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"Non eravamo mica buoni, a fare la guerra”
Nella tradizione della letteratura resistenziale questo scritto di Meneghello si pone, è riconosciuto da tutta la critica, in posizione molto originale. In primo luogo perché la scrittura non è immediata, il recupero dei fatti vissuti sull’Altopiano di Asiago avviene quasi un ventennio dopo, il libro fu infatti scritto nel 1963; in secondo luogo perché l’identità di chi scrive, ricordando, ha subìto una naturale evoluzione: Meneghello non è più un giovane acculturato che è salito sull’altopiano con i suoi amici vicentini per fare la guerra civile, ora è un professore universitario in Inghilterra. La sua memoria filtra il vissuto a debita distanza con l’intento dichiarato di “dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ‘43 al ‘45: veritiero non all’incirca e all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli” (nota al testo in seguito alla revisione del sett. 1974 - aprile 1975).
Una cronaca stringente, particolareggiata ma anche frammentaria, quasi una giustapposizione di episodi scritti a partire dagli anni cinquanta e con estrema difficoltà, una difficoltà causata dal ricordo ancora vivo e pungente di una guerra mai cercata e voluta ma che lo ha attratto irrimediabilmente, stregandolo negli aspetti più violenti e di conseguenza segnandolo. La scrittura troppo precoce mal si sarebbe saldata con la rielaborazione intima dei fatti vissuti che non erano stati ancora elaborati. Quando poi è sopraggiunta la scrittura, lo sforzo più grande per Meneghello è stato quello di dargli una struttura narrativa rimanendo però fedele alla sua visione antiretorica.
La narrazione si apre con la ricerca di una scafa sotto il Colombara, Meneghello è in compagnia di una ragazza che ha trascinato sull’Altopiano per ritrovare oggetti lasciati nel pertugio sotto terra durante un rastrellamento, all’apice della sua partecipazione alla guerra civile: un libretto e il "parabello". Li trova e in quell’atto si conclude la sua guerra, “tutta una serie di sbagli”; all’emozione subentra la comprensione degli eventi e la capacità di lasciarli andare, per quelli che sono stati, congedandoli finalmente. Trovare il "parabello"abbandonato coincide con il capire di aver vissuto una guerra anomala a cui non erano affatto preparati: “non eravamo mica buoni, a fare la guerra”.
É dunque ora di raccontarla questa non guerra, questa frattura all’indomani dell’armistizio. Anche qui, come in Fenoglio, è chiaro il senso di sbandamento provato dalla nostra gente, Piemonte o Veneto non fa differenza. I renitenti alla leva, la gente comune che li aiuta e vuole voltare pagina, gli irriducibili fascisti, la ricerca di un nuovo inizio, lo scivolare deciso verso la clandestinità. E i giovani che precocemente diventano vecchi senza essere stati giovani e salgono in montagna. E la montagna qui è l’Altopiano. Protagonista assoluto, essenza intima della narrazione, un luogo dell’anima capace di aprire scorci descrittivi evocativi e di calmare l’animo inquieto, teso, eccitato da eventi fuori dall’ordinario, incomprensibili mentre li si vive.
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Povero Pirandello
Perché Pirandello ebbe bisogno di scrivere questo scomodo romanzo, apparso per i tipi Quattrini di Firenze, nel 1911? Perché cercò di coinvolgere anche Ugo Ojetti in questa operazione antipatica dedicandogli il libro? Perché non si fermò nemmeno di fronte al rifiuto di Treves che cercava di fargli capire come fosse poco opportuno pubblicare un romanzo che alludeva, nella figura del marito, a Palmiro Madesani, consorte-manager di Grazia Deledda? Perché, ancora, di fronte al rifiuto del Treves, divenne ancora più paranoico nei riguardi della scrittrice sarda, pensando che cercasse di boicotarlo? Gli epistolari rimandano a questi fatti, tacciono però i moventi.
Si potrebbe pensare che Pirandello fosse geloso della fama della Deledda, che vedesse in Madesani una figura insulsa, negli ambienti letterari della Roma di inizio Novecento non era certo l’unico a pensarla così, o che semplicemente nello sfogare un sentimento comprensibile perse la bussola, rendendosi conto forse troppo tardi del fatto che sarebbe potuto risultare molto antipatico o che avrebbe potuto ferire gli interessati. Fatto sta che non permise una seconda ristampa e che, se la morte non lo avesse colto appena quattro mesi dopo quella della Deledda, forse le sue carte avrebbero restituito più del tentativo di rifacimento al quale stava lavorando e che aveva come nuovo titolo “Giustino Roncella nato Boggiòlo”.
Perché leggerlo allora se lo stesso Pirandello forse lo misconosceva? Semplice, è finemente e puramente pirandelliano e se riusciamo a trascendere dal pretesto compositivo, perdonando questo limite tutto umano, abbiamo modo di godere di uno dei suoi migliori drammi.
Silvia Roncella, scrittrice agli esordi, schiva e trapiantata a Roma dalla natia Taranto, è sposata con Giustino Boggiòlo che da modesto impiegato si trasforma nel suo agente letterario mentre lei non tiene il passo a una società modaiola, frivola, pressante, che sente molto distante da sé. Ben presto il marito non percepisce più le esigenze della moglie e la trasforma in una macchina produttrice di soldi mentre la donna matura in sé un sentimento di totale estraneità nei suoi confronti. Il successo del suo primo dramma “La nuova colonia” ( sarà poi il titolo di un’opera pirandelliana) coincide con il suo travagliato primo parto che la mette in pericolo di vita mentre il marito è a teatro a godere il successo di tanto lavoro. La frattura di Silvia Roncella dalla vita e dal marito diventa definitiva, cessa di scrivere, non si cura del figlioletto, fino a quando non escogita una via di fuga da questa prigione e matura un necessario affrancamento.
All’interno della narrazione principale la coppia Madesani-Deledda è riconoscibile ma non si può certo dire che la loro traiettoria di vita abbia avuto punti di contatto con questo tipico dramma pirandelliano nel quale sottotraccia, in una narrazione secondaria, è nascosto il dolore di Pirandello uomo e marito, penosamente afflitto dalla malattia mentale della moglie Antonietta Portulano. Non solo, è palese che la prospettiva assunta dalla voce narrante sia benevola nei confronti della donna vittima del marito e delle sue mire, tutto è raccontato secondo la sua prospettiva con partecipazione viva e sentita del suo disagio psicologico. Chi, meglio di lui, d’altronde? Si può dunque perdonare a Pirandello questo scritto? Lascio al lettore la decisione, intanto ne consiglio la lettura.
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Il funambolo
Vita reale? Biografia? Romanzo? Pseudobiografia?
Questa volta Colm Toibin mi destabilizza come neanche il miglior Zweig è mai riuscito a fare nelle sue migliori biografie romanzate. Perché accettare “Magellano” e “Maria Antonietta” e non riuscire a sostituire l’ideale immagine dell’autore, scolpita nella mia mente attraverso la lettura diretta dei suoi testi, con quella dell’uomo delineata ne “Il mago”? Non conoscevo, se non per grandi linee il dato biografico di Mann, forse mi ero soffermata solo sulla lontananza politica dal fratello in considerazione dello scritto “Considerazioni di un impolitico”, certo sapevo di Davos e del soggiorno della moglie, avendo letto “La montagna incantata”, o ancora della sua casa a Monaco, richiamata nel racconto lungo “Cane e padrone” o delle sue origini nella città di Lubecca, da lì si parte con “I Buddenbrook", o del conferimento del premio Nobel, ma per me Mann è difficile da calare nel piano della realtà, viaggia, etereo, nelle alte sfere dell’ideale e dell’inavvicinabile per la sua caratura intellettuale.
Leggere dunque la vita di un uomo tormentato, indeciso, fragile, troppo fragile, devo ammettere mi ha spiazzato: a partire dalla sua tendenza omoerotica, per arrivare alla sua ambiguità politica; tutto in questo ritratto racconta massima tensione e abile gioco di equilibrio: il funambolo, mi parrebbe il titolo più appropriato. Un efficace ritratto psicologico, di piacevole fruizione che scade spesso nell' aneddoto gossipparo, vista l'irrequietezza della sua prole e i tormenti dell’intero nucleo familiare, suo e della moglie, al cui centro si staglia la figura di un uomo tormentato capace di riscatto solo attraverso la scrittura. Non riesco ad accettarlo, preferisco far parlare Mann con le sue opere e mi riservo di leggere le biografie più oggettive alle quali lo stesso Toibin ha attinto per documentarsi, consapevole che la sua ricostruzione umana parte da lì.
Mi rimangono una serie di dati biografici affastellati nella galleria degli innumerevoli personaggi stravaganti che hanno ruotato intorno all’icona del rigore intellettuale e morale, quale credo sia stato Thomas Mann
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Gioventù in cerca di sé
La prima puntata del “Garofano rosso” uscì nella rivista fiorentina “Solaria” nel febbraio del 1933, alla terza puntata il romanzo nascente causò il sequestro della rivista, le altre puntate apparvero solo dopo profonda revisione della censura fascista e la sua pubblicazione in volume, nonostante le revisioni apportate dallo stesso Vittorini per non incorrere nella censura, non fu permessa, con definitiva bocciatura nel 1938. Le ragioni della censura variavano dall’impossibilità di accreditare l'entusiasmo giovanile verso il movimento attraverso l’ammirazione per la violenza, ora che il movimento era diventato Stato legalitario, alla rappresentazione dell’eros e della donna. Caduto il fascismo, Mondadori volle pubblicarlo e Vittorini sentì la necessità di prendere le distanze- con una prefazione che in realtà compare come postfazione in questo volume- da questo risultato emendato e dallo stesso romanzo giovanile ampiamente superato dal suo capolavoro “Conversazione in Sicilia”, oltre che dalla stessa impossibilità di recuperarlo, senza doverlo riscrivere daccapo, come lo aveva pensato. Abbiamo quindi di fronte un libro particolare, per questa vicenda editoriale, e lo stesso giudizio che se ne può formulare, in termini di gradevolezza, è bene saperlo, potrebbe derivare proprio da questo substrato gestazionale.
Il romanzo racconta l’ingresso nell’età adulta del giovane Alessio Mainardi, sedicenne, liceale che si invaghisce di una compagna del classico, più grande di lui, Giovanna, la quale gli offre un bacio furtivo e un garofano rosso, pegno di interesse amoroso, per poi rinnegare il tutto per interposta persona, come di un gesto senza valore. Il ragazzo, attratto nel frattempo dalle violenze del nascente movimento fascista, vorrebbe partecipare alla marcia su Roma, e al ritorno dei compagni più grandi, riesce a inserirsi nelle azioni violente che animano Siracusa, aggravando sempre di più la sua situazione scolastica già precaria. Viene bocciato e torna dalla sua famiglia, in provincia, per trascorrere l’estate e studiare. Ha un amico più grande, Tarquinio, che lo affascina e che sente come un rivale, corrisponderà con lui durante la sua assenza e sarà proprio lui, al suo rientro in città, a introdurlo nel meraviglioso mondo della prostituta e donna di malaffare in senso lato, Zobeida, che lo accoglierà non come semplice cliente. Lui vivrà la sua iniziazione sessuale e il suo ingresso nella vita.
Il romanzo è gradevole, interessante nella rappresentazione della gioventù agli esordi del fascismo, lo stesso Vittorini ci mette in guardia dagli aspetti più inverosimili della narrazione e da certe ingenuità che lui attribuisce alla sua giovane età, aveva venticinque anni quando lo scrisse, soprattutto nell’assumere un punto di vista di un borghese liceale, lui che aveva studiato in un tecnico e che veniva dalla classe operaia o contadina. Ad ogni modo, anche se non ha valore documentario, esso riflette illusioni e tensioni tipiche dell’esordio della dittatura ed è per questo aspetto interessante, come per la rappresentazione del mondo familiare e delle sue dinamiche.
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Fenoglio a tutto tondo
L’unica biografia di Beppe Fenoglio, autore che vanta al contrario una sterminata bibliografia, aprendo le sue opere questioni meramente filologiche e intrinsecamente storiche.
Il pregio di questo volume sta dunque nel restituire l’uomo all’interno del suo contesto di vita, le Langhe, la guerra civile, come amava lo stesso chiamare la Resistenza, collocandolo precisamente nel suo ambiente di vita: la famiglia e i suoi spazi, Alba, le colline, le amicizie, le simpatie amorose, ma ancora prima i momenti tra i banchi del liceo.
Un Beppe ritratto nella sua pienezza, nei suoi tormentati esordi letterari, nelle sue idiosincrasie, nelle sue insicurezze. Niente è lasciato all’immaginazione e niente è romanzato, tutto ciò che ci viene generosamente donato è frutto di un lunghissimo e certosino lavoro di ricerca sul campo. Molto spesso le voci sono quelle dei suoi parenti più prossimi, in primis il fratello minore Walter, al quale il libro è dedicato come ai partigiani vivi e morti; col trascorrere del tempo, infatti, molti dei compagni di vita di Beppe Fenoglio hanno lasciato questa vita e allora c’è proprio da ringraziare Negri Scaglione per aver avuto l’intuizione di fermare il ricordo biografico di Fenoglio prima che esso scivolasse nell’oblio.
Il ricordo recuperato è essenzialmente quello della sua vita quotidiana, fatta di conflitti, difficoltà, ingenuità, felicità temporanea, a sprazzi, ma soprattutto tormento, pienamente riflesso nel suo processo creativo e nella scrittura affilata, sintetica, mordace e incompiuta come il suo destino umano fermato sulla soglia dei quarantuno anni a causa di un tumore al polmone.
In fondo, come tutte le figure tragiche, Fenoglio veste benissimo i panni dell’eroe tormentato e in eterno divenire come i suoi personaggi la cui nascita letteraria ha il sapore di una rinascita, essendo proiezioni più o meno esplicite della sua interiorità e di quella dei suoi conterranei. La biografia ha il merito ancora di ripercorrere la genesi delle opere e molto spesso gli aborti creativi, i travasi di fatti e di personaggi da un racconto all’altro, rendendoci ancora più consapevoli dell’intratestualità delle sue opere.
