Opinione scritta da Marcello Priore

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Marcello Priore Opinione inserita da Marcello Priore    18 Agosto, 2014
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Il visc onte di Terralba

Il visconte dimezzato è una favola allegorica scritta da Italo Calvino nel 1952, appartenente al filone fantastico e riunita insieme a “Il Barone rampante” e “Il Cavaliere inesistente”, nel 1960, nella raccolta “I nostri antenati”.
La vicenda ci porta in una terra dimenticata (la Boemia) e in un’epoca lontana, (che è quel ‘600 fitto di guerre di imperi di diverse religioni) dove il Visconte Medardo di Terralba insieme al suo fido scudiero di appresta a combattere la sua battaglia contro i Turchi, ma viene colpito in pieno da una palla di cannone che gli divide il corpo in due esatte metà, una delle quali verrà data per dispersa, mentre l’altra, con la chirurgia e tanta fantasia dell’autore, verrà salvata dalla morte ovvia.
Il vero protagonista della vicenda, e narratore di essa è però il piccolo nipote di Medardo, del quale mai sapremo il nome, che vive giorni felici in compagnia di fumettistici personaggi, a caccia di fuochi fatui e di ‘cose da ragazzini’, nel paese di Terralba, dove il mezzo corpo del Visconte vi fa ritorno. Ma ben presto nel villaggio una serie di sventure si abbattono tra i suoi abitanti, e tutte hanno come firma oggetti dimezzati, una losca figura dal mantello nero, e tanta cattiveria. Solo l’arrivo della metà “buona” del Visconte, data per dispersa, riuscirà a dare di nuovo un equilibrio alla situazione, che culminerà in uno scontro all’ultimo sangue ed un finale tanto fantasioso quanto poetico.
L’intento di Calvino, a differenza di quanto si possa pensare ad una prima lettura, non è una semplicistica scissione tra bene e male con quest’ultimo che, come nelle migliori fiabe, ne esce sconfitto, bensì un’allusione alle componenti contrastanti della personalità umana, e l’idea di base che si può trarre una più profonda conoscenza della realtà solo attraverso la scissione.
La scrittura usata da Calvino in questo racconto, ricorda molto quella dei poemi cavallereschi, a partire dall’ Orlando furioso, o anche al Don Chischotte, o meglio La Gerusalemme Liberata (che tra l’altro, come in un cameo, comparirà durante il primo incontro/scontro tra i due “mezzi visconti”), il che comporta un immersione ancora maggiore in quest’opera che, come detto è solo del 1952, ma che sembra saltar fuori proprio dal XVII secolo.
I personaggi, soprattutto quelli di contorno, sono l’elemento cardine su cui gira tutto il racconto, che, è meglio specificarlo, non punta dritto per dritto sino alla conclusione, ma si concede le sue pause narrative, si stagna, si ammira allo specchio e si compiace tal volta, con dei virtuosismi che ho ritrovato anche in altre opere dello stesso autore. Ma tutto ciò sarebbe stato vacuo senza lo spessore dei personaggi di contorno; e così che il racconto prende colore con la stramba figura del dottor Trelawney, malato del tressette e del vino “cancarone”, che è poi tutt’altro che dottore, sempre alla ricerca di fuochi fatui, o ancora Pamela, rozza contadina sempre accompagnata da un’anatra e una capra, che non mancherà di rendersi protagonista, o ancora Galateo il lebbroso e il suo paese di lebbrosi, Pratofungo, nel quale verrà cacciata pure Sebastiana, balia di generazioni di Terralba.
Di grande effetto mi è sembrata la descrizione (e la morte) nei primissimi capitoli del padre di Medardo, Aiolfo e della sua passione per l’ornitologia, e senza dubbio il finale che non voglio svelare, ma che è una perla di stile sopraffino.

Il Visconte dimezzato è una fiaba di grandissimo spessore, non è immediato capirne il significato che passa in secondo piano rispetto alla narrazione fantastica, che insieme ai personaggi di ottima caratterizzazione, riesce a donarci un piacevole racconto che ci strapperà un sorriso nel finale, tra i sui risvolti, i suoi addii, e i suoi fuochi fatui.

“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.”

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Marcello Priore Opinione inserita da Marcello Priore    18 Agosto, 2014
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L'INCUBO DEL RISVEGLIO

