Opinione scritta da Amedeo Altieri
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Tempo o denaro?
Quattrocento pagine di racconto. Una sinossi che promette, finalmente, di introdurmi nei segreti dell’alta finanza. I tessitori dei destini del mondo finalmente avranno un volto. E’ difficile parlare di questo romanzo. Se da un lato promette cose che non mantiene, dall’altro si sente che l’autore ha stoffa. Il libro ha come ambientazione l’alta finanza, e per questo intriga, ma a ben guardare, in fondo, al di là di una terminologia “occulta” per i profani, non riesce ad andare oltre. Il suo aspetto positivo è il monito, che da questo libro si alza con fierezza, ad utilizzare la finanza per il motivo per cui è nata, ovvero una cinghia di trasmissione, un volano, che dovrebbe permettere all’industria di progredire e creare benessere. Da questo monito nascono le riflessioni su che mondo è, quello nel quale stiamo vivendo. Che la nostra dimensione ha un unico vero dittatore: Il tempo. Si, non il denaro ma il tempo. Manciate di minuti che decidono il destino di milioni di persone, manciate di secondi per guadagnare o perdere milioni di dollari. Sono gli stessi minuti, secondi che ogni giorno, ciascuno di noi vuole ottimizzare. Telefoni ( o è meglio dire dispositivi) computer, internet, aereo, auto, skype, whatsapp, tablet, tutto serve ad accorciare distanze e ottimizzare il tempo. Poi arrivi a fine giornata e, ripensando a quello che hai fatto, (tante cose) non riesci a fissarne una, nella tua mente. I giorni trascorrono veloci e non riusciamo a fissarli. Il protagonista, all’apice della sua carriera lavorativa se ne accorge, e fa una scelta. Immorale, egoistica, ma l’unica che può, per sopravvivere. Niente segreti dell’alta finanza, ma un uomo, di oggi, alle prese con il suo dittatore, il tempo. Un romanzo catartico, dunque, che restituisce all’essere umano la dignità di essere vivente, piuttosto che pedina di un gioco senza senso e senza fine che diventa ogni giorno più veloce, nel quale ciascuno di noi è coinvolto. La finanza, dunque finisce per essere un pretesto per scrivere della difficoltà di riappropriarsi del proprio tempo, di quanto lontano si può andare da se stessi in un mondo nel quale non c’è mai tempo abbastanza. La prima parte del romanzo scorre abbastanza veloce, la seconda un po’ meno, a volte l’autore gigioneggia, e si parla addosso, ma è perdonabile. La mia chiave di lettura è, come sempre, molto personale, per cui sarei curioso di conoscere il parere di altri che lo hanno letto.
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Dietro una lastra di vetro
Chi ha scritto un libro, solitamente ha grandi velleità. Si scontra poi con il giudizio altrui. Forse la verità è che una volta terminato, e pubblicato, il libro non è più suo, diventa patrimonio letterario di chi lo legge. Così accade che un libro scritto da un’insegnante, sulla scuola, diventi per me un romanzo sulla solitudine. Il protagonista, un ingenuo ragazzo proveniente da una piccola isoletta del sud, e dunque non avvezzo alle mode di una Torino scolastica in stile alto borghese, racconta in prima persona, il percorso formativo ( deformante? Giudicate voi.) in un liceo classico frequentato da compagni alla moda e ragazze irraggiungibili. La solitudine adolescenziale che poi sfocia in patologia vera e propria, è il lungo, costante, ritmo che batte in tutto il romanzo. Come una vertigine, si avverte in ogni pagina, il rumore assordante di un doloroso, a volte malinconico, soliloquio, un muto grido disperato di aiuto per infrangere la solitudine, lastra di vetro tra lui e il mondo reale. Ma il ragazzo ha talento, anzi due. Uno è quello scolastico, traduce i classici latini con passione ed amore, ma sarà maltrattato da lui e dalla scuola. L’altro nascerà naturalmente, inconsapevolmente, scivolerà lungo tutte le pagine del romanzo senza apparirvi e alla fine sorprenderà tutti, protagonista compreso. Vi lascio, per chi non lo ha letto, il gusto di scoprire se, al termine del romanzo, c’è un riscatto o no. Fatto sta che questo libro mi fa pensare alle cose non dette, alle parole ingoiate dall’orgoglio, dalla rabbia, dal senso di inadeguatezza, le frasi che sono mancate e che abbiamo trovato dopo, a tempo scaduto. Forse l’autrice voleva parlare d’altro, non lo so, ma il romanzo che ho letto io mi ha trasmesso questo. Buona lettura.