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Sapore di eroe
Collana ET scrittori. Introduzione di Gabriele Pedullà (agosto 2021), a corredo, un saggio di Dante Isella, “La lingua del ”
Un romanzo imprescindibile, un’esperienza di lettura impegnativa ma unica. Nonostante l’edizione da me letta sia accompagnata da un’ interessantissima introduzione di Pedullà, la versione proposta è quella di Isella (1992) che, nel lungo percorso filologico che ha accompagnato la stampa di queste carte, ora chiamiamo “Il partigiano Johnny” . In particolare è un montaggio delle due redazioni del romanzo ritrovate presso le carte dello scrittore; i primi venti capitoli sono quelli presenti nella prima redazione, i restanti nella seconda; per chi non lo sapesse la prima redazione è quella più ancorata all’originaria lingua inglese in cui tutto il romanzo fu scritto, la seconda invece è quella maggiormente sottoposta a processo di revisione e riscrittura, una riscrittura che spesso, ci dicono i critici, interessò non solo l’aspetto strettamente linguistico ma anche quello più strutturale, con rivisitazione di interi episodi. Abbandonando le questioni meramente filologiche, dalle quali in realtà non si può prescindere, si può parlare di questo romanzo in termini di esperienza di lettura e tentare di condividere le sensazioni provate e le emozioni suscitate. Pur essendo un testo non licenziato dal suo autore mi sento di annoverarlo tra i capolavori della letteratura italiana e non solo di quella strettamente resistenziale, e non per pura simpatia ideologica ( posizione davvero difficile da sostenere senza avere contezza del complesso fenomeno resistenziale che dovrebbe essere maggiormente studiato da tutti prima di farne una bandiera da sventolare o una questione divisiva ancora oggi, pur ribadendo una mia ferma posizione antifascista) quanto piuttosto per il suo valore strettamente letterario. Ho letto la storia di Johnny gustandomi ogni singola pagina, ogni parola, ogni gioco linguistico, nonostante le difficoltà dovute alla mia scarsissima conoscenza dell’inglese e armandomi di tutta la pazienza necessaria per colmare il gap linguistico che interrompe, soprattutto nella prima parte, il filo narrativo a più riprese. Questo è stato possibile perché si è creato un forte meccanismo di compensazione dettato dall’arditezza linguistica in lingua italiana, molto spesso ho dovuto ricorrere al dizionario per introiettare lemmi mai incontrati prima, scoprendo sovente, oltre alla mia ignoranza lessicale, le acutezze linguistiche fatte di neologismi, latinismi, vere e proprie fusioni linguistiche. Altro motivo di compensazione è stato il perdersi in una prosa arricchita da insolite giustapposizioni di nomi e aggettivi in una sintassi mai pesante, a titolo esemplificativo potrei citare l’incontro del protagonista con il professor Chiodi: “Chiodi si era alzato, nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale. Gli diede un abbraccio filosofico…”. Quanta immaginazione e quante informazioni passano nel tripudio giocoso di questi accostamenti, mi si sono impressi nell’immaginario, nella loro incisività, più di qualsiasi ricco inserto descrittivo. Una prosa studiata, voluta, capace di amplificare le scarne informazioni in un universo immaginifico tale da farmi apprezzare quasi tutte le pagine del romanzo, non ce n’è più una al netto dei miei ripetuti segni di matita e di note a margine. A ciò si è aggiunta una narrazione avvincente quasi completamente incentrata su Johnny che, rientrato fortunosamente da Roma, dopo lo sbandamento dell’esercito regio, abbandona la comoda tana del coniglio in collina, dove i suoi lo hanno confinato per proteggerlo, per abbracciare la scelta partigiana e inizia la sua peregrinazione tra le colline delle Langhe e del Monferrato. L’incontro con i suoi ex professori del liceo, Chiodi e Cocito, già segna il passo della narrazione: diventare un partigiano non sarà una questione semplice, a detta di Cocito non è solo una questione legata alla difesa della libertà ma necessita di un’ideologia precisa, comunista per la precisione, altrimenti si rischia di essere dei Robin Hood. Nonostante queste premesse, la forza di Johnny sarà la sua continua incapacità di adattarsi a situazioni eticamente non condivisibili, il suo tormento interiore, parte verso le colline “la terra ancestrale che lo avrebbe aiutato, nel vortice del vento nero, sentendo quanto è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”.Trova le prime formazioni partigiane ma subito capisce che si trova dalla parte sbagliata: “Really, I’m in the wrong sector of the right side”, le formazioni comuniste sono improvvisate, zeppe di ignoranti e di giovanissimi, marmocchi inesperti dal punto di vista militare, votati miseramente all’errore e in bilico sulla corda della vita. Johnny si muove, cerca, non si accontenta, progredisce nel suo percorso umano, interiorizza gradualmente la dura legge della vita partigiana, cambia formazione, si adatta alla collettività per giungere poi a combattere solitario, nell’inverno più solitario della sua vita. La narrazione si snoda in modo avvincente con un ritmo episodico e un andamento cronologico scandito soprattutto nella seconda parte da capitoli titolati che rimandano alla Città, la presa di Alba e la subitanea perdita, al preinverno e al terribile lunghissimo inverno. si è con Johnny sempre e lo si lascia a malincuore.
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Altre vie, altre possibilità
Edizione Einaudi, collana ET SCRITTORI 1985, riedita nel 2023, introduzione di Piero Negri Scaglione (7 dicembre2022) con un saggio di Oreste Del Buono
Prima narrazione di ampio respiro per Fenoglio, primo romanzo, fucina di un processo di scrittura centripeto il quale maturò indipendentemente da questa prima prova editoriale lunga (1959) e a dispetto della sua stessa prematura morte che non gli permise di fare del romanzo di Johnny una storia chiusa e atta a essere congedata per il processo di stampa ( cfr. “Il partigiano Johnny, 1968)
In verità, la storia del partigiano Johnny è già tutta contenuta in questo primo romanzo ma qui si presenta sincopata, eccessivamente condensata, mentre nel volume postumo “Il partigiano Johnny” troverà quell’ampio respiro che permetterà di farci conoscere meglio il partigiano Johnny e dietro di lui Fenoglio scrittore, uomo e partigiano.
“Primavera di bellezza” è anche l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Fenoglio che morì a soli 41 anni.
Ha un titolo non casuale, evocativo di un certo gusto poetico se non fosse che è il noto intercalare contenuto nel ritornello dell’inno poi trasformato in canzonetta, “Giovinezza”, tra i più popolari nel ventennio fascista. Si tratta della storia di Johnny, studente di inglese strappato agli studi universitari dalla guerra, frequenta la scuola per ufficiali a Moana, senza nessuna azione di guerra in piena guerra e un pensiero critico particolarmente affinato, sono intollerabili per lui ordini, divieti e prescrizioni privi di senso: la messa, il canto in marcia, il maggiore squilibrato. Fin da subito insofferente, l’eroe di questa narrazione epica contenuta in tutta la sua storia, compresa nei due romanzi, è critico soprattutto rispetto alla guerra, sul labile filo della diserzione, almeno intellettuale. Segue il trasferimento a Roma in treno, un treno che viene descritto in procinto di deragliare come l’esercito italiano; e Johnny non ha tutti i torti anche se non avrebbe mai immaginato le conseguenze dello sbarco degli Alleati in Sicilia, non tanto la caduta del regime quanto lo sbandamento dell’esercito dopo la firma dell’armistizio. Questa è la sua stagione, dopo i bombardamenti a Roma- bellissime le pagine su quello al popoloso quartiere di S. Lorenzo-, la triste realtà di un esercito in disfacimento : “…questo è il quarantotto completo. Non ci sarà mai più un esercito in Italia”, la fuga per il rientro a casa e il disperdersi della bella gioventù italiana, tanto disgraziata se sopravvissuta perché dal suo misero estratto si sarebbe in futuro formata una nuova generazione di sposi e di padri con un passato tremendo. Ma Johnny è l’uomo di altre fughe, quelle dal tiro nemico, del fascista, del tedesco, al nord, nelle sue terre; scopre la resistenza, dapprima un gruppo di soldati ribelli che non tornano a casa e con quell’incontro inizia la sua storia, per leggerla occorre mettere in pausa l’epilogo di questo romanzo e passare a“ Il partigiano Johnny”, una delle più belle esperienze di lettura che si possano consigliare.
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Presunzione umana
Dopo aver letto quasi tutti romanzi di Malamud, “Il migliore”“, Il commesso”, “Una nuova vita”, “L’uomo di Kiev”, “Le vite di Dubin” e perfino il postumo “Il popolo” non potevo esimermi dal terminare il ciclo con questo “Dio mio, grazie” ( 1982), l’ultimo pubblicato in vita, anche se ancora mi manca “Gli inquilini”, mentre la produzione breve è quasi interamente da esplorare.
Avevo messo in pausa Malamud, ma ritrovarlo è stato, come sempre, piacevole anche se questo romanzo è davvero spiazzante.
Esso si regge infatti su quelli che sembrerebbero essere i pilastri della storia dell’essere umano e della sua capacità di raccontarsi in storie più o meno veritiere: un uomo, un diluvio post apocalittico, una sopravvivenza oltre ogni possibilità, alcuni primati, la riscrittura del paleolitico e del neolitico con annesse le sue scoperte fondamentali, il logos generosamente possibile anche nella specie animale, la riproduzione e gli istinti sessuali, le gelosie, la convivenza, la necessità di un’etica fondante un mondo nuovo.
A prima vista sembra un romanzo distopico, ma non lo è .
Cohn è un paleontologo che per puro caso sopravvive perché, mentre si scatena l’ennesima guerra termonucleare tra uomini che generano la distruzione totale e un conseguente diluvio universale, di matrice tutta divina, si trova in immersione dentro un sommergibile. A stento capisce cosa gli è successo ma Dio subito gli si palesa a spiegare che lui è vivo per mero errore di calcolo, sarà anche lui presto distrutto e invece, sopravvive diventando un novello Robinson Crusoe. Non bisogna però temere una riscrittura delle avventure del mitico naufrago perché Cohn è figlio di un rabbino, è un ebreo che ha preferito lo studio scientifico alla narrazione biblica fondante la storia del genere umano e ora oscilla tra il timore reverenziale di questo Dio che è sola luce e parola e obblighi e castigo e punizioni, e la sua presunzione tutta umana. Quello che inizia come una felice distopia si tramuta presto in romanzo di avventura per poi rivelare la sua vera natura apologica anche se a tratti blasfema: con arguzia e ironia vengono riecheggiati nomi ed episodi biblici affibbiati ai diversi personaggi che via via compaiono, altri sopravvissuti, nessun essere umano mentre Cohn recupera nel suo quotidiano sopravvivere tutti i rituali ebraici, per quanto possibile, e non ammette altra religione, tanto meno quella cristiana professata da Buz, lo scimpanzé ritrovato nell’imbarcazione che fungeva da supporto al sommergibile.
Cohn si nasconde da Dio, Cohn sfida Dio, Cohn si sostituisce a Dio, Cohn ha dimenticato che l’etica senza l’amore porterà il genere umano a morire definitivamente.
Sebbene a tratti disturbante quanto il migliore Saramago, ne consiglio vivamente la lettura.
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Un eroe del nostro tempo
Una questione privata”, uscito nel 1963, poco dopo la morte prematura dell’autore, a detta di Calvino (cfr. prefazione a “Il sentiero dei nidi di ragno”, riedito nel 1964) è il libro che meglio rappresenta il senso della stagione politica e letteraria che si è soliti chiamare Resistenza e Neorealismo:
“Una questione privata … è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest'altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché. È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio”.
Beppe Fenoglio aveva scritto” il romanzo che tutti avevamo sognato..[...], il libro che la nostra generazione voleva fare”.
“Una questione privata” è la vicenda tutta intima di Milton, giovane partigiano, studente universitario, impegnato nella guerra partigiana ma sviato da essa da un ricordo, due anni prima aveva conosciuto Fulvia, una ragazza ricca, torinese, sfollata nelle Langhe, se ne era invaghito, e ora vorrebbe sapere, vedendo la villa abbandonata che la ospitava, che fine ha fatto. Riesce a parlare con la custode dell’abitazione che gli rivela, ripercorrendo i tempi trascorsi, che Fulvia avrebbe frequentato assiduamente e furtivamente, la notte, Giorgio Clerici, un loro comune amico. Milton da quel momento è preso dall’ossessione di rintracciare Giorgio, anche lui partigiano, per capire se Fulvia, che non gli ha promesso mai nulla, lo abbia davvero frequentato in quei termini. Giorgio è però fatto prigioniero e Milton si prodiga per liberarlo attraverso uno scambio di prigionieri, gli serve però un repubblicano. Il suo piano di azione lo porta a chiedere un permesso, a distaccarsi dalla guerra collettiva e ad agire per una pura questione privata. Non riuscirà nel suo intento e la dimensione privata si ricongiungerà mestamente nella guerra collettiva quando dovrà scappare da un distaccamento repubblicano e tentare con una lunga fuga di salvarsi…”Sono solo, Fulvia…a momenti mi ammazzi”... accantonando dunque il delirio personale.
Milton è descritto nell’incipit come brutto, scarno, ventiduenne, sempre aggrottato, con occhi tristi e ironici, stupendi dice la stessa Fulvia che lo reputa brutto ma non così brutto, lei gli chiede, alla loro prima conoscenza, la scrittura di lettere; lui scrive benissimo e ha, come si scopre progressivamente, molti tratti in comune col suo autore tanto da diventarne un alter ego, insieme a Johnny. Sicuramente è un antieroe, solitario, ha il nome di battaglia del poeta inglese, John Milton, autore del “Paradise Lost”, lui stesso traduce, è soprattutto un giovane ossessionato dalla gelosia, ma capace di una lettura del fatto storico secondo un’etica umana, ha una sua personale dimensione umana che travalica le convenienze e i codici, cerca una verità e sfuma misteriosamente in una fuga che non si risolve in una morte rappresentata. Rimane vivo nel ricordo intrecciando, l’autore, sapientemente la dimensione privata con la stagione dell’impegno civile.
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Esordio letterario
“ I ventitré giorni della città di Alba” è una raccolta di dodici racconti, sei a tema resistenziale, dove la fanno da padrone la morte per fucilazione di singoli partigiani o di repubblicani , sei a tema contadino: sono i due grandi filoni dell’intera produzione fenogliana.
Il racconto incipitario che dà nome alla raccolta, nel suo stile lapidario, già fa presagire i toni scarni che seguiranno: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”; Fenoglio registra l'avvenimento con un piglio cronachistico, gli uomini combattono una guerra fratricida e la natura ne subisce la violenza, la incornicia e la rende più dura. Il mondo rappresentato è quello di Alba e dintorni, le colline: si scende e si sale per ripidi declivi che il fango, la pioggia e la paura rendono impraticabili e pericolosi, spesso avvolti dalla nebbia che cela il nemico.
I partigiani rappresentati sono giovani ragazzi che combattono intrepidi oppure che semplicemente si arruolano volontari e in modo tardivo, per scoprire con amarezza un forte senso di disillusione quando scoprono la crudezza dell’essere partigiani. Netta fra loro è la differenza, ci sono soprattutto i badogliani, monarchici, e i garibaldini, i partigiani rossi di fede comunista; le loro idee riflettono anche la netta divisione sociale tra borghesi, ragazzi che hanno studiato, e i ragazzi del popolo. Un tratto li accomuna, un medesimo destino di morte violenta, loro semplici uomini, deboli e incoerenti come tutti, uomini che hanno paura: “Non contiamoci balle, Lancia, che è peccato mortale contarci al punto che siamo. Sei convinto che noi siamo stati fessi e che non possiamo più farci furbi perché ci pigliano la pelle? Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? se ti cerchi dentro, tu te la trovi l’idea? io no. E nemmeno tu.”
La raccolta di racconti lasciò il segno perché sconcertò chi quella stagione l’aveva vissuta, per il distacco intellettuale ed emotivo attraverso il quale si registravano, per la prima volta, in stile scarno e antiretorico i fatti della Resistenza. Fenoglio era stato un partigiano ma non si era abbastanza politicizzato e il suo partigiano, nei racconti come nel romanzo “Una questione privata” (1963), cambiati ormai i tempi, riconosceva un’altra possibilità di lettura alla guerra partigiana, una dimensione del tutto privata e ancora più lontana dalle ideologie.
Non piacque, nel primo racconto in particolare, la descrizione della sfilata dei partigiani in Via Maestra: "Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali". Il mondo partigiano è complesso come la realtà che riflette, non c’è da stupirsi, occorre solo avere il coraggio di rappresentarlo oggettivamente, Fenoglio lo ha fatto e in questo oggi risiede la sua grandezza, riconosciuta unanimemente.
Consiglio in particolare la lettura del racconto “Gli inizi del partigiano Raoul” per la rappresentazione del dubbio umano, per la presenza nello sfondo della figura materna, per la coincidenza della figura del partigiano con quella del figlio, spesso è riportato in tutta la produzione fenogliana il sentire comune che vedeva nei partigiani i figli di tutti, o ancora “Un altro muro” per la rappresentazione di una fucilazione mancata ed “Ettore va al lavoro” per conoscere la sindrome dell’ex partigiano, accostabile vivamente al reduce della Grande Guerra, per isolamento e incapacità di reintegrarsi nella società civile. Gradevoli anche i racconti a tema civile o contadino, riportano una realtà difficile ma non con toni tragici, la realtà così com’è, povera e desolata, problematica: è possibile vivere anche lì.
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Il labirinto
Un libro magnifico, con il potere di incantare facendosi leggere facilmente.
Una voce narrante ondeggia sui flutti del tempo, vede e sente ciò che è stato già visto e già sentito dal proprio nonno. Il presente intreccia il futuro e una scrittura magistrale culla l'animo, lo incuriosisce episodicamente e poi lo innalza alla commozione. Poche parole capaci di intenerire l'animo, di farlo commuovere fino a renderlo partecipe degli eventi narrati, come se si fosse lì, protagonisti.
Una diagnosi: empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica, malattia rara e incurabile che ha i suoi picchi nell'infanzia, mi piace molto di più la prima definizione e a corredo una simil voce enciclopedica che tratta di neuroni specchio: interessante Gospodinov, sull'onda lunga delle rivelazioni ultime delle neuroscienze.
E poi un filo conduttore, il Minotauro, bambino, figlio, in una nuova veste rispetto alle fonti mitologiche: parlante, ma soprattutto umanizzato e allontanato dall' iconica mostruosità che fa di lui lo spettro di tutti i mali. Si sofferma Gospodinov sulla riproduzione del mito che vede il mostro rappresentato come lattante in braccio alla madre Pasifae, un mostro bambino, nascosto poi nel labirinto, quello nel quale si ferma la nostra immaginazione nutrita da secoli di famelico eccidio di giovani ateniesi sacrificati ai suoi appetiti. Pensatelo bambino, il Minotauro.