La Metamorfosi è tra le opere di maggior successo di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1915. Nel breve racconto (circa 60 pagine), riemerge fortemente l’insofferenza dello scrittore boemo verso l’ambiente familiare e sociale (difficili furono i rapporti soprattutto con il padre, testimoniati in “Lettera al padre”) e il suo soffocante senso di impotenza, che ne paralizza la propria volontà fino a renderlo inerme, delegandolo in una prigione dalla quale è impossibile sfuggirne.
Il racconto, privo di alcun preambolo, si apre con il risveglio di Gregor Samsa, commesso viaggiatore che con il suo lavoro si è fatto carico di mantenere i genitori e la sorella minore, che si ritrova trasformato in un aberrante e gigantesco insetto. La storia, che accarezza un arco di tempo di alcuni mesi (nonostante ci siano accenni alla situazione precedente alla trasformazione), si svolge interamente nella stanza del protagonista che si trasforma dapprima in una fredda camera vuota, per poi diventare una sorta di ripostiglio.
Con “La Metamorfosi” Kafka esprime la sua critica alla società praghese di fine secolo, di cui successo e guadagno sono i valori dominanti, così come l’incomunicabilità e l’alienazione, esemplificate nel concetto dell’assurdo che fa da ovvio sfondo a tutta la vicenda.
Il racconto anche se privo di particolari risvolti e colpi di scena, ci regala qualche ora di piacevole lettura sia per lo stile semplice e lineare della scrittura di Kafka, sia, come già detto, per la brevità dell’opera.

La Metamorfosi di Kafka è un racconto che ci tiene imprigionati per tutta la sua durata nel corpo di un orripilante scarafaggio, che altro non può fare che restarsene nella propria stanza (o dove vogliate) a leggere il racconto, a tratti angoscioso, perfino triste, ma di indiscussa qualità.

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Marcello Priore Opinione inserita da Marcello Priore    15 Agosto, 2014
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L'artificio del romanzo

Se una notte d’inverno un viaggiatore è l’ultimo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1979 durante il soggiorno parigino, ed è l’opera che meglio rappresenta la concezione Calviniana di letteratura come artificio.
Mi sono avvicinato a questo libro dopo aver letto il Marcovaldo e alcuni estratti di Palomar, affascinato dallo stile semplice ma ricco di sfumature di Calvino di raccontare storie, anche se già da molto tempo, colpito dal titolo dell’opera (errore spesso commesso dai così detti ‘lettori casuali’), mi ero promesso di doverlo leggere.
Protagonista della vicende è il Lettore, che apprestatosi a leggere l’ultimo capolavoro di Calvino (intitolato proprio Se una notte d’inverno un viaggiatore), si accorge che il libro presenta un difetto di stampa che non permette di procedere nella lettura dell’opera. E così si imbatte in un viaggio che lo porterà a conoscere la sua controparte femminile, la Lettrice, Ludmilla, a leggere dieci romanzi tutti diversi tra loro e tutti che s’interrompono improvvisamente, fino ad arrivare a contatto con una cospirazione mondiale romantica di manipolazione di testi ad opera di un losco individuo di cui non si trovano più tracce chiamato Ermes Marana.
Calvino si era proposto di scrivere un romanzo sul piacere di leggere romanzi, identificandosi non più come l’autore, ma come il lettore di essi, cimentandosi così nella stesura di dieci testi apocrifi (attribuiti falsamente ad un autore) tutti diversi da loro sia per temi sia per stile, ma che possono essere facilmente riproposti seguendo lo schema che lo stesso Calvino suggerisce (posseggo l’opera edita da Oscar Mondadori, con presentazione di Giovanni Raboni): “Se una notte d’inverno un viaggiatore” romanzo della nebbia dal forte stampo noir, “Fuori dell’abitato di Malbork” romanzo dell’esperienza corposa, “Sporgendosi dalla costa scoscesa”, romanzo simbolico interpretativo (mi ha colpito particolarmente), “Senza temere il vento e la vertigine” romanzo politico-esistenziale, “Guarda in basso dove l’ombra s’addensa” romanzo cinico-brutale, con forte componente pulp, “In una rete di linee che s’allacciano” romanzo dell’angoscia, tipico esempio di post-modernismo americano con il quale lo stesso Calvino entrerà in contatto nel suo ultimo periodo, “In una rete di linee che s’intersecano”, romanzo logico-geometrico, “Sul tappeto di foglie illuminato dalla luna” romanzo erotico della perversione, “Intorno a una fossa vuota” romanzo tellurico-primordiale, e in fine “Quale storia attende laggiù la fine?” romanzo apocalittico.
Il romanzo dunque presenta una struttura molto originale, presentando un racconto sempre interrotto (spesso nel climax, proprio quando iniziava a catturarci e avremmo voluto saperne di più) e poi un intervallo che ripropone le peripezie del Lettore e della Lettrice Ludmilla.


Se una notte d’inverno un viaggiatore è un libro piacevole da leggere, che ci illude, ci accudisce, ci vizia, ci fa innamorare e poi ci risveglia bruscamente, senza mai arrivare ad una vera conclusione. I dieci romanzi apocrifi sono quasi tutti di alto livello e, almeno personalmente di quasi tutti avrei piacevolmente continuato la lettura (eccezion fatta per “In una rete di linee che s’intersecano”, “Intorno a una fossa vuota” e “Quale storia attende laggiù la fine?”). Non posso dire lo stesso per la parte narrata del lettore e della lettrice, che è solo un mero intermezzo necessario al corretto compimento di questo esperimento Calviniano, ma che non presenta nessuna peculiarità, nessun colpo di scena rilevante e nessun momento di particolare riflessione.

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