè. Ma in quegli occhi c'era una luce, quella stessa luce che il mondo aveva ormai perso, c'era il fuoco dell'amore e dell'abnegazione, unica speranza su cui ricostruire l'umanità:
"Noi siamo buoni.. e portiamo il fuoco."
Il romanzo di McCarthy, vincitore del premio Pulitzer nel 2006, è un capolavoro: la sua potenza espressiva è devastante, lo scenario apocalittico è descritto in modo così efficace da far sembrare surreale il mondo reale, come se case, alberi, strade, tutto ciò che ci circonda fosse destinato a crollare da un momento all'altro, sepolto sotto cumuli di cenere e pioggia. Ma la vera forza del romanzo è nella caratterizzazione dei due protagonisti, padre e figlio, ultimi brandelli di umanità in un mondo in cui ogni principio etico e morale è stato cannibalizzato dall'istinto di sopravvivenza, lo stesso che induce l'uomo a mettere la salvezza del figlio prima di ogni altra cosa, prima della sua stessa vita e, ancor più, quella degli altri. "Il bambino era l'unica cosa che lo separava dalla morte."
Ma il bambino era anche la sua garanzia dinanzi a Dio. Era il fuoco: 'se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato'. Palpabile in tutto il romanzo l'alone di Dio: è il terzo protagonista, invisibile ma onnipresente, nel deserto della Giudea era Satana il tentatore, lungo la strada di McCarthy è Dio che mette alla prova l'uomo: il vecchio viandante in cerca di cibo, il ladro che li deruba di tutto e cerca pietà una volta scoperto e la pistola con i due proiettili che potrebbero porre fine in un attimo a quella sofferenza. Tentazioni. Prove per redimere la propria anima. Ed il bambino è luce, profeta, salvatore. Ma soprattutto è amore. E se nel finale si intravede una seppur minima speranza di futuro, essa si basa proprio sull'amore e sull'altruismo. Altrimenti distruzione e solitudine. Indipendentemente dalle interpretazioni soggettive, la dimensione religiosa che permea l'intero romanzo non porta alla scoperta di Dio, chi o cosa sia, bensì conduce all'unica risposta possibile ai dubbi e alle circostanze che pongono l'uomo dinanzi a scelte difficili, scelte per le quali vacillano tutti i princìpi e le certezze: una risposta di una sola parola, amore.
In quest'ottica, merito innegabile dell'autore è quello di aver scritto un'opera che eleva l'amore a sentimento universale e a speranza unica di immortalità per l'umanità senza retorica e pomposità: sembra quasi che tutto ciò che sia stato sottratto all'umanità, non solo cibo, aria pura, luce ma anche serenità, giustizia, identità (nessun personaggio ha un nome) venga poi restituito, amplificato, nei gesti e nelle parole di amore del bambino.
Allo stesso modo, i dialoghi tra l'uomo ed il bambino, seppur scarni, ridotti ai minimi termini, sono straordinariamente pregni di un'intensità poetica che straborda dalle parole dando piena consapevolezza al lettore della forza di quel legame simbiotico tra padre e figlio in cui l'uno è il mondo intero dell'altro.
"Guardò il bambino addormentato. Ce la farai? Quando sarà il momento? Ce la farai?
Dormirono l'uno contro l'altro fra le trapunte puzzolenti nel buio e nel freddo. Lui teneva il bambino stretto a sè. Così magro.
Angelo mio, disse."
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Homo Homini Lupus...
Steven Stelfox è un discografico, per la precisione lavora come talent scout per una major discografica e in una città come Londra durante gli anni 90 il suo lavoro è simile a quello dei primi cercatori di oro o petrolio in America: basta trovare la riserva giusta, la band giusta, e la tua vita cambia radicalmente, stenti, povertà, debiti e frustrazione diventeranno solo un brutto ricordo sepolto sotto milioni e milioni di sterline, annullato dalla luce abbagliante del successo e del potere.
Cosa serve? Fortuna? Sì, certamente, perchè è come cercare un ago in un pagliaio: la musica in quegli anni è diventata per tanti giovani uno specchietto per allodole, sulla scia del rapido exploit di personaggi come Madonna, le Spice Girls, Bono, Kilie Minogue e molti altri, chiunque - musicista o presunto tale - cerca quell'opportunità di successo. E proliferando la paglia nel granaio tanto più arduo diventa per un discografico trovare l'ago, quell'unico ago capace di scalare le classifiche nazionali ed internazionali nel giro di poche settimane, di stazionare giorni e giorni nei programmi radiofonici principali sino alla conquista degli agognati dischi di platino. E la fortuna conta più dell'esperienza e della cultura musicale nel lavoro del talent scout: perchè un disco di successo non è necessariamente un disco di buona musica, è fondamentalmente un disco che vende, solo un disco che entra nella testa e nella vita della gente può alimentare le tasche di chi lo sponsorizza e lo produce, e se la massa vuole spazzatura il disco sarà spazzatura. E in un mare di immondizia rimane a galla ciò che ha più ambizione, più tenacia e spregiudicatezza:
'Certe volte, quando gente che non capisce una mazza dell'industria discografica cerca di capire il mio mestiere, butta lì: "Ah, quindi cercate talenti?" E' inaccurato. Madonna, Bono, le Spice Girls, Noel Gallagher, Kylie Minogue.. credete davvero che qualcuno di loro sia talentuoso? Non fatemi ridere, cazzo. Sono ambiziosi, ecco cosa sono. E' lì che si trovano i soldi. In culo al talento.'
E se l'ambizione fa la differenza tra chi diventa star e chi rimane nell'anonimato più assoluto, tra i discografici vince invece la superbia, l'opportunismo, il doppio gioco, l'arrivismo, il cinismo più feroce, mors tua vita mea, se non sbrani gli altri sarai sbranato tu stesso. Steven lo sa benissimo, nel suo campo ha esperienza da vendere, squalo tra gli squali: ed è proprio quando la situazione diventa critica che emerge la sua indole più brutale e spregiudicata:
'Frugo nella valigia, tiro fuori la copia tutta sottolineata di Scatena il mostro che è in te di Hauptman e la scorro finchè non trovo il passaggio che cercavo: "In ogni impresa difficile e meritevole arriverà un momento in cui la più facile forma di azione sarà rinunciare al movimento in avanti, lasciarsi conquistare dall'inerzia e ritornare allo status quo. Solo l'uomo forte e coraggioso, riconoscendo quel momento, si opporrà all'inerzia e si farà strada sino alla fase successiva. Costi quel che costi. Chiamo tale frangente il momento critico della volontà.'
'Uccidi i tuoi amici' è il primo romanzo di John Niven (risale al 2008) sebbene sia stato pubblicato in Italia solo quest'anno; tuttavia, l'autore non ha certo bisogno di presentazioni considerato il successo a livello mondiale conseguito qualche anno fa con 'A volte ritorno', ironico ed irriverente romanzo con protagonista Gesù richiamato per la seconda volta da Dio sulla Terra per rimettere un pò d'ordine. E non a caso ci torna nei panni di un musicista chitarrista, perchè Niven prima del folgorante successo come scrittore ha lavorato per svariati anni nel mondo della musica prestando il suo servizio a diverse etichette musicali ed è forse questo, a mio parere, l'aspetto più terrificante di questo suo libro: quanto di ciò che racconta è vero e quanto frutto del tentativo dell'autore di descrivere le ferocia di quel mondo e dell'umanità che la popola esasperandola all'ennesima potenza? Perchè pur estremizzando l'atteggiamento cinico e camaleontico dei vari personaggi, essi rimangono comunque .. realistici, credibili. Detto in altri termini, per quanto assurda possa sembrare la vita di Steven, un'alternanza perenne di sesso, droga, alcol e per quanto disumano possa sembrare lo stesso Steven, non si fatica a credere che possa essere proprio così.
Avete presente The Wolf of Wall Street, il film di Scorsese con Di Caprio nei panni del broker spregiudicato e consumatore cronico di droghe di ogni tipo? Ecco, immaginate quell'uomo, quel lupo avido di potere e denaro, privo del seppur minimo freno inibitore, sia etico sia morale, trasferitelo dal mondo della finanza a quello della musica ed ecco 'Uccidi i tuoi amici'. Tutto nel testo è portato agli eccessi, non solo a livello di contenuti ma anche nello stile che si avvale spesso di un linguaggio volgare ed osceno. Il libro è stato osannato dalla critica, soprattutto in virtù della sua vena satirica ed umoristica. "Divertente da star male", scrive addirittura The Times. Ora, pur conscio del mio carattere tendenzialmente mesto e malinconico, non ricordo durante la lettura di questo libro un solo periodo, dico uno, che mi abbia indotto ad abbozzare un cenno di sorriso. E sono anche consapevole che lo humour inglese tendenzialmente offre il meglio di sè nei contesti più tragici cercando proprio di sminuire la drammaticità della situazione; il fatto è che... non ho trovato proprio niente da ridere!!
Pertanto: vi è piaciuto The Wolf of Wall Street? Vi piacciono gli eccessi, le vite spericolate e spregiudicate? Gli uomini senza cuore e senza scrupoli? Siete curiosi di sapere come nasceva una star della musica negli anni '90 e come ruotava intorno ad essa la macchina discografica? Volete farvi un'idea del limite a cui possa giungere la perversione umana o conoscere più di 20 modi diversi per dire cocaina? Bene, allora Uccidi i tuoi amici fa al caso vostro. Altrimenti desistete!
"Il mondo discografico è una trincea crudele e superficiale, avida di soldi: un ambiente fasullo dove ladri e papponi scorazzano a piacimento e i buoni schiattano come cani. Fin qui il lato positivo."
(Hunter Thompson)
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Dio creò l'uomo, Berners-Lee l'iperuomo
Cosa sta succedendo al mondo oggi? Credo che molti si siano posti questa domanda, pochi - molto pochi - forse si sono fermati più di dieci minuti per rifletterci cercando di formulare una risposta: ma la risposta non è immediata, non è così evidente e sempre meno gente al giorno d'oggi ha tempo da dedicare a riflessioni di questo tipo. Ecco il tempo: forse il tempo è uno degli effetti collaterali più palesi della mutazione in atto, il tempo scarseggia, non è più sufficiente, perchè il mondo ora gira con una marcia più alta, va più veloce e 24 ore non bastano per scandire il ritmo frenetico a cui viaggia l'umanità. Ma non è l'unico effetto: che ci sia una mutazione in atto, anzi meglio, che si sia già compiuta una mutazione nel corso dell'ultimo decennio è ormai innegabile, cieco è chi non lo nota: basta osservare i giovani, la nuova generazione, 'umanità aumentata' come la definisce brillantemente l'autore, perchè hanno una percezione del mondo potenziata, il loro sguardo supera l'orizzonte del mondo reale sfociando verso "l'oltremondo", che sarebbe riduttivo definire virtuale, perchè in effetti non lo è più, ormai, solo 'virtuale': è un mondo parallelo a quello reale, interscambiabile, una realtà a due cuori, è una sua estensione raggiungibile con un click.. pardon, non più con un click, i topolini sono estinti quasi.. raggiungibile con un velocissimo touch, una fuggevole carezza. Quindi, se ci prendiamo il tempo necessario per riflettere, non è complicato rendersi conto che siamo proprio nel bel mezzo di una rivoluzione, di un cambiamento epocale, tra qualche anno, o secolo, saremo citati sui libri di storia (pardon.. sugli e-book di storia) alla stessa stregua di chi ha vissuto in prima persona le altre grandi rivoluzioni dell'umanità, il Rinascimento o l'Illuminismo, per esempio: e definirle rivoluzioni non rende pienamente l'idea della loro portata, sono vere e proprie mutazioni genetiche che non hanno solo modificato la vita degli uomini ma hanno trasformato l'uomo stesso cambiando il suo modo di pensare, la sua mente. Non so voi, ma io lo trovo .. elettrizzante! Quando ci capiterà più di far parte della storia! E onore al merito a Baricco che con questo suo saggio ci aiuta a capire: con grande dedizione ed ostinazione Baricco ha raccolto le tracce di tale mutazione sparse nel tempo e nello spazio (sebbene fortemente concentrate nel continente americano durante l'ultimo ventennio del XX secolo), le ha catalogate, analizzate con perizia quasi chirurgica, eliminando i falsi indizi e disegnando così una vera e propria mappa del nuovo mondo emerso dalle rovine della cultura novecentesca, ossessionata dal confine, dalle linee di demarcazione: 'che fosse il confine tra diversi Stati-nazione, o quello tra un'ideologia e un'altra, o quello tra una cultura alta e bassa, se non addirittura quello tra una razza umana superiore ed un'altra inferiore, tracciare una linea e renderla invalicabile rappresentò per almeno quattro generazioni un'ossessione per la quale era sensato morire e uccidere.'
Ecco da dove è nato il nuovo mondo, da gente in fuga, 'stavano evadendo da un secolo che era stato tra i più orribili della storia degli umani e che non aveva risparmiato nessuno', era gente che demonizzava l'immobilismo culturale, 'il ristagno piombato delle informazioni aveva portato i loro padri a vivere in un mondo in cui si poteva fare Auschwitz senza che nessuno lo sapesse, e sganciare una bomba atomica senza che la riflessione sull'opportunità di farlo riguardasse più di una manciata di persone'. Era gente che assumeva il movimento, come valore primo, indiscutibile, voleva 'boicottare i confini, tirare giù tutti i muri, allestire un unico spazio aperto in cui ogni cosa era chiamata a circolare'. Così è nato il nuovo mondo, così è nato The Game.
Già, se proprio si volesse dare un nome al nuovo mondo sarebbe proprio il nome di un gioco, di un video-gioco, Space Invaders per esempio, che i miei coetanei sicuramente ricorderanno, essendo forse il progenitore degli attuali video-games. Non riuscite a vedere il nesso?
Eppure c'è, ve lo assicuro, ma Baricco fa di più, ve lo dimostra e lo spiega in modo impeccabile. A prova di stupidi. Potrei quasi definire il suo libro "L'era digitale for Dummies". In quell'orribile mobiletto dotato di schermo e tasti non c'erano solo invasori alieni simili a ragnetti che scendevano dall'alto verso il basso, c'era un nuovo mondo lì dentro, infiniti mondi tanti quanti sono i giochi che poteva contenere: quel gioco nasce da un desiderio di evasione, di movimento, di libertà, di velocità, di fluidità e di.. leggerezza, di gioco.
E se pensate ora alla presentazione del primo Iphone lo vedete il nesso? Cosa c'è sul volto del suo creatore Jobs e su quello dei presenti: c'è il sorriso e lo stupore di un bambino di fronte ad un nuovo gioco, l'Iphone era divertente con quelle icone colorate sulla schermata principale ed ancor più divertente era usarle. 'Era come un gioco. Era disegnato per degli adulti bambini, sembrava disegnato da bambini adulti.'
Generare cambiamento sfornando strumenti che se non sono giochi almeno gli assomigliano. 'Siamo divinità festive, che creano nel settimo giorno, quello in cui il dio vero riposa'.
E il Web cos'è se non movimento allo stato puro, all'ennesima potenza, infinite direzioni percorribili in pochi istanti e senza schemi predefiniti se non quelli dettati dal flusso dei propri pensieri, senza catene: il Web 'non si limitava a smaterializzare le cose, smaterializzava gli umani! Di ipertesto in ipertesto, l'uomo che viaggiava là dentro finiva per avere una percezione di sé stesso come di un IPERUOMO. Non è che ti sentivi un dio in terra, o un supereroe con super poteri. E' che ti sentivi un iperuomo: un uomo che non era costretto ad essere lineare. Ad essere inchiodato in un luogo mentale. A farsi dettare dal mondo la struttura dei suoi pensieri e i movimenti della sua mente. Un uomo nuovo verrebbe da dire'. Una rivoluzione mentale.
Allora la mia ammirazione verso Baricco diventa duplice, sia come scrittore di grande pregio sia come insegnante: è facile, infatti, spiegare l'Illuminismo a due secoli di distanza, a giochi ormai fatti, col senno del poi è facile analizzare cause ed effetti di quella rivoluzione. Ma Baricco va oltre, Baricco studia e ci spiega una rivoluzione mentale che è ancora in atto ed i cui effetti sono ancora incerti perchè chi l'ha iniziata voleva solo liberà di movimento, voleva portare in superficie l'anima del mondo rendendola disponibile a tutti piuttosto che lasciarla sepolta in un baratro accessibile solo a pochi eletti, un'elite di sacerdoti: 'Il modo migliore per disfarsi di un sacerdote è mettere tutti in grado di compiere miracoli'.
Ed il risultato è stato raggiunto, come evidente agli occhi di tutti: il Web, i social, Obama, il Movimento 5 Stelle ne sono testimonianza.
Ma la direzione che sta prendendo questa rivoluzione non era prevedibile neanche dai suoi padri, il nuovo mondo non è più un gioco per tutti, può diventare anche un habitat ostile per chi usa gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie senza la giusta consapevolezza delle loro potenzialità; tanto più che istituzioni come la scuola, deputate all'educazione delle nuove generazioni, sono rimaste fossilizzate su programmi, insegnamenti, metodi rigidi e monolitici che vanno contro il desiderio di movimento e libertà su cui si fonda il nuovo mondo. E poi ci meravigliamo di quei bambini, e li condanniamo quasi come fossero indemoniati, quando invece sono solo iper-attivi, perchè sono figli del Web, perchè sin da piccoli sono abituati a spaziare da un contenuto all'altro seguendo link di ogni genere, e pretendiamo che si rassegnino a passare un dito sulla foto di un libro di scuola senza vederla scorrere, ci illudiamo che possano trovare interesse da una paginetta di storia quando in pochi minuti potrebbero spostarsi ovunque nel tempo e nello spazio.
Baricco, pertanto, elabora una teoria, sulla rivoluzione digitale, sui fattori che l'hanno alimentata e sulle conseguenze che determinerà nei prossimi anni; giusta? sbagliata? Impossibile esprimersi ora, siamo ancora troppo coinvolti, la stiamo ancora vivendo. Ma è una teoria che mi ha convinto e che mi ha offerto innumerevoli spunti di riflessione ed una più ampia prospettiva critica verso il mondo che sta cambiando. Un saggio divulgativo sull'evoluzione dell'umanità negli ultimi decenni esposto in modo brillante, a tratti rigoroso a tratti piacevolmente informale, con una scrittura fluida nella frase ma ricca nel linguaggio e nei contenuti, da un autore che si conferma ancora una volta un grande scrittore.
Baricco ci presenta il suo 'game' come Steve Jobs ci aveva presentato il suo. Consigliatissimo.
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"Sono io la tua mamma."
Malone ha poco più di 3 anni ed una fantasia molto fervida: racconta storie di pirati e navi fantasma, castelli e cavalieri e razzi che volano verso pianeti lontani. Il suo migliore amico è un peluche con le sembianze di un aguti, uno strano roditore che vive nelle regioni tropicali dell'America, Guyana in particolare: sono inseparabili Malone ed il suo peluche 'Guti', giorno e notte sempre insieme, la notte soprattutto, quando sotto le coperte, al riparo da tutto e tutti, Guti racconta quelle favole che a Malone piacciono tanto, sempre le stesse favole, una per ogni giorno della settimana, racconti che Malone ha imparato a memoria parola per parola perchè lo aiutano ad essere più forte, più coraggioso, dimenticando - anche se solo per un momento - ciò che più lo terrorizza: la pioggia, con quelle gocce di vetro che lo colpiscono dappertutto lacerandogli la pelle, ed il buio quando chiude gli occhi e si colora progressivamente di rosso, rosso sangue.
Ma tutto ciò non avrebbe insospettito lo psicologo infantile Vasil Dragonman se Malone non avesse detto alla sua maestra che la madre, Amanda Moulin, non è sua madre.
E i ricordi che il bambino ancora conserva di colei che ritiene essere la sua vera mamma e dei momenti della sua vita trascorsi insieme e schematizzati nei suoi disegni, per quanto confusi, per quanto alterati dalla sua immaginazione, incuriosiscono lo psicologo a tal punto da non arrendersi di fronte l'evidenza delle foto di famiglia che ritraggono il piccolo Malone appena nato con Amanda e suo marito Dimitri o dinanzi alle testimonianze del medico pediatra e dei vicini di casa; anzi Vasil, solo contro tutti, riesce a coinvolgere la comandante della polizia locale Marianne Augresse affinché possa aiutarlo a scoprire la verità su Malone prima che la sua memoria, sin troppo volatile come accade in tutti i bambini di quella età, rimuova completamente quelle immagini e con esse il ricordo dell'altra mamma.
Michel Bussi, autore francese dell'alta Normandia, dove è ambientato questo romanzo come diversi altri della sua bibliografia, si conferma ancora una volta uno dei migliori scrittori di thriller contemporanei, come testimoniano anche i vari riconoscimenti da lui ricevuti a livello internazionale.
"La doppia madre" è un romanzo che non lascia scampo al lettore, avviluppandolo nelle sue trame e tra le sue pagine che scorrono rapidissime come un fiume in piena e altro non si può fare se non lasciarsi trascinare dalla sua corrente: il mistero di Malone ed il tentativo di scavare nella sua mente per riportare alla luce quel mondo a cui il bambino resta ancorato da un appiglio molto labile si intreccia in modo inaspettato e mirabilmente architettato con l'indagine guidata dalla stessa comandante Augresse per la cattura di un gruppo di banditi e del loro presunto capo Alexis Zerda a seguito di una rapina a mano armata. Due storie apparentemente disgiunte che progressivamente si riveleranno invece accomunate da uno stesso denominatore: l'amore di una madre, sia esso reale verso un proprio figlio o immaginario, verso un figlio desiderato e mai ricevuto, o perso per sempre.
Un sentimento così intenso che non teme ostacoli se messo alla prova: e se, da una parte, esso rende una donna coraggiosa e temeraria pur di proteggere un bambino come se fosse quel figlio che non potrà più avere, dall'altra può anche portare una donna alla follia, trasformandosi da madre in doppia madre.
"Quando si vuole bene a qualcuno, ma bene sul serio, certe volte bisogna avere il coraggio di lasciarlo andare lontano o di saperlo attendere a lungo. E' una vera prova d'amore, forse l'unica."
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Giovani e belli? No, giovani e bulli!
La vita, finora, non era stata generosa con Marco Laurenti: non solo dal punto di vista economico, visto che la sua laurea in materie letterarie gli ha consentito solo di girovagare come insegnante precario tra le scuole del capoluogo lombardo con uno stipendio a malapena sufficiente per coprire le spese per la quotidiana sopravvivenza, ma anche dal punto di vista delle opportunità, di quelle occasioni che possono cambiarti .. la vita, appunto.
Una vita arida di novità, immersa nella piatta e soffocante routine quotidiana, carente di stimoli esterni, fatta eccezione forse per quelli di natura sessuale che la sua fidanzata gli concede più per piacere personale che per amorevole altruismo.
Non c'è da meravigliarsi quindi che Marco decida senza tanta esitazione di accettare la proposta per una supplenza annuale presso l'Istituto Comprensivo Mafezzoli con una paga ben più allettante del suo misero e saltuario stipendio mensile e nonostante la scuola sia situata in un paesino sperduto tra le valli montane della Lombardia, in una posizione così impervia ed isolata da essere quasi inaccessibile in inverno a causa della neve.
Una decisione folle, senza ombra di dubbio, ma era proprio ciò che Marco cercava: una svolta definitiva, una fuga da tutto ciò che nella sua vita iniziava a dar segni di stantìo.
"Quella era ancora la stagione della vita in cui ogni distacco portava, insieme al dolore necessario, un senso di liberazione. C'era qualcosa di orribile in questo: era come assistere all'irruzione di una spietata legge superiore o necessità biologica che ignorava i codici del cuore, travolgeva ogni cosa e mi sbalordiva."
Ma già l'arrivo al paese, tra gli sguardi sospettosi ed ostili degli abitanti del luogo e l'atmosfera cupa del paesaggio circostante, lasciano presagire che il futuro per Marco non sarà cosi esaltante come sperava:
"La montagna incombeva più vicina che mai. Le immense mascelle di roccia si erano quasi chiuse ed era come penetrare sempre più a fondo tra le fauci di un animale gigantesco e spingersi dentro la sua gola."
E la sensazione negativa diventa sempre più certezza non appena Marco entra in classe e conosce i suoi nuovi alunni: età media 13-14 anni essendoci molti ripetenti, sono principalmente quelli nelle retrovie, quelli che occupano gli ultimi banchi a preoccuparlo perchè sono gli stereotipi di tutto ciò che di più malsano e pericoloso possa esserci in una scuola: Cristina e Chiara, le ragazze del gruppo, la prima disinibita, fin troppo per la sua età, bella e sensuale e prematuramente conscia del potere ammaliante della sua femminilità sui ragazzi, l'altra esattamente all'opposto, debole, insicura, sempre in bilico tra la paura di superare il limite, di andare contro i propri princìpi morali rimanendo soggiogata dalla volontà altrui e il desiderio di appartenere ad un gruppo, un'identità più grande della sua, che 'ti protegga dallo sgomento di questa terribile unicità, sempre a rischio di rivelarsi solitudine'; i fratelli Bedin, archetipi del bullismo sadico ed istintivo, agiscono col solo scopo di fare del male senza alcuna inibizione perchè la loro cattiveria è pari solo alla loro stupidità, del tutto incapaci di soppesare le conseguenze dei loro gesti per il semplice motivo che non pensano, non riflettono sulle loro azioni. E poi c'è Rudi, il capo-gruppo, il più pericoloso, perchè incarna il male nella sua accezione più temibile, il male paziente, scaltro, calcolatore e soprattutto manipolatore delle personalità altrui, sia nel mondo reale sia in quello virtuale dei social network.
E' l'adolescenza quindi al centro di questo romanzo di Raul Montanari: un'adolescenza guasta, marcita, allo sbando e senza obiettivi per il futuro, animata unicamente dal desiderio di apparire e trasgredire, completamente persa nei fumi del sesso, dell'alcol e della cocaina, conseguenza diretta dei tempi in cui viviamo, scanditi ormai da tweet e post sui vari social, e della famiglia in cui il ruolo dei genitori diventa sempre più sfumato, assente e la mancanza di dialogo viene sopperita da atteggiamenti autoritari che sono spesso deleteri perchè inducono i ragazzi ad una ribellione non più sana e costruttiva ma cinica e sprezzante verso tutto ciò che è autorevole, in primis la figura dell'insegnante. Ed è bravo l'autore a mettere in risalto questi aspetti, sicuramente innegabili perchè sotto gli occhi di tutti, in particolare come la figura del professore sia al giorno d'oggi sempre più bistrattata, sia dal punto di vista redditizio essendo un lavoro scarsamente retribuito sia dal punto di vista educativo, essendo il suo operato spesso contestato e delegittimato non solo dagli studenti ma anche dagli stessi genitori:
"Da un certo punto in poi si è rotta l'alleanza tra gli adulti, quella per cui se un ragazzo tornava a casa con una nota sul diario veniva rimproverato, perchè l'adulto nella casa, il genitore, si fidava dell'adulto a scuola, l'insegnante. Oggi, se mettete una nota i genitori vengono a protestare."
Può sembrare una rappresentazione troppo esasperata della realtà? Non direi. Persino il tragico epilogo della storia, nonostante gli elementi di finzione narrativa, non si discosta molto da fatti di cronaca realmente accaduti.
Un romanzo ben scritto che seppure incentrato sul racconto dell'esperienza scolastica dell'insegnante Marco Laurenti nell'istituto Mafezzoli appassiona anche per la ricostruzione emotivamente intensa dell'adolescenza di Marco, il rapporto indissolubile con la sorella e quello ostile e tormentato con i genitori. E tralasciando alcune digressioni erotiche inserite forse per esigenze di marketing ma che personalmente mi sono sembrate fuori luogo e prive di qualsiasi valore aggiunto, La vita finora resta a mio parere un buon romanzo in cui l'autore con uno stile immediato e cristallino delinea con estrema precisione il profilo psicologico dei suoi personaggi, soprattutto i ragazzi, offrendo al lettore diversi spunti di riflessione su tematiche che ruotano intorno al mondo adolescenziale: un mondo difficile, da sempre problematico ma che ora sta cambiando perchè contaminato da nuovi fattori esterni: inutile negarlo, il mondo virtuale non è più solo virtuale ma condiziona incisivamente la vita reale. E, ancora peggio, vi si insinua in modo subdolo, strisciante, soprattutto per i ragazzi che sebbene riescano nella vita di tutti i giorni a distinguere nettamente ciò che è bene dal male, perdono invece la percezione delle possibili conseguenze delle loro azioni nel mondo virtuale una volta riflesse in quello reale.
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God bless America
Difficile stabilire quanto ci sia di James Patterson e quanto di Bill Clinton in questo romanzo techno-thriller fanta-politico scritto a quattro mani: certamente i due autori non hanno bisogno di presentazioni, il primo scrittore di thriller di grande successo internazionale tanto da trovarsi al primo posto nella classifica mondiale degli scrittori più facoltosi e l'altro ex presidente degli Stati Uniti per ben due mandati durante i quali ha raggiunto un elevato indice di gradimento popolare per le importanti riforme approvate in ambito sanitario e sociale.
E' come quando si tenta di individuare i tratti somatici dei due genitori in un bimbo appena concepito, spesso risulta impossibile distinguerli nettamente.. se si esclude, ovviamente, il giudizio inconfutabile delle suocere che riconoscono sempre nel neonato un clone perfetto del proprio figlio/a o comunque di un altro componente della propria stirpe.
Tuttavia se volessi azzardare un'ipotesi, a mio parere imparziale non essendo una suocera e non appartenendo (ahimè) nè alla famiglia Patterson nè a quella Clinton, sarei propenso ad attribuire allo scrittore statunitense il merito di aver impresso al racconto un ritmo incalzante che raggiunge picchi di tensione narrativa sin dalle prime pagine del libro e si mantiene costante per tutta la trama già di per sè ricca di peripezie e colpi di scena: il gruppo terroristico dei Figli della Jihad ed il loro leader Suliman Cindoruk mantengono sotto scacco gli Stati Uniti d'America con la minaccia di un attacco cyber senza precedenti nella storia, in grado di infettare con un virus di nuova generazione tutti i dispositivi connessi alla rete cancellando i dati archiviati e rendendoli così inutilizzabili:
"Sono Suliman Cindoruk. E sto per resettare il mondo."
Facile immaginare le conseguenze disastrose di una simile eventualità: tutti i servizi di primaria importanza per la popolazione non sarebbero più garantiti, banche, ospedali, acquedotti, tutto smetterebbe di funzionare e l'America prima, il resto del mondo poi, finirebbe nel caos e disordine assoluto. Senza tener conto che nazioni nemiche potrebbero approfittare dell'estrema vulnerabilità in cui cadrebbero gli Stati Uniti per condurre azioni di forza ai danni dell'Occidente.
“Uno dei paradossi dell’epoca moderna è che il progresso può renderci più potenti, ma anche più vulnerabili. Voi credete di essere all’apice del vostro potere, credete di essere in grado di fare cose senza precedenti. Ma io vi vedo all’apice della vostra vulnerabilità. E la ragione di tutto ciò è la dipendenza. La nostra società è diventata completamente dipendente dalla tecnologia”.