E ancora tornare al bambino voce narrante che entra letteralmente nel corpo del padre, nei suoi pensieri, nel suo essere stato anche lui bambino, ladro di uova o ragazzo innamorato o padre di quel te che sbircia la sua intimità. Geniale.
Si apre poi una più netta sezione affidata alla memoria dell'io parlante e si è stati bambini negli anni '70, anche se non nella Bulgaria socialista, ci si ritrova subito nel ricordo: a me sono bastati gli indiani, figure stilizzate in plastica che riportano a scontri epici, inutile dire che non ho mai mosso un soldato. Il pulviscolo del cinematografo, mosca cieca e poi aneddoti del tutto personali ma che, inutile tacerlo, hanno sempre una lontana e venuta assonanza con i miti di cui il narratore si è nutrito fin da piccolo.
Le sezioni successive si accompagnano, purtroppo, all'abbandono dell' infanzia e alla perdita degli effetti della sindrome empatica, a una prima fase di spiegazione dell'affievolirsi degli stessi, segue una carrellata di ricordi: anni '80, '90 e l'allerta pre apocalittica precedente il salto di millennio: qui le notazioni si fanno più evanescenti ma anche sottilmente ironiche, divertenti, nonostante sia analizzato il genere umano nella sua interezza come essere debordante delle più viscide manie e del tutto incapace di cogliere i segni naturali che anticipano la sua fine. In queste osservazioni ci siamo tutti noi, è una parte interessante, a me ha risvegliato echi sebaldiani sul trascorrere del tempo anche se l'intento qui mi sembra più quello di voler ridicolizzare la società super tecnologica, all'avanguardia, che però ci sta disumanizzando progressivamente e inesorabilmente.
Snocciola ricordi la voce narrante e con essi sgrana il Tempo, suo e in qualche misura anche nostro, meno comunista, meno Europa dell'Est, ma anche nostro. È la malinconia del mondo, questa è la sua fisica, il codice per decifrarla sono il mito o l' esametro omerico o Esiodo, Plutarco o più semplicemente il ricordo.
Questa è la fisica della malinconia, un sentimento del tempo che può affidarsi alla fisica quantistica per disgregare l’essere e demolirne la centralità sorridendo della nostra finitezza e aprendo a una prospettiva panteistica molto affascinante. Rimane la malinconia come sentimento del mondo, il nostro, perso in una dimensione temporale fittizia, ma per noi così reale da schiacciarci, se solo ne fossimo pienamente consapevoli; altrimenti non resta che vagare dentro questo labirinto e perdersi senza il filo di una narrazione o al più tentare di costruirla.
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Proust
Sebald
Dentro e fuori di me
Un libro su Leopardi, non solo una biografia ma, come nei casi di scritti su letterati, una mescolanza di dati biografici e di analisi dei testi letterari; ammetto senza nessuna remora che la parte strettamente biografica è quella che ho maggiormente apprezzato, l’analisi dei testi, seppur necessaria, mi è risultata faticosa e dispersiva, quasi antologica, di nessuna utilità in questa sede.
Il volume seppur corposo si legge comunque agilmente, esordisce con l’esaustiva presentazione della coppia genitoriale, scalfendo anche qualche luogo comune e restituendo equa forza distruttrice ad entrambi i genitori, laddove una tradizione ormai consolidata propenda per attribuire responsabilità maggiori a Monaldo. Tutti i capitoli dedicati nella primissima parte alla vita nella prigione di Recanati sono molto interessanti e avvicinano al poeta come persona resa deforme dalla malattia, una gravissima forma di tubercolosi ossea che arrestò la sua crescita a un 1 e 41 centimetri, rendendolo gibboso, impotente, soggetto a insufficienza respiratoria, bronchite, dolori addominali, idropisia e quant’altro.
L’intento principale di Citati è però quello di restituire il pensiero leopardiano e qui l’impresa diventa titanica perché la mole degli scritti è tale da rendere necessaria una selezione oggettiva che tracci fedelmente la progressione delle idee, ma più spesso ci si scontra con il loro regredire e la loro involuzione. Il criterio cronologico, perfettamente osservato, permette però al biografo-critico di mettere in evidenze tutte le oscillazioni del pensiero del poeta-filosofo. Risulta comunque arduo, per la vastità delle tematiche affrontate da Leopardi, tentare una classificazione per nuclei tematici e il volume di certo non aiuta anche perché rifugge dalle classificazioni scolastiche che tendono a dividere in fasi l’evoluzione del pensiero leopardiano, investendoci con una serie di citazioni che sollecitano sicuramente alla lettura diretta dei testi, nonostante presenti un indice a forte componente tematica.
Una larga sezione è inoltre dedicata alla presentazione delle “Operette morali”, interessante come quelle dedicate a “L’infinito” e allo “Zibaldone”, più dispersive le restanti, mentre sono nutriti i riferimenti all’epistolario.
Una biografia insolita che può essere conservata come opera di consultazione qualora si voglia approfondire la genesi delle opere, il loro legame con il sistema di pensiero coevo o precedente, oppure recuperare qualche aneddoto come quello curiosissimo dei pasti che hanno preceduto il momento del decesso.
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Un grande amore
Tra i dodici finalisti del Premio Strega 2023 vi è questo dolorosissimo memoir scritto da Ada D’Adamo, morta il 1 aprile di quest’anno a causa di un tumore.
Il suo è uno scritto terapeutico che ha conosciuto la pubblicazione, ora è molto letto, ma nasce come una scrittura privata, su consiglio di uno psicoterapeuta, al fine di lenire molteplici ferite inferte dalla vita, la maggior parte delle quali coincidenti con quella condizione che generalmente è associata a uno stato di estrema gioia e prolungata felicità: la maternità. Eppure lo sanno le donne, e questo scritto arriva proprio a tutte, anche a quelle che non sono mai state mamme, per loro volontà o per destino infausto, che la maternità non è una condizione poi così semplice.
Il merito di questo scritto risiede dunque, a mio avviso, nella capacità di smitizzare la maternità, di avvicinarla alla complessità della quale si nutre quotidianamente anche se non si vivono condizioni di estremo dolore come quelle associabili all’essere genitore, in particolare mamma, di un disabile grave.
Daria, è la figlia di Ada e Alessandro.
Lo scritto la restituisce in tutto il necessario realismo: concepimento, nascita, diagnosi, ospedali, notti insonni, ausili sanitari, burocrazia, difficoltosa inclusione scolastica, solitudine, corpo, esigenze corporali. Un insieme che schiaccia la famiglia accudente. Tra le righe però affiora un grande amore, difficile e sofferto, ma immenso: la fusione dei corpi in piscina, il dialogo in un linguaggio corporale, il pensiero totalizzante teso in fondo solo a garantire il benessere della propria figlia.
In fondo a tutto questo, in sordina, di lato, anche la sofferenza del proprio corpo minato dal dolore a causa del tumore; la necessità di pianificare il futuro di Daria in sua assenza, la consapevolezza di aver ritrovato in questo ultimo scorcio di vita un significato alla sua esistenza.
Mai retorico, lo definirei necessario per ricordarci qual è la nostra condizione: limitata e fragile anche se le nostre esistenze vivono del falso mito della salute e della forza escludendo qualsiasi riflessione sulla malattia e la morte: i nostri tabù.
Aggiornamento: il libro ha di fatto vinto il Premio Strega 2023.
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Tempi migliori (limite mio)
Un ritratto cupo, in bianco e nero, di una società fatta di individui che hanno perso la loro identità e sono ridotti, nel nome - vengono chiamati “Mani”- e nei fatti a una massa produttiva e senza diritti. Vivono dentro le fabbriche e sono uno sfondo necessario ma non protagonista di una realtà grigia e tetra, Coketown, immaginaria cittadina industriale dell’Inghilterra dell’800; non li vediamo infatti mai protagonisti della narrazione, se non in una scena corale, di massa, appunto che li vede quasi spettatori passivi del destino di uno di loro, Stephen Blackpool, già emarginato da una scelta sindacale non gradita ai più: non la lotta ma il delicato e necessario compromesso con i padroni.
Eppure, “Tempi difficili”, non racconta e non rappresenta la plebe urbana all’ombra delle ciminiere, se non indirettamente, esso infatti fa protagonista la critica a un modello economico e di pensiero, quello incarnato da Thomas Gradgrind, che mira ai fatti, alla razionalità, all’interesse personale ma che devia in un pieno insuccesso educativo. Molto attuale, se riflettiamo sulle attuali pressioni che vengono esercitate sui nostri giovani sulla scia di un modello di sviluppo economico insostenibile, in tutti i sensi. I suoi due figli, castrati nell’immaginazione e nel pensiero, Tom e Louise, falliranno come persone, la prima sentendosi costretta e accettando un matrimonio con un ricco industriale molto più vecchio di lei, Josiah Bounderby, amico del padre; l’altro, denominato a più riprese il “botolo”, un ribelle, spingendosi oltre la legalità.
Opera della maturità, acclamata come capolavoro, è stata invece per me una lettura faticosa, trascinata a lungo, con una sezione centrale particolarmente lenta; uno stile realista che lascia poco spazio alle riflessioni poetiche, caratterizzato invece da tagliente ironia.
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Apoteosi teatrale
“Julia parlava in modo assai diverso con se stessa e con gli altri; il suo linguaggio, parlando con se stessa, era piuttosto crudo.”
Esteriormente una donna di successo, assistiamo alla narrazione della sua carriera, dagli esordi alla ribalta, un successo meritato per doti innate, una moglie fedele, una madre coscienziosa.
Intimamente una donna irrisolta, lacerata dall’avanzare dell’età, sessualmente attiva, nonostante il matrimonio quasi bianco con il suo amato Michael, “il più bell’uomo di Inghilterra”, attore mancato, imprenditore teatrale di successo.
Una coppia glamour, una vita sociale da fare invidia, una quotidianità ingabbiata dai ritmi del teatro, schiavizzanti.
Julia a me sembra solo una donna in cerca di libertà di espressione, bisognosa di eterna e continua gratificazione che le confermi che oltre a essere una brava attrice, è anche una bella e desiderabile femmina.
E quando è femmina può permettersi di uscire dalla finzione, dalla sua eterna maschera, centuplicata non dai centomila che la leggono sempre diversa, alla maniera pirandelliana, ma dagli innumerevoli ruoli che nella sua carriera hanno ibridato la sua identità. Lei non sa più chi è, agisce come da copione, pensa come da copione, parla con le battute dei vari copioni, fino a quando non coglie nella sessualità la sua massima libertà di espressione. Curioso che non la consumi con il suo adorato marito, ma che si abbandoni a incontri fortuiti, ad avances di imberbi e generosi giovanotti, rigettando magari la devozione di un fedelissimo.
E l’amore? Che posto ha nella sua vita?
“...significa pena e angoscia, estasi, vergogna, paradiso e inferno; significa vivere, intensamente, e noia indicibile; significa libertà e schiavitù; significa pace e tormento.”
La sua maschera coincide con lo strato di cerone che le regala “un’altra personalità immune dai dolori umani”.
Sarà il figlio Roger a smascherarla, a metterla di fronte alla realtà, quella assurda circostanza misteriosa che tanto la spaventa.
Lei preferisce essere quell’ectoplasma che assorbe l’ansia della vita, quel simbolo che nel palcoscenico assume le forme e gli umori più vari per concedere al pubblico con la finzione l’unico briciolo di realtà.
Apoteosi teatrale!
Lettura gradevole, apparentemente leggera, rispolvera i noti temi pirandelliani con una vena umoristica e atteggiamento indulgente verso i limiti dell’essere umano così ben compendiati nella finitezza bohémienne di Julia.
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Una e trina
1967
Raccolta di tre racconti. Il primo, il più corposo, si nutre della forma diaristica e dà il titolo alla raccolta, il secondo, dal titolo “L’età della discrezione” , è con la sua pacatezza finale, un ottimo anello di raccordo con il terzo, “Monologo” che chiude in maniera circolare la raccolta tornando al primigenio dolore, intenso e lacerante, già rappresentato nel primo. Non solo il dolore funge da trait d’union, trovando la sua massima forma espressiva nell’abitare la lacerazione intima di tre donne, in realtà unica e iconica ma sfaccettata e declinata in triplice forma, perché ad esso si accompagna il profondo senso di fallimento incarnato dalle tre protagoniste. La prima è il prototipo della donna borghese, moglie di un professionista, casalinga e tradita, alla scoperta del tradimento accetta la spartizione del marito con l’amante, lacerandosi e scoprendo a sua volta la propria incompiutezza. Lascia basiti per una lontananza culturale con il rampante senso di superiorità che pare investire oggi, in modo altrettanto pericoloso, la categoria “donna”. Quanto mi stanno strette tali categorie! La seconda è una madre che preferisce rompere i ponti con il figlio adulto, colpevole di un tradimento ideologico di matrice anticomunista, intollerabile, fino a quando, allontanatasi anche dal marito, riceve proprio da lui la forza per accettare in fondo la propria senilità, come condizione biologica ma soprattutto mentale. La terza donna infine affida a un monologo isterico, disperato e malato il suo tormento per la morte suicida della figlia.
Lettura tutto sommato gradevole, nonostante l’opera risenta del clima culturale che l’ ha generata e del substrato culturale dell’autrice.
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TEATRI E TEATRINI
Un manoscritto intitolato “Origini delle grandezze della famiglia Farnese”, una storia di favoreggiamenti ecclesiastici con tanto di prigioniero ed evasione da Castel Sant’ Angelo, una storia d’amore clandestina, tante suggestioni di prima mano da frequentatore assiduo dell’Italia: queste le principali fonti di ispirazione per la scrittura di questo romanzo che purtroppo ha deluso le mie aspettative.
In estrema sintesi è raccontata la formazione di un giovane che nato da una famiglia di reazionari si accende a entusiasmi dettati dal mito di Napoleone e partecipa, con grande ingenuità , alla battaglia di Waterloo, non capendo neanche di averlo fatto mentre il suo eroe è battuto. Presto si inguaia, per eccesso di ingenuità, e scampa a diversi pericoli per riuscire a ricadere sotto la protezione della giovane zia Gina la quale, dopo averlo iniziato alla carriera ecclesiastica, non tarderà a infatuarsi progressivamente del nipote, il quale si rivela per buona parte della narrazione un farfallone. Un’ accusa di omicidio lo allontanerà dalla corte di Parma che gli ha dato asilo grazie appunto alla protezione della zia la quale da vedova è divenuta amante del potente conte di Pietranera, primo ministro dell’immaginaria corte parmense. É proprio la corte, per larga parte della narrazione, a essere la protagonista indiscussa di un piccolo mondo fatto di potenti che si contendono, con vari intrighi, i favori dei regnanti. A ciò si intrecciano le peripezie del giovane, il quale solo nel momento della sua cattura e della sua prima prigionia scopre l’amore per Clelia Conti, un amore impossibile, lui prigioniero, lei figlia del generale. A questo punto, un’ altra larga parte della narrazione è dedicata a questo amore impossibile che rimarrà tale per altra buona parte fino a giungere a una sorta di epilogo precipitoso e tragico.
Insomma, neanche Dumas! Una giustapposizione di eventi rocamboleschi, dal sapore vagamente avventuroso, condito da un’ ambientazione minuziosa di una corte mai esistita, un amore impossibile, un omicidio per legittima difesa, una torre per una degna e lunga prigionia, gli avvelenamenti ripetuti e scongiurati, una interminabile sequela di ammiccamenti al lettore francese che non dovrebbe stupirsi di tutto ciò perché se dovesse richiamare il principio di verosimiglianza, egli dovrebbe semplicemente ricordarsi che siamo in Italia…
E infine una Certosa, ultimo ritiro di Fabrizio del Dongo, il nostro protagonista, vero emblema dell’antieroe, una Certosa che appare solo alla fine ritagliandosi la sua centralità, del tutto sviante, in questo titolo così famoso.
Sarà lo stesso destino dell’ormai maturo Del Dongo: la sua centralità non è forse dovuta in larga misura alla sua assenza dal palcoscenico della corte che lo ospita, lui ennesimo teatrante fra mille, lui icona della simulazione?
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il gioco della fratellanza
Come definire questo classico della letteratura e parlarne in termini distesi e sintetici evitando analisi puntigliose e direi inutili, vista la messe di studi che vanta?
Esordirei dicendo che si tratta di un lungo romanzo con un epilogo ma senza una fine, ultima opera inconclusa e vertice di un processo creativo ininterrotto se non dalla morte del suo autore. Un finale aperto dunque, semplicemente perché monco di ulteriori sviluppi tra l'altro già pensati all’interno di un disegno più vasto, che non si è potuto concludere.
