Opinione scritta da Giuliacampy
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L'autentica grandiosità di un miserabile
Un'opera come quella di Hugo, la cui fama grava, possente su qualsiasi appassionato lettore che si accinga a sfogliarne le pagine, non può essere sintetizzata né commentata da poche e semplici parole né da interminabili e complessi discorsi: quando si ha a che fare con un capolavoro è sufficiente un termine per spiegare tutto, INEFFABILE. Non è possibile descrivere un romanzo di questo calibro, non si può che leggere e apprezzare in ogni singola frase, ciascuna delle sue oltre 1500 pagine di perfezione. La storia dei personaggi cattura fin dal primo momento il lettore, avvolgendolo in una voragine di emozioni e profonde esperienze da cui è difficile uscire, tale è l'autentica bellezza che le caratterizza. L'amore, il patriottismo, la storia: ecco gli ingredienti fondamentali della ricetta di una grande opera. Hugo alterna parentesi storiche narrate con sincerità e oggettività, a poetiche pagine colme di profonde verità individuali; dipinge sapientemente i personaggi e ci fa piangere con loro quando soffrono, sorridere nei loro momenti di gioia. I miserabili sono gli unici a poter rappresentare e abitare la Parigi dell'epoca, questa città personificata, ricca di insidie e di tenebre, ma anche di raffinatezza e luminosità. Come una donna dall'inspiegabile sensualità che cattura gli uomini nei suoi vicoli ciechi, nelle strade buie, nelle fogne fangose, ma che diviene anche teatro di grandiose gesta e atti di coraggio, infiammata dalla passione dei giovani come Enjolras. Tuttavia, colui che emerge e che domina l'intero romanzo, nella sua miserabile santità, è Jean Valjean. L'uomo che trova la forza di liberarsi dai propri demoni grazie alla benevolenza del sacerdote Myriel, che ritrova la parte migliore di sé e la pone al servizio degli altri, in particolare di Cosette. Un miserabile, un individuo povero ma che riesce a costruire la propria fortuna e che ama condividerla con gli altri. Jean Valjean, papà Madeleine, il signor Fauchelevent, molteplici nomi ma una sola, integra personalità: quella di colui che vive al servizio della proprio coscienza, duro con se stesso, generoso con il prossimo, che biasima con fermezza le proprie colpe e commette sommessamente semplici gesta eroiche. Dall'altra parte Thenardier, anch'egli miserabile, ma non di quelli che si ergono al di sopra della melma fangosa, che si innalzano con ciascuna fibra del proprio corpo per raggiungere la luce, bensì un individuo che impara a nuotare in quelle acque paludose e scure, che sopravvive e non si cura di nessuno se non di se stesso. Tuttavia, come dimostrato al termine del romanzo, per quanto dura possa essere la vita e ingiusta la legge, di fronte al giudizio divino, tutti i conti vengono parificati e solo colui che ha dimostrato di possedere un volto sporcato dalla terra e dal sangue, ma un animo lipido come l'acqua cristallina di una fonte, riceve l'amore e la tranquillità che merita, trasformandosi in un meraviglioso angelo che veglia sui suoi cari; l'altro, al contrario, per quanto possa tentare di lavare via il fango da quella coscienza macchiata dal crimine e dalla malvagità, è destinato all'eterna solitudine.
E come dimenticare la tenerezza di Gavroche? Un ragazzino costretto a crescere troppo in fretta, povero di denaro ma ricco di gentilezza, che pur essendo orfano è in grado di comportarsi come un padre. Potrei inoltre spendere fiumi di parole su Marius e Cosette, ma non voglio rivelare troppo di questo romanzo, preferisco lasciare a voi il giudizio e soprattutto il piacere di leggere un capolavoro di questa portata. Non nascondo che la mole del libro può scoraggiare all'inizio e rende incredibilmente soddisfatti alla fine, quando ci si rende conto che non è stato affatto difficile nè gravoso completare una lettura così piacevole, ma credo che ritornerò a sfogliarne le pagine una seconda volta in futuro, quando osserverò i personaggi con gli occhi dell'esperienza e magari dopo aver approfondito una parentesi essenziale della storia non solo francese, ma mondiale: Napoleone e le eredità della Rivoluzione Francese.