Pagina dopo pagina si delinea così uno scenario apocalittico in cui il presidente Jonathan Lincoln Duncan, al suo primo mandato e con un passato di valoroso marine, dovrà combattere contro il tempo, contro il rischio di trombosi a causa della sua malattia ematica degenerata nell'ultimo periodo, contro un gruppo di mercenari assoldati dai terroristi per eliminare l'unico hacker in grado di fermare il virus e contro un membro non ancora identificato del suo gruppo di collaboratori accusato di tradimento per aver divulgato informazioni riservate.
Ma se tutto ciò è frutto della penna adrenalinica di Patterson quale sarà stato dunque il contributo della penna di Clinton? Presumo l'accurata descrizione della complessa macchina burocratica che ruota intorno alla Casa Bianca, i complotti politici, gli stratagemmi e compromessi necessari per mantenere un governo stabile nel tentativo di salvaguardare quanto più possibile gli interessi del popolo americano e, ovviamente, anche i propri interessi, quelli del presidente, essendo il nostro protagonista oggetto di un tentativo di impeachment da parte del rappresentante dell'opposizione, come se non avesse già abbastanza guai da risolvere.
E certamente in tema di impeachment Clinton vanta un'esperienza non trascurabile considerato il suo coinvolgimento nello scandalo Lewinsky che tutti ricordiamo.
In definitiva, un altro colpo a segno per Patterson che non delude sicuramente le aspettative dei suoi lettori regalando loro un thriller ad alto tasso adrenalinico reso ancor più coinvolgente dalla 'consulenza specialistica' di Bill Clinton. Il quale, forse fin troppo desideroso di farlo durante la sua permanenza alla Casa Bianca ma non avendone avuto possibilità per mancanza di catastrofi, impatti di meteore vaganti o UFO in arrivo, non ha probabilmente saputo resistere qui alla tentazione di propinarci il solito discorso nazional-patriottico stile Armageddon o Indipendence Day che avrei preferito evitare di leggere. Ma, signori, l'America è anche questo e .. 'Dio benedica l'America e tutti quelli che la chiamano patria':
Al termine della Convenzione di Philadelphia, qualcuno del popolo chiese a Benjamin Franklin che tipo di governo ci avessero dato i nostri fondatori. Lui rispose: "Una repubblica, se sarete in grado di mantenerla." Questo è un compito che nessun presidente può svolgere da solo. E' compito di noi tutti mantenere quella repubblica. E trarne il meglio."
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Fé lève lo mort
'Fé lève lo mort': è pericoloso far risorgere il passato.
Se Martial Bellion avesse dato maggior credito ai detti popolari forse avrebbe optato per una mèta diversa dove trascorrere le vacanze pasquali con la famiglia, la sua nuova famiglia composta dalla bellissima moglie Liane e la piccola Sofà. Invece preferisce tornare a Saint Gilles nell'isola Reunion, in un villaggio turistico poco distante dai luoghi dove aveva vissuto diversi anni prima con la sua ex-moglie Graziella sino alla morte del figlio Alex di appena sei anni, annegato in mare, essendo stato lasciato da solo in spiaggia. Sebbene Martial riuscì a convincere il giudice in tribunale della sua innocenza, poco poteva contro i fantasmi della sua mente e il ricordo ricorrente del figlio non faceva che accrescere il suo senso di colpa. Per questo motivo decise di abbandonare l'isola per ricrearsi altrove, a Parigi, il più lontano possibile, una nuova famiglia.
E, complice sia il tempo trascorso sia l'incontro con Liane e la nascita della piccola Sofà, Martial riesce a superare e metabolizzare quel tragico evento.
Tanto da non temere un ritorno sull'isola della Reunion, per far conoscere a Liane e Sofà quel luogo fantastico, paradiso per i turisti, in cui la natura ha concentrato in pochi chilometri quadrati paesaggi estremamente variegati, dal mare alla montagna vulcanica, dalla foresta tropicale alle barriere coralline.
Ma qualcosa va storto per Martial Bellion: a pochi giorni dal loro arrivo sull'isola, Liane scompare improvvisamente dall'hotel in cui alloggiavano ed è lo stesso Martial a denunciarne la scomparsa alla gendarmeria. Tutti gli indizi però sono contro di lui, essendo stato l'ultimo ad entrare in camera con Liane, come confermato da più testimoni. Martial si trasforma così, nel giro di poche ore, in fuggitivo e pericoloso ricercato, non solo perchè sospettato dell'omicidio della moglie (sebbene il suo corpo non sia stato ancora rinvenuto) ma anche perchè ha trascinato con sè la figlia Sofà, presumibilmente come ostaggio per la sua fuga.
Michel Bussi, autore francese di questo romanzo al cardiopalmo, ha già dato ampia prova delle sue doti narrative nel genere poliziesco col romanzo Ninfee nere vincitore di numerosi premi e molto apprezzato dalla critica e dal pubblico, come dimostrato dall'elevato numero di copie vendute in Francia.
Con 'Non lasciare la mia mano', l'autore conferma la sua reputazione regalando ai lettori una trama dal ritmo incalzante, incentrata sulla fuga di Martial con la piccola Sofà e raccontata in duplice voce, quella del padre e quella della figlia, spesso contrastanti perchè ciascuna basata sulla propria percezione degli eventi accaduti. Eventi che mettono in seria discussione l'innocenza di Martial soprattutto agli occhi della figlia, più volte costretta a rassegnarsi all'idea che suo padre sia un assassino, che abbia ucciso sua madre e che presto farà lo stesso con lei:
Mi appoggio alle rocce, vicinissima al bordo, voglio che i fiori finiscano proprio in fondo. "Mi stai tenendo bene, papà?". Mamma non mi avrebbe mai permesso di fare una cosa del genere. Mi piego, sono quasi sopra il buco. Papà mi tiene la sinistra mentre con la destra disegno un cerchio nell'aria e lancio il mazzo. I fiori si disperdono a pioggia. Cadono senza rumore. Abbasso la testa, mi piacerebbe seguirli con gli occhi il più lontano possibile, fino al centro della terra. "Papà non lasciare la mia mano, eh?"
Il romanzo, inoltre, pur ruotando intorno ai due protagonisti in fuga, abbraccia nel suo evolversi diversi personaggi secondari, in particolar modo il sottotenente Christos Konstantinov che seguirà le indagini sul caso, e che vivendo e lavorando sull'isola ormai da diversi anni sarà portavoce delle numerose contraddizioni che la caratterizzano soprattutto dal punto di vista sociale e politico e che sono ben celate dietro l'apparente tranquillità, gioiosità ed opulenza di un'isola paradisiaca circondata dall'Oceano Indiano e mèta ambita di molti turisti: hotel, ville, piscine, spiagge esotiche nascondono una realtà autoctona ben diversa con problemi di delinquenza, razzismo e disagio sociale, inevitabili conseguenze di una storia senza identità essendo stata l'isola oggetto di innumerevoli migrazioni da parte di popoli con origini e tradizioni differenti e mai perfettamente amalgamati nel corso degli anni.
"Un'isola, un mondo" proclama lo slogan turistico della Reunion. In fondo è vero. Sui quaranta chilometri quadrati dell'isola è radunato un campione rappresentativo delle disuguaglianze tra i popoli dei cinque continenti. Un laboratorio dell'umanità. L'isola della Reunion è una terrazza posata sull'orlo del mondo per osservare il futuro del genere umano. All'ombra, con le infradito e un cocktail in mano.
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L'amore malato
Camille Preaker è una giornalista del Chicago Daily Post. Giovane e bella, molto bella, fisico longilineo e viso dai lineamenti delicati, un fascino tuttavia che non diventa appariscenza anzi, tutt'altro, rimane occultato, coperto.
Vestiti lunghi sempre, per nascondere i segreti del suo corpo, riflessi incondizionati del suo tormento interiore. Vive a Chicago, in un piccolo monolocale, completamente sola, niente piante o animali di compagnia, presenza umana ridotta al minimo indispensabile da quando, otto anni prima, ha abbandonato Wind Gap, una cittadina dispersa nel Missouri dove è nata e vissuta sino all'età adolescenziale.
"Un agglomerato piccolo e soffocante in cui eri costretto ogni giorno ad imbatterti nelle persone che odiavi. Persone che sapevano tutto di te. Il tipo di posto che lascia il segno."
Lascia il segno. Dentro, e fuori. Sulla pelle.
Un posto asfissiante per Camille che non trova ossigeno nemmeno a casa propria, in famiglia: nata da genitori poco più che diciottenni, il padre, un ragazzo del Kentucky mai conosciuto, la madre Adora unica discendente della più ricca famiglia del luogo. Ed anche unica superstite, visto che dopo la scandalosa nascita di Camille i nonni materni muoiono per la vergogna ed Adora eredita casa e patrimonio oltre a conquistare l'affetto e l'ammirazione dei suoi concittadini per la determinazione e la premura con cui si occupa di Camille e della piccola Marian nata dal matrimonio riparatore di Adora con Alan, un uomo 'insipido, con la profondità di una lastra di vetro'.
Ma l'amore Di Adora verso Camille è malato, morboso, opprimente; ciò che agli occhi degli altri potrebbe sembrare frutto di un istinto materno protettivo e benevolo è in realtà la manifestazione di un egoistico desiderio di controllo totale sulla vita delle persone a lei più vicine.
Camille, però, avverte sin da ragazza qualcosa di strano nel comportamento della madre, una sensazione che non riesce a decifrare bene inizialmente perchè Adora rimane pur sempre sua madre e non è facile per Camille interpretare correttamente i suoi gesti, non è semplice percepire nelle sue carezze e nelle sue parole la differenza tra amore materno e amore verso se stessa.
E' stata la morte improvvisa della sorella Marian a soli 10 anni a spezzare definitivamente il già labile legame che ancora tratteneva Camille alla sua famiglia e a Wind Gap convincendola a trasferirsi il più lontano possibile, in città, a Chicago, iniziando così la sua carriera di giornalista.
Ma non è stata forse una saggia decisione quella di accettare l'incarico da parte del suo capo per una trasferta proprio a Wind Gap con l'obiettivo di raccogliere quante più informazioni possibili in merito alla crudele uccisione di una bambina del luogo a cui il killer ha strappato via tutti i denti per motivi ancora sconosciuti, un caso stranamente simile ad un altro assassinio altrettanto violento avvenuto qualche mese prima sempre a Wind Gap. Non è solo l'opportunità di scrivere un buon articolo che induce Camille ad accettare l'incarico; c'è anche un inspiegabile desiderio da parte sua di ritornare in quel luogo dopo così tanti anni per capire, per tentare di ricostruire alcuni eventi della sua adolescenza che sono come offuscati nella sua memoria, ricordi confusi e nebbiosi che inconsciamente ha provato a rimuovere senza mai riuscirci del tutto.
Ci sono ancora tracce della sua vita a Wind Gap che non sono state sepolte dal tempo e che esercitano su di lei un forte richiamo. Cosi come le tracce che lei ha lasciato sul suo corpo, sulla propria pelle, parole incise nella carne delle braccia, delle gambe, sul seno, sull'addome, ogni punto del suo corpo è ricoperto di parole che pulsano e vibrano nella pelle comme fossero vive, sveglie:
"Il fatto è, vedete.. sono una che si taglia. O, se preferite, che si incide, si tagliuzza, si affetta, si pugnala. Sono un caso molto, molto speciale. Perchè ho uno scopo. La mia pelle, dovete sapere, urla. E' coperta di parole - , , , - come se un intagliatore alle prime armi avesse imparato il mestiere sulla mia carne."
Segni, cicatrici, crepe nella pelle, parole soffocate dentro per lungo tempo che cercano di emergere, di essere urlate fuori. Perchè quelle parole nascondono una verità che non può essere più taciuta, una rabbia interiore che non può essere più frenata.
Gillian Flynn, dopo il grande successo editoriale de L'amore bugiardo, confeziona un altro thriller dalla forte connotazione psicologica: gli omicidi efferati delle due bambine di Wind Gap diventano a loro volta gli indizi della presenza di un mostro ben più crudele e subdolo del vero killer, una mente perversa cresciuta nell'odio che contamina e ammorba coloro che non riconoscono il suo amore malato, anche perchè troppo giovani per farlo.
Ed è un male che indirettamente sembra infettare proprio loro, le ragazze più giovani, le adolescenti, troppo inclini ad atteggiamenti violenti e di prevaricazione sulle compagne più deboli e smaniose di potere, di sentirsi desiderate ed ammirate, di avere tutto e subito, senza remore e senza inibizioni, pur essendo ragazzine di soli 13 anni.
E la causa, la fonte del male, è nella famiglia, in un rapporto malsano e venefico tra madre e figlie.
"Un bambino svezzato con il veleno considera il dolore un conforto."
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Una donna, una città ed un pizzico di fortuna..
"Questa storia inizia come tante altre: una donna, una città ed un pizzico di fortuna".
Ma a differenza di tante altre storie che muoiono dimenticate, Shantaram riscuote un successo editoriale a livello internazionale risollevando le sorti della turbolenta esistenza dell'autore Gregory David Roberts alla cui vita il romanzo è ispirato.
Eppure Shantaram non può essere considerato, a mio parere, un capolavoro: un capolavoro è sinonimo di perfezione mentre Shantaram non è esente da difetti: eccessiva prolissità e ripetitività di contenuti che hanno sicuramente rimpinguato la mole del libro rendendo però noiosa oltre misura la lettura di alcuni capitoli; una costante e spesso stucchevole propensione verso note mielose tali da rendere sin troppo platonica e e finta la storia d'amore che si svilupperà durante l'intera trama e che poco realisticamente non sfocia mai in momenti di più 'carnale' passionalità; infine, la figura del protagonista esageratamente mitizzata, a tratti paradossale, una sorta di super-eroe dalle mille e una vite in grado di evadere dal carcere australiano di massima sicurezza in cui era rinchiuso per rapina a mano-armata, atterrare a Bombay sotto il falso nome di Lindsay, trovare rifugio in una delle misere baracche dello slum alla periferia di Bombay dove viene osannato quasi fosse un santone assistendo centinaia di indiani grazie all'esperienza 'medica' acquisita curando ferite in carcere, riesce ad infiltrarsi nella più grande organizzazione criminale di Bombay diventando in poco tempo un guru nell'arte del riciclaggio, della contraffazione e del traffico di armi, sopravvive alle più terribili torture che mente umana possa concepire, diventa manager di Bollywood e, dulcis in fundo, partecipa a missioni suicide contro l'esercito russo in Pakistan e Afghanistan, a dispetto quasi dell'appellativo 'Shantaram' (ossia 'uomo di pace' in lingua marathi) che gli viene attribuito durante la sua permanenza in un villaggio indiano.
Non saprei ora quanto ci sia di autobiografico in tutto ciò e quanto sia frutto di fantasia ma credo che il piatto della bilancia sia fortemente inclinato verso questa seconda opzione.
Dunque ci sarebbe da chiedersi: perché Shantaram ha avuto così tanto successo?
Perché è magico. Perché riesce a trasmettere emozioni, riesce a magnetizzare il lettore catapultandolo in India, a Bombay, tra le sue strade, tra i suoi milioni di abitanti, un caleidoscopio sociale multi-etnico in cui trovano posto esseri umani di ogni razza ed estrazione amalgamati in un improbabile miscuglio. Shantaram è una finestra sull'India, la sensazione che si prova leggendolo è analoga a quella ben descritta dal protagonista appena atterrato a Bombay e sopraffatto dall'aria di quella città:
"La prima cosa che mi colpì di Bombay, il giorno del mio arrivo, fu l'odore diverso dell'aria. E' l'aroma impregnato di sudore della speranza, è l'aroma acre e soffocante dell'avidità, è l'azzurro aroma di pelle del mare. Fiuti il trambusto, il sonno ed i rifiuti di sessanta milioni di animali, in gran parte topi ed essere umani. Fiuti lo struggimento, la lotta per la vita, i fallimenti cruciali e gli amori che creano il nostro coraggio."
Leggere Shantaram è come guardare un film di Bollywood che ti avvolge con le sue scenografie dai colori sfarzosi e le struggenti melodie di amore: perché come scoprirà lo stesso protagonista durante la sua permanenza a Bombay, nonostante la violenza, le ingiustizie e la criminalità che imperversa in tutta la città, gli indiani credono fermamente e senza alcuna remora nell'amore e nella speranza che porta con sé:
"Erano poveri, stanchi e preoccupati ma erano indiani, e ogni indiano è pronto a dirvi che anche se l'amore non è stato inventato in India è qui che ha raggiunto la perfezione. E' così che questo posto pazzesco sta insieme - grazie al cuore. Duecento fottute lingue diverse e un miliardo di persone. L'India è il cuore. E' il cuore che ci tiene insieme."
Non mi resta quindi che augurarvi buon viaggio attraverso l'India e le Mille e 165 pagine di Shantaram.
"Ho imparato che bisogna saper cogliere ed esprimere a parole i momenti di affetto e sincerità, perché potrebbero non ritornare mai più. Se rimangono inespressi, accantonati ed inutilizzati avvizziscono e, quando dopo troppo tempo, la mano del ricordo vorrebbe coglierli, si sgretolano fra le sue dita."
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Genitori sbagliati
A Ludlow, nella regione delle Midlands occidentali in Inghilterra, il passato sembra non voler cedere il posto al presente: una sensazione frequente in quella zona del Regno Unito così ricca di storia, è come se un passato lontano, lento e inesorabile, incurante delle regole del tempo, urtasse contro il proprio futuro, rimanendo intatto.
Motivo per cui numerosi turisti affollano vicoli e strade del paese ammirando case e costruzioni fortificate che hanno mantenuto inalterati i tratti tipici dell'architettura medievale in perfetta sintonia col castello costruito nel secolo XI e che domina il paese da un'altura.
Ma se da un lato Ludlow soddisfa pienamente le aspettative dei turisti affamati di storia e gossip più o meno documentato sui componenti delle varie dinastie nobiliari che si sono succedute nel territorio, dall'altro offre ben poche attrattive ai giovani del posto, la maggiorparte studenti del college provenienti da famiglie legate a rigidi quanto anacronistici princìpi morali e spesso ossessionate dal timore che i figli possano commettere quegli errori tipici della gioventù, rovinandosi così la vita e le speranze di carriera e successo per il futuro.
Ma non è certo semplice tenere sotto controllo ed arginare il desiderio di trasgressione ed indipendenza dei ragazzi, tanto più in un piccolo paese come Ludlow che non offre loro alternative tanto allettanti quanto sesso e alcol per una serata fuori dagli schemi.
Non è quindi inusuale se l'agente ausiliario Ruddock venga chiamato di notte durante le festività natalizie per riportare ordine nei vari pub e locali del paese a causa della baldoria e degli schiamazzi di decine di ragazzi ubriachi; è piuttosto strano però che proprio durante quella notte l'agente Ruddock abbia lasciato solo il diacono Ian Druitt in un ufficio della locale stazione di polizia dopo averlo arrestato in seguito ad un'accusa anonima di pedofilia e che il diacono abbia approfittato di quell'assenza per suicidarsi con una stola.
Ed il suicidio sarebbe stato probabilmente archiviato come tale visto che le prime indagini non avevano sollevato evidenze in senso opposto se il padre del diacono non fosse un certo Clive Druitt, noto imprenditore legato ad un altrettato noto politico parlamentare, fermamente convinto dell'innocenza del figlio e soprattutto dell'assurdità di quel gesto contrario sia alla sua indole sia alla sua fervente fede cattolica.
Il vice-commissario della Metropolitan Police non può pertanto esimersi dall'inviare sul luogo la sovrintendente Isabelle Ardery accompagnata dal sergente Barbara Havers con l'incarico di verificare eventuali negligenze o errori nel corso delle indagini.
In realtà, la coppia mal assortita Ardery-Havers non riuscirà a far luce sulla vicenda sia a causa del rapporto poco collaborativo tra le due investigatrici sia per la precaria condizione psicologica di Isabelle alle prese con un divorzio in corso e con l'abuso ormai incontrollabile di vodka.
Sarà l'ingresso in campo dell'ispettore Thomas Lynley a portare una svolta nell'inchiesta grazie alla sua determinazione nel dar seguito ai dubbi già sollevati dal sergente Havers e riuscendo così a sbrogliare i fili di una matassa sin troppo intricata.
Elizabeth George, prolifica scrittrice statunitense di indubbio talento nel genere giallo, non delude le aspettative dei suoi lettori con un nuovo caso per l'ispettore Lynley articolato su una trama ben congegnata che l'autrice impreziosisce con un'accurata e profonda descrizione dei vari personaggi, mettendo in risalto gli aspetti più fragili del loro carattere o, viceversa, quelli più oscuri ed inquietanti e rendendo così ogni personaggio, agli occhi del lettore, un possiblle colpevole.
E' palese l'abilità dell'autrice nello scandire i tempi del romanzo, dosando con estrema parsimonia all'inizio gli ingredienti più accattivanti lasciandone comunque subodorare la presenza al lettore che rimane così piacevolmente attratto dall'intreccio ben miscelato tra le indagini investigative e il racconto di alcuni episodi salienti nella vita dei suoi personaggi, in modo particolare i più giovani, vittime esasperate di un'ingerenza eccessiva, quasi ai limiti della morbosità, da parte delle rispettive famiglie.
Il rapporto genitori-figli è infatti uno degli elementi chiave di questo romanzo e lo stesso titolo 'Punizione', che generalmente è associato al castigo da parte dei genitori verso i figli, assume qui una valenza anche nel senso opposto, ossia come rimprovero e condanna dei figli verso i genitori.
E poichè, commmentando un romanzo giallo, ogni parola in più accresce il rischio di svelare particolari fondamentali della trama, lasciatemi concludere con una bellissima citazione di Nino Manfredi nel film 'In nome del Papa Re' che ovviamente non ha alcun relazione col romanzo di Elizabeth George (come traspare anche dall'inflessione romanesca del testo) ma si adatta perfettamente alla sua trama:
"I figli so' diversi, e noi, invece d'esse contenti che non ce somigliano, li volemo fà diventà come noi che, poi, manco se piacemo".
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We are lost, mistah.
Nel cuore della notte tutto può succedere, è in quel momento che l'esistenza di un uomo può prendere pieghe inaspettate.
E' come essere in bilico, in precario equilibrio, tra la luce e le tenebre, la speranza e la disperazione: si può sprofondare nel buio o scorgere i primi bagliori dell'alba.
La notte diventa metafora della vita e durante una notte si racconta una vita, quella di Anna e del suo uomo, il poeta.
Chi la racconta è proprio lui, il poeta.
O meglio, quello che ne resta del poeta.
Ora è uno sconosciuto, uno come tanti, barba incolta, abbigliamento trasandato, sguardo vuoto ed anima affogata nell'alcol, in viaggio su uno di quegli autobus che sembrano cadere a pezzi da un momento all'altro ma che miracolosamente ancora si muovono per le strade del terzo mondo, trasportando turisti avventurosi (o semplicemente sprovveduti) in zone disperse di quell'immenso continente, animati dalla promessa di assistere all'incanto di un tramonto dai colori boreali lungo il pendio di un vulcano.
Tra i turisti, seduto accanto a lui, c'è un giovane in viaggio con la sua fidanzata, italiani anche loro. Non ci vuole molto tempo prima che il giovane riconosca in quello sconosciuto il 'poeta', proprio colui divenuto famoso anni addietro in Italia su ciò che fu definito da tutti i media lo 'scandalo della poesia'.
E quell'uomo aveva un vulcano dentro che ardeva dal desiderio di buttar fuori lacrime, rabbia, parole a lungo trattenute: fu così che nel cuore di quella notte il poeta raccontò al giovane che lo aveva riconosciuto la storia della sua vita, della sua donna Anna, della notte che li aveva allontanati, del baratro in cui era sprofondato e da cui era riemerso, faticosamente, ricostruendo il suo legame con Anna e riconquistando la sua dignità di uomo ma, quando tutto sembrava volgere per il meglio, di nuovo la notte, il buio, la rovina.
Devo essere sincero, ero fortemente scettico su questo romanzo di Marco Rossari definito sulla quarta di copertina come una storia d'amore, sesso e politica, una storia per adulti, come lascia forse intuire la stessa immagine di copertina.
E sono rimasto piacevolmente sorpreso sin dalla lettura dei primi capitoli quando si è rivelato ben più articolato e coinvolgente di un banale romanzo a sfondo erotico.
La scrittura è attenta, sempre accurata nella scelta dei termini ma senza perdere leggerezza, scorrevolezza anzi magnetizzando l'attenzione del lettore sia nelle descrizioni di 'intermezzo' del paesaggio, della gente e delle abitudini di un popolo così lontano dalla cultura occidentale sia nello sviluppo della trama principale incentrata sulla storia di Anna e del poeta.
"Viaggiare in quei luoghi, pensavo con l'ingenuità dell'epoca, ti faceva tornare a quando la strada era davvero di tutti. La vita - degli uomini , degli animali, delle cose - traboccava dagli interni per rovesciarsi fuori. Se in quel momento esatto avessi dovuto indicare un simbolo della civiltà occidentale, avrei senza esitazione indicato una porta, ancora prima di un sistema fognario. La strada che entra nelle stanze dove vivi. E che ne esce di continuo: al posto delle porte, tende; invece che finestre, veli. Niente uscio, niente vetrine, tutto costantemente esposto."
Si conoscono ai tempi del liceo, lui era il classico ragazzo, figlio della borghesia bene di Milano, insodisfatto, insicuro, imbranato, ribelle contro la società, i ricchi, il capitalismo solo per sfogare la sua incapacità di agire, anzi reagire, di conquistare una propria dignità.
"Ero un figlio odioso e velleitario, che cerca nella poesia una chiave per il mondo, quindi non la trova. Restavo in quel limbo, in quell'ipocrisa vivente. Gridavo a mia madre che odiavo il cashmere e non sapevo di averlo addosso. Regalavo ad un barbone la paghetta che mi allungava mio padre , svoltato l'angolo, vomitavo per l'odore. Credevo in un comunismo emotivo, vacuo. Tifavo rivolta, ma non passavo all'azione."
Per questo si rifugiava nella poesia:
"Forse avevo solo bisogno di vendicarmi della mia viltà. Tutta la poesia in fondo non è che una grande forma passivo-aggressiva di autocommiserazione. Dal grande autore sino all'ultimo stronzo che declama in metropolitana."
Poi però intravede Anna, la ragazza col berretto rosso, che frequenta i comitati e le organizzazioni studentesche di ispirazione comunista. Per giorni percorrono insieme gli stessi tratti di strada senza mai parlarsi, a malapena si incrociano gli sguardi:
"prima lei davanti ed io dietro, poi lei dietro ed io davanti, poi diagonali, obliqui, sparsi. Il kamasutra dell'indifferenza e della timidezza: tutte le posizioni per dirci che eravamo soli."
Passa del tempo prima di una timida stretta di mano, un contatto, un segno, una parola. Dopo però l'amore scoppia violentemente, un fulmine nel cielo grigio di Milano e delle loro esistenze.
"Io, lei. Lei, io."
E nessun altro, sino alla nascita inattesa, non voluta, della figlia.
"Fare un figlio è una questione di geometria. Sai chi l'ha detto? Un poeta. Chi altri? Quando sei convinto che la vita sia piana, ecco che si aggiunge una terza dimensione. Profondità."
Ma quella figlia, quel piccolo corpicino, compie il miracolo: non separa, ma unisce e rafforza. Lui trova lavoro come aiutante in una piccola libreria di periferia (molto più remunerativo del lavoro da poeta) e lei si afferma come giornalista politica.
E chissà, avrebbero potuto continuare così per anni, per sempre, insieme e felici, se la notte non si fosse portata via la loro bambina, all'improvviso, 'fulminante' dicevano i medici del pronto soccorso, tutto nel cuore di quella notte.
Ciò che segue è il racconto della disfatta di un uomo, una discesa in caduta libera verso l'abulia e passiva rassegnazione, l'annullamento totale di ogni forma di rispetto verso se stesso e gli altri.
Trascorre le notti tra sesso ed alcol, dialogando senza alcun ritegno su chat pornografiche con donne sconosciute ma sole e perse come lui, oppure seduto allo stesso sgabello dello stesso bar circondato da bicchieri vuoti, piangeva senza piangere, moriva senza accorgersene:
"Bere è un continuo indietreggiare davanti alla morte, correndoci incontro. Ma bisogna bere da soli per capirlo. Devi stare con il decimo bicchiere di veleno a stazionare in un solo punto preciso del bar: tenere la posizione è un imperativo, devi essere il perno intorno al quale tutto gira."
E' la parte più cruda del romanzo: il linguaggio diventa volutamente volgare, i molteplici incontri a sfondo sessuale vengono descritti senza moderazione o parsimonia di dettagli, non c'è erotismo, a mio parere non c'è volontà di eccitare o stimolare l'immaginazione del lettore, è pura pornografia di milleriana memoria, sesso allo stato brado, selvaggio, disinibito, riflesso incondizionato della sua condizione di degrado interiore.
Lo so, molti potrebbero non gradire, molti potrebbero storcere il naso disgustati.
Ma non mi sembra che questa dell'autore sia stata una scelta dettata da secondi fini, esigenze pubblicitarie o di un mercato sempre più affamato di sesso.. 'Il vero volto del mondo era tra le nostre gambe'.
La definirei piuttosto una scelta 'stilistica' coerente con lo sviluppo della trama e con l'evoluzione (o, forse, meglio dire regressione) psicologica del protagonista.
D'altronde 'quale scrittore non è un pornografo? Quale scrittore non mette sulla pagina ciò che è osceno, ciò che è fuori, ciò che è parte dell'animo umano?'
E se, come nel mio caso, vi lascerete sedurre dal racconto del poeta sino all'epilogo finale apprezzerete ancor più il valore di quella scelta: in un mondo sommerso dal sesso, in un mondo in cui lo schermo diventa 'un buco della serratura attraverso il quale vedere il pianeta', paradossalmente è una poesia d'amore di un uomo verso la propria donna che diventa strumento di scandalo, che distrugge l'esistenza.
"E sai qual è la cosa tremenda, la cosa esilarante? Tragedia, farsa: avevamo retto alla morte di una bambina, ma non al video di un pompino in rete."
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I buoni, invece, vivono per sempre, in paradiso.
Lasciate che vi confida il motivo per cui ho deciso di leggere Paradise Sky.
Avevo 6-7 anni quando partecipai alla mia prima festa di Carnevale organizzata a scuola - parliamo di oltre trent'anni fa - ed i miei genitori, alquanto restii a tali manifestazioni mondane, mi accordarono il permesso di parteciparvi a patto però che avessi provveduto da solo (e con limitato dispendio economico) al vestito da indossare.
Mi diedi subito da fare ma riuscii a mettere insieme una versione alquanto bizzarra, pur se a costo zero, del vestito di Zorro con il quale, ad onor del vero, l'unico elemento in comune era il colore nero: il tocco di grazia era rappresentato sicuramente dal mantello o, meglio, dalla mantella in pura lana acquistata da mio nonno per sua moglie in occasione del funerale di un nostro parente, ahimè, unico indumento disponibile che più somigliava a quello dell'eroe mascherato.