Una lettura che ha bisogno del giusto tempo per essere assaporata, non la si può certo consumare, una lettura stratificata che andrà poi reiterata, tale è la ricchezza dei temi che affronta e la costruzione narrativa che la sorregge.
Un parricidio, l’evento che si potrebbe definire dirimente nella trama, accarezzato con fine arte anticipatoria, presentato solo dopo numerose altre pagine precedenti, fitte di relazioni interpersonali tra i membri della atipica famiglia dei Karamazov, e sebbene posizionato centrale e come spartiacque, non rappresentato nel suo accadere ma solo ricostruito attraverso la fitta rete dei rapporti interpersonali che a raggiera coinvolgono tutti i personaggi riannodando i fili della narrazione e i tasselli narrativi posizionati in precedenza. Una pianificazione dell’intreccio straordinaria per complessità, assimilabile al più complesso dei romanzi gialli che si possa immaginare.
Non è il giallo il solo colore richiamabile nei diversi moduli narrativi che stratificano questo capolavoro; vi sono infatti le tinte fosche del noir, quelle rosa dei romanzi d’amore, quelle ancora più impalpabili del romanzo psicologico e quelle tutte russe che un colore non hanno ma sono i panni stesi nelle piccole stanze della povera gente o le ricche dimore o le bettole e le osterie di un paesaggio urbano all’ombra della capitale.
Un universo variopinto, magistralmente.
Un andante, un tempo dunque opportunamente dilatato e virante al lento, necessario per parlare di grandi temi universali: l’individuo, la massa, l’amore verso se stessi e verso il prossimo; l’abisso delle proprie vergogne, il sentimento religioso: ricchezza o limite al pensiero umano, “la forza fangosa dei Karamazov”: una sorta di Fato familiare, quasi un patrimonio genetico difettoso; il peccato in senso cristiano, il trascendente e la spiritualità. Su tutto un realismo (“ - Che orribili tragedie combina agli uomini il realismo”) che cerca ostinatamente di sconfiggere la spiritualità; è l’eterna lotta del Bene e del Male , perchè in fondo “tutti siamo crudeli, tutti siamo dei mostri” come ricorda Mitja al momento dell’arresto.
Il delitto, il castigo. Il sottosuolo. I demoni. Un cerchio che si chiude con l'ennesimo giro di valzer delle due massime forze antagoniste in una partita che non avrà mai un vincitore.
Un gioco per un giocatore incallito, compulsivo e a tratti epilettico. Buona lettura!
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Sempre attuale
Jacopo, Teresa, la patria.
Parini, Alfieri, Machiavelli.
Natura matrigna e prime anticipazioni leopardiane.
Spirito preromantico. Atmosfere cupe e animo tormentato. Suicido letterario necessario per aprirsi alla possibilità di una sopravvivenza fatta di “armonia che vince di mille secoli il silenzio”.
Oscillazioni e tensioni: la natura amica di Arquà, i miti colli Euganei, i dirupi di Ventimiglia, un inanellarsi di cime alpine, lo sguardo dell’esule, il dialogo con la Luna, la perorazione della causa/suicidio con la Natura. Gli echi europei, sul solco del romanzo epistolare, le traduzioni, l’humus della cultura classica. Una summa questo Ortis, passi vividi che sono capaci ancora oggi di parlare ai nostri giovani: le illusioni, la felicità, l’indipendenza di pensiero, la fantasia, la lontananza dal consorzio umano, la necessaria forza delle idee, il desiderio di pace. Sempre attuale, con o senza Napoleone, che di tali despoti è piena la Terra.
Edizioni Garzanti consigliata, apparecchia un’introduzione a firma Walter Binni, non si può chiedere di più.
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MAMMA AGNESE
Un libro meraviglioso, un documento sospeso tra pagine di incredibile bellezza letteraria miste ad altre di umano sconforto, sofferenza e agghiacciante paura. Ovunque la sospensione del pacifico consorzio umano fatto di quotidianità, certo anche quella talvolta risentita e conflittuale come tra l’umana gente, duro lavoro nei campi e un avvenire di miseria e stenti. É la guerra, quella tra alleati e nazisti, è la guerra, quella tra partigiani e fascisti. Anche la più pacifica e innocua esistenza può celare uno spirito combattivo, ideologicamente schierato, insospettabile, perché così devi essere se vuoi salvarti la pelle e concorrere alla salvezza della tua terra, riacquistare la libertà perduta, scacciare lo straniero e liberarti per sempre dei fascisti. Devi scegliere da che parte stare. Questo ha fatto Palita, il marito di Agnese e lei non se ne è mai accorta; lo hanno preso i tedeschi perché Agnese ha portato un soldato a casa, un disertore, e lo ha rifocillato e nascosto. Una sporca delazione, i tedeschi in casa, il rastrellamento, Palita è prigioniero, seguono l’attesa del suo ritorno e la certezza della sua morte. La vita di Agnese subisce una svolta con la vedovanza, con l’ennesimo sopruso fascista, con la ribellione: uccide volontariamente un tedesco, diventa partigiana. Insospettabile, quasi vecchia, in realtà è una cinquantenne obesa e disfatta , si dà da fare per i compagni, diventa una compagna, lei senza colore, e agisce perennemente: è la protagonista indiscussa e mesta di buona parte della narrazione, quella nella quale i partigiani non sbagliano un colpo, maestri nella loro terra, le valli della Bassa, tra argini e rivi, a confondersi, mimetizzarsi, tendere agguati. Sempre vincenti. Progressivamente però il loro operare vacilla, la stanchezza della resistenza ha la meglio, subiscono duri colpi, protagonista è ora l’inverno, duro, rabbioso, vento, neve, gelo; tutto è perduto ma lei va con la bicicletta per una nuova missione, va, come anticipato dal titolo, per non tornare.
Renata Viganò rimpiange da partigiana la partigiana Agnese che ha conosciuto di persona e le cui ceneri sono disperse come quelle di tanti, di molti, di troppi, vittime della guerra; lo fa nella speranza che il ricordo della lotta partigiana rimanga vivo nella memoria di tutti noi, senza retorica.
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Operazione editoriale
Piccola storia della piccola Italia fascista, storia ambientata a Monza ai tempi della guerra in Etiopia, un piccolo universo umano opportunamente dicotomizzato in buoni e cattivi: i borghesi prepotenti, fascisti e sciupafemmine, i poveri, popolani e antifascisti, portatori di un’etica familiare positiva basata sull’amore e sul rispetto reciproco. In mezzo a questi due mondi una ragazzina che funge da cerniera, è Francesca Strada, la figlia di buona famiglia che incontra i Malnati, due ragazzini quattordicenni che trascorrono il loro tempo sul Lambro in compagnia della Malnata, Maddalena, tacciata dalla piccola comunità rappresentata come portatrice di sventure, una piccola strega, riconoscibile anche dal viso segnato da un angioma che dalla tempia scende al collo. Francesca e la Malnata diventano amiche tra alterne vicende e la maledizione della seconda ricade sulla prima la quale viene contaminata dalla cattiva frequentazione fino ad un epilogo risolutivo che giunge a sciogliere una brutta faccenda anticipata dal prologo e lasciata presagire al lettore.
Rimasta vaga sulla trama, onde evitare di sciogliere quei pochi nodi che rendono la lettura vivace ma prevedibile, mi esprimo sulla qualità dell’operazione editoriale messa in atto: è evidente che la capacità di scrittura della giovane autrice sia stata purtroppo oltremisura esaltata e finalizzata, un esordio letterario cui seguirà una serie televisiva e un’uscita contemporanea in traduzione in trentadue lingue. Non ho letto un capolavoro e ciò mi lascia perplessa, la scrittura è a tratti ingenua, casserei del tutto l’orribile episodio del primo flusso mestruale, affinerei la caratterizzazione psicologica, inserirei qualche anacronia e migliorerei l’ambientazione, farei lievitare la storia con un nutrito numero di pagine in più, tutte necessarie e smetterei di pensare ai romanzi come a prodotti da immettere nel mercato. Auguro alla scrittrice un percorso più autonomo e indipendente da queste logiche sperando che nel frattempo non la danneggino. Il romanzo verrà letto e apprezzato ma spero che il nuovo canone letterario possa nutrirsi di altro.
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- sì
- no
L'eredità
La scrittura vince la morte e resuscita dall’oblio la dignità di uomini e donne vissuti un secolo fa a ricordare a te, mesto lettore, la forte probabilità che anche la tua esistenza corre il pericolo dell’oblio, quella stessa esistenza che oggi è l’affanno primordiale nel quale ti affanni, annaspando, per non naufragare o ancora peggio per non annegare.
La storia riesumata è quella di un’amicizia forte tra Ragazzo e Barour, pescatori di merluzzo, votati al mare per necessità e per un destino avverso, lo stesso che priva, con la velocità di un fulmine, il secondo della vita, lasciando Ragazzo, solo, a cercare un nuovo significato alla sua.
L’eredità dell’amico però è viva e risiede nel suo grande amore per la lettura, la stessa che lo ha condannato alla morte prematura: leggeva il “Paradiso perduto” e il potere dei versi di Milton gli ha fatto dimenticare la cerata nella sua ultima uscita in mare, consegnando così il suo respiro al gelido vento del mar Artico.
A terra, nell’inospitale Islanda, tornano gli altri, esistenze abituate al pegno ciclico da pagare alla Natura, vinti dall’accettazione del loro destino che non è stato mai squarciato dalla potenza della scrittura, solo Ragazzo ha intuito questo potere salvifico e, seppur con difficoltà, è pronto a modificare il suo destino.
Da allora è il viatico per il lettore, la sua nuova esistenza registra quelle degli altri con i quali entra in contatto, ne fa tesoro e ce li consegna per nuove infinite riflessioni sul senso della nostra esistenza.
Opera originale nello stile, la narrazione è affidata a una coralità di esistenze passate appartenenti alla medesima comunità, dal forte lirismo nella prima parte ma che va gradualmente a spegnersi nella seconda lasciando la sensazione di un’opera non perfettamente compiuta. La narrazione prosegue in altri due volumi che chiudono la “trilogia del ragazzo”.
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Tornare a se stessi, faticoso e necessario
Si tratta delle pagine di un diario giovanile datate novembre 1774- febbraio 1775, quelle scritte in francese, aprile-giugno 1777, quelle scritte in italiano: una ventina di giornate complessivamente, di queste, due con la sola data, un’altra con la dicitura “Nulla che vaglia d’essere scritto”.
Alfieri ha venticinque anni e sono gli anni del consolidamento della sua vocazione letteraria e della redazione delle prime tragedie. Nella stessa “Vita” parla di queste pagine diaristiche come di un esercizio di studio di se stesso anche se lo specchio nel quale si guarda è ancora offuscato da un’incapacità di analisi nonostante il suo costante anelito al miglioramento personale.
Sono raffigurate tutte le oscillazioni di un animo giovanile colto nell’incertezza che accompagna la scelta: abbandonarsi agli istinti e compiacere gli altri o arrovellarsi e scontrarsi con la propria intimità per domandarsi chi si è realmente e chi si vuole diventare. Tornare a se stessi è sempre più faticoso, soprattutto se si è consapevoli che la propria condotta di vita sta coltivando solo il vuoto.
Malinconia, tedio e dissolutezza sono le sue compagne, i mostri da combattere: perenne dunque la condizione giovanile che talvolta rischia di naufragare con siffatta compagnia!
Un giovane come tanti che sbaglia e poi si pente perché dotato del dono prezioso della riflessione, capace di capire che lo studio e la scrittura sono per lui, anche se in maniera imbarazzante quasi totalmente proteso alla fama, valide alleate per combattere il suo peggior nemico: se stesso.
Incline all’ozio, in perenne disavanzo culturale, con una tremenda paura della morte e del limite, consapevole di essere in fondo come tutti gli altri essere umani e incapace di accettarlo. Uno di noi.
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Esordio letterario...non prendiamoci troppo sul se
Esordio letterario, datato 1992, di una giovane scrittrice oggi narratrice affermata e prolifica: sicuramente un romanzo originale nell’impianto, basato su una serrata tensione dialettica espressa tramite dialoghi che rimandano al piano metaletterario e su un’originale trama. Non nascondo che mi ha fatto pensare, a tratti, ad Henry James, “Giro di vite” e a Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray”.
Prétextat Tach è uno scrittore insignito del premio Nobel, i suoi libri non li legge nessuno, è vecchio, isolato dal mondo, ha un aspetto orribile a causa della sua obesità e un carattere scorbutico; gli rimangono appena due mesi di vita e accoglie nella sua casa i giornalisti che il suo zelante agente gli manda per le ultime interviste. Egli non vorrebbe prestarsi a tali scambi dialettici poiché non ritiene nessuno all’altezza del suo pensiero e si diverte a maltrattare i malcapitati con comportamenti imbarazzanti ma soprattutto annientandoli verbalmente. L’unica che gli resisterà sarà una donna che ribalterà i ruoli di vittima/carnefice trasformandosi anch’essa però in vittima dello stesso nemico da lei vinto, in un assurdo destino che scardina il piano della realtà. La stessa giornalista metterà a nudo l’identità dell’uomo che si cela dietro lo scrittore proprio a partire dalla conoscenza puntuale di tutta la sua produzione, romanzi incompiuti compresi. A partire da uno di essi condurrà infatti una ricostruzione degna di un processo per fare dello scrittore un imputato che non può essere assolto né condannato.
Una lettura interessante, veloce, anche piacevole che pare criticare sottilmente il mondo letterario, quello dei premi, quello degli scrittori affermati e anche quello dei lettori incompetenti.
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La vita...che avventura!