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Alla fine di una giornata pesante
Il sole estivo spande gli ultimi bagliori scomparendo lentamente dietro l’orizzonte delle colline toscane. Sto tornando a casa. E’ stata una giornata pesante. Ho ricevuto tre telefonate di gente arrabbiata che ha pensato bene di usarmi come valvola di sfogo, nonostante non centrassi nulla. Ho passato il giorno intero a cercare di dissuadere i miei clienti dalla scelta di non comprare. A volte ci sono riuscito, altre no. Ma che fatica! Il crepuscolo e la stanchezza mi fanno cedere alla malinconia. Le mie radici, la mia terra, la mia città, Bari, dalla quale sono ormai lontano da anni. So già che stasera, sul mio comodino prenderà posto un libro, che me la farà respirare: Né qui ne altrove una notte a Bari, di Carofiglio. L’autore ha più o meno la mia stessa età, e ha frequentato i luoghi della mia adolescenza. Quando riprendo in mano quel libro, mi sembra di ripiombare in quegli anni. La fotografia, a volte nitida, altre sfocata della città è sorprendentemente veritiera. Dico sorprendentemente, perché nessuno che non abbia vissuto nella città, avrebbe mai creduto che fosse così bella. Persino il quartiere Libertà, dove ho vissuto per dieci anni, appare nitido, nelle sue meravigliose sfaccettature e contraddizioni. Sullo sfondo della città, si consumano le emozioni dei tre protagonisti. Si, le emozioni, perché il romanzo è un crogiolo di emozioni del passato che si fanno presente, e accompagneranno i personaggi anche nel futuro. Esilaranti ricordi di esperienze adolescenziali, si alternano a nostalgiche considerazioni del tempo della giovinezza, quando tutto è possibile, e ci si sente padroni del mondo. Poi ci pensa la vita a metterti al tuo posto. E non è detto che sia un brutto posto, solo che potrebbe non essere quello che si voleva. Ma soprattutto “Né qui né altrove una notte a Bari” è un romanzo sulle radici. Quelle solide radici che ti hanno intriso della linfa che dà sapore alla tua personalità. Le radici che sono l’odore e il sapore della focaccia, insospettabile protagonista dell’epilogo del romanzo. Quelle radici che si sono allungate e piantate nella propria terra, quando ragazzino, si nutrivano dei tuoi sogni e delle tue speranze di salvare il mondo. Quelle radici che scopri di avere quando la lontananza le scopre nude all’aria, disorientate di non trovare più nutrimento. Scusate, è stata una giornata pesante.
Grazie Carofiglio.
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La fiaba nera
Succede così almeno una volta alla settimana. Entro in libreria e comincio a girare leggendo titoli a casaccio. Mi fermo davanti ad uno scaffale e sfilo con gli occhi i titoli. Ne prendo uno a caso, leggo la terza o la quarta di copertina, la sinossi, ma spesso non tutta, e poi scorro la prima pagina sperando di leggere qualcosa di nuovo, intrigante. Spesso, molto spesso questo tipo di pesca non porta a nulla, e allora esco dalla libreria con una sensazione di vuoto. Capita soprattutto quando non riesco a rilassarmi, e a concentrarmi. E si perché varcare la soglia di una libreria sarebbe come entrare in un’altra dimensione, nella quale riesco a vagare per ore alla caccia del mio nuovo libro da leggere. E’ così che ho scoperto il libro di Bonazzi senza sapere nulla, di lui e del libro. Mi ha colpito la prima pagina, e così ho deciso di andare avanti e l’ho comprato. Il libro mantiene la promessa della prima pagina. Scorre velocemente e ti trasporta in un incubo senza fine. Il punto di vista del romanzo è quello di un bambino di dieci anni. Odori, rumori, visioni, sono tutti resi vividi e reali. Anche il tempo, il lento passare del tempo, che si dilata e si contrae in un altalena di situazioni angoscianti, si materializza nelle pagine del libro, come un nemico, un invincibile nemico. E poi c’è una costante che permea il romanzo dall'inizio alla fine, che avvolge l’esistenza di ciascuno dei personaggi, senza esclusione di alcuno: la solitudine, fredda, tagliente, impermeabile. Un romanzo cupo, senza riscatto, un pugno allo stomaco. Una fiaba nera che sei contento di aver letto, solo perché hai avuto si paura, ma per fortuna è tutto inventato.
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LA FORZA DELL'ABIEZIONE.
Volete mettervi alla prova? Leggete questo romanzo sospendendo il giudizio morale. Immedesimatevi nel protagonista, se ne avete lo stomaco. No, non crediate che si senta cattivo, è solo amorale, non possiede un’etica. Vi siete mai chiesti cosa sareste voi senza un’etica? Leggete il romanzo e forse, potreste farvene un’idea. Il libro vi condurrà, cinicamente, nei meandri di una mente razionale, lucida, spietata, che ha un solo obiettivo, conquistare una posizione sociale, diventare rispettabile. Sullo sfondo di un’Italia assolutamente credibile, al punto da farci sorridere sulla verosimiglianza del tessuto affaristico, politico e culturale che pur sembra inventato, il nostro personaggio si muove con scaltrezza, calpestando chiunque provi a fermarlo. Il romanzo scorre bene e lascia l’amaro in bocca. L’aspetto tragico è rappresentato dalla considerazione che tutti gli accadimenti potrebbero essere assolutamente reali. Mi sono fermato a riflettere su quanto del protagonista ci possa essere in una persona normale, dotata dei più semplici doveri morali. Una sera, prendendo spunto dal romanzo, ho intavolato una discussione con alcuni amici, e sono venute fuori molte sorprese. Provate.
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Per non dimenticare il significato di dignità.
Non ricordo il giorno in cui l’ho comprato. Non ricordo nemmeno la prima volta in cui l’ho letto. Sicuramente però, è l’unico libro che leggo almeno una volta in un anno da almeno due decenni. SE QUESTO E’ UN UOMO è un romanzo sulla dignità. La forza narrativa, lucida e cristallina fluisce nel racconto, spinta dalla necessità di gridare al mondo che è esistito un luogo, dove essa è stata annullata. Ma cos’è la dignità? Semplicemente il rispetto della creatura vivente in quanto tale. Primo Levi ne descrive, nel libro, il suo annientamento fatto in modo scientifico, fino a ridurre l’uomo un oggetto. Spogliato della definizione di essere umano, nel campo si usa un termine specifico per chiamare i prigionieri: Haftling, ossia pezzo. Un pezzo che se si rompe si deve semplicemente sostituire. Ci racconta dell’abisso nel quale la mente può precipitare nel disparato tentativo di sopravvivere. Ci descrive vari modi nei quali quei prigionieri hanno difeso la loro dignità. Io credo sia un libro che ognuno dovrebbe leggere. Ci può indurre a riflettere su che fine può aver fatto la nostra, di dignità.
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