Non saprò mai se ciò che scosse maggiormente mio nonno fu il disappunto di mia nonna nel prestarmi la sua mantella o l'idea che suo nipote andasse in giro conciato in quel modo, seppure per una festa in maschera: fatto sta che mentre mi accingevo a fare l'unico acquisto inevitabile per completare il mio travestimento, ossia un cappello adatto per l'occasione, visto che in famiglia si usavano solo coppole e Zorro con la coppola non mi sembrava proprio il caso, mio nonno si presentò a casa con un regalo per me, un vestito da cowboy nuovo di zecca.
La gioia mista a stupore che provai in quel momento fu paragonabile a quella che vivrei adesso se scoprissi che il grattaevinci che ho appena acquistato contenesse il primo premio del Miliardario: e non solo perchè con quel vestito sarei stato invidiato da tutti alla festa, piuttosto che beffato, ma soprattutto perchè Zorro non era il mio idolo, lui era uno spadaccino mentre io sognavo i pistoleri, i cowboy, quelli che indossavano stivali con gli speroni, ricoperti di polvere e sabbia per le miglia percorse su stalloni purosangue, quelli che portavano cappelli a tesa larga che lasciavano intravedere uno sguardo gelido, di ghiaccio, 'freddo come i capezzoli di una strega', e che quando entravano nei saloon spingendo le due ante basculanti attiravano a sè tutti gli occhi, il pianista si bloccava come impietrito, il silenzio calava e l'unico rumore era quello pesante del loro lento incedere verso il banco del bar e quello attutito dei due revolver nel loro cinturone.
Beh.. Paradise Sky è tutto questo: è uno spaghetti western in piena regola, abbondantemente contaminato dai grandi maestri del genere, in primis Sergio Leone, ma anche dal suo fan più accanito, Quentin Tarantino, che ha recentemente rispolverato il genere con due pellicole 'The Hateful Eight' e 'Django Unchained'... mancherebbe solo la colonna sonora di Morricone ma con un pò di immaginazione quelle note meravigliose si potrebbero udire anche tra le pagine di Paradise Sky.
Lansdale non sbaglia il colpo e ci regala un romanzo che è un'epopea western, in cui il protagonista Willie Jackson - schiavo di colore - ci racconta in prima persona le vicende che lo hanno trasformato nel temuto e rispettabile pistolero Deadwood Dick.
Una sorte che neanche Willie avrebbe potuto immaginare per sè stesso: perchè siamo nel Texas orientale, nel sud degli Stati Uniti a cavallo della Guerra civile che con la vittoria del Nord progressista aveva sancito la fine della schiavitù, ma solo sulla carta.. perchè in quella regione dimenticata da Dio, negro è sempre stato sinonimo di schiavo e nessuna guerra, nessuna nuova costituzione avrebbe mai cambiato quell'evidenza.
E Willie, che è 'nero e lucido come l’ossidiana', lo sa bene, così come sa che quella mattina avrebbe dovuto percorrere la strada verso il paese camminando con lo sguardo basso, come dovrebbero fare tutti i negri, e non soffermarsi troppo con gli occhi sul culo bianco, neanche tanto nascosto, della signora Ruggert mentre stendeva il bucato nel suo cortile e, per giunta, proprio nel momento in cui si affacciava anche suo marito Sam, fanatico razzista e veterano della Guerra civile.
- Per la miseria, il culo è la cosa migliore che ha tua moglie, - disse uno degli altri. - Pure io ci ho buttato un occhio, ogni tanto.
- Ma questa volta è stato un negro a buttare l'occhio, - rispose Ruggert. - Posso capire un bianco, ma un negro? E' sbagliato, e tu lo sai.
La vendetta di Sam Ruggert sarà immediata e farà terra bruciata intorno a Willie, massacrando sino alla morte suo padre, distruggendo la loro fattoria e costringendo così il ragazzo alla fuga.
Banditi, apache, mandriani, pistoleri, yankee, sceriffi, pistole e fucili dai nomi intramontabili, dalla Colt Pacemaker al revolver Le Mat, oltre al famosissimo Winchester: non manca proprio niente e Lansdale è abilissimo nell'amalgamare tutti questi elementi in una storia che terrà incollato il lettore sino all'ultima pagina, come un cowboy alla sella del suo cavallo.
L'adrenalina scorre come il whisky servito nei saloon, d'altronde se il paradiso è nel cielo l'inferno è nel Texas: non c'è spazio per i puri di cuore, per la pietà, colui che non uccidi oggi potrebbe ucciderti domani.
E lo sa bene anche Dio:
"Più pensavo all'orologio, più mi convincevo che Dio non fosse così amorevole. Era come un grande orologiaio: noi eravamo gli ingranaggi del suo orologio, e la terra dove viviamo ne era la superficie scivolosa. Finito di costruirlo, e dopo aver caricato, si è seduto e ha detto: "Bene, buona fortuna figli di puttana, il mio compito finisce qui".
Aggiungete a ciò uno stile sfrontato, educatamente disinibito, scoppiettante ed ironico ma capace anche di evocare immagini suggestive quando si sofferma nella descrizione di quel paesaggio ostile e nello stesso tempo affascinante per la sua immensità ed otterrete un romanzo che senza ombra di dubbio può essere considerato un capolavoro del genere western.
PS: non ho vinto niente con quel grattaevinci...
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Specchio, specchio delle mie brame..
.. chi è la più bella del reame?
La perfida regina di Biancaneve è un docile agnellino se paragonata a Marie: bella, bellissima, è la reginetta del liceo, invidiata dalle sue coetanee ed ambita da tutti i ragazzi.
E Marie si nutre di tale venerazione: la sua vanità è pari solo al compiacimento che prova quando col suo atteggiamento provoca rancore e gelosia, non si accontenta di essere ammirata ma si sente appagata solo quando vede la stizza negli occhi di chi la osserva e si crogiola nella loro consapevolezza di inferiorità.
"Alle feste le piaceva che i ragazzi avessero occhi solo per lei, stava sempre attenta a non dare l'idea di preferirne uno agli altri - che se ne stessero pure tutti lì, pallidi per l'angoscia di non essere scelti. Quale piacere immenso nell'essere cento volte respirata, mille volte desiderata, e mai colta!"
E' in estasi Marie quando Olivier, figlio ed erede del farmacista di città, la prende in moglie: lui è follemente innamorato, lei ha il cuore che trabocca di gioia al pensiero delle sue amiche che si roderanno l'anima vedendola raggiante al braccio di quell'uomo.
Peccato però che Marie rimanga incinta prima del matrimonio e le famiglie decidano di festeggiare l'unione dei due in modo più riservato ed intimo, lasciando sfumare così il sogno di Marie che già pregustava il suo ruolo da protagonista in una festa sfarzosa in cui tutti i riflettori sarebbero stati puntati su di lei.
Il colpo di grazia arriva poi con la nascita della primogenita, Diane, che sin dal primo momento magnetizza a sè con la sua candida bellezza gli sguardi e l'attenzione di tutti, papà, nonni, amici, tutti tranne Marie, sua madre.
La bimba cresce nella più assoluta indifferenza da parte di sua madre che si limita ad assolvere i suoi obblighi di mamma senza la minima dimostrazione di amore verso la piccola Diane, come se col cordone ombelicale fosse stato reciso anche il loro legame di sangue, sostituito piuttosto da un sentimento di disprezzo e bieca gelosia.
La situazione non migliora con la nascita del fratellino pochi anni dopo e diventa insostenibile con l'arrivo della sorellina Celia, verso cui Marie sembra convogliare tutto quell'affetto negato alla sorella maggiore, instaurando un rapporto iperprotettivo, esasperatamente ossessivo.
Non ci sono alternative per Diane, l'unico modo per rimanere lucida e non cadere nel baratro della follia è fuggire, allontanarsi da casa e dalla sua famiglia per dedicarsi, corpo e anima sarebbe il caso di dire, alla sua grande passione: la cardiologia, lo studio del cuore, l'organo forse più misterioso del nostro corpo, sin dall'antichità considerato dimora dell'anima e dell'intelletto:
"Colpisci il tuo cuore, è là che il genio risiede", dice Alfred de Musset in uno dei suoi versi.
E Diane, che sin da piccola mostrava spiccata intelligenza pari solo alla sua grazia, non avrà alcuna difficoltà a raggiungere ottimi risultati durante la sua carriera universitaria.
Ancora una volta, però, qualcuno cercherà di strapparle il cuore, di colpirla là dove fa più male, facendo riemergere quelle paure, quel senso di rabbia e sdegno verso chi tradisce la sua fiducia ed amicizia a favore del proprio egoistico interesse.
'Colpisci il tuo cuore', ultimo romanzo della prolifica scrittrice belga Amelie Nothomb, riprende in chiave moderna e decisamente 'dark' la favola di Biancaneve.
Le analogie sono tante, alcune più evidenti altre meno: dalla candida innocenza di Diane che cerca in tutti i modi di giustificare e comprendere l'assurda gelosia della madre, sperando sino alla fine di conquistare il suo affetto, all'atteggiamento freddo e disturbato della 'regina' Marie che da una parte entra in competizione con Diane e dall'altra cerca di 'plasmare' la sorella a sua immagine e somiglianza, quasi fosse una sorta di protuberanza uterina.
Ed ancora il padre di Diane, Olivier, completamente succube dalla bellezza della regina, incapace persino di intuire il disagio della figlia e la vessazione psicologica che sta subendo ad opera della madre, una vera e propria violenza perpetrata tra le mura del focolare domestico con un epilogo fin troppo roseo se paragonato a quello dei più recenti casi di cronaca nera: innegabile infatti che l'equilibrio mentale, l'assennatezza e la tolleranza con cui Diane, sin da piccola, reagisce al comportamento della madre siano credibili solo in una realtà da 'favola'.
Una favola per adulti: non un racconto della buonanotte per bambini, bensì un messaggio forte ed esplicito per destare la sensibilità di noi 'grandi' sulla tossicità di un sentimento come la gelosia e l'invidia.
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Bisogna dilapidare la gioia..
Stavolta ci speravo veramente, credetemi, di poter uscire dal vuoto che mi si crea intorno quando confesso la mia insofferenza verso i romanzi di Carofiglio.
Ero molto fiducioso di poter apprezzare questo suo romanzo perché, vi assicuro, non è bello sentirsi isolato come una particella di sodio nel mare di ovazioni che inonda immancabilmente tutte le sue opere, in primis quelle che vedono come protagonista il celebre avvocato Guerrieri.
E lo giuro, vostro onore, leggendo l'ultimo libro 'Le tre del mattino' ho messo da parte qualsiasi pregiudizio pregresso sull'autore, come se fosse la sua prima opera a capitarmi tra le mani; anzi, direi la seconda opera, visto che il primo (ed unico) romanzo di Carofiglio di cui nutro un piacevole ricordo è "Nè qui nè altrove", disincantato racconto dal tono dolceamaro di tre amici, ex compagni di studi, che si ritrovano dopo vent'anni a ripercorrere in macchina vie e quartieri della loro città, Bari, durante una notte che si dilata indietro, nel tempo trascorso, sollevando inevitabilmente paragoni e riflessioni tra passato e presente, ciò che si era, ciò che si sognava e ciò che si è.
Ecco, penso sia stata proprio la lettura di 'Né qui, né altrove' a compromettere il mio giudizio verso le opere successive di Carofiglio perché, seppure ne abbia lette alcune e non tutte, in nessuna di esse ho ritrovato quell'autore che tanto avevo apprezzato.
E non è una questione di stile perché la scrittura di Carofiglio è stata e rimane certamente molto sobria, diretta, senza spigolosità di sorta.
Non è una questione di genere, perché 'Le tre del mattino' presenta molte assonanze con 'Né qui né altrove' tanto che entrambi possono essere considerati romanzi di formazione: non ci sono i tre amici stavolta ma un padre ed un figlio che si 'incontrano' nel senso letterale del termine in una città che non è la loro dopo anni trascorsi insieme nella stessa casa, vicini ma lontani, estranei.
E non è nemmeno una questione di ambientazione, perché non c'è Bari ma c'è Marsiglia che ancora una volta presenta molte similitudini col capoluogo pugliese: città dalle tonalità chiaro-scure dove si alterna l'azzurro abbagliante dei riflessi del mare all'oscurità insidiosa delle vie e dei quartieri più malfamati, crogiolo multietnico e variegato di delinquenti locali, ubriaconi e prostitute.
E' piuttosto una sensazione di estraneità, come se durante la notte a Bari l'autore fosse dentro la storia, fosse uno dei tre amici in giro per la città, mentre in questo libro è solo un narratore.
Ne consegue che alcuni dialoghi mancano di spontaneità, di naturalezza, sembrano artificiosi e costruiti, perdendo così quell'intimità ed impulsività di sentimenti tipici di un rapporto padre-figlio.
Certo il rapporto tra Antonio e suo padre non è dei più idilliaci, non c'è mai stata complicità tra i due, neanche prima che i genitori di Antonio si separassero.
Forse a causa del carattere del padre, matematico e docente universitario: si sa come sono i matematici, sempre con la testa tra i numeri e poco attenti invece al cuore delle persone.
Un luogo comune che Antonio avrà modo di sfatare, insieme all'immagine e alla percezione del padre che sino ad allora aveva costruito nella sua mente, durante il soggiorno di due giorni a Marsiglia che padre e figlio trascorreranno insieme.
Due giorni ma anche due notti in realtà, perché Antonio soffre di una forma rara di epilessia idiopatica che un medico marsigliese riesce a curare con una terapia durata ben tre anni: la conferma di definitiva guarigione avverrà proprio grazie all'ultimo test, sotto condizione di stress, per valutare le reazioni del ragazzo rimanendo sveglio per 48 ore consecutive.
La vicinanza forzata tra padre e figlio durante il soggiorno a Marsiglia, la preoccupazione per l'esito della cura, le lunghe passeggiate notturne tra le strade di una città ignota, la gita in barca lungo la costa e le nuove amicizie.. tutto contribuisce a ricostruire il loro rapporto sin dalle fondamenta, demolendo poco alla volta quel muro invisibile fatto di condiscendenza, incomprensione, pregiudizi e sorda ostilità che li separava rendendoli praticamente due sconosciuti.
Ora hanno entrambi la possibilità di recuperare il tempo perso, di scoprire passioni, interessi, idee ed esperienze vissute che prima neanche potevano immaginare l'uno dell'altro.
Mai Antonio avrebbe potuto credere che la rigida e razionale personalità di suo padre celasse l'estro e l'improvvisazione di un musicista jazz e mai avrebbe pensato di rimanere folgorato da quel genere di musica.
Insomma, è la storia di un padre e di un figlio che travalicano il rapporto parentale, spesso troppo arido, asettico, per diventare veri amici, confidenti. Prima che sia troppo tardi, perché il tempo passa inesorabile e si trascina dietro la vita:
« E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea. » (K. Kavafis)
Una bella storia, sicuramente, positiva ed edificante: lo stesso titolo del romanzo, tratto da una frase di F. Scott Fitzgerald "Nella vera notte buia dell'anima sono sempre le tre del mattino, giorno dopo giorno" perde la sua connotazione pessimistica di buio perpetuo per diventare invece un messaggio di speranza per il futuro, alba che a breve sorgerà.
Una storia che sarebbe stata però molto più coinvolgente se l'autore non avesse contaminato alcuni dialoghi con eccessivo manierismo, rendendoli troppo formali ed affettati tanto da risultare quasi fuori luogo, inverosimili dato il contesto, come ad esempio la digressione sul teorema di Fermat.
Sarebbe bastato forse un maggior senso di immedesimazione da parte dell'autore, quel coinvolgimento più profondo che ho invece percepito nell'altro romanzo di Carofiglio 'Nè qui nè altrove'.
"Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita." (John von Neumann)
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Questa non è Europa. Queste sono le Faroe.
"Ogni uomo è un'isola", scriveva Josè Saramago nel suo bellissimo e struggente 'Il racconto dell'isola sconosciuta'.
E aggiungeva: "bisogna allontanarsi dall'isola per vedere l'isola.."
Niente di più vero, non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi stessi: sarà sempre una conoscenza limitata quella che ciascuno di noi potrà avere di se stesso, forse rassicurante come l'orizzonte immobile al confine tra mare e cielo ma non certo soddisfacente, perchè c'è sempre qualcosa da scoprire oltre quell'orizzonte e bisogna avere il coraggio di salpare, di staccare gli ormeggi dal molo protetto e riparato della propria isola per iniziarne la ricerca.
Isola, il primo romanzo della scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen, è proprio questo: il racconto di un viaggio, l'odissea personale di chi trova la forza di raccogliere le proprie radici, arrotolarsele su per la gamba e partire, soffrendo il disagio e le difficoltà di adattamento in una nuova città, una nuova casa e un nuovo lavoro.
Una partenza necessaria, inevitabile, per non morire schiacciati sotto il peso di un destino imposto e non costruito e plasmato secondo la propria indole.
Un viaggio per ritrovare se stessi, scoprire le proprie potenzialità e limiti, realizzare un sogno se possibile ma anche solo una casa, una famiglia.
Portando sempre nel cuore il desiderio di tornare in patria, amata Itaca, che diventa così il motivo per cui partire e allo stesso tempo il luogo a cui tornare.
Fritz e Marita sono due esuli, due isole galleggianti, isole che non possono rimanere ferme altrimenti verrebbero sommerse dall'oceano, devono muoversi, vagare, scoprire nuovi mondi.
E sono isole, vere stavolta, terraferma, quelle su cui sono nati, le isole Faroe, un arcipelago di 18 isolotti al centro di un triangolo di oceano Atlantico tra Islanda, Norvegia e Scozia.
Provate a cercarle su una mappa: sono lì, pochi chilometri di terra circondata dall'azzurro del mare.
Provate ad immaginare Marita:
'Marita si cuce i vestiti da sè. Prende i modelli e immagina maniche, corpetti, ampiezza della gonna, che misura ad occhio. Da tempo si veste come una destinata a qualcosa di più, qualcosa di meglio dello stabilimento al porto, una vita in mezzo al pesce. Il tanfo di calzerotti sudati nella sala da ballo. In paese alcuni pensano che Marita si dia troppe arie. Pensano anche, sempre quelli, che non ne abbia motivo. Lei lo sa. E' persino arrivata a voler loro un pò di bene, come se ne vuole a chi si sta per lasciare.'
E Fritz: vorrebbe tanto studiare, diventare ingegnere e trovare un impiego presso la centrale elettrica nella vicina isola di Botni ma per farlo deve allontanarsi, l'università è in Danimarca, non ha alternative e restare a casa significherebbe continuare ad imbarcarsi con i fratelli all'inizio dell'estate polare in direzione delle isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico per la pesca del merluzzo. Fritz non può farcela, uno come lui è fuori luogo su quella barca, non sopporta niente, odia i marinai, 'i loro ceffi barbuti, il puzzo acre di lana e sudore stantio', odia dormire sottocoperta 'dove l'aria è pesante e bagnata di merluzzi morti'. E più di tutto odia la pesca.
Come biasimarlo? Sarà Fritz che partirà per primo, destinazione Copenaghen; Marita lo raggiungerà un anno dopo, con un segreto nel grembo, troppo ingombrante anche per lei, lo abbandonerà in mare dove rimarrà sepolto per sempre.
Isole galleggianti, si muovono, cercano una propria collocazione, un'identità non solo territoriale, geografica ma anche personale che coinvolge molteplici aspetti, culturale, ideologico e politico, soprattutto in quel periodo a ridosso della seconda guerra mondiale in cui gli stessi abitanti delle isole Faroe erano divisi in opposti schieramenti a favore o meno dell'indipendenza dalla Danimarca.
Era felice Fritz, pur non avendo realizzato il suo sogno: aveva ormai abbandonato l'idea della centrale elettrica di Botni, la 'dignità di'ingegnere' che lascia il posto a quella forse meno solenne di insegnante. Ma non aveva importanza, sembrava felice, 'non come un uomo i cui sogni per il futuro giacevano in fondo al mare o annegavano nel rum in una bettola del porto.'
Una serenità adombrata solo dalla nostalgia di casa, la sua Itaca, la sua destinazione finale, punto di partenza e di arrivo: nessuna distanza, nessun oceano potrà mai debellare il ricordo del suo villaggio natale, le vallate e i fiordi, gli amici, la famiglia e le tradizioni.
Una nostalgia che affiora prepotentemente ogni volta che Fritz abbraccia Marita:
'A breve sentirà la vita nei polmoni di lei, sotto la stoffa del vestito. Quel pò d'aria di montagna che ha tenuto da parte per lui nelle ramificazioni sottili del tessuto polmonare. I capelli profumeranno di muschio e pietre lisciate dal vento, di quell'aria che gli manca tanto, fresca e limpida come una doccia.'
Passato e presente della loro vita si intrecciano nei ricordi della protagonista del romanzo, una giovane ragazza danese di madre faroese che torna sulle isole in occasione della morte della nonna: era Marita sua nonna, 'omma', e Fritz il suo 'abbi', nonno.
La narrazione è melodica, frasi brevi, ridotte ai minini termini, che rendono la prosa estremamente poetica, intensa e particolarmente toccante quando esteriorizza la nostalgia che alberga nell'animo di ogni espatriato e che si manifesta nel ricordo di quei luoghi, le isole Faroe, terre di una bellezza selvaggia e romantica allo stesso tempo, tra vallate verdi al profumo di muschio e le imponenti scogliere dei fiordi a picco sul mare.
Un paesaggio quasi fiabesco, sospeso nel tempo, la cui descrizione ricca di associazioni sinestetiche tra colori, suoni e profumi ne amplifica la sensazione onirica, perchè è nel sogno che l'esule placa la nostalgia della patria lontana.
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La notte ha un solo giudice, la coscienza.
"La notte ha un solo giudice, la coscienza."
Quanto è vera questa affermazione: ciascuno di noi, immagino, avrà sperimentato il peso di quello sguardo inquisitorio nel buio della notte, uno sguardo che non è possibile evitare, inutile cercare vie di fuga da quegli occhi che già conoscono la verità, che hanno già emesso una sentenza.
Anche Kristof Komives è un giudice, ma un giudice di giorno, tra l'altro discendente di una famiglia che da tempo immemore conta tra i suoi membri i più illustri rappresentanti del mondo forense ungherese.
E i Komives, forti della loro rettitudine morale, esente da dubbi ed incertezze, mai vacillante perchè continuamente illuminata e guidata dalla rigida imparzialità della Giustizia, si sono mostrati sempre degni di quella reverenza mista a devozione riservata solo ai «grandi giudici»: "coloro che da un lato sono in grado di leggere in fondo al cuore degli uomini, e dall’altro sono l’incarnazione della Legge; tanto temibili quanto rassicuranti per la società assetata di giustizia".
Tale era la reputazione di Kristof Komives, del giudice Kristof Komives.
Ma tra il giudice e l'uomo si forma una crepa, minuscola, appena percettibile, se non fosse per alcune ripercussioni anche a livello fisico, episodi sempre più frequenti di debolezza e sensazione di svenimento.
S'insinua un dubbio che progressivamente lacera la coriacea corazza di Kristof fatta di certezze e princìpi irremovibili: è come se qualcuno gli avesse tolto il paraocchi e il suo sguardo, prima monodirezionale, si allargasse ora ad una nuova prospettiva determinando in lui uno stato di disorientamento e di turbamento.
E' come se qualcuno avesse sollevato un velo che copriva cose e persone mostrandole così per quello che erano veramente: persino la sua famiglia, quelle persone che conosceva da sempre, gli appaiono ora in una luce diversa.
Il padre, ad esempio, considerato da tutti uomo autorevole e di grande carisma: non era forse segno di debolezza più che di 'virilità' l'orgogliosa rassegnazione in cui soffocava silenziosamente il dolore e la rabbia per essere stato abbandonato dalla donna che amava, scappata via da lui in un modo contrario alla norma, 'rinnegando con la sua ribellione ogni costume, ogni legge, ogni decenza, tutto ciò su cui si basavano le convinzioni morali della famiglia K?mives.'
E la sorella, Emma, che aveva sempre sopportato con pacata sottomissione tutto ciò che il padre e la vita le avevano imposto, dall'adolescenza trascorsa nel cupo grigiore di una scuola religiosa sino al matrimonio con un uomo non desiderato, cosa nasconde realmente dietro la parvenza di moglie fedele e madre premurosa? Emma ha sempre dato 'a tutti quel che si aspettavano da lei, a Dio, alla famiglia, al padre, al marito, ai figli', non ha mai tradito le aspettative di nessuno se non quelle della sua anima, del suo corpo ed ora lei è come se fosse morta dentro, appare spenta agli occhi di Kristof, chiusa ed impenetrabile, tanto che vorrebbe scuoterla, destarla, 'gli piacerebbe sfiorare la mano o la spalla della sorella, avvertirla, incitarla: «Ti prego, parla, per una volta di’ qualcosa su di te, sulla tua vita...».'
E non solo le persone a lui più vicine ma l'intera società stava cambiando, e non certo in meglio; sacri ideali come la patria e la famiglia avevano perso il proprio valore, non animavano più lo spirito dei giovani ma rimanevano per lo più nostalgici ricordi in chi come Kristof su quegli ideali aveva eretto la sua vita.
"Erano tutti «nervosi» al giorno d’oggi: e K?mives disprezzava la nevrastenia, la riteneva quasi immorale... quella scusa, quella facile giustificazione grazie alla quale si eludeva ormai con sconsideratezza e superficialità ogni complessa e seria responsabilità."
Lo sfascio della patria si riverberava anche nelle sua fondamenta, nel nucleo di una nazione, ossia la famiglia: molte coppie si disgregavano con tale naturalezza e facilità come se la loro unione fosse solo una formalità, una convenzione e non un vincolo eterno peraltro suggellato dinanzi a Dio col sacramento del matrimonio.
Per questo motivo diventava sempre più pesante il fardello che incombeva sulla sua coscienza di giudice divorzista: chi era lui per dividere con una sua sentenza quello che solo Dio poteva unire e dividere, chi era lui per profanare la volontà divina?
"Per lui il matrimonio non era un’istituzione perfetta o imperfetta, il matrimonio era la convenzione morale che conferiva una cornice divina alla convivenza di due esseri di sesso diverso, alla famiglia."
Poteva realmente ritenersi degno di tale incarico? Le sue decisioni sarebbero state sempre imparziali ed obiettive?
Un senso di inadeguatezza che si acuisce quando sulla sua scrivania compare la pratica di divorzio del dottor Imre Greiner e della signora Anna Fazekas, lui conosciuto ai tempi degli studi universitari e lei, per puro caso, mentre passeggiava sul molo con una sua amica.
E quando il dottor Greiner, inaspettamente, contro ogni buona norma di educazione e rispetto, la notte precedente al giorno fissato per la causa di divorzio, si recherà a casa del giudice per conferire urgentemente con lui, Kristof cederà alla sua insistenza e lo lascerà entrare nonostante fosse suo preciso dovere allontanarlo. Perchè cio?
C'è qualcosa nelle parole e nell'atteggiamento del dottore che insospettisce il giudice e quasi lo spaventa.
Quando i due si ritrovano uno dinanzi all'altro nello studio del giudice, in una cornice che sarà poi riproposta similmente ne Le braci, ha inizio la 'deposizione' del dottor Greiner.
Il racconto del dottore è quasi un monologo, il giudice ascolta praticamente in silenzio tranne rari interventi in cui rimarca l'illegittimità di quella conversazione a poche ore dalla causa in tribunale.
Ma quella causa in tribunale non potrà più esserci, se ci sarà una sentenza dovrà essere emessa lì, nel salone di quella casa.
E mentre la testimonianza del dottore ripercorre con dovizia di dettagli tutta la sua vita, sino agli ultimi anni di convivenza con la moglie, l'atteggiamento del giudice cambia: la sua postura non è più altèra, le sue parole non sono più rimproveri e condanne altisonanti, il suo scranno diventa traballante cosi come incerte e traballanti diventano le sue convinzioni.
Sembra quasi che i ruoli si invertano, diventa impossibile capire chi sia il giudice e chi l'imputato sin quando, sul far del giorno, anche Kristof non potrà più esimersi dalla sua confessione, non potrà evitare la risposta a quella domanda che rappresenterà per i due uomini, per le loro coscienze, l'assoluzione per uno e condanna per l'altro:
"Dimmi, Kristóf, negli ultimi otto anni tu non hai mai sognato Anna?".
Pochi scrittori, come l'autore di questo romanzo, riescono a scandagliare l'animo umano così profondamente, sin negli anfratti più reconditi, in quelle zone oscure volutamente occultate affinchè non vengano mai esplorate ed i segreti là custoditi rimangano tali in eterno, destinati a morire con chi li preserva.
Sandor Marai, invece, in questo romanzo così come nell'altro capolavoro 'Le Braci' che scriverà successivamente, crea una spaccatura, una frattura in quella barriera impenetrabile dell'animo umano, apparentemente inattaccabile perchè eretta su solide fondamenta, princìpi, regole e convenzioni di una società rigida e conservatrice come quella ungherese prima dell'avvento del regime comunista durante la seconda guerra mondiale.
L'immagine che ho percepito leggendo questo libro è proprio quella di una crepa che, pian piano, scorrendo le pagine, diventa sempre più fitta.. come quando durante un terremoto di forte intensità la terra si sgretola sino a creare enormi voragini. Voragini cosi profonde da far emergere ricordi, pensieri, sensazioni represse perchè sbagliate, sconvenienti e contrarie alla 'norma'.
E non c'è da meravigliarsi se, alla fine di tutto, nell'epicentro di questa catastrofe ci sia sempre una donna. E l'amore, quello che non può essere soffocato da nessuna regola, quello che continua a bruciare dentro pur sotto cumuli di bugie, di parole non dette, sorrisi forzati e desideri domati.
E poi basta poco per esplodere.. una piccola crepa che si trasforma in voragine.
"Non è possibile non udirlo, è un ordine più forte del fragore di un tuono, non si può essere tanto sordi da proseguire senza averne la minima percezione, restare indifferenti mentre tale comando ti rimbomba ancora nelle orecchie."
Un fragore così intenso da sovrastare ogni tentativo di ravvedersi, di tornare sulla retta via; emblematica l'immagine finale del giudice a cui sembra di udire la voce del padre scomparso mentre ne contempla il ritratto:
«Svegliati, Kristóf K?mives! Svegliati, e resta forte! Tu devi occuparti del giorno. Resta umile e fermo! Mantieni viva la tua fede e sii severo! Il mondo è materia cedevole, sii tu a plasmarlo!».
Ma Kristof china la testa e nasconde il viso tra le mani.
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Sei cattivo, tu sei.. sei amaro come il veleno.
Mai soprannome poteva essere più calzante ed icastico: Amaro.
"Tutto era cupo in Amaro.
Da sempre servo dei potenti, da sempre aguzzino dei disperati, se intravedeva in qualcuno delle potenzialità, un qualsiasi talento, si scatenava e si chetava solo quando aveva disintegrato psicologicamente la vittima designata, costretta a strisciare come un serpente, ma senza quella bella pelle lucida, senza quell'armonia.