"Allo studio dunque dell'uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest'opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di sé stesso? "
Un'autobiografia animata dall'amor proprio che ha lo scopo pratico di restituire un'immagine vera dell'autore, evitando mercificazione posteriore da parte di altri del suo dato biografico - cosa che lo stesso si attende che accada - e che permette di perseguire il suo fine ultimo: indagare l'uomo in generale. L'opera è divisa in epoche, la prima è naturalmente dedicata alla puerizia e oltre a situare lo scrittore nel contesto nobiliare della nascita, restituisce una serie di gustosi aneddoti che riflettono un carattere vivace, incline alla fantasia e qualche volta alla marachella, la quale viene immediatamente punita, rimanendo il suo un carattere deciso e a volte ostinato. Un bambino educato con metodi rigorosi, orfano di padre, morto già sessantenne quando egli aveva pochi mesi, un patrigno, fratelli e sorelle acquisiti da unioni precedenti e successive a quelle che lo hanno generato ma anche naturali, i quali curiosamente non coincidono mai nel numero con la fonte biografica del Dossena, più volte citata in nota. Prossimo all'adolescenza, per volere dello zio paterno, suo tutore, viene inserito nell'Accademia di Torino: l'infanzia finora tratteggiata, per Alfieri sarà, secondo un adagio pedagogico sotteso al suo pensiero, il nucleo primitivo e originario del suo essere uomo. E contro l'ineducazione patita negli anni dell'adolescenza trascorsi in Accademia si scaglia la sua critica: non ha imparato nulla se non che "la vicendevole paura" governa il mondo. Con la morte dello zio paterno acquisisce la libertà che gli deriva dall'eredità del patrimonio del padre e rinnova la sua vita dandosi a divertimenti e alla frequentazioni di suoi pari. Sperpera e gareggia con i giovani nobili, si vergogna della sua ricchezza con i compagni meno abbienti, evidenziando la sua naturale inclinazione "alla giustizia , all'eguaglianza ed alla generosità d'animo". Sul finire della seconda parte liquida gli otto anni della sua adolescenza come " infermità ed ozio, e ignoranza". La giovinezza è un susseguirsi di viaggi e si sorride nel leggere che visita i luoghi senza consapevolezza alcuna, rimpiangendo a posteriori ad esempio di non aver colto occasione di rendere omaggio a Petrarca quando si trovava a Padova e quindi poco distante da Arquà, ma d'altronde all'epoca "che m'importava egli di lui, io che mai non l'avea né letto, né inteso, né sentito… ".Una certa sua indolenza spinge poi un conoscente di famiglia, incontrato a Genova, a spronarlo alla partenza per la Francia dove viene attratto dal teatro, pur non pensando minimamente che anche lui avrebbe potuto scrivere composizioni teatrali. Predilige comunque la commedia. Lasciata la Provenza giunge finalmente a Parigi e la paragona a una cloaca, anche qui entra in contatto con gli ambienti regali, è presentato a Luigi XV e riflette a posteriori sulla Rivoluzione francese nutrendo dubbi su un migliore governo di "questi re plebei". Predilige di gran lunga Londra e in Olanda vive il suo primo amore con una giovine già sposata, la forzata separazione da lei culmina in un tentato suicidio e nel ritorno in Italia: ha diciannove anni, inizia a leggere Machiavelli e rientra con un baule carico di scritti dei più noti illuministi, ma è Plutarco a interessarlo maggiormente. Durante il secondo viaggio, ormai nel pieno possesso del suo patrimonio, si reca in Austria, i a Buda, ancora nei paesi nordici, leggendo ora Montaigne, evitando l'adulazione di corte che vede in Metastasio e che aborre, per giungere finalmente a riscoprire la lingua italiana, nell’ impratichirsi con il toscano, e con la stessa letteratura nazionale mai compresa. Ogni spostamento lo allontana sempre più dalle forme di governo assoluto che ancora imperano, la massima distanza in Russia. Tornato a Londra amoreggia con una bellissima donna sposata e diventa, suo malgrado, protagonista di uno scandalo pubblico; sono pagine serrate, dal ritmo veloce e degne di un vero e proprio feuilleton, vi si scopre un giovane temerario e romantico al tempo stesso. Il terzo amore infine in Italia per una donna più grande di lui è vissuto come un laccio che gli fa però maturare la sua predisposizione congenita alla indipendenza e solo attraverso numerosi tormenti dell'animo riesce progressivamente a disfarsi di tali lacci: lascia la donna e anche il servizio militare, prova infatti viva e decisa avversione verso uno sbocco lavorativo adatto al suo lignaggio: ora che conosce le misere regalità europee mai potrebbe fare egli l'ambasciatore e torna, più consapevole agli studi, decidendo lui ora i lacci, era solito infatti farsi legare alla sedia per mantenersi costante nell'attività atta a colmare la sua ignoranza della lingua italiana e dei suoi maggiori poeti. Inizia intanto a poetare componendo insulsi sonetti e le prime tragedie, ha ormai ventisei anni. L'ingresso nell'epoca quarta, quella della "virilità" avvicina finalmente al letterato, il giovane si piega allo studio, con fatica e disdegnando ancora il canone imposto dal suo percorso scolastico, del "Galateo" di Della Casa non vuole sentir parlare, è però risoluto nel dedicarsi allo studio dell'italiano e il timore è ora quello di vedere contaminato il suo naturale sentire tragico dalla lettura delle tragedie dei grandi, è infatti ormai pienamente consapevole delle sue potenzialità. Rinuncia completamente ai suoi possedimenti cedendoli alla sorella per liberarsi della servitù feudale alla corona, soprattutto perché essa lo limita negli spostamenti e nella pubblicazione delle opere, entrambe le azioni necessitano infatti sempre dell'accordo reale. La dimora a Pisa e poi a Firenze per migliorare lo studio della lingua lo porta alla conoscenza e alla frequentazione di una donna sposata ma strettamente sorvegliata dal marito, si tratta della donna della sua vita, Luisa di Stolberg-Gedern, contessa di Albany. Alfieri cede all'amore anche perché ella è donna di cultura e lui sa che non lo potrebbe mai sottrarre alla sua arte. In questa sezione è contenuta anche l'interessante digressione sul suo metodo di composizione delle tragedie: "ideare, stendere e verseggiare". Continua inoltre imperterrito la cronologia che ora scandisce sempre più il numero delle tragedie composte, legate con duplice filo alla storia d'amore travagliato che vive; la ritrovata serenità dopo lo scioglimento del matrimonio dell'amata coincide infatti con una ricca stagione creativa, "Merope" e "Saul" fra le tante del 1782. Segue poi un forzato allontanamento dalla donna amata che continuava a frequentare in casa del cognato di lei e un successivo peregrinare tra i luoghi dei nostri maggiori poeti e poi di nuovo in Inghilterra a comprare cavalli; si distende in questa passione ma perde ancora una volta la pratica dello studio sentendo al pari compromessa la vena creativa che infatti tace. La terza parte si chiude con l'amarezza per la Rivoluzione trasformata in barbarie e un congedo al lettore con la speranza che, se lui dovesse nel frattempo morire, queste memorie vengano rispettate nella loro integrità e nel loro stile, a compendio dei suoi quarantuno anni di vita ivi narrati. In realtà sarà lo stesso Alfieri a rimetterci mano dopo tredici anni proseguendo la narrazione da dove l'aveva interrotta e apportando i dovuti cambiamenti nello stile. Narra dunque di altri soggiorni, dell' incontro fortuito con la donna amata in Inghilterra, e della fuga rocambolesca dalla " Cloaca massima", una Parigi trasformata in barbarie che nella plebe inferocita vede un giustiziere fallito quando tenta di fermare lui e la sua donna e il loro seguito di carrozze e cavalli. Il rifugio sarà Firenze. Riprende gli studi e da autodidatta impara il greco, con tanta caparbietà, si premura di proteggere i suoi scritti da edizioni da lui non riconosciute. Scorrono infine gli ultimi anni della sua vita senza che lui sappia che saranno tali, interrompe la scrittura il 14 maggio 1803, morirà nell’ottobre dello stesso anno, a cinquantuno anni; lo scritto si chiude con il racconto della sua morte da parte della contessa d’Albany in una lettera indirizzata al Signor abate di Caluso, Tommaso Valperga.
Ottima lettura.
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Tentativo fallito
Ho approcciato questa lettura scegliendo tra i dodici finalisti candidati al Premio Strega, anche nell'estremo tentativo di sciogliere il pregiudizio sul contemporaneo italiano. Non sono riuscita ad apprezzare il lavoro dell'autrice, sebbene a tratti mi abbia divertito, soprattutto all'inizio, quando con tono scanzonato propone la sua bizzarra famiglia, indugiando spesso sul suo essere bambina, particolare e diversa rispetto alle altre. Mi ha poi stancato questo tono comico e man mano che la bimba si è fatta adolescente, arrivando poi allo stadio di donna, la lontananza si è fatta incolmabile. Ha contribuito sicuramente la dichiarazione di poetica - in fondo già presente nel titolo che si riferisce a Vero quale diminutivo di Veronica e sinonimo di verità - consistente nel confondere il lettore preavvisandolo che quanto raccontato forse oscilla tra il piano della realtà e quello della finzione, unita a un universo di esperienze che mi sono sembrate lo specchio di un essere irrisolti che non ha nulla di poetico ma solo il retrogusto tragico di un fallimento generazionale.
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All'ombra delle impalcature
La rappresentazione della lotta di classe è al centro di questo romanzo facente parte della trilogia “Una storia italiana” tesa a rappresentare nei suoi tre volumi il mondo proletario, ”Metello” (1955), quello borghese, “Lo scialo” (1960), e quello intellettuale, “Allegoria e derisione” (1966).
Un romanzo realista e insieme di formazione che permette di seguire l’evoluzione del piccolo Metello da orfano di entrambi i genitori a padre di famiglia, all’ombra della cupola di Santa Maria del Fiore. Le vicende personali, intrecciate a quelle delle prime rivendicazioni sindacali del proletariato edile, sarà egli infatti uno dei maggiori fomentatori degli scioperi ad oltranza che metteranno in ginocchio la classe imprenditoriale, giungono a diversi momenti apicali permettendo di tenere desta l’attenzione del lettore attraverso l’uso sapiente della suspense. Tanto è irrequieto Metello, dai tratti un po’ renziani, del Renzo manzoniano, nel trovarsi al centro della storia, così viceversa è pacata ed equilibrata Ersilia, la moglie, che nelle vicissitudini che accompagnano il loro nucleo familiare, in perenne sofferenza economica, è capace di bilanciare le tensioni e di scioglierle. Le pagine che rappresentano l’amore coniugale, anche attraversato da minacce insopportabili, sono vivide e delicate insieme, pungenti e al tempo stesso confortanti. Si respira profumo di amore, intimo e rubato, in un quartiere vivo nella Firenze a cavallo tra i due secoli, la cui toponomastica accompagna il lettore tra l’ Arno e le Murate, il carcere, seconda casa del nostro protagonista che a più riprese vi torna. Un romanzo lineare con decisi e godibilissimi passaggi lirici, non ha alcuna pretesa ideologica ma riesce nel suo realismo sociale a far sussultare il lettore e a farlo trepidare nella speranza che qualche diritto venga riconosciuto.
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A ciascuno il suo
Affare, caso politico, pasticciaccio avrebbe detto qualcuno, difficile comunque essere così lucidi dopo appena tre mesi dagli eventi. Sarà stato il ritorno delle lucciole a illuminare Sciascia in quel di Racalmuto nell'agosto del '78? Far riaffiorare alla memoria il labirintico Borges e lo spietato analista Pasolini ha concorso sicuramente a creare la giusta cornice per questa altrettanto lucida analisi: degli eventi, dei comportamenti ma soprattutto delle parole dette nel non detto di questo lurido affaraccio. Analizzare le parole delle lettere di Moro, soprattutto, permette a Sciascia di capirne il significato più profondo, l'unico possibile, quello che rimanda alla famiglia traditrice, alla famiglia silente, alla famiglia che disconosce Beccaria, la Costituzione, il valore della lealtà. Laddove famiglia significa solo DC. Emerge la tragicità della figura di un uomo, elevato dal rango di studioso a quello di politico per giungere all'apoteosi sacrificale del grande statista consegnato all'opinione pubblica dai mass media che altro non fanno che riflettere senza alcun filtro l'idea di un uomo che l'assenza di potere ha immolato all'altare del potere. Il problema di fondo rimane: chi esercita il potere in Italia? Politici, brigatisti, mafia? A voi la scelta.
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Scrivere la vita
Prima edizione italiana di “Le jeune homme”, apparso per i tipi di Gallimard a maggio di quest’anno, tra le due edizioni il premio Nobel, conferito all’autrice ai primi di ottobre. Si tratta di un libello di appena cinquanta pagine, suddiviso nel testo vero e proprio e in una raccolta di tre discorsi, due dei quali pronunciati in Italia durante eventi pubblici di carattere letterario e uno tutto dedicato alla sua esperienza di ritorno a Yvetot, suo paese di origine. La separazione tra le parti non è netta, perché, come sa chi legge l’autrice, la scrittura è imbevuta di vita e la stessa è interamente travasata nella scrittura, ne consegue che mentre si legge di una sua relazione, lei donna ultracinquantenne, con un ragazzo di trent’anni più giovane, si stanno anche ripercorrendo le tappe salienti della sua esistenza già concesse alla scrittura letteraria. Si ha la netta sensazione, di tassello in tassello, di ricomporre un puzzle biografico, cambia il focus questa volta, come detto, infatti, il richiamo autobiografico è suscitato da una relazione con un giovane ragazzo, altre volte è stata la morte della madre o l’aborto. Identico rimane il meccanismo: si recupera il vissuto con la consapevolezza che esso non tornerà più e si riflette sulla sua portata, a distanza di tempo, per riflettere sulla formazione dell’io scrivente. Se la narrazione della relazione non ha niente di entusiasmante, la capacità di utilizzare quel vissuto per continuare a scandagliare la sua anima ha del generoso: giunta alla maturità la Ernaux fa i conti con il passato, con la sua negazione o forse con il superamento di quell’insulsa ottica borghese che l’ha contaminata e annullata impedendole di accettare le sue origini alle quali ha bisogno di tornare. Questa è l’essenza della sua scrittura.
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Il lusso della vita
All’apice dell’esistenza, l’artista Gustav Aschenbach, tormentato dall’inquietudine che agita e accompagna, animandola, la sua produzione letteraria e da essa ormai logorato, in una sera di un non ben definito 19.., fa un incontro casuale che lo solletica a intraprendere un viaggio. Ragione e autodisciplina e una continua lotta contro il tempo, che tiranno gli leva i giorni e lo assedia nella paura di non avere il tempo necessario per poter esprimere tutta la sua arte, lo hanno da tempo relegato nella bella città in cui vive. Una tentazione che lo agita e che decide di assecondare permetterà ai lacci che lo imbrigliano di allentarsi, minando la sua stessa identità che ha tentato disperatamente, per tutta la sua esistenza, di far coincidere con la sua essenza di artista.
“La morte a Venezia” ha come tema principale quindi la rappresentazione della tensione che accompagna l’eletto, il destinato a compiere grandi opere con la sua arte, l’ansia di colui che investe su questo dono con solerte dedizione quotidiana, fin da quando, giovanissimo, con le sue prime pubblicazioni, l’ha tradita. Egli infatti l’ha messa in discussione perché essa è animata da una tensione perpetua al sapere e si fa così veicolo di atrofia, sgomento e profanazione della volontà annullando passione e sentimento, ma poi lo stesso artista si piega infine al sacrificio della sua anima. Un sacrificio che è però animato dall’intuizione della perfetta coincidenza che deve esserci fra ciò che scrive e il sentire prevalente nel suo tempo, affinché alla creazione si accompagni la fama: si vota perciò alla rappresentazione del più stringente moralismo e ne diventa il simbolo, incatenandosi per sempre, sacrificando ogni pulsione.
Il viaggio verso l’Istria e il suo approdo nella meta finale e definitiva di Venezia, meta senza ritorno o tappa di un viaggio in un’altra dimensione, diventa dunque la metafora, come nella più grande letteratura, di un percorso di redenzione. Venezia, laguna immobile e mefistofelica, ammorbata dal colera, con una propaggine gaudente nel Lido, diventa lo scenario ideale per far risaltare l’aspetto dionisiaco che si risveglia lentamente in lui, dopo lungo torpore, e che accompagna, sotterraneo, ogni manifestazione vitale perché ne è una componente necessaria.
Il suo calarsi nella vita, tra la gente, con fare altezzoso e distinto, è accompagnato da una promiscuità umana che gli fa ribrezzo: il vecchio finto-giovane che si accompagna, lascivo, ad un gruppo di ragazzi, il gondoliere truffaldino e poi in quella sorta di “non- luogo” che è l’ Hotel Excelsior l’apparire netto di una famiglia, tra i suoi componenti un ragazzo bellissimo: un adone. Lo spirito si eccita, la tensione emotiva è tutta diretta verso il giovane che già il giorno dopo è paragonato a un feace nel suo tardivo risveglio, prima delle numerosissime attribuzioni mitologiche a cui lo sottoporrà l’ormai delirante Aschenbach: sarà infatti Giacinto nel gioco della palla, poi Narciso nel momento topico del sorriso rivoltogli, e ancora Ermes in quello finale dell’accompagnamento alla morte. Il tutto sfocerà in un’immersione tra la gente con la consapevolezza del potere venefico esercitato dal contatto umano in caso di malattia infettiva, un modo effettivo di contaminarsi e annullarsi.
Leggere Mann è sempre edificante, trionfo dello stile, maestria e padronanza assoluta, spero sia stato più libero delle sue creature letterarie.
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Spero sia la scheda giusta
Proust senza tempo perché è intramontabile? Un’opera letteraria che segna con la sua cifra stilistica e contenutistica una svolta nel canone letterario senza che nessuno possa sovvertirlo in futuro facendolo biecamente coincidere con il gusto di un’epoca? O ancora un letterato capace di fare del tempo la sua cattedrale perdendosi al suo interno e annullandone di fatto la dimensione, azione del tutto congrua alla stessa idea di letteratura?
Potrei rispondere accogliendo tutte queste suggestioni, di fatto quando si è davanti a Proust penso che nulla possa essere percepito come giusto, definitivo, certo: occorre indubbiamente aprirsi ad un’altra dimensione, quella di un’intimità trascesa in opera d'arte, capace per questo di attenersi al requisito minimo delle vere opere letterarie ovvero all'estrema apertura interpretativa che esse possono generare.
Al di là di questi dubbi amletici che Piperno ha scatenato in me con la scelta del suo titolo, tutto il resto è risultato estremamente gradevole, dall'accettazione di uno scritto che trasuda modestia senza scadere nella captatio benevolentiae, alla curiosità che accompagna la lettura di una cronistoria della passione dell’autore per Proust, tutta individuale ma dalla forte portata e che scaturisce da un semplice processo di immedesimazione tipico del lettore forte, all’apprezzamento infine delle citazioni della Recherche utili a sostenere di volta in volta le argomentazioni prodotte. Quali siano le tesi, è presto detto: Proust ha creato uno stile inedito prima di lui, musicale, necessario per “dare sostanza ai ricordi che lo assediano” e che faranno di lui un artista; tuttavia ciò non deve portare a credere che egli si sia annullato nella letteratura perché la vera vita, a dispetto di quella famosa citazione in cui il nostro farebbe coincidere la vita vera con la letteratura, è quella casistica amorfa ai quali tutti siamo sottoposti vivendo, come capita a qualunque uomo che sul limitare della vita si arrovella a cercarne un senso. Molto interessante allora l’operazione che fa Piperno che appunto argomenta rimpicciolendo questo mostro sacro della letteratura all’essenza di un uomo, operazione ben difficile vista la mitizzazione a cui è ancora oggi sottoposto a cento anni esatti dalla sua morte. Marcel Proust era un borghese infiltrato nei decadenti salotti della nobiltà, ben consapevole della sua portata sociale prossima allo zero ma capace di inserirsi in quel mondo, rappresentandolo e vivendolo in trasposizione letteraria più che nella realtà frequentata solo con il fine di attingerne l’essenza, creando così una sovrapposizione della persona e del narratore capace di generare curiosità intorno al suo nuovo sé travasato nella dimensione del mito. Tesi affascinante, indubbiamente.