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LA FRENETICA RICERCA DI UN’IDENTITA’ SOFFOCATA DAL
La storia di Emma è quella di una donna romantica, colma di passione e sentimento, che tenta di affermare la propria individualità e personalità in una realtà racchiusa dalle quattro, consunte pareti della mediocre convenzione. In un mondo in cui il destino di qualunque essere umano è segnato dal suo genere, Emma non può che recitare la parte della moglie devota ad un marito onesto, benevolo e forse anche moderatamente intelligente. Tuttavia, non possiamo pretendere che una meravigliosa aquila, con ali maestose ricoperte da un magnifico piumaggio scuro, rimanga appollaiata alla ringhiera del nostro terrazzo; è assurdo pensare che una donna come Emma, con le sue lunghe ciglia che sembrano avvolgere il cuore degli uomini in una ragnatela di desiderio e passione, con la sua insaziabile ambizione di assomigliare anche solo lontanamente alle protagoniste dei romanzi che amava leggere, si accontenti di prendere parte ad uno spettacolo così infinitamente deludente. Ecco quindi che si lascia trascinare dal sentimento, dalla bramosia, dal fascino della proibizione e trascura persino la figlia per seguire le fluttuazioni inaspettate del proprio cuore. Tradisce ripetutamente il marito con i fatti ma soprattutto con il pensiero, ogni volta che prova a fantasticare sulla sua vita con un uomo davvero degno di stima. Charles Bovary infatti è il peggiore dei parassiti per lei, lo detesta e questa ostilità per un individuo che reagisce non solo con indifferenza, ma addirittura con benevolenza, le provoca un senso di colpa che non avrà mai fine e che continuerà a consumarla, fino alla fine. Emma è tuttavia non solo vittima, ma anche artefice della propria sventura, in un secolo in cui l’essere donna già rappresenta un pesante fardello da sopportare. Come emergere e trovare se stesse in una società che si aspetta dal gentil sesso niente di più che un buon matrimonio e niente di meno di una docile devozione per il proprio marito? In quale modo è possibile trovare soddisfazione e pienezza nella vita, riuscendo a sottrarsi alle convenzioni senza isolarsi nel tormento delle maldicenze? Lo sconforto di Emma non è forse simile per certi versi a quello di Anna Karenina? Eppure entrambe sembrano fallire, due donne che forse oltrepassano la linea di confine a tal punto da raggiungere un comune tragico epilogo. La verità è che nessuna vita viene sottratta inutilmente al mondo; donne che lottano per l’emancipazione, che tentano di seguire il proprio istinto anche sbagliando, soffrendo e causando sofferenza, che scelgono di essere protagoniste di un’esistenza altrimenti dominata dalla mediocrità. Questa è Emma, un simbolo, l’emblema del sentimento romantico che arde e divampa con le sue meravigliose lingue di fuoco, emanando un calore che talvolta rischia di divenire fin troppo soffocante e di incenerire ciò che lo circonda, tale la sua forza meravigliosa.