Amaro era l'ossido che aggredisce il metallo, lo scorpione in attesa sotto la sabbia, la putrescina della carogna di un cane, era la guerra, il razzismo, l'opportunismo, il nazista che cavava denti d'oro ai deportati. Non provava affetto per nessuno e l'idea che nessuno ne provasse per lui lo irritava ancora di più perchè lo leggeva come un gesto di mancata sottomissione.
Era cattivo. In un unico termine che meravigliosamente lo sintetizzava, era cattivo ed era nato così. Un castigo di Dio."
Amaro come il veleno che pare circolare nelle sue vene e che sembra aver dissolto ogni traccia di umanità in lui, una bestia che si nutre del dolore degli altri, che si rinvigorisce derubando - come il più crudele dei re - i pochi averi e la dignità della povera gente che dimora nel suo castello.
Già, perchè Amaro è il 're' della Socia, una fatiscente costruzione nella città vecchia di Bari, con le pareti putrefatte dalla muffa che trattengono all'interno un'aria fetida, ammorbante che non trova riciclo attraverso le finestre serrate ma solo qualche esile via di fuga dalle numerose crepe lungo le mura esterne. Un luogo senza luce e senza speranza, divenuta unica possibile dimora per gli scarti della società, uomini, donne, bambini orfani ma anche intere famiglie diseredate incapaci di trovare una sistemazione più dignitosa e costretti a subire le angherie del re Amaro in cambio della sua 'ospitalità'.
L'immagine che meglio rappresenta la Socia è quella di una bolgia infernale nei cui piani bassi prostitute e pedofili vendono e comprano sesso, nei piani intermedi assassini senza scrupoli massacrano e uccidono chi non paga o si ribella a quello status quo occultando i loro corpi nelle fogne o bruciandoli nel 'camino', e su tutto domina dal suo alloggio all'ultimo piano il re, Amaro.
"Perchè usi pagine della Bibbia?", chiese sbalordito il giornalista.
"Sono molto sottili, bruciano meglio", gli rispose il vecchio senza guardarlo, dando una generosa boccata alla sigaretta che si era appena rollato con l'incipit dell'Apocalisse.
"Che cosa c'è al primo piano?"
"Le puttane".
"Al secondo?"
"Il vizio".
"Al terzo?"
"Il camino".
"E all'ultimo?"
"Amaro."
Non tutti però si lasciano soffocare dai tentacoli della Socia, non tutti si lasciano corrodere dall'ossido della brutalità e della sopraffazione: c'è chi come Anna, la puttana letterata, finita in quel tugurio dopo la morte dei suoi genitori, protegge come può la sua purezza d'animo essendole stata estorta con la forza quella del corpo e per questo motivo coltiva sempre la sua passione per la poesia acquisita grazie agli studi classici, unica eredità della sua famiglia di cui Amaro non ha potuto derubarla.
E poi ci sono i bambini, come Lorenzo o Francesco nominato dai suoi coetanei 'Vorro' a causa di una cicatrice a forma di V sulla fronte, resi orfani dalla guerra o dallo stesso Amaro, costretti a barattare sin da piccoli la loro innocenza per un posto nella Socia in cui dormire e mangiare e senza mai rinuciare alla speranza in un futuro migliore.
E' una storia che lascia .. l'amaro in bocca, sarebbe proprio il caso di dire, quella presentata dall'autore Marcello Introna in questo suo secondo romanzo, dopo l'esordio fortunato con Percoco.
Una storia cupa, nera, come quello scorcio del lungomare di Bari riportato sulla copertina e che personalmente, essendo nato in Puglia, associo sempre a colori ben più luminosi, solari, i colori del mare e del cielo azzurro.
Devo ammettere che questo romanzo mi ha letteralmente disorientato, riportando un pezzo di storia di questa città che conoscevo solo in parte, eventi documentati di cui però ignoravo le tragiche conseguenze.
L'autore infatti interseca le nefandezze compiute da Amaro, frutto della sua inventiva seppur ispirate dall'effettiva condizione di disagio in cui versava la gente più umile, con le atrocità derivanti dalla guerra: la narrazione si colloca nel periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo quando Bari venne scelta dalle truppe alleate come punto di 'ingresso' per la progressiva liberazione della penisola dalle forze militari tedesche.
E per quanto sia noto a molti il tremendo bombardamento aereo da parte dell'aviazione tedesca la sera del 2 dicembre 1943 che si concretizzò con la distruzione di oltre 20 navi della flotta alleata attraccate nel porto di Bari (un'incursione a sorpresa di tale portata si era verificata solo a Pearl Harbor) e la morte di oltre 1000 civili, tanti forse non sanno che una di quelle navi alleate trasportava centinaia di bombe cariche di gas mortali a base di iprite con cui il governo inglese intendeva rispondere ad un probabile attacco chimico paventato da Hitler ai danni dell'Italia traditrice; bombe che invece esplosero nel porto di Bari avvelenando l'aria e la pelle di coloro che si trovavano in quella zona. L'ospedale fu invaso da migliaia di persone, soldati e non, moltissimi bambini, con gravi irritazioni agli occhi e la pelle ricoperta da pustole enormi che i medici, ignari della causa, non riuscivano a diagnosticare correttamente e curare in tempo utile.
Ed ancor più vile (seppur vano) fu il tentativo delle alte cariche del governo inglese di insabbiare l'accaduto con la compiacenza delle autorità locali in cambio di favori reciproci, sfruttando proprio quella patologica ed antica cancrena dell'amministrazione politica italiana troppo incline alla corruzione e concussione, la stessa che ha consentito a personaggi come Amaro di diventare un 're', di accrescere smisuratamente il suo potere con gli introiti inesauribili derivanti dalla prostituzione di donne e bambini, sopprimendo sul nascere qualsiasi forma di protesta o ribellione e tutto sotto gli occhi bendati delle istituzioni.
E' un pugno nello stomaco questo romanzo, è come se la rabbia, la sofferenza e l'impotenza dinanzi ai tanti soprusi subiti dai personaggi della storia diventassero reali e percepibili dallo stesso lettore; una sensazione simile a quella che ho provato leggendo altri grandi romanzi storici, come I pilastri della terra o La cattedrale del mare.
E Marcello Introna regge senza ombra di dubbio il confronto con i suoi più noti colleghi sfoggiando uno stile di scrittura raffinato e fortemente connotativo, capace di rendere estremamente vivace e scorrevole la narrazione storica ma, al contempo, incisiva e suggestionante la descrizione di tutti i personaggi, inclusi quelli minori, la cui caratterizzazione viene sempre arricchita dal racconto - magistralmente condensato in poche pagine - della loro vita e delle vicende, quasi sempre tragiche, che hanno lacerato senza cicatrizzare la loro indole e spianato un destino che per tutti, in un modo o nell'altro, confluisce senza via di fuga nella Socia.
"Siamo in cento qui, forse centouno, oppure centotrè. Viviamo nella Socia e nella Socia dobbiamo rimanere. Non tutti hanno il permesso di uscire e, quando lo fanno, non sempre ritornano."
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Voglio andare a vivere in montagna..
Pietro, protagonista di questo romanzo con cui Cognetti ha vinto il premio Strega 2017, è un montanaro.
Non di nascita, però, essendo vissuto a Milano dove i suoi genitori, dopo il matrimonio celebrato in una chiesetta ai piedi delle tre cime di Lavaredo, si erano trasferiti per motivi di lavoro .. un montanaro acquisito, potremmo dire, perchè ereditando dal padre e dalla madre l'amore per la montagna non ha mai sentito come sua la casa in città; i viali, le strade ingombre di gente ed intrise di aria affumicata dai gas di scarico delle automobili gli sono praticamente sconosciute, nonostante le percorra ogni giorno: perchè la città è come una gabbia per lui, da cui non vede l'ora di fuggire, per raggiungere quel mondo che a malapena intravede dal suo appartamento al settimo piano quando il cielo è più terso, il profilo imponente e signorile della catena alpina, la montagna.
'Poi in certi rari giorni di vento, in autunno o in primavera, in fondo ai viali di Milano comparivano le montagne. Succedeva dopo una curva, sopra un cavalcavia, all'improvviso, e gli occhi dei miei genitori, senza bisogno che uno indicasse all'altra, correvano subito lì. Le cime erano bianche, il cielo insolitamente azzurro, una sensazione di miracolo.'
Il sentimento che Pietro nutre per la montagna non è solo amore, è qualcosa di più forte, di vitale: allontanarlo dalla montagna sarebbe come togliere un pesce dal suo mare e costringerlo a vivere tra le pareti scarne di un acquario. Soffrirebbe come soffre il padre quando certe notti 'non ne poteva più, si alzava dal letto, spalancava la finestra come se volesse insultare la città, intimarle il silenzio'.
Per questo motivo Pietro letteralmente rinasce ogni volta che, terminata la scuola e col sopraggiungere dell'estate, si trasferisce a Grana, un paesino sperduto sulle pendici del Grenon (nomi fittizi di luoghi reali probabilmente localizzati tra i monti della Val d'Aosta), dove i suoi genitori hanno acquistato una piccola abitazione, modesta, poco spaziosa, ma che sarà per Pietro la custodia dei suoi ricordi più belli.
Non solo belli, in realtà, anche ricordi di momenti più tristi, che portano dietro amarezza e rimpianti; pur sempre, tuttavia, ricordi indelebili, sedimentati nell'anima così come gli antichi ghiacciai sono divenuti ormai epidermide delle montagne su cui si sono formati e non si disperdono come neve fresca all'arrivo della primavera.
Ricordi di luoghi, di paesaggi in cui la montagna domina incontrastata, con la sua imponenza regale sovrasta le valli e gli uomini che le abitano.
Ed è comprensibile il senso di meraviglia che travolge chi giunge al suo cospetto per la prima volta, è immenso lo spettacolo che si mostra dinanzi agli occhi di chi, invece, è nato e vissuto in città.
E' una continua scoperta, ogni angolo, ogni sentiero nasconde colori, suoni, immagini sempre diversi che, soprattutto nella stagione calda, inebriano i sensi e svuotano mente ed anima di tutto ciò che pesa, che preoccupa: è come se il corpo ricevesse una trasfusione di pace e serenità.
Con l'autunno poi la montagna rivela l'altra sua faccia, quella più austera, inesorabile: un dualismo che riflette in un certo senso l'alternanza tra luce ed ombra, bene e male, principio universale ed antico che governa la vita dell'uomo e del cosmo.
'Le nuvole nascondevano le montagne alla vista e toglievano volume alle cose, ma anche in una mattinata del genere riuscivo a cogliere la bellezza di quel posto. Una bellezza cupa, aspra, che non infondeva pace ma piuttosto forza, e un pò d'angoscia. La bellezza dell'inverso.'
E la montagna non è semplice testimone, osservatrice passiva ed inerte della vita che scorre tra le sue valli e lungo i suoi pendii: la montagna inevitabilmente forgia il carattere, la personalità di chi ci dimora, impone le sue regole e le sue condizioni, irremovibili, che piacciano o no.
Lo sa bene Bruno, che a differenza di Pietro, sulla montagna è nato e cresciuto; la montagna è stata la sua scuola, non tra i banchi di una classe ma tra i pascoli sorvegliando il gregge o nell'alpeggio dove aiuta lo zio nel suo lavoro di montanaro.
La montagna diventa il loro anello di congiunzione, suggella la nascita di un rapporto di amicizia tra i due ragazzini che sopravviverà al tempo e agli anni quasi ereditando la granitica resistenza della montagna stessa.
Un'amicizia capace di rimanere silente per nove mesi l'anno e rianimarsi d'estate quanto Pietro torna in montagna con i suoi genitori ed ogni volta che rivede Bruno è come se fosse trascorso solo un giorno dall'ultima volta, come se non si fossero mai allontanati.
Ciò che conta per loro è avventurarsi nuovamente tra sentieri inesplorati, tra le macerie di mulini abbandonati e rocce impervie su cui arrampicarsi.
Un'amicizia sana, pura, inattaccabile, scevra da qualsiasi forma di invidia e gelosia, nonostante l'indole differente dei due ragazzi che comunque vivono in contesti sociali e familiari alquanto eterogenei.
Anzi sarà proprio tramite Bruno che Pietro riuscirà negli anni a rivalutare il rapporto con suo padre comprendendo meglio alcuni aspetti del suo carattere ed alcuni atteggiamenti che, da ragazzo, gli sembravano a volte ostili nei suoi confronti: capirà che quello era solo il suo modo di volergli bene, di educarlo, trasmettendogli il suo stesso amore per la montagna che non è solo una semplice passione ma una palestra di vita:
-Guarda quel torrente, lo vedi? - disse.
-Facciamo finta che l'acqua sia il tempo che scorre. Se qui dove siamo noi è il presente, da quale parte pensi sia il futuro?
Ci pensai. Questa sembrava facile. Diedi la risposta più ovvia: -Il futuro è dove va l'acqua, giù per di là.
-Sbagliato, -decretò mio padre. -Per fortuna-.
Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l'alto, in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l'acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c'è più niente per te, mentre il futuro è l'acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte.
Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.
Da questo punto di vista, l'opera di Cognetti può essere considerata un romanzo di formazione: con un linguaggio limpido, pulito, evocativo ma mai ampolloso anche quando si sofferma nelle descrizioni paesaggistiche, l'autore racconta una storia di fantasia ma che senza difficoltà ognuno di noi può percepire come reale, perchè le sensazioni, le riflessioni del giovane Pietro sono esternate con tale naturalezza e spontaneità, senza la minima forzatura, che il lettore può riconoscerle come proprie, quasi fossero autobiografiche.
E' la storia di Pietro che da bambino diventa uomo senza mai abbandonare il richiamo della montagna, seguendo le orme del suo amico Bruno e di suo padre ma senza lasciarsi soggiogare dal loro istintivo atteggiamento di sfida verso la montagna: sfida alimentata dal desiderio di dominarla, o raggiungendo le vette più alte ed inesplorate o illudendosi, come Bruno, di poter costruire una casa ed una famiglia in un ambiente che per gran parte dell'anno diventa ostile e poco vivibile.
Una filosofia di vita ben condensata nel mandala di origine asiatica che rappresenta il mondo con un monte altissimo al centro, il Sumeru, ed intorno otto montagne, meno imponenti, e circondate da otto mari: c'è chi tra gli uomini, con ostinazione e forse anche superbia, tenta di raggiungere la vetta del monte Sumeru e chi invece, con maggiore consapevolezza dei propri limiti, preferisce vagare tra le otto montagne alla ricerca di una propria identità.
"E' sulle cime che andiamo. Scendiamo solo quando arriviamo dove non si può più salire."
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.. and I dreamed I was a cowboy
Se avessi letto Nevada Connection senza conoscerne l'autore avrei scommesso tutto il mio patrimonio (alquanto esiguo in effetti) sulla paternità letteraria di Joe Lansdale, autore - tra l'altro - di una serie di romanzi in stile country ambientati in quella parte più remota e leggendaria dell'America che la maggior parte di noi ha forse visto solo al cinema: il vecchio selvaggio West.
Questo romanzo nasce invece dalla penna di Don Winslow che prima di diventare uno dei più noti scrittori nel genere poliziesco americano, prima ancora di introdurci nei complotti internazionali ad ampio raggio legati al narcotraffico e ai grandi cartelli della droga (a proposito, non perdetevi 'Il potere del cane'), ci scaraventa di forza nel Nevada, nelle Terre Alte Solitarie, praticamente alla fine del mondo:
'Siamo a circa milleottocento metri di quota, ed è tutto spazio aperto, come puoi vedere. Poca gente, poco bestiame, un sacco di conigli selvatici e coyote. Laggiù sulle montagne ci sono anche puma, pecore Bighorn e aquile. Steve fermò il pick-up su un belvedere. E' come essere sull'orlo del mondo, pensò Neal. Una grande vastità marrone sotto una volta di un blu intenso.'
Hap e Leonard, la famosa coppia di investigatori nati dalla penna di Lansdale, si sarebbero sentiti come a casa qui; un pò meno Neal Carey, il detective privato già protagonista di London Underground e China Girl, avvezzo a ben altre usanze:
'Voglio tornare a New York, papà. Voglio sedermi al Burger Joint e mordere un hamburger al sangue, mentre la salsa mi cola sul polso e macchia l'inchiostro della mia copia del New York Times. E voglio un caffè ghiacciato che appanna il bicchiere, proprio davanti a me, dove basta allungare una mano per afferrarlo. Voglio passeggiare sul lato ovest di Broadway, e poi tornare indietro da est.'
Ma Neal Carey non è un tipo abitudinario, ci mette poco ad adattarsi al nuovo ambiente, sia perchè si lascia gradualmente ammaliare dall'infinita vastità di quei territori, dal fascino selvaggio ed incontaminato della natura che alterna montagne innevate ad immense praterie e distese desertiche, dove i rumori più assordanti sono quelli del vento o l'ululato di qualche coyote, sia perchè fa parte del suo lavoro mimetizzarsi, confondersi con la gente del posto (per quanto trattasi di poche anime) ed osservare.
Già, osservare, perchè Neal Carey è l'uomo di punta di un'associazione segreta che interviene in situazioni 'difficili', compromettenti e ad alto rischio.
- Un lavoro sotto copertura, figliolo.
Sotto copertura. Le due parole più eccitanti e terrificanti di quel tipo di attività. La fiamma che ti attrae e poi ti brucia.
- Dove? - chiese Neal.
Ed masticò un pezzo di patatina e usò l'altro per tracciare piccoli cerchi nell'aria.
- La fuori, no?
La fuori, là fuori. Bè, ragazzi, perchè no? Là fuori ci ho passato tutta la vita.
L'incarico che gli viene assegnato è quello di trovare e recuperare un bambino di soli due anni rapito dal padre a seguito della separazione con sua moglie, attrice hollywoodiana molto facoltosa; un incarico apparentemente meno rischioso degli altri in cui Neal era stato precedentemente coinvolto ma che si dimostrerà ben presto tutt'altro che semplice poichè il padre, fuggitivo, viene accolto col bambino da una setta di fanatici neonazisti, la Chiesa della Vera Identità Cristiana, fondata dal reverendo Carter e che ha la sua base operativa proprio in Nevada, nelle Terre Alte Solitarie.
Ritroviamo quindi un tema caro anche a Lansdale, quello dell'intolleranza e delle persecuzioni razziste, che stavolta ha come vittime non i neri bensì gli ebrei, considerati usurpatori e manipolatori capaci di sottrarre il potere del governo federale di Washington al vero popolo eletto, quello dei bianchi americani.
Se la monotonia della routine quotidiana manda in riserva la vostra carica vitale, se il fumo, il caos, il traffico della città inquina la vostra mente ed i vostri polmoni, se siete alla ricerca di un'esplosione di pura adrenalina letteraria senza se e senza ma, questo libro fa per voi:
tra galoppate di mandriani nei ranch, scazzottate nei saloon, rapine a mano armata e l'immancabile sparatoia finale ispirata alla leggendaria sfida all'O.K. Corrall verrete catapultati in un mondo da cui forse, come Neal Carey, vi dispiacerà poi tornare indietro.
Attenzione, però, restate coperti.. perchè i proiettili volano bassi.
So I drank myself some whiskey,
And I dreamed I was a cowboy,
Then I rode across the border.
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L'assassino è con noi, su questo treno...
Rileggere, dopo circa 30 anni dalla prima volta, questo grande classico della letteratura gialla è stato per me .. illuminante, potrei dire.
All'epoca ero ancora un novellino, timoroso, goffo giovincello alle prese con le prime avventure letterarie, un esordiente di primo pelo nel vasto ed ancora inesplorato mondo dei romanzi.
Poca esperienza, pochissima, per poter apprezzare pienamente e con adeguata consapevolezza critica la qualità di un'opera.
E soprattutto pochi termini di paragone utili per esprimere un giudizio più misurato sulla base di un confronto tra diversi stili di scrittura se non addirittura tra diversi modi di interpretare un genere letterario come quello del 'giallo'.
Per questo motivo rileggere adesso questo romanzo di Agatha Christie ha per me il sapore della novità: in questi anni, infatti, il genere giallo ha assunto diverse sfaccettature, si pensi ad esempio al noir, al thriller psicologico, al poliziesco.
Ed indipendentemente dal gusto personale è innegabile che esse rappresentino deviazioni abbastanza rilevanti dall'impostazione classica del giallo, di cui Assassinio sull'Orient Express rappresenta uno dei migliori esempi.
Il giallo di Agata Christie è un problema, quasi matematico direi, ci sono ipotesi e dati di partenza; spetta al lettore trovarne la soluzione, esporre una tesi, individuare l'assassino e dimostrarlo.
E' una vera e propria esperienza logico-deduttiva, un rompicapo che solo il lettore più tenace e più attento potrà districare.
Il perimetro è ben circoscritto, la carrozza letto Istanbul-Calais di un treno dal nome altisonante, tanta è la notorietà che ha conquistato negli anni, l'Orient Express, o per essere più precisi il Simplon Orient Express.
Era il Titanic dei treni, sia per la lunghezza del tragitto che si estendeva per mezza Europa ed oltre sia per il lusso che sfoggiava ovunque, dalle carrozze letto dotate di ogni comfort per l'epoca al vagone ristorante che deliziava i passeggeri con una cucina ricercata e raffinata.
Anche le variabili del problema sono ben individuate: i 12 passeggeri ospitati nei relativi scompartimenti di prima e seconda classe della carrozza sulla quale viene trovato morto e ferocemente pugnalato il signor Ratchett, occupante lo scompartimento n.2, proprio adiacente a quello del signor Hercule Poirot, detective belga in viaggio per lavoro verso Londra e che suo malgrado si ritroverà così ad indagare su questo efferato omicidio.
Variabili molto eterogenee tra loro: il segretario del signor Ratchett, un investigatore privato assunto dallo stesso Ratchett, la principessa Natalia Dragomiroff e la sua cameriera, un conte ed una contessa, un colonnello dell'esercito, una bambinaia, un'istitutrice ed un'anziana signora americana alquanto petulante.
Apparentemente nessuno di questi passeggeri ha legami stretti col signor Ratchett, se si esclude ovviamente il suo segretario, ma l'assassino è sicuramente uno di loro visto che al momento dell'omicidio il treno è fermo a causa di una tempesta di neve e nessuno può essere sceso o entrato nella vettura.
Non mancano naturalmente anche gli indizi, in primis le ferite inferte sul corpo del signor Ratchett che lasciano presupporre addirittura la complicità di un'altra persona.
Tutto viene presentato con rigore quasi scientifico, le ipotesi sono raccolte e catalogate con precisione maniacale, il taccuino di Poirot potrebbe essere benissimo confuso col manuale di un ingegnere, per l'accurata analisi con cui indizi ed indiziati vengono passati al setaccio alla ricerca di possibili legami e concatenazioni.
La signora Christie, d'altro canto, contribuisce col suo stile a rendere godibile a tutti l'indagine investigativa di Poirot attraverso un'esposizione dei fatti e dei personaggi non contaminata dall'aridità e dalla monotonia di una dimostrazione matematica ma arricchita da dialoghi e racconti che incoraggiano, piuttosto che intimorire, il lettore a seguire sino alla fine l'evolversi della vicenda.
E da grande maestra del giallo, Agatha Christie sbalordirà tutti con un colpo di scena finale tanto imprevedibile quanto ben congegnato.
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In questa vita, i conti non si regolano..
Destino crudele quello di Sonecka, beffardo oserei dire: non solo l'ha costretta sin dall'infanzia a patire le privazioni e gli stenti imposti dalla povertà ed aggravati dalla guerra, non solo l'ha ricoperta di vergogna essendo nata dalla relazione di sua madre, insegnante di pianoforte, con un suo allievo molto più giovane, motivo per cui anche la madre a volte sembra quasi detestarla:
"Sì, mi voleva bene, ma c'era nel suo affetto una penosa incrinatura, e quando mi baciava, mi pareva sempre che cercasse di cancellarla."
Ma se fosse solo questo, il destino non sarebbe stato più malevolo nei confronti di Sonecka rispetto a molte altre ragazze che abitavano a san Pietroburgo nei primi decenni del Novecento, a cavallo della prima guerra mondiale.
Per lei, invece, il destino è stato più severo: le ha scaraventato dinanzi agli occhi tutto ciò che Sonecka desiderava, gliel'ha reso raggiungibile, a portata di mano, rendendo così ancora più insopportabile il divario tra il suo mondo e quel mondo.
Marija Nikolaevna Travina era quel mondo: cantante bravissima, donna bellissima, desiderata ed ammirata da tanti, ricca, sposata con un uomo che la adorava ma soprattutto... felice, radiosa, aperta alla vita.
L'esatto opposto di Sonecka: 'Mi sembrava di vedere la vita andare avanti senza di me, attaccare e macinare gli essere umani, senza prendermi, qualunque cosa facessi per impormi.'
E quando Marija sceglie Sonecka come accompagnatrice nei suoi concerti, offrendole la possibilità di seguirla nei vari viaggi, di soggiornare con lei nella sua casa o in albergo, diventando praticamente una di famiglia, piuttosto che riceverne gratitudine accresce in lei la rabbia e l'invidia.
Invidia cieca, ossessiva. La luce che avvolge Marija non fa che spingere Sonecka ancor più nell'ombra, è Marija che magnetizza lo sguardo del pubblico, la ragazza al piano è come se fosse invisibile.
"Lei si muove, parla e canta con grande sicurezza, accompagnando parole e movimenti con gesti calmi, misurati delle mani; sembra sprigionare una specie di calore, una scintilla - divina o diabolica -, non esita mai tra il sì e il no. Io mi sento, a volte, fasciata da una bruma di incertezza, d'indifferenza, di noia, nella quale mi dibatto come un insetto notturno si dibatte nella luce del sole, prima di accecarsi o paralizzarsi. Quando ci presentavamo al pubblico - lei davanti, raggiante di salute e di bellezza, che distribuiva sorrisi e saluti, con grazia e naturalezza, e io dietro, col vestito sempre un pò sgualcito, io così magra che salutavo con piccoli inchini e cercavo di tenere le mani nel modo giusto - quando ci presentavamo entrambe: 'ebbene, che cosa pretendi' dicevo tra me 'che cosa pretendi di più dalla vita? Regolare i conti? Prenderti la rivincita? Come? E contro chi, poi? Devi tirare avanti buona buona, più cheta dell'acqua, più bassa dell'erba. In questa vita, i conti non si regolano; e l'altra, non esiste!'"
Già in un altro romanzo di Nina Berberova, 'Il giunco mormorante', ho avuto modo di apprezzare la sua innegabile dote di saper trasmettere al lettore con estrema nitidezza un identikit dell'anima dei suoi personaggi ed il profilo che ne esce fuori è sempre preciso, non lascia spazio ad ambiguità, grazie ad uno stile disadorno, essenziale ma non per questo poco efficace nel delineare i tratti distintivi della loro personalità.
Anche i dialoghi sono risicati ma le parole omesse, taciute, lasciano trasparire proprio quelle emozioni più negative, subdole dell'animo umano, come appunto l'invidia che unita ad una buona dose di abulia sfocia drasticamente nel rancore e nell'odio più esasperato.
Inevitabile il confronto con un'altra grande scrittrice di origini ucraine dei primi del Novecento, Irene Nemirovsky, il cui stile ne 'Il ballo' presenta molte similitudini con quello della Berberova, differenziandosi solo per una maggiore incisività ed acredine dovuta forse alle sofferenze e alla vita più tormentata della Nemirovsky.
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Il giunco pensante, mormora, protesta
Il giunco è una pianta che cresce generalmente sulle sponde dei laghi, dei corsi d'acqua o nelle zone paludose. E' caratteristica l'estrema flessibilità del suo fusto tanto che riesce a resistere, senza spezzarsi, alle sferzate ondose dell'acqua circostante. Si piega ma non si spezza: simbolo di un'umiltà combattiva, grintosa.
Umiltà e determinazione, quindi. E quando poi il giunco viene mosso dal vento, quando le sue foglie assecondano il movimento dell'aria, sembra quasi mormorare, sussurrare.
Come la voce che la protagonista di questo romanzo dell'autrice russa Nina Berberova sente dentro di sè, una voce che le sussurra nell'orecchio, la sprona, fa riflettere e consiglia.
E' una donna russa, trapiantata a Parigi (proprio come la scrittrice stessa vissuta nel secolo scorso); si innamora di Ejnar, perdutamente, intensamente, ma egli deve lasciare Parigi e tornare a Stoccolma lasciandola sola, siamo durante la seconda guerra mondiale e non è semplice spostarsi in Europa tra i paesi in guerra.
I due amanti però si salutano con una promessa reciproca: non sarà un addio quel loro abbraccio prima della partenza e presto si rivedranno a Stoccolma. Il giunco: si piega con umiltà al destino ma non si spezza, si rialza.
Passano gli anni, tante lettere spedite e rimaste senza risposta da parte di Ejnar, ma la donna non dimentica, ancora lo ama e quando finalmente riesce a raggiungere la fredda Stoccolma, un pò per lavoro un pò perchè lo desidera, scopre che Ejnar è sposato e vive felicemente con un'altra donna, Emma.
E' sul punto di scappar via, questa volta non è facile rialzarsi, reagire: un colpo troppo violento da sopportare, la delusione, la rabbia bruciano dentro.
Ma.. 'il giunco pensante, mormora, protesta'.
Decide di rimanere a Stoccolma, deve capire, deve parlare con Ejnar e pretendere da lui delle spiegazioni.
Grazie ad alcune conoscenze in comune, riuscirà non solo a rivedere Ejnar ma sarà anche accolta da sua moglie Emma come una cara amica di famiglia tanto da ricevere l'invito per un soggiorno a Venezia in loro compagnia.
E ancora una volta è sul punto di rinunciare, teme di non poter reggere un ulteriore colpo che frantumerebbe il suo cuore ed il suo orgoglio.
Ma quella voce, il mormorìo, decide anche per lei:
'Prenderemo per buono l'invito, non staremo a chiedercene il motivo, accetteremo Venezia come si accetta un regalo - non è detto che dalla scatola di caramelle o dal mazzo di fiori debba immancabilmente uscire un serpente o un pipistrello'.
Ed è a questo punto, nelle ultime pagine del romanzo già di per sè brevissimo, che la scrittrice con uno stile garbato ma incisivo costruisce la rivalsa della sua donna, protagonista e - probabilmente - suo alter ego.
E il lettore ne rimane quasi spiazzato, quello che sembrava l'ennesimo amore distrutto, l'ennesima beffa di un destino avverso diventa invece un inno alla libertà individuale, al diritto di ogni uomo o donna di riservarsi una propria 'terra di nessuno', un luogo dove non è ammessa alcuna ingerenza esterna, dove ognuno è padrone ed artefice delle proprie scelte e dove i propri sentimenti possono rivelarsi così come sono, senza censure, senza segreti o costrizioni di alcun tipo.
'Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man's land, in cui è totale padrone di se stesso. C'è una vita a tutti visibile, e ce n'è un'altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell'etica, una sia morale e l'altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l'una lecita e l'altra illecita.