Le disquisizioni continuano con brevi capitoli dedicati alle “ossessioni romantiche di un cinico impenitente” agli “esercizi di seduzione” affinati da Proust per ammaliare noi lettori, allo snobismo e all’idolatria quali atteggiamenti tipici del proustiano perfetto, per arrivare poi a tratteggiare i difetti della voce narrante e la sua necessaria e reale imperfezione: egli è semplicemente, nella sua sostanza, un uomo ”gretto, mediocre, vendicativo, chiuso nella sua impenetrabile torre d’avorio”. Mi ha fatto vedere un altro Marcel e lo ringrazio. La seconda parte dello scritto è poi una raccolta di saggi che mi hanno deliziato ancor di più, una serie di accostamenti di Proust ai grandi della letteratura e non solo francese: Montaigne, Céline, Balzac, Nabokov, Dante, Virginia Woolf e persino Philip Roth. Sezione ricca di suggestioni che trasuda fine competenza critica senza mai appesantire la lettura.
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Sodoma e Gomorra
Volume corposo, l’ultimo curato personalmente dall’autore al fine della pubblicazione, pare contenga il periodo più lungo in assoluto: novecento parole, non ho verificato anche perchè mi sembra in linea con lo stile del nostro; ad ogni modo è il vertice del periodare ipotattico che connota la prosa proustiana.
Volume complesso per la forma e per il contenuto, si apre con l’introduzione della materia principe: l’omosessualità che attraverso una metafora legata al mondo botanico diventa il mezzo che rende visibile un pensiero che oggi sarebbe definito omofobo. Il narratore compie infatti una serie di lunghe considerazioni che, oltre a essere percepite disturbanti oggi, prevale di gran lunga un’altra etica, determinano una nuova visione del medesimo. Alla voce autorevole e filosofica che finora ci ha accompagnati pare sostituirsi infatti un piccolo borghese che niente ha da fare nella vita se non spiare quella altrui, cogliendone i risvolti più intimi in puro assetto voyeuristico: assiste a un amplesso tra il barone Charlus e il vecchio farsettaio Jupien ed esprime le sue considerazioni sulla deriva morale dell’aristocrazia, facendo assurgere a simbolo di essa lo stesso barone, una delle figure più riuscite del romanzo.
Il quarto volume è però anche quello nel quale l’amore vissuto in prima persona viene rappresentato in maniera più esplicita: il narratore racconta di sé e di Albertine e soprattutto dei suoi sospetti che anche la ragazza abbia tendenze sessuali lesbiche, ciò gli fa vivere un sentimento di forte gelosia che lo fa agire in modo decisamente immaturo e indeciso. Un uomo bisognoso ancora del conforto materno, irrisolto e fondamentalmente infelice: perso tra il ricordo di luoghi vissuti e la riscoperta dei medesimi che si mostrano ormai mutati per sempre. Balbec non è più la stessa, le situazioni sono altre, sempre artificiose ma anche scadute in uno scenario al cui centro vi è un tentativo meschino di emulazione da parte di una nobiltà non paragonabile a quella cittadina dei Guermantes. Un mondo parallelo, ancora più ridicolo del precedente; una giustapposizione di vizi che non godono nemmeno del primato dell’originalità. In tutto questo, il narratore ancora ricorda la nonna e compiange un tempo che non tornerà.
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L'anello mancante
Esperienza di lettura ibrida, come già con “Due vite”, anche se questo gli è antecedente, essendo risalente al 2012, in un certo senso pare anticiparne la fattura: un racconto a partire da un’esperienza personale che si tramuta in focus su un protagonista, qui Pasolini, o forse Laura Betti, lì Pia Pera e Rocco Carbone; al seguito riflessioni sparse dal retrogusto filosofico che avvicinano al senso della vita, o meglio al suo mistero.
L’esperienza personale tramutata in scrittura autobiografica è quella che vede il trentenne Trevi alle dipendenze di Laura Betti, ideatrice e direttrice del Fondo Pier Paolo Pasolini, nonché attrice, regista, amica dell’intellettuale friulano, decadente donnone, tracotante e triviale vocione che lo deride e gli dà della “zoccoletta”. Gran parte dello scritto filtra Pasolini attraverso il rapporto dispotico con questa donna che dirige, dalle stanze di un palazzo di Piazza Cavour a Roma, il lascito culturale dell’amico. Trevi ha il compito di ricercare materiali, soprattutto interviste, da far confluire poi in un saggio. Tutta la sua conoscenza di Pasolini trasfonde per osmosi in questo scritto e regala aneddoti e conoscenza diretta tramite “La Pazza” per poi virare verso l’esegesi dell'ultimo lavoro di PPP, “Petrolio”, il romanzo incompiuto, abbozzato, già letto come denuncia di misfatti dell’italica nazione. Per Trevi esso diventa semplicemente il simbolo del doppio, dell’estrema complessità della personalità dello scrittore, della sua intima essenza tutta derivata dall’eros che in tripudio finale dedicato ai misteri dei culti eleusini ci fanno sprofondare nel mistero dell’identità. Gradevole.
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Bel ritratto di donna
Una giovane stenografa, nata in una famiglia agiata, incontra al suo primo lavoro il già celebre scrittore, vedovo della prima moglie. Lui ha quarantacinque anni, lei è una ventenne emancipata. Corre l’anno 1866, il mese è quello di ottobre, a febbraio dell’anno successivo i due convolano a giuste nozze, rimanendo sposati per quattordici anni, fino alla morte di lui.
Lo scritto nasce per volontà della stessa Anna che continua a essere l’imprenditrice del marito come lo era stata negli ultimi anni della loro vita insieme, proponendosi come editrice prima e libraia dopo, al fine di gestire sia l’economia familiare sia la fama dello scrittore. Anna decide di pubblicare le sue memorie conservando la struttura diaristica che aveva dato loro ed è per questo, probabilmente, che lo scritto risulta a tratti disorganico ed episodico. Tralasciando i limiti di una scrittura diaristica, l’opera risulta essere un eccezionale documento di vita, sia per chi è direttamente interessato alla biografia dell’autore, sia per chi ama approfondire la conoscenza degli aspetti strettamente materiali di esistenze più o meno celebri. Troviamo infatti qui una giusta sintesi della dimensione pubblica, rappresentata dal mito dell’autore, con quella privata di una giovane ragazza diventata donna e manager del marito: duplicità che si rende certamente manifesta negli ultimi giorni di vita dello scrittore, quando fu da tutti celebrato in lunghissime esequie in cui, data l'imponenza della manifestazione e gli stretti controlli di ordine pubblico, fu addirittura negato l’accesso alla moglie e ai figli poiché in tante si erano già spacciate per la vedova dello scrittore ed Anna era l’ennesima; episodio poi risoltosi con l’evidenza dei fatti. Una dimensione umana, privata, è quella che ci viene raccontata, una dimensione che non può omettere i complessi legami familiari ai quali Dostoevskij soggiaceva per eccesso di bontà: si va dai soprusi e dai ricatti del figliastro Pavel, figlio della sua prima moglie, alle continue richieste di assistenza da parte della famiglia del fratello morto. Un parentado invadente, sopraffattore, che di malo modo accettò il nuovo matrimonio, quando il vedovo era già predestinato ad un’altra unione matrimoniale all’interno della vasta famiglia, unione tesa a incrementare il grado di assistenzialismo al quale già lo costringevano. Per Anna fu dunque molto difficile canalizzare l’amore del marito verso il nuovo nucleo familiare, il loro; non mancarono incomprensioni e difficoltà enfatizzate dalla tirannia parentale, dall’epilessia sempre più prepotente, dai contratti capestro, dai lutti che fecero perdere loro due adorati figli, financo dalla ingiustificata gelosia nei confronti della moglie, momenti critici risolti con amore e pazienza, con viaggi all’estero e con vacanze ristoratrici, in una continua tensione che li vide, mai fermi , costruire insieme il loro futuro. Il racconto non perde di vista l’aspetto puramente cronologico, cadenzato com’è di anno in anno, e ciò permette di aver ben chiara la nascita dei diversi romanzi, il clima culturale nel quale essi si inserirono, la ricezione stessa delle opere.
A lettura ultimata, rimane forse maggiormente impressa la figura di Anna rispetto a quella di F. M. , come la donna nomina il marito in tutto lo scritto, quasi a confermare il detto popolare che dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna; a me di Dostoevskij, rimane solo l’eterna disperazione per non essere riuscito in gran parte delle opere a dedicarsi al labor limae che avrebbe reso i suoi scritti più organici e stilisticamente ineccepibili; cosa che non potè fare, soprattutto agli inizi della sua lunga carriera, perché perseguitato dal perverso meccanismo dei debiti e delle consegne e dei contratti fino a quando Anna non prese in mano la situazione, gestendola con grande lucidità. Bel ritratto di donna.
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Autobiografia universale
Molte volte ho pensato che fissare con le parole le emozioni, mentre le si stanno vivendo, soprattutto in corrispondenza di eventi molto importanti nella mia vita, fosse un’operazione quasi necessaria per cristallizzare il ricordo; quando poi a distanza di anni ho riletto ciò che avevo scritto, soprattutto quando è mancata una vera elaborazione degli accadimenti e la maturità successiva mi faceva risultare imbarazzante la mia io scrivente, ho smesso di farlo e di pensarlo. E ora, dopo aver letto questo incantevole scritto, mi consolo del mio limite e della mia superbia e mi indispettisco con la mia propensione a cancellare il ricordo o forse a educorarlo, scoprendo in fondo di non possederlo affatto. E ammiro la forza di questa scrittrice che è riuscita a mettersi così a nudo, ma con delicatezza, senza ferirsi, accettandosi e donando a noi lettori una storia particolare che viaggia sugli stessi binari noti a tutte, perchè universali, del rapporto madre/figlia. Annie Ernaux, recentemente insignita del Premio Nobel per la letteratura, in questo scritto autobiografico, compendia perfettamente la dimensione del ricordo del periodo del primissimo lutto, vissuto in seguito alla morte della mamma, intercalandolo con una dimensione del ricordo molto più profonda, quella del vivere quotidiano, dei piccoli momenti routinari che inanellati formano, senza che ne siamo perfettamente consapevoli, un rapporto così importante, decidendone in fondo la qualità. Alla morte dei genitori, presumo e mi attendo che tutto tornerà alla mente a chiedere il saldo, che la comprensione di ciò che è accaduto - nel bene e nel male - troverà una sua naturale sistemazione nella formazione-ultimazione del mio processo identitario e che cercherò di farne tesoro per affrontare il ribaltamento dei ruoli, quello del genitore anziano che ha bisogno del figlio. Lo scritto, come si legge, e chiedo scusa per questo, ha oltre a un forte potere pacificatore, quello di far riflettere su se stessi, lo consiglio dunque a tutti, in particolar modo alle donne per il fatto che qui il binomio scandagliato è quello mamma/figlia.
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Il dolore della crescita
Termino la lettura con un profondo senso di noia, dal retrogusto dello scialbo inaspettato; confesso infatti di aver pensato, senza informarmi in merito, di essere di fronte ad un grande scrittore. Ho di fronte, invece, un Ammaniti a stelle e strisce, quello di “Io e te" per intenderci e non del più maturo “Io non ho paura”, paragone che mi si affaccia alla mente forse per la palese capacità che mostrano i due scrittori di rappresentare mimeticamente la condizione socio-emotiva degli adolescenti, quelli che piacciono ai nostri millennial. Senza nulla togliere ai due, è una scrittura dal contenuto per me poco appetibile dal punto di vista stilistico e contenutistico; nel caso del breve romanzo in questione vi si aggiunge un’incompiutezza nell’intreccio che impedisce di godere appieno della storia, quella di James, un giovanotto irrisolto, in cerca di se stesso, che preferisce la fuga all’ansia dei genitori, separati, i quali lo instradano a un percorso psicoterapeutico. Tanti i punti in comune con Lorenzo di Ammaniti, come noterà chi conosce “Io e te”, con l’unica differenza che qui manca un “te” complementare che aiuti nel processo di crescita, mentre è rappresentata, come nel romanzo italiano, la vicinanza della nonna nume tutelare del nipote in crisi. Adatto ai giovani lettori ai quali consiglierei comunque letture più impegnative, questa è utile solo a chi è ancora ancorato a un processo di immedesimazione per cui prova comprensibile piacere nel leggere la rappresentazione del dolore che accompagna la crescita di un coetaneo.
Indicazioni utili
- sì
- no
Cara Céleste
Tutta la memoria di un'esistenza speciale è stata per anni custodita gelosamente da Céleste Albaret che solo prima della sua morte, a distanza di mezzo secolo dai fatti evocati, ha concesso una lunga intervista, settanta ore di conversazione, riversate poi da Georges Belmont in questa testimonianza apparsa per la prima volta nel 1973. Céleste è stata la custode dell'antico e tramontato mondo fissato nella sua decadente agonia, quello stesso universo aristocratico che l'opera di Proust ha voluto rappresentare. Céleste ha conosciuto tutto ciò che uno stuolo di ammiratori, di critici, di esegeti o, al contrario, di semplici curiosi avrebbe sempre voluto sapere. Era la sua governante e soprattutto una persona a lui molto cara, trascinata in un'esistenza eccezionale e fuori misura, bizzarra e perfino eccentrica, funzionale però al genio creativo che in Proust ha significato essenzialmente studio, osservazione, isolamento, recupero mnemonico, sarebbe più opportuno dire, in fin dei conti, Recherche. Céleste ha avuto il pudore necessario, quando si rispetta profondamente una persona, di tacere mentre tutti parlavano e costruivano il mito di Proust, fatto tutto accessorio del resto, vista la fama raggiunta in vita. La curiosità intorno alla sua esistenza ribaltata, secretata, centellinata a pochi intimi ha sicuramente contribuito ad alimentare false testimonianze, leggende e vere e proprie falsità ad opera di chi, dopo la sua morte ha voluto recuperare quel tenue filo che in vita lo aveva, in un modo o nell'altro, tenuto impercettibilmente legato a Proust. Questa testimonianza è nata quindi dall'esigenza di restituire un'immagine più veritiera del mito, più umana, più aderente alla realtà.
È una lettura incantevole per chi conosce l'opera proustiana, ma anche per chi vorrebbe approcciarla, anzi in questo caso sarebbe propedeutica più di qualsiasi guida alla lettura, capace com'è di testimoniare l'uomo Proust e lo scrittore, distinguendo bene le due entità senza correre il rischio di leggere il suo capolavoro come un mero recupero autobiografico. Proust è ricerca, Proust è anelito all'eternità, Proust è il tentativo di superare il concetto di tempo quale dimensione fisica per ristabilire il primato della percezione individuale delle categorie spazio temporali. Lo consiglio a tutti.
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Solo in una città straniera
Lev Glebovic vive a Berlino in una pensione abitata da altri esuli russi, frequenta Ljudmila, una giovane donna che non ama e si tormenta alla ricerca di un modo per lasciarla. La pensione è attraversata e ferita intimamente dal continuo passaggio dei treni. La città è straniera, lui un'ombra come i suoi coinquilini, fra di essi uno solo proteso al futuro, Aleksej Ivanovic Alferov:è in trepida attesa dell'arrivo della moglie Masen'ka. I giorni della settimana sono scanditi e tesi verso il sabato, giorno nel quale la donna, dopo quattro anni, arriverà dal marito.
Ganin, ovvero Lev Glebovic, riesce nel frattempo a chiudere con Ljudmila per aprirsi totalmente alla dimensione del ricordo: anche lui ha amato una Masen'ka… il ricordo sta pericolosamente collimando con la realtà in un inatteso coincidere di protagonisti.