Semplicemente, l'uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un'ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese (..) Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella sua vita non s'è mai incontrato con se stesso, e c'è qualcosa di malinconico in questo pensiero.'
Un amore dissolto, quello verso Ejnar, ma anche un amore ritrovato, quello verso se stessa.
E nella partenza da Venezia stavolta non c'è alcun rimpianto, nessun dolore. Un ricordo destinato a svanire velocemente, come la città stessa:
"Tratto peculiare di Venezia: scomparire in un attimo, non correre dietro al treno, non agitare a destra e a sinistra il capo in cenno di saluto come fanno le altre città quando le lasci – svanire in un solo istante, come se non esistesse, come se non fosse mai esistita.”
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Quando arriva l'ora del lupo
"Parla, mia paura"
E' un'incitazione, imperativa come un ordine ma al contempo disperata come una preghiera, quella che l'autrice rivolge a se stessa o, meglio, a quella parte di lei che abita in lei, coinquilina indesiderata, fastidiosa e relegata in un angolo, isolata e celata a tutti.
Quasi fosse un peccato, una perversione, un segreto da occultare al mondo: perchè nessuno potrebbe capire, gli altri sanno solo giudicare, condannare o talvolta incoraggiare, spronare con parole di conforto che in realtà sconfortano più di prima, perchè solo chi prova può sapere, solo chi convive ogni giorno con la paura può comprendere questo stato d'animo.
E Simona Vinci è una di queste persone. Simona Vinci soffre di depressione, ne ha sofferto per molto tempo, ora ha imparato a conviverci, a non lasciarsi sopraffare, perchè è il massimo a cui si possa sperare, inutile infatti illudersi che la depressione possa essere sconfitta definitivamente.
La sua depressione è cominciata proprio con la paura, paura di tutto, 'Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare sola.'
Frequenti attacchi di panico che hanno disintegrato le sue relazioni sociali, ostacolato il suo lavoro e ridotto la sua vita ad un misero arrancare, un faticoso ed estenuante tentativo di superare l'oggi per arrivare al domani.
Ma Simona non si è arresa ed in questo libro non solo confessa il suo demone interiore ma lo esorcizza: l'unico modo per indebolirlo è proprio attraverso la parola, l'unico modo per vincerlo è accettarlo, riconoscerlo e raccontarlo.
"Ecco il trucco, la magia: non chiudere, apri. Non nasconderti, mostrati. Non tacere, esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto."
E' un racconto forte, toccante: nelle prime pagine, quelle in cui l'autrice descrive la lenta e progressiva evoluzione della sua malattia, si avverte prepotentemente il senso di disperazione di una donna sull'orlo del baratro, alimentato peraltro dalla consapevolezza che quel baratro sarà sempre lì, dinanzi ai suoi occhi, e che nessuno potrà mai allontanarla da quella condizione di precario equilibrio con la paura assillante, martellante, di cadere, di sprofondare. E quando la paura non lascia tregua allora si può persino desiderare che accada una volta per tutte, si può persino sperare di cadere per porre fine a tutto.
"C'è chi legge il suicidio come un implacabile atto di accusa verso gli altri. Non so se crederci, perchè quando è capitato a me, di essere sul punto di saltare, gli altri erano scomparsi: c'ero io, da sola, e tutto quello che volevo, tutto quello che provavo era di essere qualcosa che voleva finire."
E' una donna che si racconta ma ciò non implica necessariamente che questo libro sia rivolto in modo esclusivo alle donne: certo una donna potrà più facilmente immedesimarsi in alcuni stati d'animo tipici del genere femminile perchè, per esempio, legati al periodo della gravidanza o a quel senso di insoddisfazione verso il proprio corpo (o parti di esso) che sfocia poi nell'intervento di chirurgia plastica estetica, con tutti i risvolti psicologici che comporta.
"La chirurgia estetica non ha a che vedere soltanto con lembi di pelle, fasce muscolari, strati adiposi e protuberanze ossee, ma lavora su strati della coscienza individuale intangibili eppure determinanti. Ogni volta che un bisturi incide e rimodella un corpo scolpisce anche una mente e un'interiorità e bisogna considerare con attenzione quale possa essere l'impatto sulla psiche della trasformazione morfologica che la chirurgia plastica opera."
Tuttavia, da uomo, ho apprezzato molto il coraggio e la caparbietà di questa donna che ha messo a nudo se stessa, la sua parte più intima, le sue debolezze e fragilità, senza alcuna remora o autocensura, andando quasi controcorrente, sfidando una società che celebra i più forti, i vincenti e ripudia i più vulnerabili.
Facendo parlare la sua paura, Simona Vinci ha non solo aiutato se stessa ma chiunque stia vivendo il suo stesso disagio, fornendo preziosi consigli che sono àncore di salvataggio nel mare profondo che la depressione crea intorno a chi ne soffre: perchè - inutile negarlo - nonostante sia stata riconosciuta come una malattia con un'incidenza altissima nella popolazione mondiale su una fascia ampia ed eterogenea di età, viene spesso considerata come una colpa di cui vergognarsi, come un problema esistenziale sintomo di insicurezza e debolezza.
"Ho deciso di scrivere questo resoconto di un periodo difficile della mia vita e di un disagio esistenziale che mi appartiene, e probabilmente in vario grado mi apparterrà per sempre, perchè avevo bisogno di perdonarmi e al tempo stesso di offrire ad altri che abbiano vissuto o vivano qualcosa di simile, la possibilità, se non di immedesimarsi, almeno di cogliere un riflesso di sè nelle mie parole."
Ma se da un lato è importante parlare, lo è altrettanto saper ascoltare: tanto più se diventa indispensabile saper ascoltare anche i silenzi, le parole non dette, soffocate, saper interpretare atteggiamenti e stati d'animo 'di facciata' che mascherano sotto una parvenza di normalità un profondo disagio interiore.
Bisogna saper ascoltare per poter offrire un valido aiuto all'amico, alla compagna, a chiunque soffra di depressione: per riempire il buco, quel vuoto che si crea nella loro mente e nel loro cuore. In fondo la depressione annienta come il mal d'amore, bellissima la frase tratta da una canzone dei Soundgarden, "I'm the shape of the hole inside your heart".
E direi che da questo punto di vista il libro di Simona Vinci acquista una valenza universale, sia per il genere maschile sia per quello femminile.
"Ogni giorno usciamo di casa e qualcosa di terribile potrebbe accaderci. Ogni giorno ci alziamo dal letto e sappiamo che potremmo morire. L'unico potere che abbiamo è tentare di vivere al meglio il presente senza farci annientare dal terrore del futuro. L'unico potere che abbiamo è continuare a cercare lo sguardo degli sconosciuti senza vedere in loro dei nemici, ma sperando di trovare degli amici. L'unico potere che abbiamo è fidarci della nostra immaginazione e cercare di guidarla verso pensieri positivi, anche quando stiamo attraversando una selva oscura: il buio può parlare e non è detto che le sue siano soltanto parole dolorose."
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Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità.
Inquietante.
E' l'aggettivo con cui definirei questo romanzo del noto scrittore e sceneggiatore italiano Donato Carrisi, romanzo che potrei senza dubbio considerare come uno tra i migliori di questo autore.
Se 'Il suggeritore' sconvolge il lettore per l'atrocità dei crimini descritti e lo seduce sin dalle prime pagine con una trama solida ed articolata che fa dell'indagine investigativa il suo punto di forza, 'La ragazza nella nebbia' invece ha un effetto detonante ritardato.
Basti pensare che inizialmente manca persino l'evidenza di un delitto ma tutto nasce dal sospetto di un crimine: la scomparsa, a pochi giorni da Natale e senza chiari motivi, della minorenne Anna Lou Kastner ad Avechot, un piccolo borgo in una vallata alpina, un paese di montagna dove tutti conoscono tutti, una scuola, una confraternita, in un clima di apparente serenità.
Ma il sospetto che non si tratti di una bravata adolescenziale si concretizza progressivamente diffondendo a macchia d'olio l'ipotesi di un 'mostro' assassino.
Un mostro che peraltro si nasconde tra le persone rispettabili ed insospettabili di quella comunità montana, poichè Anna Lou difficilmente si sarebbe lasciata trarre in inganno da uno sconosciuto.
Il caso viene affidato all'ispettore Vogel: Vogel ha fiuto per questo tipo di indagini, interroga la famiglia e conoscenti, recupera indizi e ricostruisce un profilo della vittima e del suo sequestratore.
Ed un mostro viene individuato, Vogel non ha dubbi sul suo conto: il professor Loris Martini, insegnante al liceo frequentato da Anna Lou, sposato e con una figlia poco più grande di Anna Lou.
Le prove raccolte da Vogel contro il professor Martini sono molto labili, sono intuizioni più che dati di fatto e di certo non permetterebbero l'emissione di un mandato di arresto per Martini.
Ma Vogel non può perdere questa occasione, è l'unica possibilità che gli rimane per tornare alla ribalta, per recuperare agli occhi dell'opinione pubblica e dei suoi capi lo smacco subito durante l'ultimo caso in cui ha colpevolizzato un uomo successivamente ritenuto innocente e scarcerato.
A questo punto il lettore viene catapultato in una spirale da cui non è più possibile sottrarsi perchè è intensa la partecipazione emotiva: in alcuni momenti la sensazione di solidarietà verso il professor Martini è quasi istintiva e primeggia sul dubbio che egli sia il 'mostro', il terremoto che improvvisamente si abbatte nella sua vita sgretolando la già fragile coesione della sua famiglia induce in chi legge un sentimento di rabbia ed indignazione verso quel meccanismo mediatico che ha condannato un uomo come colpevole senza prove e senza possibilità di difesa.
"La giustizia non era più un affare riservato ai tribunali, bensì apparteneva a tutti, senza distinzioni. E in questo nuovo modo di guardare le cose, l'informazione era una risorsa - l'informazione era oro."
E così le pagine scorrono rapidissime perchè è forte l'attrazione verso il finale, verso l'epilogo di questa vicenda che appassiona e turba quasi quanto un reale caso di cronaca.
Già, perchè se leggerete questo romanzo non potrete fare a meno di notare palesi assonanze con i più recenti casi di cronaca nera italiana, Sarah Scazzi o Yara Gambirasio per esempio.
O ancora il delitto di Cogne. Non è finzione questa, è realtà.
E l'impulso che costringe il lettore a girare in fretta le pagine di questo romanzo, voracemente, è paragonabile alla curiosità quasi morbosa che attanaglia lo spettatore ai tg o ai vari "Chi l'ha visto?" televisivi: geniale Carrisi.
E lo ribadisce anche il professor Martini in una sua lezione:
"Vi ho detto che è il male il vero motore di ogni racconto: gli eroi e le vittime sono solo uno strumento, perchè ai lettori non interessa la vita quotidiana, hanno già la loro. Vogliono il conflitto, solo così riescono a distrarsi dalla loro mediocrità. Ricordate è il cattivo che rende la mediocrità più accetttabile, è lui che fa la storia".
Il male però non è solo, ha acquisito un grande alleato, forse più distruttivo e potente: i mass-media.
Nella società odierna, complice anche la diffusione irrefrenabile dei social network che hanno reso disponibile la gogna pubblica a portata di click, tutti possono assurgere al ruolo di giudice e la congenita, morbosa propensione del genere umano verso la spettacolarizzazione della morte e della violenza ha fatto sì che tutti i riflettori fossero puntati verso l'unico vero gladiatore del circo mediatico: il criminale.
Le prove, gli indizi, gli esami del dna, la vittima e persino l'eventuale movente.. tutto passa in secondo piano quando il criminale diventa una star, quando il resoconto delle sue azioni occupa pagine e pagine delle testate giornalistiche e diventano argomento di animati talk-show alla presenza di esperti di ogni tipo e genere.
Persino la sua identità non è necessaria a mettere in moto questo meccanismo, anzi il mistero che lo avvolge e le ipotesi su chi possa essere il mostro sono il suo combustibile.
E' un combustibile però che tende ad esaurirsi rapidamente e che necessita sempre di nuova linfa, nuove scintille.
Serve un nome, un volto, un uomo su cui convogliare la rabbia, l'odio, il ribrezzo della gente.
E serve subito, prima che i riflettori si spengano: perchè l'audience non ha pazienza, i tempi dello spettacolo sono molto più rapidi di quelli necessari per le indagini.
Il palcoscenico è stato allestito, ora tocca a Vogel condurre lo spettacolo. Sino alla fine, costi quel che costi.
"Nessuno vuole la verità".
"Perchè secondo lei?".
Il poliziotto ci pensò un momento.
".. perchè la verità ci coinvolge, ci rende complici."
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Ogni vera passione è senza speranza
C'è una potente forza evocativa in questo romanzo dello scrittore ungherese Sandor Marai: 'le parole sono importanti' dirà uno dei due protagonisti, niente di più vero, soprattutto se quelle parole - pur nel 'silenzio' della lettura - fanno rumore, destano l'attenzione di chi legge e ne sollecitano l'immaginazione, come se agissero su un meccanismo nella mente che apre un sipario svelando scenografie così vivide e realistiche da sentirsi quasi parte di esse.
Ci si ritrova così a passeggiare tra le strade di Vienna, nel periodo in cui l'impero austro-ungarico era ancora nel pieno del suo splendore, e nelle orecchie le note irriverenti dei valzer nei locali che animano la vita notturna della città o quelle più sobrie dei pianoforti nei cafè sparsi per il centro.
O ci si lascia avvolgere dalla nebbia mattutina che ricopre come un manto i cortili dell'accademia militare, nascondendo all'occhio i viali alberati del vicino castello di Schönbrunn; quella stessa accademia dove Henrik e Konrad si sono conosciuti quando erano ancora bambini e dove hanno trascorso la loro adolescenza, educati alla nobile arte della guerra e all'obbedienza incondizionata verso la patria e l'imperatore.
Ma tra tutte, l'immagine più suggestiva, quella che rimane impressa a lungo negli occhi di chi legge, anche perchè copre buona parte di tutto il romanzo, si svolge nel salotto della dimora dell'ormai anziano generale Henrik dove, seduti su due poltrone dinanzi al fuoco crepitante di un camino, lui e Konrad ripercorrono con la memoria gli eventi occorsi tanto tempo prima, 41 anni per la precisione, sino al giorno in cui dopo una battuta di caccia proprio nel bosco intorno a quel castello, Konrad fugge per chissà dove abbandonando tutto e tutti.
Ora i due uomini si ritrovano l'uno dinanzi all'altro per il resoconto finale, per far emergere la verità, perchè quella fuga improvvisa ed inaspettata di Konrad ha cambiato la vita non solo dei due uomini ma anche di Krisztina, moglie di Henrik.
Krisztina purtroppo non c'è più, è morta qualche anno dopo la fuga di Konrad; ma anche se fosse viva, non è da lei che Henrik vuole la verità, una verità che già immagina, palesata dalla ragione ma rifiutata ed allontanata dal cuore.
E' il suo amico Konrad che gli deve delle spiegazioni, è un suo diritto, in nome di quell'amicizia che li ha resi inseparabili per tanti anni, un vincolo che sembrava più forte di qualsiasi legame di parentela, inviolabile nella sua sacralità.
"La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera."
Ma quel giorno qualcosa si è spezzato in quel legame e, ancora peggio, si è portato dietro come una valanga tutto ciò che nella vita di Henrik sembrava ben ancorato ad un punto fermo, consolidato, eterno come sperava fosse il suo amore verso Krisztina.
E' stato il suo orgoglio, forse, l'eccessiva sicurezza di sè, l'istintiva risolutezza e presunzione, ereditario retaggio delle sue origini nobiliari, che l'hanno reso cieco e sordo ai segnali provenienti dal mondo in cui viveva, dalle persone a lui più vicine.
Poi invece è stato sufficiente il rumore attutito proveniente della canna di un fucile alle sue spalle durante una battuta di caccia ad aprire il baratro sotto i suoi piedi.
Ed era Konrad che impugnava quel fucile, da cui nessun colpo è stato mai sparato; ma 'non si pecca solo mediante le azioni, bensì mediante l'intenzione che ci spinge a compiere determinate azioni. L'intenzione è tutto'.
Anzi l'intenzione è più importante dell'azione, perchè l'azione è una semplice conseguenza che si esplicita nei fatti, ma la verità è nell'intenzione: 'Il fatto della tua fuga è facile da stabilire, il suo motivo no. Puoi credermi se ti dico che in questi quarantun anni ho preso in esame tutte le ipotesi che potessero aiutarmi a capire il perchè di quel tuo passo incomprensibile. Ma nessuna di esse mi ha fornito una risposta. Questa può darmela soltanto la verità.'
L'immagine dei due uomini che così si ritrovano uno di fronte all'altro è descritta dall'autore in modo sublime, una prosa vivace, ricca di eleganti metafore che spesso regalano momenti di inaspettata poesia.
Sullo sfondo il fuoco delle candele e del camino, all'inizio caldo, scoppiettante, ardente come il falò di sentimenti che sino a quel momento bruciavano nel cuore di Henrik: rabbia, sete di vendetta ma anche sconforto, solitudine e profonda amarezza.
E come il fuoco brucia durante la notte sprigionando tutta la sua energia, allo stesso modo Henrik libera i suoi pensieri, a lungo repressi in attesa di quel momento, di quell'incontro faccia a faccia.
Già, perchè in fondo Henrik non necessita di parole, per lui sono sufficienti i gesti, le espressioni del volto, persino i silenzi di Konrad per intuire la verità tanto temuta; Henrik ha già le risposte a tutte le sue domande, sembra un lungo monologo il suo, ma sono domande che dovevano essere fatte ad alta voce e non più soffocate nel suo cuore.
"La cosa peggiore è soffocare in sè le passioni che la solitudine ha accumulato dentro. Chi fa così non fugge da nessuna parte, non ammazza nessuno. Allora cosa fa? Vive, aspetta, mantiene l'ordine nella sua esistenza.
Aspetta e basta. Aspetta il giorno o l'ora in cui potrà discutere ancora una volta di tutto ciò che lo ha costretto alla solitudine con colui o con coloro che lo hanno ridotto in quella condizione."
Ma ora cosa gli rimane? Niente. Polvere, cenere.
Ha atteso per ben 41 anni quel momento, ha perso il suo migliore amico che vigliaccamente è fuggito ai Tropici, ha perso la moglie amata e si è rinchiuso nella solitudine del suo castello, tenuto in vita solo dal desiderio di scoprire un giorno la verità.
E la verità emergerà, lentamente, parola dopo parola, ricordo dopo ricordo: 'Tu mi odiavi.'
Ma ora che la vita di entrambi volge ormai al termine quale importanza può più avere?
"Il fuoco purificatore del tempo ha eliminato dalla memoria ogni traccia di collera."
E dagli stoppini anneriti si leva il fumo delle candele ormai spente.
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Bevo gin. Pianifico omicidi.
Quanti hanno mai pensato di uccidere qualcuno? Magari motivati da una violenza subìta o da un torto intollerabile, potrebbe capitare a molti di desiderare o anche solo immaginare una vendetta definitiva, assoluta, spinti spesso dalla convinzione che sia l'unica possibile forma di giustizia verso chi altrimenti rimarrebbe certamente impunito.
Certo, come diceva qualcuno, tra il dire ed il fare c'è sempre il mare, e per fortuna direi.. altrimenti avremmo probabilmente risolto il problema della sovrappopolazione mondiale.
In alcuni casi, però, il confine tra l'idea e l'azione diventa molto labile, il mare che li separa si assottiglia sino a diventare ruscello tanto che qualcuno agevolmente riesce a passare da una sponda all'altra.
Lily ha 30 anni, lavora a Winslow nel Maine come bibliotecaria presso il college universitario, poco appariscente ma di una bellezza raffinata che traspare nei dettagli, pelle candidamente rosea, sguardo magnetico amplificato da occhi di un verde cristallino in aperto contrasto col rosso dei lunghi capelli.
Non passa inosservata a Ted, affascinante uomo d'affari, ricco, molto ricco, grazie ad una serie di fortunate scelte nel florido settore delle startup web.
La sintonia è quasi immediata, basta il pretesto di un drink durante l'attesa del volo che li avrebbe riportati a Boston e subito scatta la scintilla tra i due, sguardi complici che si ricercano senza troppe remore in un'aura di crescente intimità.
Ted inizialmente nutre qualche sospetto sulla casualità di quell'incontro, dubbi che si dissolvono in pochi secondi grazie alla scaltrezza di Lily e qualche gin tonic di troppo. Tra l'altro, Ted ha un disperato bisogno di sfogarsi, ha appena scoperto che sua moglie Miranda lo tradisce con Brad, l'architetto che segue i lavori nel cantiere della loro nuova villa a Kennewick Beach.
Ne ha avuto certezza una sera in cui senza preavviso si è recato alla villa fingendosi in viaggio per affari. E li ha visti, li ha spiati mentre lui prendeva Miranda da dietro dopo averla spinta su un tavolino, con tale veemenza da lasciar presupporre che non fosse la prima volta che lo facessero: chissà da quanto tempo Miranda lo tradiva con quell'uomo a sua insaputa, anzi senza lasciar trapelare il minimo segno di insoddisfazione nei suoi confronti.
Ed è questo che lo infastidisce maggiormente: non solo la rabbia per il tradimento subito quanto soprattutto la falsità della moglie che imperterrita e senza il minimo disagio continua a fingere amore nei suoi riguardi.
"La studiai in viso alla ricerca di una traccia di ipocrisia, ma invano. I suoi occhi castani brillavano di quella che pareva autentica gioia. Tanto che per un momento provai il calore di chi si sente amato. Ma un istante dopo il calore passò, e fui costretto ad ammirare per l'ennesima volta il talento da attrice di mia moglie. La sua natura bifronte."
Lily lo ascolta, con attenzione, registrando ogni minimo dettaglio di quella conversazione: non è invadente, ma sa come circuire un uomo, sa come guidare i pensieri di Ted nella sua direzione, verso il suo vero obiettivo.
'Miranda dovrebbe morire': è la frase con cui Ted termina il racconto della sua storia, pronunciata quasi senza pensarci, inevitabile sfogo del suo desiderio di vendetta.
Forse Ted si aspettava un minimo di disappunto da parte di Lily, un tentativo di distorglierlo da pensieri così spropositati; si troverà invece quasi disorientato nel momento in cui Lily gli darà ragione e gli offrirà il suo aiuto per uccidere la moglie.
Perchè persone così meritano di essere uccise:
"Onestamente, non credo che l'omicidio sia così brutto come lo dipingono. Tutti dobbiamo morire. Cosa cambia se un paio di mele marce cadono dal ramo un pò prima di quanto Dio avesse previsto? E tua moglie ha proprio l'aria di una che meriterebbe di essere ammazzata".
Il romanzo di Peter Swanson non brilla certo per originalità: tipica trama dalle tinte noir in stile americano, immancabili femmes fatales dall'irresistibile potere ammaliante, ciniche ed ambiziose da una parte, vendicative e giustiziere dall'altra; uomini soggiogabili come marionette, siano essi ricchi o desiderosi di un riscatto sociale; inganni, doppio gioco, complotti e colpi di scena, tutti ingredienti che Swanson riesce ad amalgamare nelle giuste dosi sfornando un romanzo dal sapore già noto ma comunque godibile.
Il punto di forza è nel ritmo incalzante che cresce progressivamente catalizzando la curiosità del lettore che difficilmente potrà resistere alla tentazione di arrivare quanto prima all'ultima pagina, seppur solo per avere conferma che l'epilogo sia quello facilmente deducibile man mano che si delinea la reale personalità dei due personaggi femminili, Lily e Miranda, che - inutile dirlo - sono le protagoniste indiscusse del romanzo.
Inevitabile, tra l'altro, perché è risaputo che la vendetta è donna.
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Mi piace chi combatte ogni giorno per la felicità
Ma la felicità è un peccato?
E' così strano e difficile esser felici al giorno d'oggi che sembra quasi indecente esserlo, quasi amorale?
Siamo così immersi in un mare di apatia, insoddisfazione e depressione cronica che la ricerca della felicità rischia di essere condannata quasi come fosse un'eresia?
E, chissà, che non venga in mente a qualcuno di cambiare formula al Pater noster, da 'non ci indurre in tentazione' a 'non renderci felici'.
D'accordo, questo è iperboleggiare, ma la verità non è molto distante e come dar torto a Cesare Annunziata, protagonista di questo romanzo, quando afferma: 'Mi piace chi combatte ogni giorno per essere felice'.
Già, perchè la felicità è una scelta di vita prima ancora che una conquista, bisogna anzitutto desiderarla e volerla perchè di certo non sarà la felicità a venirci incontro.
E lo sa bene Cesare, dall'alto dei suoi 77 anni:
"Passi la vita a credere che un giorno ciò che speri accadrà, salvo poi accorgerti che la realtà è molto meno romantica di quanto pensi. E' vero, i sogni qualche volta si presentano alla tua porta, ma solo se ti sei preso la briga di invitarli."
Peccato però che questa consapevolezza giunga troppo tardi, lasciamo trascorrere pigramente gli anni migliori della nostra vita, ci lasciamo trascinare dagli eventi quasi per inerzia sopportando con insofferenza una condizione di disagio piuttosto che sforzarci di prendere una decisione, fare una scelta.
E l'inevitabile conseguenza è una vecchiaia tormentata dai rimpianti e dalla rabbia verso se stessi, per le occasioni mancate, per il non fatto:
"Ecco, appunto, il non fatto. Ho impiegato più di settant'anni per capire che io sono lì, nel non fatto. La mia vera essenza, i desideri, l'energia e l'istinto sono conservati in tutto ciò che avrei voluto fare."
Tuttavia, meglio tardi che mai: quando Cesare conoscerà Emma, la giovane vicina di casa, percepirà subito quanto sia infelice, dai suoi gesti, dai suoi sguardi e soprattutto dalle contusioni e lesioni varie sul corpo. Perchè Emma vive con un uomo violento, manesco, ne è succube ma non vuole denunciarlo, perchè terrorizzata, per paura delle conseguenze.
Ecco è proprio questo, la paura del cambiamento, che spesso frena ed impedisce la ricerca della felicità.
Ogni scelta implica delle conseguenze, dei rischi ma la consapevolezza a posteriori di una scelta sbagliata è più sopportabile del rimorso per una scelta non fatta.
Emma diventa così preziosa per Cesare, gli darà occasione di scuotersi dal grigio torpore in cui sarebbe rimasto avviluppato negli ultimi anni della sua vita riscoprendo così l'ebbrezza della felicità, la serenità d'animo che nasce dalla certezza di non essere più solo dopo aver ricostruito il rapporto con i suoi figli, Sveva e Dante, prima che naufragasse nell'indifferenza reciproca e nell'apatia.
Lorenzo Marone confeziona una storia 'agrodolce' su una tematica che ricorre spesso in molti romanzi, una tematica che definirei paradossalmente 'immortale': la vecchiaia.
E tutto ciò che la vecchiaia si porta dietro: i bilanci di una vita in esaurimento, la sensazione sempre più pressante della morte in agguato, gli acchiacchi fisici e le notti insonni, il silenzio a volte soffocante di una casa vuota, la coscienza di appartenere ad un mondo che corre troppo in fretta e l'impossibilità di inseguirlo, destinati così a rimanere indietro, diventando ben presto solo un ricordo:
"La vista di quei poveri vecchietti fuori da scuola che fermano le auto, per esempio, mi fa rabbrividire. Sì, lo so, si rendono utili anzichè marcire su una poltrona, eppure non ci posso fare niente, un "nonno civico" per me è come un rullino fotografico, una cabina telefonica, un gettone, una videocassetta, oggetti di un tempo andato che non hanno più una vera funzione."
Ma si sente anche forte il desiderio di riscatto, il tentativo - più che la tentazione - di essere felici nonostante tutto, di guadagnarsi quegli ultimi momenti di gioia e serenità che solo l'altruismo e l'amore possono donare.
Marone affronta questi argomenti con ironia e sagace sarcasmo, rendendo la lettura molto leggera e scorrevole, complice anche la riuscita caratterizzazione dei personaggi, in primis Cesare, la cui innata simpatia tipica delle macchiette napoletane e la parvenza di vecchio burbero e cinico che nasconde invece un cuore generoso e bisognoso di affetto lo rendono subito di facile empatia col lettore.
Siamo quindi ben lontani dal pessimismo filosofico che aleggia in Everyman di Roth; piuttosto, la lettura di questo libro mi ha riportato alla mente le vicende e le parole di un altro nonnino, irriverente e politicamente scorretto: Barney Panofsky, protagonista de La versione di Barney di Mordecai Richler.
Un'assonanza tuttavia molto labile, essendo La versione di Barney sicuramente più articolato nella trama e più profondo nei contenuti rispetto al romanzo di Marone che spesso eccede nel sentimentalismo, quasi al limite della leziosità.
Per concludere, una perla di saggezza che terrò bene a mente per la mia vecchiaia:
"Una delle cose più belle della terza età è che puoi fare ciò che vuoi, tanto non ci sarà una quarta in cui pentirsi."
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Il sacro Graal dell'alpinismo mondiale
Reinhold Messner: credo non abbia bisogno di presentazioni e ritengo lo si possa considerare senza ombra di dubbio il più grande alpinista di tutti i tempi, protagonista di imprese titaniche al limite di ogni capacità umana e vissute sempre con incomparabile determinazione e con profondo rispetto del suo grande e maestoso rivale: la montagna.
Oltre ad essere l'unico alpinista, sinora, ad aver tentato e completato con successo la scalata dei '14 ottomila', ossia le 14 montagne che superano gli 8000 metri sul livello del mare, è l'unico ad averlo fatto con uno stile di arrampicata libera che prevede un equipaggiamento ridotto al minimo indispensabile, senza ossigeno supplementare, e spesso anche in solitaria: solo lui e la montagna, Davide contro Golia.
Ma probabilmente pochi sanno che Messner è anche scrittore, direi anche molto prolifico, avendo pubblicato più di cinquanta libri ovviamente tutti accomunati dalla sua grande passione per l'alpinismo di alta quota.
'La montagna nuda' risale al 2004 ed è forse il migliore tra i libri di Messner perchè lascia trasparire anche le debolezze di un uomo dalla tempra granitica, dalla personalità decisa ed irremovibile come la roccia su cui si arrampica.
Penso che la montagna sia talmente importante per Messner da rappresentare per lui non solo una sfida continua ma una vera e propria compagna di vita: è come se vivesse in simbiosi con la montagna, un legame indissolubile che ha forgiato il suo carattere più di quanto abbiano potuto fare le sue origini altoatesine.
E, chissà, forse anche per questo motivo i suoi libri trovano largo seguito solo tra gli appassionati del genere: non sono certo opere che brillano per la loro valenza letteraria, il suo stile di scrittura è sobrio, rigoroso, spesso farcito di tecnicismi che lo rendono quasi impersonale, freddo come l'aria in alta quota.
E' come quando un bambino scalpita dal desiderio di raccontare l'avventura straordinaria che ha appena vissuto e con le immagini ancora negli occhi cerca di descrivere quelle emozioni con parole che non riescono a seguire la velocità dei pensieri, dei ricordi che si susseguono nella mente: e il risultato è una sorta di cronaca accelerata, nomi di sentieri e pareti rocciose si alternano a nomi di compagni di scalata, campi base e piani di attacco mentre si procede giorno dopo giorno, passo dopo passo, verso la meta, e quanto più la vetta si avvicina tanto più il corpo sembra cedere stremato dalle condizioni ambientali proibitive.
Non sono romanzi quelli che scrive Messner, non c'è una trama da inventare o personaggi da costruire, sono diari di viaggio, scritti quasi di getto raccogliendo dalla memoria tutto ciò che è rimasto impresso di quei giorni trascorsi al di sopra delle nuvole, a pochi passi dal cielo.
Tuttavia, 'La montagna nuda' si distingue dagli altri libri di Messner perchè stavolta non è solo il grande alpinista che ci racconta la sua ennesima vittoria contro la montagna ma c'è anche l'uomo Messner che su quella montagna perde il fratello, il suo compagno di cordata e l'uomo con cui sin da piccolo aveva condiviso la passione smisurata per l'alpinismo.
"La traversata del Nanga Parbat nel 1970, da sud a nord-ovest, è stato per me molto più che un passaggio in senso geografico. E' stato come il superamento del confine, dall'al di qua all'al di là, dalla vita alla morte, dalla morte alla vita."
Il Nanga Parbat, 8125 metri sul livello del mare, 'il sacro Graal dell'alpinismo mondiale', chiamato con diversi nomi tra cui la Regina delle montagne o la montagna del destino, a causa della sorte tragica di coloro che ne avevano tentato la scalata; persino le popolazioni indigene che popolano le sue valli ritengono sia la sede di divinità maligne ed ostili all'uomo.
Ma come dirà Reinhold: 'se è diventata la montagna del destino, non è perchè sia dominata da un demone, ma perchè è infinitamente più grande di noi uomini'.
Nel maggio del 1970, Reinhold Messner e suo fratello Günther vengono convocati insieme ad altri alpinisti di grande esperienza per la spedizione al Nanga Parbat organizzata dal tedesco Karl Maria Herrligkoffer.
L'obiettivo è quello di raggiungere la vetta attraverso la parete Rupal, sino ad allora inviolata.
Una parete rocciosa che impressiona anche solo guardarla nella foto di copertina. Ecco come la descrive Messner:
"La parete Rupal! Bisogna immaginarsela: la parete est del monte Rosa con sopra la parete nord dell'Eiger e piazzato sopra tutto il Cervino. La parete Rupal non è immaginabile, non lo è per quelli che non l'hanno vista! Fin dall'inizio questo versante gigantesco ha impressionato tutti coloro che gli sono arrivati vicino."
Dopo diversi giorni di preparativi, resi estenuanti a causa delle avverse condizioni atmosferiche che non consentivano l'inizio della scalata partendo dall'ultimo campo base allestito ad oltre 7000 metri, fu proprio Reinhold che a pochi giorni dall'ultima data utile prima del rientro della spedizione decise di iniziare l'impresa in solitaria, essendo il più esperto tra i suoi compagni.
Gunther, tuttavia, animato dalla stessa risolutezza del fratello, riuscì a raggiungerlo percorrendo in sole quattro ore la via che Reinhold aveva aperto, potendo così stringergli la mano mentre entrambi gioivano per quella strepitosa meta conquistata: la vetta del Nanga Parbat.
E sono rimasto meravigliato per le poche parole, poche righe, che Messner ha dedicato alla descrizione di quel momento, l'unico istante di esultanza e felicità, rispetto alle pagine seguenti del libro in cui l'autore rivive con minuzia di particolari le difficoltà incontrate dai due fratelli nella discesa della parete, la scelta obbligata ma poco prudente di un percorso alternativo sul versante Diamir che ha vanificato ogni tentativo di soccorso da parte degli altri componenti della spedizione, sino al tragico epilogo con la morte di Gunther sepolto da una valanga di neve.
Sono pagine che si leggono con trepidazione, impossibile non percepire la sofferenza patita prima per il freddo, per la mancanza di aria, per la progressiva ipotermia che rendeva arduo ogni minimo movimento, poi la disperazione, il senso di smarrimento, la paura di rimanere abbandonati nella sconfinata solitudine di quella parete di ghiaccio e roccia.
E quando sembrava che quell'incubo fosse finito, quando la via del ritorno sembrava più vicina, più raggiungibile, ecco la consapevolezza di aver perso il fratello.
Reinhold, con i piedi ormai congelati (gli verranno poi amputate sette dita), in preda ad allucinazioni e quasi completamente disidratato, riuscì a salvarsi miracolosamente grazie all'aiuto di alcuni indigeni, appena giunto nella vallata ai piedi del versante Diamir.
Tralasciando le varie polemiche che hanno preceduto la pubblicazione di questo libro e le accuse infamanti che taluni hanno rivolto a Messner colpevolizzandolo di aver sacrificato il fratello spinto dall'ambizione personale e dalla volontà di portare a termine quell'impresa ad ogni costo, non posso che rimanere affascinato dal coraggio e dalla fermezza di quest'uomo che sembra voler arrendersi solo dinanzi alla morte.
Sono molto intense le pagine finali del libro, quelle che descrivono la tragica discesa lungo il versante Diamir, e la descrizione di quei momenti è così sofferta che è inevitabile divenire partecipi di quel disagio fisico e mentale, la coscienza di aver raggiunto il limite delle proprie possibilità, uno stato di precario equilibrio tra la vita e la morte così accentuato da percepire una parte di sè che si estranea dal corpo stremato e lo osserva dall'alto mentre arranca nella neve, strisciando, centimetro dopo centimetro.
E tutto ciò in totale solitudine, su un paesaggio che di terrestre ha ben poco, senza colori se non il bianco e il nero, bianco per la neve e nero per l'oscurità che avvolge la vista quando la nebbia si dirada da quella gigantesca parete rocciosa mostrando il vuoto assoluto:
"Ogni risveglio è come uno sguardo in una profondità senza fine: sotto di noi, come un risucchio, un'unica parete a strapiombo. Che baratro!"
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Un altro Gesù
Meglio chiarirlo subito: Gesù non è il protagonista di questo nuovo romanzo di J.M. Coetzee, o perlomeno non direttamente.
Come già nel precedente romanzo dello stesso autore, L'infanzia di Gesù, il bambino che ritroviamo ora in età scolare si chiama David, mentre Simon ed Ines sono i suoi genitori o, meglio, i suoi tutori poichè David non è nato dalla loro unione: 'Ma io sono nato dalla pancia di Ines?'
Tuttavia, credo che proprio nel titolo, in particolar modo nel riferimento al nome di Gesù, sia la chiave di lettura di questo romanzo che definire sibillino sarebbe poco: se si leggesse d'un fiato, senza ragionare, senza soffermarsi sui dialoghi cercando di scovare possibili allusioni, questo libro potrebbe deludere tante aspettative.
E probabilmente se non fosse stato scritto da Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, sarebbe passato inosservato e pochi avrebbero tentato lo sforzo mentale necessario per cogliere un messaggio, un significato più profondo tra le pagine del libro.
Ammesso che esso esista, poichè nessuno potrà confermare se esatta o meno la personale interpretazione che ciascun lettore potrà costruirsi (se non l'autore che dubito, però, potrà mai intervenire in soccorso).
A coloro che decidessero di intraprendere questa lettura suggerisco, quindi, di non lasciarsi sopraffare dalla sensazione di smarrimento, confusione e incertezza che vi attanaglierà dalla prima pagina sino all'ultima: a fronte di uno stile di scrittura essenziale, ridotto ai minimi termini ma assolutamente limpido, pulito, si percepisce sin da subito e quasi a contrasto la presenza, seppur sfuggevole, di un contenuto rilevante e di maggior spessore, mascherato da allegorie la cui esegesi è comunque soggettiva e non sempre immediata.
In quest'ottica, allora, la lettura del romanzo di Coetzee può risultare più interessante.
Personalmente, come accennato prima, ritengo fondamentale il suggerimento presente nel titolo, ossia il binomo Gesù-David che aleggia per tutto il romanzo.
D'altro canto, afferma Simon a proposito del piccolo David: 'i nomi non sono importanti, sono semplicemente una comodità, proprio come i numeri sono una comodità. Non c'è nulla di misterioso. Il ragazzo di cui stiamo parlando potrebbe anche chiamarsi sessantasei ed io novantanove. Sessantasei e novantanove avrebbero funzionato altrettanto bene, come David e Simon, una volta che ci fossimo abituati. Non ho mai capito perchè il bambino che ora chiamo David trovi i nomi tanto importanti, il suo nome in particolare'.
Il bambino, infatti, sa con certezza che David non è il suo vero nome e lo rimarca sempre ogni qual volta si presenta a qualcuno: 'Non è il mio vero nome'. Così come sottolinea sempre che Simon e Ines non sono i suoi veri genitori.
Simon infatti aveva conosciuto il piccolo David su una nave mentre sbarcava nella città ignota di Novilla e, pensando che si fosse smarrito, lo aveva accompagnato e guidato alla ricerca della madre, incrociando poi sulla propria strada Ines che a parere di Simon poteva essere la madre del bambino, pur non avendola mai vista.
Quindi un padre ed una madre per David scelti per caso e dal caso a Novilla. Come a Betlemme.
E nessuno di loro ricorda esattamente chi fosse e cosa facesse prima di giungere a Novilla su quella barca, hanno coscienza di una vita precedente a quella attuale, un'esistenza di cui però non portano alcuna memoria, se non la certezza che ci sia stata e che sia terminata prima del loro arrivo in barca in quella città:
"Varcare l'oceano su una barca lava via ogni ricordo e tu cominci una vita tutta nuova. E' così. Non c'è passato. Non c'è storia. La barca attracca al molo e noi scendiamo giù per la passerella e ci troviamo immersi nel qui e ora. Comincia il tempo. Cominciano a ticchettare gli orologi."
In un certo senso, David diventa un altro Gesù, profeta di una filosofia, di una teoria sull'esistenza umana che non può essere dimostrata ma solo accettata, come fosse una nuova fede religiosa.
Le analogie sono tante: come infatti non riconoscere nella spiccata intelligenza di David, nel suo acume fuori dal comune che lo porta a rifiutare i metodi di insegnamento classici della scuola pubblica, la stessa straordinarietà di Gesù quando dibatteva con i dotti del tempio? E lo stupore di Maria e Giuseppe dinanzi a quel comportamento così anomalo per un bambino non è forse lo stesso provato da Simon e Ines?
O come non riconoscere in Simon e Ines, quando decidono di abbandonare Novilla per evitare che David sia rinchiuso in un centro correzionale, la stessa premura di Giuseppe e Maria quando portano in salvo Gesù appena nato dalle ire di Erode?
E infine l'atteggiamento pietoso e comprensivo di David verso Dmitri, inserviente presso l'Accademia di danza e colpevole dell'assassinio della splendida maestra Ana Magdalena di cui era follemente innamorato, non è simile al comportamento così poco convenzionale e rivoluzionario di Gesù quando parla e porta conforto alla donna peccatrice e samaritana, facendo emergere un'ideale di giustizia e un metro di giudizio ben lontano da quello degli uomini?
Ma allora cosa vuole dirci Coetzee? Qual è il suo messaggio? La mia risposta è: ci chiede un atto di fede, un altro atto di fede, coraggioso e radicale come quello richiesto da Gesù ai suoi discepoli, quando ha proposto loro di dimenticare il passato, abbandonare tutto e tutti, anche la famiglia, per seguire lui iniziando una nuova vita in Dio.
E se siamo capaci di credere al Vangelo, se siamo capaci di interpretare le sacre scritture ed affidarci alla visione cristiana del mondo, perchè non accettarne un'altra, diversa ma forse simile nella sua astrattezza?
"Dal giorno in cui arriviamo in questa vita, ci lasciamo alle spalle l'esistenza precedente. La dimentichiamo ma non del tutto. Della nostra esistenza prededente ci rimangono delle tracce, non ricordi nel senso comune della parola ma quelle che potremmo chiamare ombre di ricordi. Poi, man mano che ci abituiamo alla nostra nuova vita, anche quelle ombre svaniscono fino a che non dimentichiamo del tutto da dove veniamo e accettiamo quella che vedono i nostri occhi come l'unica vita esistente. Il bambino, però, il bambino piccolo, porta ancora in sè l'impressione profonda di una vita precedente, ricordi di ombre che non ha parole per dire. E le parole gli mancano perchè, insieme al mondo che abbiamo perso, abbiamo perso anche la lingua capace di rievocarlo."
Questa concezione trascendente dell'esistenza umana, di ispirazione neoplatonica, che si pone come obiettivo il raggiungimento di un più alto livello di spiritualità per l'uomo, anche grazie alla pratica di arti nobili come la musica e la danza, viene enfatizzata dall'atmosfera quasi surreale che permea tra le pagine del romanzo.
Molte sono le domande, i dubbi sollevati dal piccolo David che coinvolgono ad ampio spettro vari aspetti della vita umana, la nascita, la famiglia, l'amore, la giustizia, la morte.
Tanti perchè a cui Simon, la sua guida, ancorato ad una visione sensibile e razionale della realtà, fornisce una risposta spesso evasiva e comunque insoddisfacente che l'autore rende ancor più misera e poco apprezzabile riferendosi a Simon sempre con un 'lui' - dice lui, Simon - accentuando così l'incertezza e la pochezza delle sue affermazioni.
Un monito, quasi, per chi si avvicina a questo romanzo rigido nelle proprie idee e con una mentalità poco aperta a nuovi orizzonti; occorre elevare la propria anima per entrare in sintonia con la musica dell'universo, e danzarla, come farà Simon:
'Lui obbedisce. Fa fresco nella sala; lui sente lo spazio, alto sopra la sua testa. C'è solo la musica. Braccia tese, occhi chiusi, ondeggia in un lento cerchio. All'orizzonte comincia a sorgere la prima stella.'
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Un amore senza .. lieto.. fine
Un titolo che suona come una chimera: amore senza fine, amore eterno. Anelito di ogni coppia in stato embrionale, si alimenta di speranza, cresce e sembra irrobustirsi nel tempo, forgiato dal fuoco della passione e dall'intesa reciproca sembra farsi beffa del tempo, sembra destinato ad un futuro di radiosa complicità. L'amore, 'ponte tra il tempo e l'eternità'.
Ma quanti riescono a percorrere questo ponte prima che crolli?
Quanti possono realmente testimoniare l'eternità di un sentimento che si nutre soprattutto di desiderio e di attrazione sessuale che di eterno hanno ben poco, anzi sono fin troppo soggetti alla volubilità dell'indole umana e alla casualità degli eventi.
E l'amore, privato di questa componente più caduca, può ancora definirsi amore? O si eleva ad una forma più pura, più consapevole, quasi più razionale direi, e quindi più duratura e stabile, seppur sacrificando parte della sua natura?
Al contrario, l'amore potrebbe anche degenerare, diventare ossessione, follia ed esigere così una prerogativa di eternità che diventa una pretesa, un obbligo imposto in modo quasi sempre unilaterale.
E il confine che separa l'amore dalla follia è talmente labile, così poco marcato che ogni gesto, anche il più estremo, assume agli occhi di chi lo vive una parvenza di normalità, un atto di legittima difesa verso chiunque minacci la solidità di tale sentimento.
David ha poco più di 17 anni, vive con i suoi genitori Arthur e Rose, fervidi attivisti di sinistra nella Chicago degli anni '60 e lo conosciamo nelle prime pagine del romanzo nascosto tra le siepi intorno alla dimora della famiglia Butterfield.
Una famiglia così diversa dalla sua e con cui riesce a sentirsi a proprio agio non solo per la presenza di Jade, la sua ragazza, ma anche per l'affiatamento raggiunto con gli altri componenti della famiglia, in particolare i fratelli di Jade e sua madre, Ann, con cui spesso ama intrattenersi.
Una famiglia aperta al dialogo, anticonvenzionale, hippy si potrebbe definire, a contatto con la quale David prova un senso di appagamento mai percepito prima, per la libertà con cui può esprimersi e, soprattutto, perchè viene ascoltato, per la prima volta qualcuno prova interesse per le sue opinioni.
Tutto ciò pensa David mentre, accucciato tra le siepi del giardino, medita di dar fuoco alla casa dei Butterfield: ora che è divenuto praticamente parte integrante della famiglia Butterfield, non può accettare la decisione di Hugh, padre di Jade, di allontanarlo dalla casa e dalla figlia per almeno un mese.
Come possono negargli ora la possibilità di incontrare Jade dopo che loro stessi lo hanno accolto in casa offrendogli anche la possibilità di dormire con lei, nello stesso letto?
Nessuno, neanche loro quindi comprendono quanto grande sia il suo amore per Jade e crudele ed insensato quel divieto?
Sulle fiamme che divorano la casa dei Butterfield prenderà così vita il romanzo di Spencer e l'autore sarà abile (complice anche una pregiata opera di traduzione) nel ricostruire con minuziosa dovizia di particolari la storia di un amore, quello tra David e Jade, nato tra le mura di quella casa ormai incenerita e poi sopravvissuto caparbiamente agli eventi che ne sono scaturiti: la reclusione di David in un ospedale psichiatrico a Rockville dopo la sua ammissione di colpevolezza, la disgregazione della famiglia Butterfield dopo l'incendio (come se la loro dimora fosse stata anche il loro collante) con la separazione tra Hugh e Ann mentre i figli seguono ciascuno la propria strada e carriera universitaria, la crisi nel rapporto tra i genitori di David, incapaci di affrontare il dolore e la vergogna per la sorte del figlio.
Supererà tutto ciò David, il tempo passa ma il suo amore per Jade rimane inalterato nonostante la separazione forzata, anzi acquista vigore, un'aura di indissolubilità che forse neanche la vicinanza di Jade avrebbe potuto conferirgli.
"Se essere innamorati vuol dire trovarsi improvvisamente uniti con la parte più disordinata ed oltraggiosamente viva di sè, allora questo stato di acuta sensibilità non si assopì in me dopo un certo lasso di tempo come invece dicono che succede in altri."
L'urgenza di questo sentimento diventa più forte del sentimento stesso, rivedere Jade, riabbracciarla, baciarla diventa l'unica priorità della sua vita e la speranza che ciò possa accadere lo spinge a rischiare tutto, violando persino le regole imposte dalla libertà vigilata.
"Se l'amore senza fine era un sogno, allora noi tutti lo condividevamo, ancor più di quanto potessimo condividere il sogno di essere immortali o di riuscire a viaggiare nel tempo, e se qualcosa mi differenziava da tutti gli altri non erano i miei impulsi bensì la mia testardaggine, la mia disponibilità a portare il sogno oltre quei limiti che erano stati concordati come ragionevoli, a dichiarare che quel sogno non era un delirio della mente ma una realtà altrettanto tangibile dell'altra più tenue, più infelice illusione che chiamiamo vita quotidiana."
Ed è impressionante come Spencer riesca a trasferire al lettore l'angoscia di questa situazione, non sono gli stati d'animo dei personaggi che emergono con l'evolversi della trama bensì al contrario gli eventi della vicenda si delineano come conseguenza del tumulto interiore dei personaggi, della loro personalità, dei loro sentimenti.
Se nelle prime pagine del romanzo poteva sembrare assurdo, inspiegabile più che folle, il gesto disperato di David, ossia l'incendio della casa, con lo scorrere dei capitoli quel gesto viene rivelato in tutta la sua essenza, genesi e successiva mutazione, viene sviscerato e scandagliato a fondo portando alla luce i molteplici fattori che lo hanno originato.
Non si tratta quindi di una semplice storia d'amore; o meglio, quella che poteva essere una relazione tra ragazzi come tante altre, si sviluppa e degenera per una serie di fattori e cause esterne che l'autore riesce a descrivere magistralmente con un linguaggio ricco di metafore ed efficace nel trasmettere al lettore lo stato d'animo dei due ragazzi.
Si potrà così subito percepire il ruolo cruciale e determinante assunto dalle due famiglie, anche se indirettamente, nel rapporto tra David e Jade.
Da una parte Jade sembra abbandonarsi a tale rapporto quasi per ribellione verso l'atteggiamento troppo permissivo ed emancipato dei suoi genitori, così lontani dall'immagine classica e più rassicurante del padre e della madre; trapela persino una velata forma di gelosia, peraltro giustificata, di Jade nei confronti della madre a causa del suo rapporto quasi morboso verso David.
D'altro canto, David sembra vivere in questo modo una rivalsa contro la rigidità dell'educazione ricevuta in famiglia e riflessa anche in un'aridità di sentimenti nei suoi confronti; tanto da poter persino comprendere ed incoraggiare suo padre quando scoprirà il suo amore verso un'altra donna.
"Non avevo alcuna ansia di condividere i segreti del suo cuore affamato. Arthur naturalmente non mi aveva mai detto che la sua capacità d'amore gli era rimasta dentro intoccata, rannicchiata in lui, riassorbita dal suo corpo e trasformata in pancia, che l'intruso amore gli aveva appiattito i piedi e ingrigito i capelli, ispessito la voce e gonfiato le nocche, che l'aveva trasformato in un pignolo scherzoso, in uno che sospirava, che lacrimava al cinema, in uno dei tanti, in uno dei troppi, tutto questo non me l'aveva mai detto, però ci avevo sempre creduto e sin dall'istante in cui avevo percepito le prime avvisaglie dell'amore avevo pianto la rinuncia di Arthur."
Anche il sesso, realisticamente ed inequivocabilmente elemento imprescindibile di ogni relazione adolescenziale, assume la dovuta importanza e riveste un ruolo fondamentale nel rapporto tra David e Jade ma non ne rappresenta il fulcro. Ed ancora è bravo l'autore nel far trapelare questa impressione a chi legge, mitigando l'istintivo ed irrefrenabile desiderio sessuale dei due amanti rispetto a quella condizione altrettanto comune di smarrimento, di gioiosa, ebbra confusione:
"Allora capii che ero entrato a far parte della vasta comunità dei condannati, uomini e donne: l'amore s'era contorto in me precipitandomi in un caos."
E quando il sesso diventa protagonista, l'autore non lascia parlare solo i corpi dei due amanti ma soprattutto l'anima, il loro cuore. Esemplare da questo punto di vista è il racconto del loro incontro in una camera di hotel a New York: senza scadere nella volgarità, Spencer descrive il turbinio di emozioni vissute da David quando finalmente può avere Jade accanto nel suo letto. Non osa ancora toccarla, perchè teme la sua reazione dopo tanti anni di lontananza e nonostante tutte le volte che hanno fatto l'amore insieme prima che si separassero.
La descrizione di questi momenti che si prolunga per diverse pagine con un linguaggio estremamente 'sensuale', carnale, è un'ulteriore dimostrazione della bravura di questo autore: i tentennamenti di David, le sue mani che si avvicinano timide al corpo di lei, cercando un contatto casuale, sperando in un movimento che possa sfiorarle, il respiro che diventa sempre più veloce tradendo così il tentativo di fingersi addormentato, i pensieri che si affollano nella sua mente e che urlano all'unisono 'Ti prego, voltati' nell'assurda speranza che lei possa sentirli, e poi i piedi che si toccano, prima impercettibilmente poi volutamente, trascinando le gambe destinate inevitabilmente ad incrociarsi.
Credo che difficilmente sensazioni come queste possano essere trascritte meglio su un libro, pur rimanendo vivide ed intense come fossero reali.
Sulla fine di questo amore non mi esprimo oltre, credo sia giusto lasciare ad ognuno la propria interpretazione.
Di sicuro però una fine c'è, e non è un lieto fine. Destino crudele di ogni grande amore.
"Non c'è orchestra, nè pubblico; c'è un teatro vuoto nel mezzo della notte e tutti gli orologi del mondo stanno scandendo. E adesso per l'ultima volta, Jade, non m'importa nè domando se sia pazzia: io vedo il tuo volto, ti vedo, ti vedo, in ogni posto ti vedo."
Una citazione:
"Le uniche cose che rimpiango, le sole che rimpiangerò sempre sono quelle che non ho fatto. Alla fin fine è solo questo che lamentiamo. I sentieri che non abbiamo percorso. Le persone che non abbiamo toccato."
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Il mondo ti ha perso, il mondo non ti vede..
Nuovo romanzo per la giovane ma promettente scrittrice milanese Chiara Panzuti, Il gioco dei quattro si presenta come il primo capitolo della trilogia Absence.
Assenza, come sinonimo di invisibilità, di non percezione fisica e visiva: 'ma assenza fisica non vuol dire mancanza'.
Lo capiranno poco alla volta quattro giovani ragazzi londinesi che improvvisamente e senza la minima consapevolezza di quanto stia accadendo vengono letteralmente cancellati dal mondo e dalla vita che conducevano sino a quel momento.
E' come se qualcuno fosse riuscito non solo a renderli invisibili agli occhi della gente ma fosse stato anche capace di rimuoverli dalla memoria delle persone con cui erano a più stretto contatto, genitori, amici, fratelli, eliminando persino i loro account sui vari social network.
Tutto rimosso, quattro vite annullate più che scomparse. Perché la scomparsa di una persona non ne rimuove il ricordo o le immagini dei momenti trascorsi insieme.
Invece per Faith, Christabel, Scott e Jared è come se qualcuno si fosse preoccupato di colmare il vuoto generato dalla loro assenza in modo che essa non fosse percepibile dall'esterno: l'effetto è paragonabile a quello di una buca scavata con le mani nella sabbia, quando tutta la sabbia rimossa viene quasi istantaneamente sostituita da quella circostante che cadendo ricopre la cavità sino a rendere impercettibile il vuoto creato prima.
I quattro ragazzi si renderanno conto ben presto di essere stati coinvolti contro la loro volontà in una trama, in un meccanismo perverso che non riescono a comprendere pienamente perché ci sono ancora tante domande a cui non sono in grado di dare una risposta.
Ma di certo qualcuno ha fatto in modo che si incontrassero e che formassero una squadra, qualcuno tramite potenti tecnologie ha organizzato tutto quanto prevedendo persino le loro mosse e li sta muovendo come pedine in un gioco mortale costringendoli a seguire indizi sparsi per il mondo pur di avvicinarsi alla verità.
Non è necessario svelare oltre la trama per riconoscere in questo romanzo i connotati tipici di un genere che negli ultimi cinque anni ha riscontrato un grande favore di pubblico e di critica, sull'onda del successo conquistato da alcuni titoli divenuti ben presto best seller, come la saga di Harry Potter sino ai più recenti Hunger Games, Maze Runner, Divergent tanto osannati dai lettori da indurre investimenti milionari per la loro trasposizione cinematografica.
E' il genere noto come YA, young adult, rivolto appunto a giovani adulti, ragazzi ormai cresciuti per le favole da bambini ma ancora troppo acerbi per una letteratura più impegnativa.
Seppure ambientato nel presente e non in un mondo futuristico, anche il romanzo di Chiara Panzuti propone una visione distopica della società moderna, puntando il dito contro la progressiva ed inarrestabile alienazione dell'uomo, succube e schiavo della tecnologia, ormai incapace di farne a meno, incapace di osservare e di vedere oltre lo schermo di un pc o di uno smartphone.
"Occhi reali, capaci di vedere il mondo reale, non lo osservavano più. Vagavano distratti, rapiti da schermi che proiettavano solo il già visto."
Forse Faith ed i suoi amici erano già invisibili, quattro vite in perenne disagio: Faith costretta a seguire la madre nei suoi continui cambi di residenza dopo il divorzio, Jared orfano ed affidato col fratello ad una coppia che difficilmente potrà mai accettarlo come un figlio, Christabel e Scott che cercano ciascuno a suo modo di nascondere la propria solitudine interiore, Christabel col nuoto e Scott mostrandosi spavaldo e sfrontato con le ragazze.
Sono ombre confuse e prive di identità in una società affetta da distrazione di massa, noia, ripetitività: granelli di sabbia la cui assenza non sarebbe stata neanche percepita perchè subito colmata dalla dilagante indifferenza ed apatia della sabbia circostante.
Paradossalmente l'invisibilità fisica consentirà ai quattro ragazzi di vedere meglio se stessi, consentirà loro di estraniarsi da un mondo che non li vede per acquisire coscienza di sé e dei propri sentimenti.
Con uno stile fluido, essenziale e diretto, in perfetta sintonia col target adolescenziale a cui è rivolto, il romanzo di Chiara Panzuti è stato una piacevole sorpresa, peraltro tutta italiana, in un panorama dominato da autori inglesi ed americani.
E pur non essendo da tempo (ahime!) uno young adult, così come riconosco di aver amato e parteggiato con ardore da teenager per Katniss Everdeen nei suoi Hunger Games, allo stesso modo non nascondo l'intenzione di completare la lettura della trilogia Absence, convinto che l'autrice saprà dare degno prosieguo alla saga.
"Se il mondo non mi voleva, sarei stata ombra, se il mondo non mi vedeva, sarei stata assenza. Invisibilità, silenzio, morte. Sarei stata la solitudine, la vera solitudine, quella che cerchiamo di zittire distraendo le nostre menti con ogni mezzo possibile."
Che strano prete che sono...
Quasi per contrappasso dantesco, o per beffardo avverarsi del titolo profetico se non addirittura, come taluni sostengono, per volontaria e cinica orchestrazione commerciale, è lo stesso libro di Walter Siti che cade nel rogo della pubblica condanna.
Capo d'imputazione: uso scorretto ed improprio della letteratura resa complice di un tentativo di indulgenza e cristiana tolleranza verso un peccato (e relativo peccatore) universalmente considerato, e a ragione, il più abietto e deplorevole per la natura umana: la pedofilia.
"Il desiderio erotico di cui qui si parla è, più ancora dell'incesto, l'assoluto tabù della nostra epoca; sacrilego per definizione, basta accennarvi per sentirsi sporchi, basta che qualcuno ne sia portatore perchè lo si consideri un rifiuto dell'umanità, un'abietta carogna da condannare senza appello, un capro espiatorio di tutte le nequizie."
Un tema scottante, quindi. Anzi ardente sarebbe il termine adatto.
Le fiamme della dannazione eterna bruciano l'anima del pedofilo e quelle della giustizia terrena inceneriscono la coscienza di chi si macchia di questo orribile reato.
Tanto più se il male s'incarna in un sacerdote, nel rappresentante cioè di una chiesa che fa proprio della lotta al male e a tutte le sue manifestazioni il cardine della propria essenza e del proprio potere spirituale, sin dall'antico tempo della caccia alle streghe.
E don Leo, parroco come tanti di uno dei tanti borghi milanesi, ne è lucidamente consapevole: quanto vorrebbe poter guardare con occhi diversi quei ragazzini che giocano a calcio nel suo oratorio, gioire con loro e rendersi partecipe e guida della loro innocente gioventù: un buon pastore dovrebbe essere per il suo gregge, e non il lupo.
E poco importa se il lupo si sia manifestato una sola volta e quando era ancora ragazzo, quando ancora non indossava l'abito talare con le sue contraddizioni e dissidi interiori.
Anzi quella scelta ne fu proprio la diretta conseguenza:
"La combattuta decisione del seminario fu insieme un gesto di coraggio e una trincea: tu Dio m'hai messo in questa difficoltà ed io ti sfido correndoti tra le braccia. 'Non permetterai che io sia tentato al di sopra delle mie forze'."