Le immagini del passato russo, piene di betulle e spensieratezza, sono per lui una vita parallela necessaria per sopportare il nuovo film urbano, da esule, nel quale vive imprigionato. La Russia settentrionale e le sue stagioni sono evocate con una maestria descrittiva che trasuda poesia. È il tempo dell'amore, nell'estate russa, in lontananza, sullo sfondo una guerra, percepita come aliena. Poi la rivoluzione e la separazione: bellissime pagine dedicate al primo amore, struggenti, ricche di vita, delicate. Infine il congedo, maturo e straziante dal passato, alla ricerca di un treno per un'altra tappa da esule. C'è tutta la maestria di Nabokov in questo suo esordio letterario. Consigliato a chi ama la vita trapuntata di ricordi e ammantata di squarci paesaggistici che normalmente le fanno da sfondo rendendo il ricordo indelebile.
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The power of peace
Refrattario a qualsiasi forma di autobiografia, Gino Strada, nel suo ultimo anno di vita ha lavorato a questo scritto con Simonetta Gola, sua seconda moglie e responsabile della Comunicazione e delle Campagne di raccolta fondi nazionali dell'Organizzazione non governativa Emergency, di cui come sappiamo Gino Strada è stato il fondatore. Il libro alla sua morte non era concluso per cui è spettato a Simonetta Gola curarne l’ultimazione affinchè esso fosse da testimonianza soprattutto per le giovani generazioni.
Esse dovranno sapere infatti che è meglio credere a ciò che molti reputano un'utopia, la pace, più che alla guerra, non solo perché essa genera morte e aggrava i problemi a cui ha cercato di dare risposta ma anche e soprattutto perché è un affare che arricchisce pochi e sottrae preziose risorse a tutti. Il nesso guerra - salute - cultura è ben esplicitato nelle riflessioni dell’autore che, ricalcando le tappe del suo percorso umanitario come chirurgo nelle zone di guerra, riesce a dimostrare che l’utopia è un sogno a cui si smette di credere, e che quindi, al contrario, con tenacia è sempre perseguibile, e soprattutto che le risorse economiche devono essere dirottate verso il perseguimento dei diritti fondamentali siglati da più convenzioni, carte, costituzioni che purtroppo rimangono lettera morta. E si badi bene, non si sta parlando solo di zone rurali dell’ Africa o di Afghanistan e di altre zone di guerra, la riflessione infatti si estende anche al territorio europeo e a quello nazionale in particolare, lo stesso che ha visto scoperchiare le sue illusioni di uguaglianza e di benessere con la pandemia da Covid - 19: la formazione dei giovani medici e la loro penuria, la dilagante privatizzazione della sanità, le molteplici convenzioni statali con i privati che assorbono tutte le risorse comuni ancora una volta a vantaggio di pochi, la mercificazione del diritto alla salute, la triste realtà dei medici in frontiera dove la trincea ora è rappresentata dall’ospedale pubblico.
Emerge chiaramente la visione globale e l’interdipendenza non solo geografica, economica ma soprattutto culturale ( deriva socio-economica all’insegna del mito della ricchezza) di questo mondo, segnato dall’ inesorabile orologio dell’Apocalisse, elaborato dagli scienziati atomici del “Bulletin of the Atomic Scientists”, empirico e del tutto simbolico: se nel 1947 esso segnava sette minuti alla mezzanotte, orario coincidente con la fine del mondo, nel 2021 la distanza era coperta da appena cento secondi.
Questi solo alcuni degli spunti di riflessione, doveroso rimandare alla lettura del testo.
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Stamburare e confessare
Non c’è niente di chiaro, nulla di definito nel romanzo “Il tamburo di latta”, ci sono invece le confessioni farneticanti di un trentenne in procinto di uscire dal manicomio nel quale si trova internato per una colpa non commessa: l’omicidio di un’infermiera che vive in affitto nella camera accanto alla sua. Lui ne era invaghito, come di tante altre infermiere della sua stramba vita. Ora è assistito proprio da un infermiere, Bruno, che quotidianamente lo scruta con occhio vigile, non è un secondino però, semmai una coscienza vigile che all’occorrenza può pure subentrargli nel suo atto di scrittura infinito coincidente con la sua biografia. Una risma di carta gli conceda Bruno affinché l’atto dello scrivere gli sia possibile accanto a quello del raccontare. Sì, perchè Oskar Matzerath ha tanto da raccontare ma, se non ci facciamo incantare dalla sua epica diversiva, in realtà ha tanto da confessare: tanti piccoli segreti che hanno deviato la sua vita imponendole un corso forzoso. Il principale di essi è sicuramente la caduta dalle scale ad appena tre anni, resasi necessaria come atto risolutivo di imposizione della propria volontà per determinare la fine della sua crescita. Da quel momento il piccolo Oskar sarà un nano, dotato però di una potente voce vetricida capace, quando contrariato, di urlare così forte da infrangere i vetri e tutte le superfici vitree presenti nelle vicinanze. La caduta si accompagna anche all'altro tratto distintivo del piccolo Oskar: dal giorno del suo terzo compleanno sarà sempre accompagnato da un tamburo di latta, ciclicamente sostituito, capace di esprimere con la sua cadenza ritmica l’assurdo della vita.
Scorrono con i ricordi biografici di Oskar pagine di storia ben verificabili, trent'anni racchiusi tra il 1924 e il 1954, la storia dei Casciubi, la madre di Günter Grass era casciuba, quella della città libera di Danzica, la tragica invasione della Polonia con la difesa dell’ufficio postale della città che Hitler rivendicava in seguito al trattato di Versailles e che rappresentò il suo pretesto per innescare una guerra mondiale. Il conflitto mondiale e la sua fine. E da subito si entra in una dimensione narrativa insieme epica e fantasiosa, surreale e allucinata, simile a quella che solo uno spettacolo circense può restituire, una carrellata di personaggi improbabili, dalle caratteristiche esaltate, iperboliche, eroiche insieme, capaci di gesta impensabili, mirabolanti eppure così reali. Ne consegue uno stupore perpetuo, accompagnato da un continuo e necessario livellamento dei due piani: quello della realtà narrativa ( quanto può essere credibile ciò che si sta leggendo?) e quello dell’immaginazione creativa ( spesso questa componente subentra a livello tale da impattare prepotentemente con la razionalità e richiedere così una necessaria seconda rilettura, la prima ancora nulla aveva chiarito, per accertarsi di aver ben compreso il filo narrativo). Oltre la fatica della lettura si riesce però a godere di blocchi narrativi compatti che, superati e accostati a formare un disegno complessivo, restituiscono una narrazione comprensibile, consapevoli però di aver siglato un patto narrativo che implica l’accettazione dell’assurdo e del grottesco. Potrei richiamare tantissimi episodi che nulla valgono estrapolati dalla loro cornice, basti aspettarsi di tutto, compreso un certo trascendimento nel versante erotico a simboleggiare le primitive matrici della vita e una narrazione che non manca nemmeno di pesantissima dissacrazione, a scardinare qualsiasi certezza rimettendo tutto in gioco. Una decisa voce fuori dal coro che cercava di restituire i perchè di un’epoca buia, una voce dissidente e antiborghese che nel ‘59 usò l’alter ego di Oskar per rappresentare una realtà edulcorata da tanti, riuscendo infine a svelarsi completamente nella sua scandalosa biografia “Sbucciando la cipolla” ( 2008) quando confessò dolorosamente di essersi arruolato volontario nelle Waffen-SS quando aveva quindici anni, nel solo intento di ricordare a tutti quanto fosse storica la spinta antiborghese su cui fece leva Hitler e quanto si impresse pericolosamente nella gioventù tedesca.
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Polvere pirica bagnata
Premio Campiello del 1990, “La lunga vita di Marianna Ucrìa” è un romanzo storico che ruota intorno a due protagoniste: Marianna Ucrìa e Palermo con l’appendice della vallata di Bagheria che nel Settecento vide l’edificazione di maestose dimore in stile barocco. Fra queste, la villa Valguarnera ultimata a fine secolo dalla protagonista di questo romanzo, Marianna Alliata Valguarnera. Una principessa, nella realtà storica, costretta al matrimonio con lo zio che aveva abusato di lei bambina, il fratello del padre, l’uomo ideale per non disperdere, dopo la prematura scomparsa del principe, il patrimonio familiare, in assenza di figli maschi.
Dacia Maraini, è una discendente, per parte di madre, di questa sfortunata donna caratterizzata da una sordità testimoniata anche da un misterioso ritratto, ora introvabile, descritto in “Bagheria” che vede la nobildonna ritratta con dei fogli in mano, utili per gli scambi comunicativi tra lei e gli altri.
La Marianna del romanzo nasce quindi sulla falsariga di questa storia familiare ed è il mezzo per poter rappresentare il mondo siciliano ancora caratterizzato da feudalesimo e Inquisizione mentre i lumi del secolo paiono appena sfiorarla. Lei sarà, nel pieno della sua maturità di donna, il simbolo, con le sue scelte, di un nuovo riscatto ispirato alla piena espressione di sé in quanto donna, libera ormai dei subdoli legami che la tradizione culturale le aveva imposto. Lei lettrice avida di Pascal, Hume, Voltaire, Montesquieu.
La conosciamo però ancora bambina, molto legata al padre e con una mamma indolente, mentre assiste alla pubblica impiccagione di un ragazzino nella piazza antistante al palazzo Steri. Avendolo recentemente visitato e avendo ancora impressi i graffiti degli orrori presenti nelle diverse sale usate per anni dall’Inquisizione, sono stata incantata da tutta questa primissima parte come da tutto il reticolato geografico della città che emerge di volta in volta nel corso della narrazione. Immagino che per un lettore palermitano ciò aggiunga ulteriore valore all’opera che, ricordiamolo, è appunto un romanzo storico.
Marianna è stata portata ad assistere al macabro spettacolo che è festa di piazza irrorata di zammù e arricchita da ‘pani câ meusa’ nel vano tentativo di procurarle uno spavento tale da poterle restituire la parola. Lei è infatti ‘mutola’ ma non dalla nascita, c’è stato qualcosa nella sua infanzia, uno spavento più grosso, che l’ha resa tale, il padre a questo deve rimediare, come se fosse una colpa sua. Tutta la narrazione è filtrata dai pensieri di Marianna che legge la realtà circostante acuendo i sensi a sua disposizione e, inverosimilmente, riuscendo alcune volte a leggere i pensieri altrui. Questa a me è parsa una forzatura sul piano della verosimiglianza ma devo riconoscere che permette comunque di impreziosire la narrazione inserendo altri punti di vista. Ho trovato improbabile anche che un mutismo selettivo sia stato clinicamente accostato alla sordità, le due condizioni non sono affatto interdipendenti, insomma se la bambina è diventata muta per uno spavento non necessariamente avrebbe dovuto perdere l’udito.
Ben presto, a soli tredici anni, Marianna, ancora ‘mutola’ è costretta al matrimonio con il fratello del padre e a una vita matrimoniale caratterizzata dal sopruso sessuale, dai ripetuti parti in cerca dell’erede maschio, dai canonici lutti causati dalle pessime condizioni sanitarie che, con i vari intervalli epidemiologici, rendono fragile l’esistenza soprattutto della figliolanza. Unica possibilità di vita arriva dalla lettura, dalla conoscenza e dal saper lentamente applicare i principi egualitari nella sua piccola dimensione familiare. Una svolta narrativa, in termini di crescita personale, si registra in concomitanza con lo stato di vedovanza ( a proposito, molte belle le pagine dedicate alle catacombe dei Cappuccini, purtroppo ancora chiuse ai visitatori in questo aprile, dove viene mummificato il corpo del consorte - zio ) e la scoperta della propria identità sessuale: ancora una volta però lo stile della Maraini nella rappresentazione dell’intimità non mi piace, come già era accaduto in “L’età del malessere”, troppo esplicita, cruda e desolante.
Per concludere una lettura gradevole nonostante una narrazione troppo dilungata e un pathos che dovrebbe naturalmente scaturire dalle rivelazioni finali smorzatoinvece da una scelta stilistica sbagliata (inverosimiglianza scarìturita dalla lettura del pensiero) la quale determina l’effetto della polvere pirica bagnata dentro un fuoco d’artificio.
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PRO PATRIA
Se il massimo poema della letteratura tedesca è il “Faust” di Goethe, il suo massimo romanzo è allora il “Doctor Faustus”, non perché fra i due ci sia un senso di continuità legato al mito tedesco dell’uomo che sigla un patto con il diavolo, quanto perché la continuità è data dall’espressione artistica che sfruttando quel mito ambisce all’empireo della perfezione formale e contenutistica.
Richiamare il diavolo e la sua pericolosità e con esso le velleità umane e i suoi mortali limiti, inscenando la vita di un musicista, il compositore tedesco Adrian Leverkühn, raccontata a mo’ di biografia dal suo caro amico, Serenus Zeitblom, è il modo che Mann, ormai settantenne, si riserva fra il 1943 e il 1947, quando, a guerra finita, la sconfitta della Germania nazista fa provare solo un profondo senso di smarrimento accompagnato da un lamento d’amore per la propria patria.
Patria, l’ultima parola del romanzo.
Eppure l’opera, ci ricorda Ervino Pocar, traduttore e curatore dell’edizione da me letta (ristampa anni ‘80 dell’edizione Mondadori del 1949), non fu affatto ben accolta dai tedeschi che accusarono il suo autore di ipocrisia nella rappresentazione del lutto nazionale, avendo egli preso le distanze dalla sua nazione che vedeva lucidamente destinata ad una pericolosa deriva.
Come poteva un antinazista cantare ora il lamento funebre più straziante?
E invece questo è, agli occhi di chi scrive, il messaggio più profondo dell’opera: la rappresentazione di un’apocalisse, quella del mondo germanico, che va di pari passo con l’opera alla quale lavora il folle musicista, un oratorio apocalittico appunto intitolato “Lamentazioni del dottor Faust”. La rappresentazione del destino tedesco è però tutta affidata al caro amico Serenus che alla morte del grandissimo artista, nel 1940, decide di raccontarne la tragica vita, riferendosi continuamente alla storia del presente e alla sua dissoluzione le cui radici vengono però situate nel passato recentissimo, vissuto anche da Adrian quando la Germania, in conseguenza della sconfitta della prima guerra mondiale, cercò di divenire repubblica senza riuscirci e facendo di fatto nascere un abominio dittatoriale.
Il parallelo fra i due periodi della storia nazionale è solo una delle tante stratificazioni presenti, il resto è infatti una complessità nutrita da una vicenda narrativa che vive di pochi elementi sapientemente gestiti dalla voce narrante la quale fa abbondante uso di anticipazioni creando di fatto curiosità verso gli scarsi elementi narrativi mentre il lettore arranca, come solito in Mann, fra disquisizioni riguardanti soprattutto l’arte e il ruolo dell’artista, senza trascurare l'erudizione pura riguardante prevalentemente aspetti strettamente legati al linguaggio musicale, dalla dodecafonia in poi.
Una lettura molto impegnativa, certo, ma che ripaga con una scrittura sublime che si nutre di ritratti precisi, ricchissimi di particolari, care vecchie descrizioni a ricordare l’impianto ottocentesco del romanzo, digressioni quasi monografiche come quella dedicata a Beethoven, o ancora moniti pedagogici che fungono da chiara guida ideologica nutriti come sono dalla convinzione che solo la cultura possa salvarci dalle barbarie.
Libertà, ragione, umanità. Vi occorre altro ?
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Buon sangue non mente
Prosegue l’opera di riedizione da parte di Adelphi delle opere del belga, questa, edita per la prima volta nel 1938, come tutte le innumerevoli altre non sente affatto i suoi ottantaquattro anni e, trattando di un tema principe quale l’odio familiare, rimane un evergreen.
Gli ingredienti sono quelli già sperimentati da Simenon: un esiguo sistema di personaggi, spesso in accoppiamento binario, un luogo angusto, piccolo borghese, che amplifica i malumori creando implosive situazione claustrofobiche, qui la casa via via ridotta nei suoi spazi abitati, e per finire il motore dell’azione, un risentimento fine e sottile che avvelena tutto, nutrito costantemente dal più primordiale dei sentimenti, l’odio.
La lettura, veloce come sempre, risulta qui addirittura serrata, sincopata, allusiva e disseminata di indizi come un vero giallo. In realtà c’è poco da scoprire, il sospetto, altro motore dell’azione, diventa in modo speculare, il modus legendi principe e tutte le intuizioni a cui perviene il lettore sono sapientemente gestite dall’autore che pare divertirsi a lasciare il lettore con il fiato sospeso, in una trama che non accenna mai al finale e, quando vi perviene, lo fa solo per ripristinare un’ennesima situazione iniziale. L’odio non ha fine, trionfa e si rigenera, un pretesto vale l’altro.
Amaro Simenon, duro come non mai.
Mathilde e Léopoldine sono le sorelle Lacroix, l’origine del male, vivono nella stessa casa di famiglia con Emmanuel Vernes, marito di Mathilde e i loro due figli Geneviève e Jacques, ogni tanto ritorna in famiglia anche Sophie, figlia di Léopoldine e di suo marito fin dai primi tempi del matrimonio confinato in Svizzera per via della tisi. Costretta a questa convivenza una giovinetta che funge da donna di servizio.
La casa, benché ampia e spaziosa, è sempre chiusa e l’aria umida, ferma e stantia, contribuisce ad avvelenare le atmosfere che vi si respirano al suo interno. Poche le parole che vengono scambiate tra i membri della famiglia, molti gli sguardi allusivi, i silenzi, gli scricchiolii, le percezioni desunte dal lento spiare delle movenze altrui. Nessuno parla, se non per quei pochi scambi comunicativi di natura prettamente funzionale, tutti percepiscono il sentire e l’agire altrui e le relazioni paiono escludere a priori l’intruso per eccellenza, Vernes, il quale pian piano nel corso del tempo ha deciso di confinarsi nell’atelier che si è allestito all'ultimo piano. Scende solo per i pasti, momenti topici nei quali converge tutto il silenzioso e reciproco astio. I giovani in casa subiscono questa convivenza patologica e cercano, ognuno con i mezzi a loro più confacenti, di venirne fuori: Geneviève è in preda ad una sorta di delirio mistico, Jacques vorrebbe solamente fuggire via; quando si appresta a farlo, l’improvviso precipitare delle condizioni di salute della sorella, lo imprigionano definitivamente in un crescendo di malumori, silenzi, ripicche, aggravati dalla malattia di Geneviève…
Tra sospetti di avvelenamento e dialoghi monchi pian piano viene detto esplicitamente ciò che per anni è stato taciuto ma ancora una volta la verità è appannaggio di pochi e mentre gli eventi precipitano tutto, dopo la bufera, torna all’origine in un lento ripetersi del male.
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Yabba-dabba-doo
Il più grande uomo scimmia del Pleistocene è stato un progressista illuminato, naturalmente ante litteram.
Tutto del resto è ante litteram in questa godibile lettura che nasce, o almeno ottiene tale intento, al fine di divertire e insieme riflettere sul senso del progresso umano, applicando alla storia dell’umanità le categorie mentali prodotte da millenni di storia economica e sociale. Tutta la narrazione infatti gioca sull’effetto di straniamento prodotto dall’accostamento di ominidi, costretti alla lotta per la sopravvivenza, con il pensiero liberista del quale è portavoce il protagonista del titolo e i suoi rampolli, monopolisti e biechi conservatori. In mezzo la rassegna delle principali tappe evolutive nel mezzo della Rift Valley: il bipedismo, il passaggio dal paleolitico al neolitico, la scoperta del fuoco, i tentativi di domesticazione del cane, taciuta invece quella delle piante, la caccia, l’arco e perfino l’istituto del “matrimonio”. Interessante a questo proposito segnalare l’aborto delle prime pratiche misogine, i giovanissimi ominidi infatti, costretti dal padre a ricercare donzelle fuori dal loro gruppo, soccombono ad esse quando prima pensavano semplicemente di piegarle alla loro volontà picchiandole. Una fantasiosa parentesi che abolirebbe quella primitiva idea di primato maschile che ancora stenta a diventare un carattere recessivo. Sono state per me le pagine più divertenti, richiamando alla mente i Flinstones e la determinata Wilma alla prese con l’imbranato Fred. I prodotti tra l’altro sono pressoché coevi ma non saprei dire se correlati tra loro, sicuramente questo è meno spinto visto che la modernità è richiamata solo negli schemi mentali, nelle categorie di pensiero e non coinvolge i beni materiali come accadeva nella fortunata serie televisiva statunitense. Tutto sommato, una lettura piacevole.
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Inutile
Ennesimo candidato al premio Strega, lo leggo nella convizione che l'impossibilità di attribuire valore alla letteratura italiana contemporanea sia tutta una mia invenzione e una mia colpa. Non vengo smentita neanche ora, aldilà di un lessico forbito, unica caratteristica che riesco ad apprezzare, il resto è prosa che manca di narrazione, di personaggi, di contesto. Breve parentesi aperta nella vita di un medico che da vigliacco tenta di redimersi scoprendo dentro di sè la violenza sempre circoscritta con l'impiego della ragione. Finale irrisolto.
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Giustizia privata
Romanzo breve apparso per la prima volta presso i tipi dell’editore Canesi nel 1962, vincitore del premio Deledda 1960, riappare nel gennaio 2020, alleggerito di circa centocinquanta pagine, nel 2008 in riduzione cinematografica, a firma Salvatore Mereu, opera interamente in lingua sarda.
Giuseppe Fiori è stato sicuramente un abile biografo, sue le narrazioni della vita di Emilio Lussu e di Antonio Gramsci, nonché quella di Enrico Berlinguer, e la capacità di scrittura non viene meno nella narrativa pura. “Sonetàula” è infatti un ottimo romanzo breve: narra la storia di un bambino che si fa uomo e bandito latitante negli anni tra il 1937 e il 1946. Dentro c’è la storia nazionale che si infila timida in una storia regionale, avvertita da me che leggo - ma presumo anche da Fiori che scrive e dagli stessi personaggi che fioriscono dalla sua penna - come sovranazionali. Storia della Sardegna e dell’eccidio di Buggerru ( uno dei primi scioperi dell’Italia Unita- 4 settembre 1904- ribellione di minatori che fece scatenare il primo sciopero a livello nazionale); storia europea della guerra civile spagnola che richiama numerosi volontari, storia infine mondiale con lo scatenarsi del secondo conflitto su scala planetaria e del suo propagarsi in un’onda lunga di lutto anche nelle famiglie sarde, perse in un territorio appena sfiorato dagli aerei, intangibile nella sua atavica appartenenza al mondo naturale in un irremovibile e unico panismo.
Una storia dolorosa, a tratti necessaria, che tutta animata da un senso primitivo di giustizia non contempla altra possibile soluzione se non la vendetta privata sempre al limitare di una nuova faida. A nulla vale l’amore, il senso di appartenenza alla propria comunità, si finisce soli e braccati, le mani già sporche di sangue, indelebile.
Stile conciso, perfettamente scandito da scorci paesaggistici, sapiente uso dell’ellissi, asciutti dialoghi di vivida impronta teatrale, un realismo doloroso, rotto solo alla fine da un sentimento così vivido e capace di commuovere nel profondo con poche parole: in pochi lo sanno fare.
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CARPE DIEM
Commedia capolavoro del teatro cinquecentesco, si basa sui moduli di Terenzio e di Plauto riconoscibili nell’intreccio lineare, nella vivacità dei dialoghi, qui impreziositi da una prosa fiorentina capace di restituire il vernacolo dell’epoca caratterizzando i singoli personaggi. Commedia di successo, successivamente messa all’indice dall’Inquisizione e poi riabilitata quando la laicizzazione statale non è stata più ritenuta scandalo e parliamo del nostro secondo dopoguerra. Vive tuttora nel luogo a sé più congeniale, il teatro.
Il tema principale, di natura boccacciana, è la beffa ai danni dell’ingenuo, dello sciocco: si tratta infatti di un raggiro ai danni di un marito che vorrebbe un figlio dalla propria moglie e per ottenerlo si affida a un’ improbabile cura consistente nell’assunzione di una pozione ottenuta dalle radici della nota pianta velenosa, da parte della moglie che poi, essendo giaciuta prima con un uomo destinato a morte certa per averne assorbito il veleno, potrà ricongiungersi nuovamente con il marito il quale la troverebbe così fecondabile.
Il protagonista principale è Callimaco, infatuato di Lucrezia, moglie di messer Nicia, che aiutato da Ligurio si finge medico e riesce a far crollare un debole e superficiale impianto morale: tutti cedono al male compresa la virtuosa Lucrezia che scopre il piacere sessuale derivato dall’incontro con un giovane uomo a dispetto del non vigoroso Nicia. La commedia, pur amara nelle considerazioni etiche che scaturiscono e che coinvolgono anche un frate, quindi trasversalmente ogni dimensione sociale, confermando la teoria dell’autore sulla corruttibilità della natura umana e sulla sua tendenza al male, è alleggerita dal tono ilare che coinvolge in primo luogo la dimensione del parlato: la lingua veicola, con volgarità vernacolari più o meno esplicite, una dimensione sociale che pare mossa solo dal puro piacere.
La “Mandragola” è anche lo sguardo impietoso dell’autore costretto a “badalucchi” nel triste tempo dell’allontanamento da Firenze, deprivato di ogni partecipazione politica e civile: la beffa è il mezzo per scoperchiare l’apparenza borghese, la realtà è solo un gioco di ruoli in delicato equilibrio.
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Boccaccio
Novella epica etilica
Terza prova narrativa dell’autore, rivelatrice del genio, anticipatrice della consacrazione ricevuta con Furore. Traduzione di Elio Vittorini. Imbarazzante parlarne, ci si ritrova a cercare di capire quanto ci piaccia Steinbeck e quanto in realtà stiamo filtrando tutto il suo humus attraverso la riconoscibilissima penna di Vittorini, semplicemente perfetta. Superata l’iniziale titubanza, ci si affida a questa prosa poetica dove regna l’inversione e la dislocazione a sinistra dell’oggetto in ogni singolo periodo, e si è quasi rassicurati che sia un ottimo modo di restituirci una prosa originale, sicuramente altrettanto poetica. Certo rimane il dubbio sugli echi danteschi, ma questo aprirebbe filoni di ricerca che lasciamo a chi ha competenze per intraprenderli, aspettando semmai una nuova traduzione.
In mano un piccolo Don Chisciotte, ridotto a diciassette capitoli, anche se privi della dimensione del viaggio, prosecutore ideale di quel mondo picaresco, antifrastico del genere cavalleresco, in una linea ideale che congiunge il ciclo arturiano a Lazarillo de Tormes passando per Cervantes e via via per le ottave italiane del nostro Ariosto. Un‘epica che rimanda ai grandi temi della vita: l’amicizia, l’onore, l’amore, la follia. Non manca niente. Questa è la breve storia di Pilon, Pablo, Gesù Maria, Joe Portoghese il Grande e il Pirata con i suoi cinque cani, una non storia di amicizia, un succedersi di espedienti utili a godere della vita rifuggendo lavoro, società, obblighi morali e civili, all’insegna della ricerca perenne del bere. Non è vero neanche questo, il gruppo ha invece un suo codice morale, strampalato, assurdo ma funzionale ad una nuova etica, non riconoscibile dal mondo civile. E infatti, loro sono paisanos, gli ultimi discendenti californiani dei conquistadores spagnoli, “un miscuglio di spagnolo, di indio, di messicano e di varie razze caucasiche” e hanno pure partecipato alla guerra contro la Germania. Vivono a Monterrey, precisamente nella parte alta, nella baraccopoli di Pian della Tortilla, una sovrapposizione di miserie umane con una sua narrazione epica e nuovi miti da alimentare. Perché anche Danny, il protagonista, perno dell’intera vicenda insieme all’evento di rottura dell’equilibrio iniziale ( riconoscibilissime tutte le funzioni proppiane), ovvero la ricezione in eredità di due “case” del quartiere, è il nuovo mito nascente del quale la voce narrante vuole fissare l’epos, con rigore documentale, al fine di evitare insieme futuri scherni o al contrario eccessive riscritture. Un senso del tempo dilatato che rimanda a tratti al realismo magico di Macondo, una dimensione altra che una volta varcata avvolge il lettore senza più nulla fargli dubitare. Consigliatissimo.
Indicazioni utili
Lazarillo de Tormes
Ariosto
Vittorini
De amore 2.0
Romanzo di esordio della docente statunitense, ormai consacrata agli allori dopo questa sua prima pubblicazione del 2011 con la riconferma di “Circe”(2018), vincitrice fra l’altro proprio con l’opera prima del premio Orange Prize, oggi altrimenti noto come Women's Prize for Fiction.
Si tratta di una rilettura dell’epos, una riscrittura mitologica, così viene definita la nuova tendenza della narrativa contemporanea, che vede editi lavori come “ Le Nuove Eroidi” (autrici varie, tra le tante V. Parrella, M. Murgia, T. Ciabatti, per citarne solo alcune), anno 2019, o se si vuole andare indietro nel tempo, 1983, “ Cassandra” di Christa Wolf o ancora il più recente “Il canto di Calliope” di Natalie Haynes o ancora “Il silenzio delle ragazze” di Pat Barker.
Si tratta, il più delle volte, di scritture appassionanti che mutuano il sentire contemporaneo per riproporre i miti e l'epos che tutti conosciamo. In questo caso alla base non solo l’Iliade ma anche l’Odissea e l’Eneide.
Il fulcro di questo romanzo è l’amore omosessuale che da elemento di sfondo, così nei poemi omerici, diventa invece il vero protagonista, affidato alla voce di Patroclo che canta appunto, novello Omero, la canzone di Achille. Chiaro è che i temi, le sensibilità, sono molto in linea con il rinnovamento dell’etica sessuale tuttora in atto e che questi stessi temi sono molto vicini al nuovo pubblico di lettori, preferibilmente giovani, che la moderna editoria chiama appunto Young Adult, lettori che contemplano in realtà giovani ma anche quarantenni, in una forbice abbastanza ampia.
Se la sensibilità adolescenziale o post adolescenziale è ormai un ricordo sbiadito, diventa più difficile trovarsi in sintonia con tale modulo narrativo al quale però si può riconoscere il rigore accademico nei contenuti. La lettura è piacevole e distensiva, permette il recupero di fatti studiati e magari dimenticati, accende la curiosità verso le fonti primarie. Una lettura non strettamente necessaria ma consigliabile nel rispetto delle proprie individualità di lettore.
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Distanti e vicine
Seconda opera per Cristian Mannu che, dopo dopo i successi raggiunti con l’opera prima “Maria di Isili”, attraversato un periodo di crisi, almeno questo pare evincersi dai lunghi ringraziamenti che chiudono il romanzo, ritorna con un delicato scambio di voci femminili che in prospettiva diversa cantano la distanza generazionale, l'incomunicabilità che la accompagna e la derivata sofferenza che ne consegue.
Una mamma, ormai anziana e nonna, decisa finalmente a riallacciare i rapporti con al figlia e desiderosa altresì di conoscere la nipotina, è in procinto di partire per la Francia; viene però bloccata da un malore che si trasforma in inappellabile agonia e che vedrà al suo capezzale proprio la figlia che torna da Parigi.
Le voci, madre e figlia, si alternano in due parti ben distinte e titolate come movimenti musicali dai sottotitoli richiamanti invece le arti figurative: il ritratto di donna del titolo principe si compone dunque di “chiaroscuri e colori”, di “cornici e luci” e in ultimo di “riflessi”. Al di là della tripartizione, funzionale a rappresentare in momenti distinti un dialogo che ormai è impossibile da realizzarsi, e a suggellare l’epilogo lasciato ad una voce narrante esterna; il vero cuore pulsante dell’opera sembra essere la rappresentazione degli stati d’animo delle due donne, gli accadimenti sono infatti pochi e essenziali, così potenti da poter però far deviare due esistenze a loro volta poste in tale traiettoria dal vissuto primario della nonna, la cui figura aleggia sulle vite di entrambe.
I modi di essere di tre donne dunque che, a partire da una stortura di fondo, tutta genetica e vissuto familiare, proiettano nelle loro esistenze di figlie e di madri gli errori che le hanno trasformate da vittime a nuove carnefici. La figlia condanna la madre senza conoscerne l’intimo vissuto, madre che a sua volta già si era distanziata dalla propria.
La fuga, l’evitamento, le distanze, l’esclusione sembrano essere le uniche armi per poter imbastire una nuova individualità, essa però sarà triste e monca perché deprivata del necessario elemento identitario rappresentato dalla famiglia di origine.
L’ introspezione ha poi una cornice che richiama la terra di origine dello scrittore, la Sardegna, nell’ambientazione tra l’Ogliastra e la città di Cagliari, evocativa di suoni, colori, sapori che, per chi scrive, hanno il sapore della familiarità e risultano piacevoli ma oggettivamente non hanno alcuna valenza stilistica e narrativa. La scrittura è semplice, emozionale, nulla più. Può risultare gradevole ma non si imprime.
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