A mio parere, è questa sfida impari tra uomo e Dio la vera chiave di lettura del libro di Siti: Leo diventa don Leo nel disperato tentativo di abbreviare le distanze tra lui e Dio, ma rimane solo con le sue domande senza risposta, perennemente in bilico tra ragione e amore, tra etica e carità.
Il romanzo di Siti è stato ormai additato come il libro 'sul' prete pedofilo e, chissà, forse anche come il libro 'di' un pedofilo per quella spontanea sovrapposizione in un romanzo della prima e terza persona che tende ad intrecciare ed amalgamare in un tutt'uno autore e protagonista.
Sinceramente, però, mi sembra un giudizio alquanto riduttivo e superficiale: è come se l'innegabile ripugnanza, il nauseante ribrezzo che scaturisce dalla lettura di alcune pagine del romanzo contaminasse l'opinione del lettore focalizzandola sull'aspetto sicuramente più turpe della vita di don Leo e mettendo in secondo piano, anzi oscurando completamente, tutto il resto.
E il resto è qualcosa che va ben oltre il peccato, bensì è il conflitto interiore, profondo, intimo, di cui quel peccato ne è testimonianza ed inevitabile conseguenza.
Ma non si cerca perdono, non si pretende una pena ridotta: c'è assoluta coscienza e consapevolezza della propria ossessione, ciò che tormenta don Leo è il silenzio del suo Dio, l'assenza di risposte alle sue domande, ai suoi dubbi.
E se i suoi dubbi diventano eretici non è per mancanza di fede ma per impiego di intelligenza: a meno che Dio non rinneghi tale dono, come potrebbe l'uomo esimersi dal ragionare, riflettere sulla propria vita e sulle contraddizioni della società in cui vive.
"I deboli di mente sono il prossimo più pregiato, la selvaggina più ambita dal cacciatore Gesù. A che serve leggere tanto, economia storia poesia? L'intelligenza è nemica della fede."
Don Leo è avido di sapere, in assenza di un confronto, di un dialogo i suoi interrogativi si trasformano in teorie, in verità soggettive:
"Dio è amore": si, ma che tipo di amore?
La Chiesa ha sempre l'amore in bocca ma è un ombrello ambiguo che non ripara nei nubifragi; Dio non lecca, non bacia, non ha un corpo da penetrare e da cui essere penetrati.
Amare Dio è l'unico metodo per disfarsi, senza dolore, di se stessi: più la carne si sacrifica, più si apre alla luce. Ma i nervi, il tremito, la differenza di potenziale, la scossa? Nessuna reazione chimica celeste m'ha convinto e trasformato. Ho sete del mio male, Signore: ti sei donato a me ma non ti sento."
Don Leo sa che il suo amore è sbagliato, è contro Dio ma anche contro gli uomini, contro la morale: è un'ossessione che non gli lascia via di scampo perchè assecondarla significherebbe essere dannato da Dio e dagli uomini.
Quasi invidia don Fermo, l'altro sacerdote con cui divide la guida della parrocchia, per la rassegnata ma al tempo stesso serena colpevolezza con cui vive la sua relazione clandestina con la perpetua e rimane invece disgustato e terrorizzato dal sacerdote a cui confessa il suo male nella speranza di ottenere un minimo sollievo per la sua anima ed invece ottiene solo consigli sordidi e rivoltanti su come rendere più appagante il sesso con un bambino.
Morbosità? No, la pedofilia esiste purtroppo, è reale, fin troppo nascosta e spesso occultata anche dalla chiesa, per questo credo sia sempre giusto parlarne e scriverne, è un male che va portato alla luce e non sotterrato.
E nel romanzo di Siti io leggo condanna, non leggo indulgenza: è il peccatore che riconosce il suo male e vuole debellarlo, sconfiggerlo.
Non lo sottovaluta bensì cerca di combatterlo con l'unica arma di cui dispone: la fede in Dio, la carità cristiana e l'amore verso il prossimo, verso i migranti e gli extra-comunitari, i poveri del nuovo millennio, un amore che dev'essere più forte del suo amore malato.
E quando quel Dio gli metterà sulla strada il piccolo Andrea, abbandonato a se stesso da un padre ed una madre persi nel loro egoismo e nell'odio reciproco, don Leo quasi esulterà per la sua personale vittoria, per essere riuscito a dare al suo amore verso Andrea la giusta dimensione dell'affetto, dell'amicizia e della protezione quasi paterna.
Ma quel Dio è bizzarro, sembra si diverta a metterlo in crisi, come fece con Abramo ordinandogli di uccidere suo figlio; questa volta però non c'è nessun angelo a salvare l'innocente.
E' proprio vero allora, pensa don Leo:
"Dio vuole tutto o niente.. solo allora ti sentirai in pace, quando non avrai più niente.. Dio non si accontenta del qualcosa."
La disperazione non ha più argini nel suo cuore e sfocia con tutto il suo impeto:
"La mia croce era resistere alla natura e adesso che fai, mi togli la croce da sotto il culo? dici e disdici, non sai nemmeno tu quello che vuoi, ma che cazzo di onnipotente sei? un cretino indeciso che si fa chiamare dio".
E l'unica soluzione, l'unica alternativa possibile è bruciare, bruciare tutto.
Sorretto da una prosa incalzante e da uno sguardo lucido ed attento che scandaglia l'animo umano in profondità, il romanzo di Siti merita a mio parere di essere letto e giudicato di conseguenza sulla base della propria opinione ed interpretazione personale e non su quella di critici e benpensanti che spesso inneggiano allo scandalo per scopi propagandistici.
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Ognuno ha bisogno di raccontare e di raccontarsi
"Ognuno ha bisogno di raccontare e di essere raccontato".
Questa frase che chiude il romanzo di Perissinotto ne rappresenta anche la chiave di lettura: Coordinate d'Oriente è il racconto di una storia che ha come protagonista Pietro Fogliatti, ingegnere ed imprenditore torinese.
Chi ce la descrive è un professore universitario che l'ha scoperta per caso, sfogliando i compiti consegnati dai suoi studenti con l'obiettivo di intervistare qualcuno con un'esperienza lavorativa interessante da raccontare.
E ne rimane affascinato perchè è una storia esemplare, positiva pur nella sua drammaticità, la rivalsa di un uomo che ha saputo reagire ad un destino beffardo che lo ha privato del suo bene più prezioso offrendogli però la possibilità di trasformare quella perdita nella realizzazione di un sogno, un Grande Sogno, quasi un'utopia.
Una storia ricca di insegnamenti e di umanità, un'umanità variegata e poliedrica come quella che popola le strade e gli edifici di Shangai dove Pietro Fogliatti si trasferisce per concretizzare il suo sogno che non è solo frutto di un'ambizione personale ma un tentativo di riscatto, di rinascita, la volontà di una svolta radicale nella sua vita.
E il professore non può fare a meno di rivivere in prima persona quel racconto, seguendo le tracce di Pietro lasciate nel compito della sua allieva, le coordinate geografiche e temporali che rappresentano punti precisi nella mappa della sua vita, quasi fosse una caccia al tesoro in cui ogni indizio scoperto, ogni coordinata raggiunta consente di avvicinarsi alla verità.
Una verità tanto bella da sembrare quasi straordinaria, impossibile:
"Se sono qui, a cercare quell'uomo, è perchè quando ti raccontano una storia, la sola cosa che ti interessa veramente è sapere come va a finire. Poi però si aggiunge un tarlo diverso, una strana frenesia di sapere quanto ci sia di vero in tutto quello che ti hanno detto. E' quella frenesia che mi trascina qui, in Cina."
Poco conta se Pietro Fogliatti sia un personaggio di fantasia, la finzione diventa per l'autore solo il mezzo per veicolare messaggi forti e che spaziano su più fronti, sia quello più ampio della denuncia sociale sia quello che coinvolge la sfera emotiva del singolo individuo: l'accusa per niente velata contro l'imprenditoria spregiudicata, contro la classe dirigenziale che schiaccia i diritti dei lavoratori sotto i piedi del dio profitto; lo sconcerto alla vista degli operai bambini nelle fabbriche di Shangai e l'impotenza dinanzi al lento ma inesorabile incedere del cancro ai polmoni del padre, divenuti ricettacolo di polveri velenose dopo anni di lavoro come verniciatore presso l'IPCA di Torino.
Quella fabbrica, colpevole della morte di molti operai costretti a lavorare in condizioni disumane ed in totale assenza di protezioni fisiche, non solo ha privato Pietro del padre quando lui era ancora ragazzo ma lo ha anche derubato dei gesti, dell'amore e della dedizione che un padre dovrebbe avere verso un figlio:
"E se il risentimento si era nutrito di tutti gli atti mancati del padre, il senso di colpa, bulicamente, si alimentava di ogni gesto che Pietro aveva negato a suo padre, degli abbracci, dei 'come stai?', dei 'vuoi che mi sieda vicino a te?' che non c'erano mai stati".
Ma se la perdita prematura del padre ha lasciato Pietro con il senso di colpa per non aver saputo rafforzare il suo rapporto con lui quando ancora poteva, ben più straziante e destabilizzante sarà un'altra perdita, indescrivibile a parole, perchè solo chi la subisce può capire quanto possa far male, lacerando corpo ed anima. Un dolore così forte e totalizzante che crea un vuoto intorno perchè tutti, anche le persone prima più vicine, diventano quasi estranei, incapaci di comprendere a fondo quella sofferenza.
La vendetta, l'odio cieco e senza tentennamenti verso chi ha causato, seppure indirettamente, quel dolore sembra l'unico sentimento in grado di dare un senso alla vita di Pietro, l'unico appiglio per non sprofondare nell'abisso.
Almeno sin quando tra le strade di Shangai che sembra costruita sul set cinematografico di Blade Runner, 'la pioggia, gli ombrelli, il cibo per strada, gli schermi giganti', non incontra lei, Jin, una 'donna cinese figlia di altri tempi', colpita dallo stesso dolore e tormento per una perdita incolmabile.
L'amore, il legame che nascerà tra loro, diventerà più forte del loro solitario egoismo, il silenzio del loro cuore colmo di odio verrà poco alla volta disperso dalle note di una musica che suona solo per loro.
"Uno alle volte crede che la felicità consista proprio nel realizzarsi dei desideri e non capisce quanto sia molto più piacevole il desiderare stesso".
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E' tutto niente ragazzi, è tutto niente.
Due uomini si incontrano in questo libro, e si parlano.
Mauro Corona e Luigi Maieron, il primo scrittore e l'altro musicista.
Ciò che li accomuna e fa da collante alla loro amicizia domina ed occupa interamente la copertina del libro: la montagna, avvolta nel candore della neve, la cui bianca monotonia è interrotta solo da impronte, orme di piedi dirette verso l'alto, in salita.
Perchè quella montagna, il Col Nudo, la punta più alta delle Prealpi venete, è sempre stata dinanzi ai loro occhi sin dall'infanzia: sono cresciuti alla sua ombra, affascinati dalla sua imponenza e rapiti da quella vetta meravigliosa.
Inevitabile cedere al richiamo di quella scalata, un'impresa necessaria nonostante il rischio, malgrado i pericoli, per inseguire un sogno: raggiungere la vetta significava scoprire un mistero, 'Cosa c'era lassù? La luce del primo mattino, il vuoto, il cielo'.
Ma sono tante le storie da raccontare, non solo storie di scalatori e di imprese ai limiti del possibile ma soprattutto storie di vita quotidiana, di uomini e donne dalla tempra più dura della roccia carsica, gente povera, semplice, montanari, la cui esistenza è stata esemplare perchè ricca di quei valori e virtù così rari nella società di oggi.
E' la montagna che si racconta attraverso le storie dei suoi abitanti e tenta di educarci alla vita, al reale valore della vita, attraverso le parole dei due autori.
Ed è bellissimo ascoltarla, perchè si esprime con parole semplici, intrise di saggezza popolare, con parole che lasciano il segno, che pesano nell'anima e si fanno sentire senza dissolversi come fumo.
Racconta di donne caparbie, coraggiose, che seppur schiacciate dalla violenza fisica e psicologica di una mentalità gretta e fortemente misogina hanno saputo opporsi trasformando la disperazione in una silenziosa e dignitosa reazione.
Racconta di uomini che non si sono arresi quando il destino li ha privati di tutto; uomini che non hanno comunque rinunciato alla vita ma si sono aggrappati ad essa, con le unghie, guadagnando giorno dopo giorno la risalita, imparando ad apprezzare la ricchezza delle piccole cose.
Perchè è vero: "Si può vivere con poco, quasi niente, considerando quel poco quasi troppo."
E' un modo di pensare in forte contrapposizione alla tendenza attuale che esalta l'io, che sottomette "l'etica del fare all'estetica dell'apparire"; viviamo in un mondo in cui tutti vogliono primeggiare, in cui tutti hanno bisogno di sopraffare gli altri per sentirsi gratificati creando inevitabilmente rancori, invidie e nemici.
"Tutti i malanni dell'era moderna sono generati da trappole che ci vengono imposte e che in qualche modo accettiamo di assecondare. La trappola dell'amore, la trappola del desiderio, della ricchezza, del successo. In pratica la trappola dell'apparire: se ci vengono a mancare queste cose cadiamo annientati."
Bisognerebbe invece imparare ad arrivare secondi, imparare 'ad accordare il proprio comportamento con quanto batte nel proprio cuore' e non con quello che piace agli occhi degli altri, bisognerebbe imparare a difendere la propria posizione piuttosto che conquistare posti nella classifica del 'più', il più bello, il più potente, il più ricco.
Questa è la filosofia di vita che la montagna vuole trasmetterci, fatta di concetti semplici e non pensieri astrusi e contorti, come quelli dei grandi pensatori di oggi che non riescono ad aiutare il prossimo con ciò che dicono e che predicano solo per vanità e successo.
"Se parti per un viaggio non darti aspettative, vai e basta; se ami una persona non aspettarti per forza la ricevuta di ritorno. E' tutto precario e provvisorio, la vita è questa. Ed è anche la sua meraviglia, ma possiamo vederla soltanto uscendo dalla grotta del nostro narcisismo, del pensare che tutto ci sia dovuto."
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Là fuori ci sono un sacco di lupi...
... lupi travestiti da agnelli.
Simon è in macchina in viaggio con i suoi genitori, è seduto sul sedile posteriore, inganna il tempo ascoltando la sua musica preferita dagli auricolari e giocando a Cross Road sul suo smartphone.
Zia Tilia abita a Fahlenberg, alquanto distante da casa loro, ma Simon è contento sia perchè pregusta già il buon pranzo che sua zia gli riserverà come da abitudine sia perchè potrà rivedere suo fratello Mike che già da tempo vive con la zia, avendo trovato un lavoro in quella città.
Una giornata felice per Simon, nonostante la noia dovuta al lungo viaggio in macchina, perchè vissuta con le persone a cui vuole bene e che rappresentano una certezza nella sua vita, un punto fermo.
E Simon ha bisogno di certezze, di ordine, di razionalità: soffre di una forma lieve di autismo che spesso lo disorienta e lo rende debole e fragile agli occhi degli altri; non tutti poi sono come sua madre o come suo fratello, pronti a sorreggerlo nei momenti di difficoltà.
Molti, soprattutto i suoi compagni di scuola, lo deridono e si prendono gioco di lui; per questo motivo, Simon vive con immensa gioia i rari momenti in cui è circondato da persone che ama e che lo amano, persone che non lo fanno sentire solo.
Sarebbe bello per Simon se la vita fosse piena di momenti come questi, sereni e spensierati; tutto sarebbe più facile per lui se la vita fosse come la matematica, governata dalla linearità delle sue leggi e teoremi.
E non dal caos, dal destino, quella componente incontrollabile ed imprevedibile della vita a causa della quale la macchina su cui sta viaggiando con i suoi genitori si ribalta per strada e prende fuoco.
E Simon sarebbe dovuto morire come i suoi genitori, carbonizzato tra le lamiere, piuttosto che uscirne miracolosamente indenne; era proprio vero quello che gli diceva sempre il padre, la fortuna non lo abbandona mai.
Ma può veramente ritenersi fortunato Simon? Chi si prenderà cura di lui ora che i suoi genitori non ci sono più? Non ha più una casa, sua zia e Mike hanno deciso di vendere tutto e come se non bastasse lo hanno anche iscritto in un nuovo collegio per riprendere gli studi e suo fratello Mike a breve si trasferirà in città con Melina, la sua nuova ragazza.
Niente è più al posto giusto nella sua vita: persino Mike, il fratello che lo ha sempre protetto e seguito sin da piccolo sembra ora volersi allontanare da lui.
"Il suo mondo sarebbe crollato. Nessuno sarebbe stato più in grado di riaggiustarlo. Non era giusto! Le cose dovevano restare com'erano. Altrimenti tutto sarebbe precipitato nell'incertezza, come in un buco nero."
La realtà diventa per Simon più terrificante e triste del peggiore dei suoi incubi, incubi che lo assalgono anche di giorno, come fossero allucinazioni, e che sono sempre più frequenti dopo l'incidente.
Immagini così invasive nella sua mente che spesso si mescolano alla realtà deformandola o, al contrario, traendo spunto da essa.
Proprio in quei giorni infatti una ragazza sedicenne risulta scomparsa senza lasciare tracce, molti pensano sia stata aggredita e violentata.
Forse il colpevole è la stessa creatura mostruosa dalle sembianze di un lupo sempre presente negli incubi di Simon? Forse.
Ma gli incubi, per quanto angoscianti possano essere, scompaiono una volta svegli; la realtà invece no, quella resta e ti travolge.
Incubo è un thriller psicologico che non incute paura, perlomeno non in misura proporzionale a quanto il titolo lascerebbe presagire e sicuramente non per chi, come me, è appassionato del genere e potrebbe sicuramente citare 'incubi' letterari ben più incisivi e coinvolgenti.
La paura è un'emozione forte, intensa e trasmetterla attraverso le pagine di un libro è compito arduo perchè va alimentata gradualmente, come un fuoco acceso con pietre scheggiate, a piccole dosi e prestando massima attenzione evitando che la fiamma si disperda e si spenga.
E tutto deve concorrere ad innescare quell'atmosfera di crescente tensione che precede la paura: dalla descrizione dei personaggi a quella dei luoghi in cui si muovono.
Wolf Durn si destreggia abilmente in tutto ciò: ho apprezzato in particolar modo la perizia con cui spezza il ritmo narrativo introducendo pause descrittive paesaggistiche che moltiplicano e non sminuiscono la carica emotiva, complice forse l'ambientazione ricca di boschi, territorio di ombre e penombre, quasi fiabesca, che riporta alla mente la cupa Foresta Nera di Hansel e Gretel.
Tuttavia, ciò che a mio parere debilita questo romanzo è la scarsa originalità o, se preferite, la prevedibilità.
Un incubo già vissuto, letto e riletto in diverse forme, come potete ben immaginare, non spaventa più.
"La vita è come un giardino, esistono i momenti perfetti ma non possono durare per sempre, tranne che nel ricordo." (Leonard Nimoy)
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Ogni respiro è una scelta.Ogni minuto è una scelta
Che cos'è la vita di un uomo se non un susseguirsi di scelte? Basta rifletterci un attimo per rendersi conto che ogni istante della nostra vita è una conseguenza di una scelta fatta nell'istante prima.
Certo ci sono scelte quasi automatiche che governano impercettibilmente la routine quotidiana e scelte che invece hanno il potere di innescare una serie di eventi a catena spesso imprevedibili e tali da stravolgere la vita, in senso positivo o negativo.
Anche le persone che incontriamo o sfioriamo nella nostra vita, conoscerle o non conoscerle, viverle o lasciarle andare, dipende esclusivamente dalla scelta fatta in un attimo; pur non rendendocene conto, in un attimo si gioca il nostro destino e quello di chi abbiamo vicino.
E Simon è uno di quegli uomini che preferirebbe evitare le scelte troppo difficili, qualcuno potrebbe definirlo un vigliacco, uno smidollato, lui però vuole solo evitare di complicarsi troppo la vita, preferisce rinunciare a qualcosa, mettere da parte i suoi desideri, le sue ambizioni se conquistarle significa scontrarsi ed entrare in conflitto con altri.
Per questo quando la sua ex moglie cambia il programma per le vacanze natalizie e decide di mantenere i figli con lei, Simon si ritrova solo nella casa al mare del padre dove avrebbe voluto trascorrere il Natale con i figli rinunciando anche alla vicinanza di Kristina, la sua nuova compagna, che già aveva accettato a malincuore l'intenzione di Simon di non presentarla ai suoi figli.
E ha ragione Kristina quando gli rinfaccia la sua pusillanimità e adesso ne paga le conseguenze: pur di non contraddire la ex moglie Simon si ritrova solo, a pochi giorni dal Natale, senza figli e senza Kristina, in una casa lungo la costa francese che di certo non offre molte attrattive nel periodo invernale, freddo e piovoso.
Simon è consapevole di tutto cìò, avverte forte il desiderio di cambiare, sin da giovane quando subiva silenziosamente e passivamente la prepotenza e l'arroganza del padre; ma in tanti anni non è mai riuscito a dare una svolta alla sua vita che probabilmente si sarebbe trascinata inerte per molto tempo ancora se quel giorno, passeggiando lungo la spiaggia, non avesse incontrato Nathalie.
Una ragazza giovane, poco più che ventenne, dall'aspetto trasandato ed apparentemente denutrita per quanto era magra; stava discutendo col guardiano di un appartamento sulla costa che l'aveva scoperta al suo interno e temeva fosse una ladra.
Lei invece cercava solo un rifugio, era spaventata, tremava per il freddo e la fame, e non voleva aiuto dalla polizia.
Simon intuisce che c'è qualcosa di strano in quella ragazza ma è troppo scossa e debole per parlarne, sembrava quasi sul punto di svenire.
Perciò decide di ospitarla almeno per quella notte, non può abbandonarla lì sulla spiaggia nè tanto meno può consegnarla alla polizia per quanto mostra di esserne terrorizzata.
Ecco la scelta decisiva, il bivio che porta la vita di Simon su una strada che non avrebbe mai immaginato di poter percorrere: se non avesse ceduto alla richiesta di aiuto di Nathalie e avesse seguito il suo istinto che lo avvertiva del pericolo imminente, non si sarebbe trovato invischiato in una vicenda intrisa di brutali omicidi, una scia di sangue che sembrava allargarsi a macchia d'olio e che prima o poi avrebbe coinvolto anche lui e Nathalie.
Charlotte Link, autrice di spicco in Germania, ci regala un thriller dal ritmo serrato con una trama che s'inerpica intorno alla vicenda di Nathalie come un ramo di vite intorno ad un traliccio, crescendo di intensità ed arricchendosi progressivamente di nuovi personaggi e storie dai risvolti drammatici, storie di povertà, sfruttamento, disagio e malessere psicologico: storie di vita nate da scelte decisive, cruciali e purtroppo sbagliate.
Tutto scritto in modo scorrevole ma non superficiale, nessun dettaglio viene lasciato al caso soprattutto nel delineare il profilo e la personalità dei vari personaggi.
Piuttosto vorrei criticare il soffietto editoriale in quarta di copertina: 'La scelta decisiva non ha una parola di troppo' (Bild am Sonntag).
Ecco, forse l'unico difetto del romanzo sono proprio le parole di troppo: spesso uno stesso concetto viene inutilmente ribadito più volte tanto da risultare quasi snervante.
Nel complesso, però, l'autrice riesce a mascherare questa imperfezione con la fluidità della sua penna.
"Il presente non sta fermo, avanza ogni secondo. La loro vita invece non lo avrebbe fatto. Era congelata. Nel terrore. Nell'incertezza. Nell'attesa. Ma anche nella speranza. Era questo che li avrebbe tenuti in vita: la speranza. Forse ingannevole, forse perfida. Ma era l'unica cosa che avevano."
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L’amante:un fazzoletto di terra a statuto speciale
"L’amante: un fazzoletto di terra a statuto speciale dove abbandonarti ai tuoi desideri più essenziali, provvisoriamente esentato dalle molteplici rotture di coglioni che ti ammorbano l’esistenza quotidiana. Tu, lei e niente più."
Finalmente!
Non ne potevo più di libri e storie di amanti dai risvolti tragici, adùlteri depressi, angosciati, sommersi dai sensi di colpa e travolti da un'ondata di pensieri negativi e disfattisti tali da indurre una crisi esistenziale nei malcapitati di turno, con ripercussioni più profonde nella metà femminile perchè è risaputo che gli uomini sono tendenzialmente menefreghisti e schivi verso tutto ciò che arreca stress mentale e psicologico.
Insomma, finalmente un libro che fa anche sorridere oltre che riflettere; che razza di amore sarebbe senza la carica rigenerante di un sorriso, senza il suo potere conciliatore che ha quasi del miracoloso in quei momenti in cui riesce a rilassare un clima di tensione che la guerra fredda a confronto è un bisticcio tra pargoli birbantelli.
"L’amore, invece, mi disse l’Erich Fromm dei puttanieri, esiste per fare felice la gente, mica per mandarla in giro con la faccia da cani mazziati".
E quando fa riflettere non opprime il lettore, non lo attanaglia con fare inquisitorio mettendolo con le spalle al muro e dinanzi agli occhi una visione peccaminosa, clandestina ed immorale dell'amore: tanto che se uno si lasciasse coinvolgere da questo tipo di letteratura e mettesse sui piatti di una bilancia vantaggi e svantaggi dell'adulterio, il peso propenderebbe nettamente verso quest'ultimi e verrebbe spontaneo chiedersi 'Ma son tutti folli questi amanti? Ne vale veramente la pena rovinarsi la vita in questo modo?'
Per fortuna ci pensa De Silva a riequilibrare i piatti della bilancia con i due personaggi di questo suo libro che sembrano presi da una città qualunque, da una vita qualunque e messi a nudo per noi: di inventato qui c'è ben poco, sfido chiunque a sentirisi completamente estraneo alla storia, senza ritrovare cioè un atteggiamento, un modo di pensare o una situazione vissuta che non abbia niente in comune con la storia di Modesto e Viviana.
Modesto e Viviana sono sposati da tempo, non tra loro però; hanno un figlio ciascuno e da tre anni ormai conducono una relazione parallela, extra-coniugale, che non può certo considerarsi più una semplice sbandata, un'infatuazione passeggera.
La loro passione è 'degenerata' in amore, all'attrazione fisica è sopraggiunta un'intesa più profonda resa ancora più forte e totalizzante a causa del progressivo collasso dei rispettivi matrimoni.
Adesso mettiamo da parte giudizi e pregiudizi di ogni genere. Non credo si possa stabilire a priori ed in modo assoluto cosa sia giusto o meno, le correnti di pensiero e di comportamento sono tante e le ragioni dell'una e dell'altra si controbilanciano: c'è chi ritiene la crisi coniugale un passaggio obbligato nel rapporto di coppia, un ostacolo inevitabile che dev'essere superato insieme e non raggirato, trovando un compromesso che spesso si traduce nella rinuncia e nella perdita di qualcosa, sacrificare una parte di se stessi, che sia un aspetto del proprio carattere o semplicemente ed egoisticamente un desiderio o ambizione personale, nel nome del bene comune.
C'è chi invece non è disposto al compromesso, chi considera codardia ed ipocrisia rattoppare un legame che fa acqua da tutte le parti, a maggior ragione se questo significa non essere più se stessi, limare la propria personalità per mantenere in vita un rapporto fondato non più sull'amore ma sulla convenienza o sulla serenità dei figli.
E poi ch'è chi, come Modesto e Viviana, barcolla nel mezzo: non sanno decidere, non sanno cosa sono.. o meglio sanno di essere amanti, ma è un appellativo che non sono più disposti ad accettare perchè implica uno stile di vita divenuto ormai insostenibile per loro, sotterfugi, segreti, incontri clandestini.. perchè continuare in questo modo se si amano e stanno bene insieme?
Oddio, diciamo la verità, in realtà è Viviana che ci pensa, Modesto non si fa poi così tanti problemi:
"Vivo nel rimpianto del tempo presente, nella nostalgia delle cose che potremmo condividere e che invece ci stiamo perdendo. Neanche quando stiamo insieme riesco ad essere felice. Ormai non è più la gioia di stringermi a lui la ragione per cui accetto di vederlo. Quello che chiedo ai nostri incontri è di lenire questo stato di angoscia anche solo per qualche ora, trovare un pò di distensione, di pace. Paradossalmente dimenticare. Ecco: lo vedo per dimenticarlo. Per non pensare più a quanto mi complichi la vita amarlo."
Viviana non tollera più questo stato di indeterminatezza, di precarietà nel suo rapporto con Modesto e soffre notando invece il cinismo e l'indifferenza del suo amante a cui tali pensieri scivolano addosso come fosse protetto da una membrana impermeabile.
In realtà Modesto è semplicemente più pratico: anche lui ama Viviana, profondamente, e capisce il suo stato d'animo, ma cosa può farci? Nè lui nè Viviana hanno il coraggio di affrontare i rispettivi coniugi, di prendere quella decisione drastica ed irreversibile che cambierebbe per sempre la loro vita; hanno paura, semplicemente paura, e allora cosa serve farsi ancora del male con questi pensieri, rovinarsi i pochi momenti di complicità che hanno a disposizione rimuginando e discutendo su una situazione che non ha altre via di uscita.
Tanto più che Viviana, come tutte le donne, sa scegliere bene il momento migliore per colpire:
"Di tutte le rotture di coglioni di cui ho fatto esperienza nella vita, la più letale in assoluto, ma proprio senza ombra di dubbio, è la chiavata-segue dibattito. Se me la proponesse in anticipo la più celebre modella di Intimissimi, dicendomi: "Senti, te la do, però poi parliamo", sarei capare di rispondere: "No, grazie" (va bene, sto esagerando, ma per capirci). L'idea che in un momento così mistico, quando stai facendo pace con l'esistenza e il tuo unico desiderio è di scivolare in quel sonno caratteritico che rigenera più di una cura termale, tu debba star lì a sentirti fare dei discorsi, dire a tua volta come la pensi (o addirittura, come in questo caso, ritrovarti sulla sedia degli imputati a rispondere di un reato che non hai commesso), la trovo una perversione non così diversa dal farsi tappeto di una psicopatica vestita come una domatrice da circo che ti marcia addosso con i tacchi a spillo riempiendoti di parolacce e mollandoti anche una frustatina ogni tanto, per ricordati chi è che comanda."
E dinanzi alla palese incapacità dei due amanti di trovare una soluzione all'impasse in cui ristagna il loro rapporto, è Viviana che non demorde e trova la chiave di svolta: la terapia di coppia.
Certo, perchè non sono forse anche loro una coppia? Si chiama forse terapia per marito e moglie? No, terapia di coppia, quindi perchè non potrebbe far bene anche a loro?
Vi lascio immaginare la reazione di Modesto dinanzi a questa proposta di Viviana, io non ho potuto fare a meno di sorridere immaginando la scena di lei mentre espone la sua idea a Modesto e lui che annaspa inutilmente cercando di opporsi ad una decisione 'comune' già presa in modo unilaterale; è come se cercasse di emergere dalle sabbie mobili quando ormai è dentro sino al collo.
"-Ci tieni a me? T'interessa come mi sento? L'hai capito che sto male? Non ti sembra il caso di occuparti della mia sofferenza e anche della tua, visto che stiamo insieme?
L'ultimo passaggio, non so se avete notato - quello in cui parlava di occuparsi della sua sofferenza e anche della mia -, era un capolavoro d'intimidazione. La mafia dovrebbe imparare dalle persone innamorate."
E' proprio vero: ci sono fasi dell'amore in cui la realtà diventa un punto di vista, generalmente quello di chi lo impone.
E se poi l'analista che prende in terapia i due amanti in crisi è anch'egli un amante in rotta di collisione, la situazione diventa veramente ingarbugliata.
Dopo Vincenzo Malinconico, avvocato e marito senza successo protagonista del romanzo 'Non avevo capito niente', De Silva ci delizia nuovamente con la sua verve e la sua esuberante ironia che trova fertile terreno nel personaggio di Modesto Fracasso, musicista dall'anima blues, ma questa volta accompagnato da un'ottima spalla femminile, Viviana, che certo non manca di sarcasmo ed affilata mordacità.
Una coppia veramente ben assortita, lontana anni luce da Irene e Nicola di 'Mancarsi', irritanti nella loro banalità: un duo irresistibile, a cui l'autore affida la narrazione alternandoli nell'esposizione del proprio punto di vista, esaltando così la distanza tra le differenti visioni della vita e del loro rapporto in particolare.
Punto di forza del romanzo sono i dialoghi, forse in virtù dell'esperienza maturata da De Silva come sceneggiatore: estremamente realistici, poco artefatti e mai noiosi, anzi a tratti spassosi nonostante le frequenti digressioni a cui Modesto spesso si abbandona, soprattutto di carattere musicale: menzione particolare per la parafrasi di Malafemmina ed Every breath you take.
E il finale? Credo sia quello più giusto per questo romanzo, è realistico, se fosse stato diverso sarebbe stato un finale da film: l'amore va vissuto giorno per giorno, non dev'essere analizzato, pianificato e non bisogna attribuire a tale sentimento una pretesa di eternità perchè nel momento in cui subentra il dubbio, la paura che possa finire se ne altera l'essenza, una miscela fatta di gioia, passione e complicità che va consumata subito, finchè dura.
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Volevo scopare. Punto.
All'inizio è stato poco appagante.
Anzi, se mi fermassi solo alla prima impressione, un aggettivo con cui definirei questo libro è: impotente.
Già, impotente. Fiacco, svigorito, incapace di stimolare l'interesse e il piacere in chi legge, di soddisfare le sue fantasie, o aspettative che dir si voglia, alimentate magari da una copertina ammiccante o un titolo allusivo o dalla nomea dell'autore, o da una combinazione di questi fattori.
Che sono esattamente gli stessi fattori che mi hanno sedotto e convinto a comprare questo libro.
Tuttavia, non l'ho abbandonato alla prima défaillance, anzi sono stato fin troppo comprensivo ed indulgente resistendo sino all'ultima parola, reprimendo la noia e la delusione che crescevano progressivamente con lo scorrere delle pagine. Come farebbe un buon amante.
Ci sono stati momenti durante la lettura del romanzo in cui ho seriamente dubitato che l'autore fosse lo stesso Paulo Coelho di 'L'alchimista' o 'Lo Zahir'.
Non perchè mi aspettassi molte analogie con queste opere in cui, peraltro, l'amore assume una connotazione spirituale ed idealistica che poco si sposa con un tema molto più carnale ed edonistico come l'adulterio.
Ma forse, proprio per questo motivo, ero convinto che un autore come Coelho avrebbe trattato l'argomento con una prospettiva diversa, magari audace e poetica nello stesso tempo.
Invece, per buona parte del libro, la banalità regna sovrana, a partire dai personaggi.
"Non mi sono ancora presentata. Molto piacere: il mio nome è Linda. Ho 31 anni, sono alta un metro e settancinque e peso sessantotto chili; ogni giorno, mi vesto con gli abiti più belli e raffinati che il denaro possa comprare - grazie alla generosità di mio marito. Gli uomini mi desiderano, le donne mi invidiano. Eppure, ogni mattina, quando apro gli occhi su questo mondo ideale che tutti sognano e pochi riescono a conquistare, so che la giornata sarà disastrosa."
Linda, la protagonista, vive a Ginevra, è giornalista per una testata di prestigio, è sposata (felicemente?) con un uomo di successo, ama la sua famiglia e conduce una vita agiata ed invidiata da molti.
Ma da qualche tempo si sente diversa, insoddisfatta, incompleta: ha tutto quello che una donna potrebbe desiderare e nonostante ciò avverte un vuoto profondo, una specie di buco nero che risucchia dall'interno la sua energia privandola dell'entusiasmo e della gioia di vivere.
E' annoiata, arrabbiata, dorme poco e male, ma non sa perchè, non capisce.
Sin quando, per puro caso, incontra per un'intervista Jacob Koning, ora imprenditore e politico emergente, prima suo ex-fidanzato ai tempi del liceo.
E senza neanche passare per i dovuti preliminari, senza neanche attendere un seppur minimo tentativo di corteggiamento da parte di Jacob, Linda è già inginocchiata davanti a lui.
Adulterio! Tradimento!
Cosa sarà mai passato nella mente di Linda per barattare suo marito, la sua famiglia con una fellatio?
E' proprio quello che la stessa Linda cercherà di capire, prima da sola, poi con l'aiuto di uno psicologo ed infine interpellando uno sciamano (di cui non faccio il nome perchè vuole che rimanga segreto, immagino per problemi fiscali visto che non rilascia fattura; ebbene sì, anche in Svizzera ci sono problemi di evasione fiscale!).
Non sperate però di trarre giovamento o qualche utile consiglio per la vostra vita matrimoniale dall'introspezione psicologica di Linda, se non la consapevolezza ed ulteriore conferma che le dinamiche che conducono all'adulterio sono sempre le stesse, quasi fossero regolate da una legge fisica, universalmente riconosciuta.
Prima si manifestano sensazioni contrastanti, e basta poco per scatenarle, una parola, un gesto, un incontro casuale: paura verso il futuro, verso un cambiamento che possa turbare la tranquillità e l'agiatezza conquistata, ma al tempo stesso il terrore che la propria vita si annienti nella monotonia della routine quotidiana, fatta di figli, lavoro ed un marito che infonde sicurezza ma non suscita più desiderio e passione.
Così subentra l'apatia, un senso crescente di malcontento, la voglia di cambiare, di mollare tutto e tutti prima che sia troppo tardi, prima che le catene stringano nuovamente la morsa appena allentata.
"Non siamo chi desidereremmo essere. Siamo ciò che la società richiede, gli individui che i nostri genitori hanno deciso che fossimo. Ci adoperiamo per non deludere nessuno, abbiamo un immenso bisogno di essere amati. E, di conseguenza, soffochiamo la parte migliore di noi. A poco a poco, la luce dei nostri sogni si trasforma nel mostro dei nostri incubi. E diventiamo schiavi delle cose non realizzate, delle possibilità non vissute."
Non ci sarà più un'altra occasione e si diventa fragili, deboli e al contempo euforici, la ragione è messa a tacere, per questo basta poco per cedere, uno sguardo diverso, una conversazione fuori dalle righe, un contatto fuggevole e il danno è fatto.
E dopo? Dopo ci sono i sensi di colpa certo, ma anche il ricordo indelebile di quanto successo, la gioia di sentirsi nuovamente vivi, la passione che ancora brucia alimentata dalla trasgressione, dal rischio, da un mix di avventura ed ignoto forse persino più intrigante di quello adolescenziale.
Ma non c'è niente di nuovo in tutto ciò e questo libro sarebbe potuto essere l'ennesimo e, a tratti, piacevole racconto di un adulterio consumato se l'autore non lo avesse esasperato con considerazioni spicciole di natura filosofica-spiritualistica, nel tentativo quasi di giustificare l'adulterio come un male spesso inevitabiile per il raggiungimento dell'Amore Vero, del progetto universale della Santa Mano!
E ciò che mi ha fatto più sorridere è che Linda giunge a tali conclusioni, conquistando così l'apice della sua pace interiore, non grazie al sopracitato sciamano evasore bensì dopo aver compiuto un volo in deltaplano tra le alpi svizzere durante il quale fa amicizia con un'aquila che le parla infondendo in lei l'energia dell'Eternità e lo Spirito del Potere!!
E per quanto il volo in deltaplano tra i monti sia un'esperienza sicuramente molto intensa che ho provato personalmente e che vi consiglio vivamente di fare almeno una volta nella vita, vi garantisco che difficilmente avrete modo e tempo durante il volo di parlare con un'aquila!!!
Quindi, mi chiederete voi, cosa c'è di buono in questo libro di Coelho?
Effettivamente ben poco.
Vi lascio con una frase, l'unica forse incisiva e brillante in tutto il libro:
"Ma, in fondo, è accaduta una cosa davvero semplice: sono andata a letto con un altro uomo perchè volevo assolutamente farlo. Soltanto questo. Nessuna giustificazione intellettuale o psicologica. Volevo scopare. Punto."
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La vita non ci appartiene, ci attraversa.
Anna, Anna.. povera picciridda.. ha solo 13 anni ma è già grande in un mondo in cui i grandi non esistono più, sterminati dalla Rossa, un virus che non lascia via di scampo perchè nel giro di pochi giorni maschi e femmine in età adulta, una volta infettati, muoiono oppressi da tosse, febbre e piaghe epidermiche.
Nessuno sembra poterne sfuggire: il virus, diffusosi dall'Europa in tutto il mondo, ha determinato la morte di tutti gli esemplari umani al di sopra dei 16 anni lasciando così il mondo nelle mani di bambini e ragazzi poco più che adolescenti e comunque destinati ad una morte imminente, se un antidoto non venga scoperto per tempo.
E anche la Sicilia, terra natia di Anna, nonostante il suo isolamento geografico, non è esclusa da questo scenario catastrofico in cui Anna cercherà di sopravvivere, conscia del poco tempo che le resta a disposizione, e con l'ulteriore fardello di dover proteggere il fratellino Astor di soli 6 anni: è un obbligo a cui non può sottrarsi, anche perchè è l'ultimo desiderio espresso dalla madre prima di morire ed Anna non può assolutamente deluderla.
Anche senza dilungarsi ulteriormente sulla trama, ciò che incuriosisce subito chi ha comunque avuto modo di conoscere Ammaniti in altri suoi libri è proprio l'originalità della trama se paragonata a quella dei suoi romanzi precedenti.
Forse si potrebbe azzardare un paragone col libro 'Che la festa cominci', dove la ribellione degli uomini-talpa ha un'intonazione apocalittica, seppure la deflessione sarcastica e pungente che assume poi il racconto ridimensiona la drammaticità di quell'evento sfociando verso il grottesco e surreale.
"Anna" rimane comunque un caso isolato nella bibliografia di Ammaniti e peraltro induce nel lettore una sensazione inequivocabile di deja-vu se si pensa ai romanzi di McCarthy, 'Il signore delle mosche' di Golding, 'Io sono leggenda' di Matheson e, perchè no, Cecità di Saramago; e potrei citarne tanti altri perchè effettivamente gli spunti non sono pochi.
E' quindi da ammirare, secondo me, il tentativo dell'autore di districarsi in questo genere così abusato cercando di far emergere qualcosa che sia percepito come nuovo, diverso.
E credo che lo scopo sia stato in parte raggiunto facendo leva soprattutto sull'escamotage di ambientare la catastrofe in una regione come la Sicilia, per noi più familiare e vicina, piuttosto che la stragettonata landa americana o l'altrettanto scontato contesto della grande metropoli europea.
Insomma, fa un certo effetto se al posto della 'strada' di McCarthy troviamo qui l'autostrada Palermo-Messina, divenuta raccordo arido e desolato tra i ruderi di quelli che una volta erano borghi ridenti e città accoglienti come Cefalù o Torre Normanna.
'Chiuse gli occhi e cercò di immaginare come doveva essere Cefalù fino a pochi anni prima. I turisti che scendevano dai pullman con le macchine fotografiche, i tavoli apparecchiati con tovaglie a scacchi, i camerieri con la salvietta sul braccio e in mano le bistecche con l'insalata, le orchestrine che suonavano sul lungomare accanto ai neri che stendevano le loro borse sui marciapiedi. I pedalò sul bagnasciuga. I ragazzi che giocavano a pallavolo sulla sabbia.'
Anche Anna, la protagonista, seppure ancora ragazza, riflette nel suo personaggio i tratti tipici di una 'femmina siciliana', dalla tempra forte, cocciuta, tanto più energica e combattiva quanto maggiori sono le difficoltà che le si abbattono contro o mettono in pericolo la vita delle persone che ama.
'Dopo la morte dei suoi genitori era precipitata in una solitudine così sconfinata ed ottusa da lasciarla idiota per mesi, ma nemmeno una volta, nemmeno per un secondo l'idea di farla finita l'aveva sfiorata, perchè avvertiva che la vita è più forte di tutto. La vita non ci appartiene, ci attraversa.'
Anna è la reincarnazione dello spirito della madre, è la depositaria del 'quaderno delle cose importanti' che la madre le ha lasciato in eredità e che lei custodisce come un tesoro prezioso perchè è l'ultima reliquia del mondo degli adulti, l'ultima traccia di una società fatta di regole, limiti, leggi da rispettare la cui assenza ora è più pericolosa e mortale dello stesso virus.
Per questo Anna è l'unica eroina positiva del romanzo, tutti gli altri, i bambini, sono personaggi negativi, a dimostrazione che abbandonati a sè stessi, senza educatori più o meno severi e senza obblighi da rispettare, sviluppano rapidamente un'indole cattiva e malvagia, manifestando comportamenti brutali ed animaleschi che portano poi all'affermazione della logica del branco.
Lo so, avete ragione e non posso certo darvi torto: c'è molto di Golding in tutto ciò.
Nel romanzo di Ammaniti, però, la visione pessimistica di Golding - per cui non è la società a corrompere l'uomo ma è l'uomo stesso, per sua natura, fondamentalmente 'cattivo' - è solo abbozzata, sfiorata, manca di profondità.
E credo sia questo il limite maggiore del romanzo: l'evento catastrofico rimane quasi fine a se stesso, un semplice pretesto per un racconto fanta-avventuroso senza ambizioni retoriche o di denuncia. E' a malapena percepibile il monito verso l'umanità che invece risuona forte tra le pagine di romanzi come Il signore delle mosche o Cecità di Saramago.
In compenso, Ammaniti sicuramente non lesina in parole nella descrizione degli stati d'animo che scombussolano la ragazzina costretta a barcamenarsi in un mondo divenuto improvvisamente ostile tanto da rendere un'impresa ai limiti del possibile la sopravvivenza quotidiana.
Paura, dolore, ansia, vendetta, sconforto ma anche amore, quello innocente, appena sbocciato per Pietro e subito consumato, annientato: in un mondo in cui la vita si è abbreviata drasticamente anche i sentimenti si susseguono e si esauriscono rapidamente.
'Alla fine non conta quanto dura la vita, ma come la vivi. Se la vivi bene, tutta intera, una vita corta vale quanto una lunga. Non credi? La mano di Anna scivolò sotto la coperta e cercò quella di Pietro. La strinse, e con il pollice gli carezzò le dita.'
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Qualsiasi incantesimo è fragile oltre ogni dire...
... e velocissima la vita nel suo rapinare.
Non è mai facile commentare un libro di Baricco, perchè la sensazione che rimane al termine della lettura è sempre troppo .. intima, e sfuggevole ecco, non saprei come meglio definirla.
Di certo è una sensazione piacevole, appena percepibile: quasi come un brivido, è come il bacio della buonanotte della mamma al suo bambino o una carezza inaspettata tra due amanti, un contatto che ti sfiora al momento giusto e porta sollievo, rincuora e riscalda.
E' un analgesico dell'anima, non importa sapere cosa ci sia dentro, la trama è solo un pretesto che tiene unite in una sinfonia magica parole che centrano le corde giuste, sono come tante piccole sollecitazioni che fanno emergere ricordi piacevoli, immagini e fantasie custodite nella memoria: potrei quasi definirla un'agopuntura dell'anima.
Inutile dire che l'effetto benefico è soggettivo, molto dipende dalla sensibilità personale e certamente anche dal proprio stato d'animo.
Allo stesso modo, molti potrebbero non riconoscere la maestria di Baricco nel comporre (ed uso volutamente questo termine) opere letterarie che non si limitano solo a raccontare una storia ma incantano il lettore, lo sollevano un palmo da terra giusto quel pò che serve per sottrarsi alla gravità delle cose terrene, all'accadere del mondo, entrando così in una dimensione parallela, quasi eterea, che solo l'Arte sa ricreare, sia ciò attraverso un quadro, un'opera teatrale o un romanzo poco conta.
E se volete farvi un'idea di quanto appena scritto, provate a leggere la descrizione del laboratorio in cui Mr. Gwyn esercita la sua nuova professione di copista: io l'ho fatto e, mentre scorrevo le pagine del libro, ho avuto l'impressione che un pennello invisibile disegnasse dinanzi ai miei occhi ogni singolo dettaglio di quella stanza, dando vita ad un'immagine nitida come un quadro.
O lasciatevi incantare dalla magia della bottega delle lampadine e dell'artigiano che le fabbrica:
"Persero molto tempo a divagare sulla natura delle lampadine, e Jasper Gwyn finì per scoprire un universo di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Gli piacque particolarmente venire a sapere che le forme delle lampadine sono infinite, ma sedici sono quelle principali, e per ognuna c'è un nome. Per un'elegante convenzione, sono tutti nomi di regine o principesse. Jasper Gwyn scelse le Caterina de' Medici, perché sembravano lacrime sfuggite a un lampadario."
Per tutto ciò, mi piace pensare che ci sia molto di Baricco nel protagonista di questo suo romanzo: mr. Gwyn è uno scrittore di grande successo, ma scrivere libri per lui non è un lavoro, non è fonte di guadagno, è una necessità, è qualcosa che lo fa sentire vivo e proprio per questo, a 43 anni, decide di non scrivere più libri.
Senza però smettere di scrivere, diventa infatti un copista di uomini che ritrae i suoi modelli umani non dipingendoli ma descrivendoli su carta, come fossero un piccolo libro, una storia.
“Tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto e che invano cerchiamo negli scaffali della nostra mente.”
E contro ogni aspettativa, contro le stesse titubanze di mr. Gwyn, i suoi ritratti hanno successo.
Noi lettori ne rimarremo all'oscuro, i ritratti sono privati e destinati solo al relativo personaggio preso come modello, non una riga di questi ritratti viene riportata nel libro che si conclude quindi lasciando una sensazione di vuoto, l'amarezza di una curiosità non appagata: un pò come quando si spegne quell'ultima lampadina nel laboratorio di Mr. Gwyn.
L'unico ritratto che credo ci sia consentito leggere è quello di Baricco, nascosto però tra le righe di questa sua bellissima storia.
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i buchi della vita non si chiudono più..
Anche chi nella propria vita non è mai stato un pendolare può facilmente immaginare che il dilemma, il cruccio più grande per un viaggiatore cronico è quello di trovare un modo piacevole per trascorrere i minuti, le ore necessarie per giungere a destinazione.
Le alternative sono diverse e mi piace pensare che, a seconda della scelta, si possa anche intuire qualcosa sulla personalità del pendolare: c'è chi in treno si lascia cullare dal suo movimento sussultorio e, incurante del rumore di sottofondo, anzi forse incoraggiato da esso, si addormenta senza remore e senza vergogna e senza timore di perdere la propria fermata perchè ormai il suo orologio corporeo è perfettamente sincronizzato con la corsa del treno.
C'è invece chi, tendenzialmente dotato di una personalità più dinamica e solerte, preferisce impiegare quel tempo leggendo, lavorando, giocando, chattando o genericamente cazzeggiando; rientrano in questa categoria anche gli iper-loquaci, facilmente riconoscibili perchè cercano sempre posti poco isolati, e hanno bisogno di parlare, parlare, non importa di cosa o con chi, l'importante è parlare.. inutile dire che sono mal visti dalla precedente categoria.
Poi c'è il sognatore, ipnotizzato dallo scorrere comunque mutevole del mondo al di là del finestrino, con lo sguardo puntato all'infinito e la mente persa nell'indefinito.
E infine c'è chi, come Rachel, 32 anni, nel suo viaggio giornaliero di andata e ritorno verso Londra, osserva. E pensa.
Pensa a quando era felice mesi prima nella sua casa al civico 23 di Blenheim Road, proprio vicino ad una delle fermate del suo treno che adesso non è più la sua fermata, perchè quella non è più casa sua: ci vive ancora il suo uomo Tom, con la nuova compagna Anna, tanto lesta nel rubarle l'uomo quanto spregiudicata nell'occupare quella casa che lei ha tanto desiderato ed amato.
I pensieri corrono indietro nel tempo mentre il treno procede nella sua corsa, vuole capire Rachel come ha potuto perdere tutto ciò che aveva conquistato, Tom, la casa, il lavoro, la sua dignità; ma non ricorda, ora la sua mente è offuscata dall'alcol che è diventato l'unico suo compagno di vita, l'unico in grado di darle conforto, se non fosse per quel suo maledetto difetto di annebbiarle la memoria. Così i suoi pensieri si interrompono, come se finissero su un binario morto.
"Ho perso il controllo di tutto. Anche dei luoghi che si trovano dentro la mia testa."
E lei non può far altro che colpevolizzarsi, se non avesse iniziato a bere i suoi litigi con Tom non sarebbero degenerati e Tom non sarebbe caduto tra le braccia, e le gambe, di quell'altra; Tom le voleva bene e non l'avrebbe mai tradita se lei non l'avesse portato all'esasperazione.
La sua vita sarebbe potuta scorrere felice e serena come quella della coppia che abita poco più in là, al civico 15: li osserva mentre sono in veranda a colazione, può notarne i particolari perchè il treno rallenta per il semaforo proprio vicino alla loro abitazione.
I loro visi sono radiosi, gli sguardi complici, si amano. Senza dubbio.
"Loro sono ciò che io ho perso. E tutto quello che voglio essere."
O questo almeno pensa Rachel quando osserva dal treno; scoprirà ben presto che la vita dall'altro lato del finestrino non sempre è come appare.
Scesa dal treno, la sua vita s'intreccerà con quella di Anna e Megan, la giovane donna che abita al civico 15 e che improvvisamente scompare senza lasciare alcuna traccia.
La narrazione, inizialmente affidata a Rachel, la ragazza del treno, viene così condivisa con le altre due protagoniste femminili del romanzo, Anna e Megan; si raccontano, si confessano, riemergono ricordi, esperienze drammatiche vissute tempo prima ma con cicatrici ancora non rimarginate e progressivamente emerge l'immagine di tre donne facilmente soggiogabili, ciascuna con un proprio demone da combattere, che sia l'alcol o un trauma del passato o il timore di perdere quanto conquistato.
Sono tre potenziali vittime delle loro stesse debolezze, contro cui cercheranno alla fine un tentativo di rivalsa.
"Sentirsi vuoto: lo capisco perfettamente. Comincio a credere che non esista una soluzione. L'ho imparato dalla psicoterapia: i buchi della vita non si chiudono più. Devi crescere intorno a loro, come le radici che affondano nel cemento, e devi rimodellarti intorno alle crepe."
Romanzo dai chiari connotati del thriller psicologico che riprende un tema ormai abusato e prevedibile perchè comune a tanti romanzi dello stesso genere pubblicati di recente: spesso il male cova e si cela dove meno ci se lo aspetta, nella quotidianietà di un ambiente familiare apparentemente felice e sereno.
Tuttavia, a fronte di una trama che non eccelle per originalità, la lettura rimane comunque piacevole grazie ad una prosa molto fluida e scorrevole... rapida come un freccia rossa.
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Amore e morte a Barcellona
Sapete chi erano i bastaixos? Erano i cosiddetti 'scaricatori di porto', per la maggior parte schiavi impiegati per carico e scarico merci presso il porto di Barcellona e furono rappresentati persino in un bassorilievo della Cattedrale di Santa Maria del Mar perchè, nonostante la loro condizione di estrema povertà, contribuirono alla costruzione di quella immensa cattedrale trasportando sulla propria schiena le pietre provenienti dalla cava e senza ricevere alcun compenso; proprio per questo, la Cattedrale del Mare è la cattedrale dei bastaixos.
E sapete che re Martino il Giovane, malato e prossimo alla morte, per garantire che il trono rimanesse sulla stessa linea maschile legittima del casato di Barcellona, prese in moglie la giovanissima e vergine Margherita di Prades nel tentativo di avere da lei un erede; peccato però che il re, oltre che affetto da una grave malattia che gli procurava continua sonnolenza, era anche molto grasso pertanto i medici di corte suggerirono di sollevarlo con un meccanismo ad argano mentre alcune donne avrebbero provveduto ad indirizzare il suo membro nella giusta direzione.. purtropppo, ahimè, senza alcun risultato.
Ed avete idea delle tecniche utilizzate per la costruzione delle galee o per la distillazione del vino tramite un rudimentale alambicco con produzione della miracolosa aqua vitae?
Queste e tante altre curiosità sulla storia e sui costumi di vita nei territori iberici della Corona d'Aragona potranno essere soddisfatte dalla lettura de 'Gli eredi della terra': mastodontico affresco della società catalana a cavallo del XIV secolo e, in particolare, della città comitale di Barcellona, protagonista indiscussa di questo nuovo romanzo di Ildefonso Falcones che, immagino, abbia ben sperato con tale fatica di replicare il grande successo editoriale conquistato col suo primo romanzo storico 'La cattedrale del mare', di cui 'Gli eredi della terra' rappresenta il seguito.
Siamo nel 1387, 4 anni dopo il completamento della Cattedrale del Mare. E la Cattedrale è ancora una volta testimone di un tragico evento: mentre le sue campane ancora annunciano la morte del re Pietro il Cerimonioso, mentre una moltitudine di gente è ancora accalcata nella piazza principale per la celebrazione funebre attendendo l'arrivo dei nuovi nobili, coloro che avrebbero preso il governo della città, alcune grida si levano sulle altre rivolte verso Arnau Estanyol, lì presente, e denunciandolo come traditore.
Alcuni provano timorosamente ad opporsi: Arnau Estanyol è non solo uno dei più stimati notabili di Barcellona ma è anche amministratore del Piatto dei Poveri, un'istituzione di beneficenza a sostegno di tutti i bisognosi della città e a cui egli stesso partecipa in modo attivo raccogliendo l'elemosina per i poveri; ma poco valgono le qualità morali e la rispettabilità di un uomo se le accuse di tradimento gli sono rivolte da un nobile, il conte Puig, erede di quella famiglia Puig che Arnau aveva umiliato e risparmiato alla morte diversi anni prima.
Sono essi i nuovi padroni della città e nessuno osa contraddire la loro parola: solo un ragazzino di appena 12 anni, Hugo Llor, figlio di un umile marinaio deceduto in mare, si scaglierà in difesa di Arnau contro le guardie che lo circondano per dar subito seguito all'ordine di impiccaggione voluto dal nobile.
Ma cosa può una goccia di coraggio in un mare di indifferenza e paura? Hugo sarà pestato a sangue e l'ultima immagine che vedranno i suoi occhi prima di perdere conoscenza sarà il corpo penzoloni di Arnau dalla forca.
Hugo diventa quindi il successore di Arnau nel ruolo di protagonista di una storia che prende vita tra le strade di Barcellona, nel quartiere della Ribera, vicino ai cantieri navali dove Hugo ancora ragazzino lavora come aiutante di un maestro d'ascia genovese, sognando di intraprendere egli stesso quell'attività tanto apprezzata in una città come Barcellona, centro di un florido commercio mercantile.
Un sogno destinato ad infrangersi ben presto contro un muro fatto di angherie, di prepotenze ed ingiustizie che la gente più umile subisce ad opera della nobiltà e contro cui molto spesso non può difendersi in alcun modo a causa di un sistema giudiziario basato sul vassallaggio che annulla di fatto ogni diritto ai ceti più disagiati.
Ed è quel senso di disperazione che colpisce i deboli, seguito dal desiderio di vendetta e dal disprezzo verso i prepotenti da parte di quei pochi che non vogliono soccombere e rinunciare alla loro dignità di uomini, che impregna le pagine dei romanzi di Falcones.
Così come è palpabile anche la denuncia nei confronti della chiesa cristiana, sia per l'atteggiamento oppressivo e crudele verso le minoranze musulmane ed ebree - tremendo il racconto dell'eccidio nel ghetto ebraico di Barcellona nell'agosto del 1391 - sia per la corruzione dilagante in tutto l'ambiente ecclesiastico, dai conventi in cui giovani suore subiscono violenze di ogni tipo occultate nel silenzio e nell'omertà sino alle sedi vescovili e dell'alto clero dove le questioni legate alla spartizione del potere e le ambizioni terrene hanno sicuramente più rilevanza rispetto alle dispute teologiche o, peggio ancora, alle lamentele della moltitudine povera e disadattata.
Ma se tutto ciò nel primo romanzo di Falcones, 'La Cattedrale del Mare', ha il sapore della novità, del mai letto, conferendo alla trama una tensione narrativa sempre molto alta, ne 'Gli Eredi della terra', complice forse la maggiore prolissità, la carica emotiva si affievolisce e la scrittura sembra a tratti sciatta e rallentata.
E' come l'elettrocardiogramma di un moribondo, con un tracciato praticamente piatto per tutta la durata della sua agonia, lunga quasi mille pagine, con qualche picco sporadico solo nei capitoli finali.
Persino gli intermezzi erotici in cui gli amanti consumano incontri clandestini e fuggevoli, se nel primo romanzo sono ben calati nel contesto della storia arricchendo il ventaglio di emozioni suscitate nel lettore, in questo secondo romanzo appaiono chiaramente forzati e persino ridicoli nella loro banalità.
Ho concluso, perciò, la lettura di questo romanzo profondamente amareggiato e deluso nelle mie aspettative: è ormai divenuto raro da parte di un autore replicare il successo di una propria opera con dei seguiti che si dimostrino all'altezza dei primi.
Tuttavia, 'Gli eredi della terra' pecca nella sua veste romanzata in modo proporzionale a quanto invece eccelle in veste di narrazione storica. Infatti, ciò che certamente non manca in questo libro è una ricostruzione dettagliata ed estremamente minuziosa del periodo storico medievale nel capoluogo catalano: le vicende di Hugo e dei vari personaggi che gli ruotano intorno si amalgamano ed intrecciano con gli eventi più importanti, politici e religiosi, che hanno caratterizzato quegli anni. E soprattutto, pregio indiscusso dell'autore è la capacità di ricostruire su carta la città aragonese del XIV secolo con un dettaglio impressionante tanto che, se fosse possibile essere trasportati indietro nel tempo, quei luoghi, quelle strade, le antiche mura, gli orti, le bancarelle del mercato e finanche i rumori e gli odori di vino, spezie e mercanzie varie ci sembrerebbero familiari.
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