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Fatti non foste a viver come bruti
Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" esordisce Ulisse nell'Inferno dantesco per esortare i suoi compagni a continuare l'audace traversata dello stretto di Gibilterra. Il capitano Achab non è poi così diverso mentre tenta di convincere il proprio equipaggio ad intraprendere la folle caccia contro Moby Dick, con il suo disarmante carisma e l'innegabile autorevolezza conferita anche da quella gamba d'avorio candida e possente, come la Balena che lo ha costretto a sostiruirla al fragile arto in carne ed ossa. Tuttavia, l’impresa di Achab non è solo una sfida contro i limiti umani, contro quella meravigliosa e mastodontica creatura marina che Ismaele descrive con incredibile precisione e ammirazione, ma soprattutto una lotta all’ultimo sangue con le proprie inquietudini, con quella lacerante tetraggine indissolubilmente legata alla sua anima. Il dissidio che tormenta Achab, la contrastante commistione di violento odio e profondo legame che prova per il maestoso cetaceo, sono i sentimenti che dilaniano l’uomo moderno nella sua ricerca della propria identità e dell’ignoto che essa sembra celare. Decidere di imbarcarsi in un lungo viaggio che costringe a fare sacrifici, a trascorrere interminabili periodi di solitudine e di sconforto in un ambiente ostile e paurosamente immenso come il mare, è un gesto che un vigliacco non compierebbe mai. Achab è infatti incredibilmente coraggioso, un capitano di grande audacia e integrità come prova la completa fiducia e ubbidienza che l’equipaggio dimostra nei suoi confronti. Per quanto assurdamente spietata e priva di significato sia la sua campagna, pur essendo quanto di più lontano possa esistere dal bene comune, egli è in grado di influenzare l’animo umano a tal punto da renderlo disposto a sfidare la natura, i venti e ogni genere di funesto presagio per annientare una balena al solo scopo di vendicare se stesso e di riscoprire il proprio valore. Nemmeno Starbuck, nonostante le meditazioni su un eventuale atto decisivo e i tentativi per convincere Achab ad arrendersi, riesce a mutare la terribile sorte a cui il Pequod è destinato.
Il romanzo è ricco di significato in ogni sua parola, dalla descrizione dell’anatomia della balena, ai riferimenti biblici, alle brevi e crude conversazioni tra i marinai: ciascuna affermazione, pausa, domanda cela un messaggio più profondo che solo un abile lettore con una sconfinata cultura riesce a cogliere in tutte le sue sfaccettature. Ecco perché ritengo che l’opera di Melville meriti almeno una seconda lettura, per avere la possibilità di apprezzare pienamente i concetti espressi dalla sua poetica narrazione e dalle autentiche vicende dei personaggi. Quando, voltando l’ultima pagina, ho chiuso il libro con l’immagine di Ismaele sopravvissuto grazie ad una tomba-salvagente, mi sono chiesta quale fosse la morale dell’opera, se in quella molteplicità di contenuti, ce ne fosse uno che spicca sugli altri con maggiore autorevolezza. Forse Achab è stato condannato per aver osato sfidare la volontà divina, per aver continuato una caccia folle e senza speranza nonostante i presagi che si erano manifestati fin da prima della partenza? Magari l’equipaggio e lo stesso Ismaele, che è molto di più di un semplice spettatore, avrebbero dovuto far valere le proprie idee e impedire che si realizzasse un epilogo già scritto? D’altra parte non è forse questa la bellezza dell’essere umano? La sua capacità di non arrendersi mai nonostante le difficoltà, di impegnarsi con ogni fibra del proprio corpo pur di raggiungere un obiettivo che agli altri può sembrare ridicolo ma che è importante per ciò che l’individuo riuscirà a dimostrare a se stesso portandolo a termine?
L’immensa distesa azzurra del mare che si confonde con quella del cielo sortisce effetti misteriosi nell’indole dell’uomo, lo porta a farsi domande difficili e a tentare di dare risposte assurde, ma è quanto di più vicino possa esistere nel mondo concreto dell’astratta dimensione divina. Ecco perché amiamo tanto imbarcarci in avventure incredibili, perché sentiamo l’esigenza di esplorare l’acqua quando la terra ci sembra ormai troppo dura e stretta, magari più ospitale ma meno affascinante. La balena, il leviatano, nella sua meravigliosa anatomia, nell’intelligenza dei suoi atteggiamenti, a metà tra il mondo terreno e quello degli abissi, è quindi la creatura che l’uomo invidia più di tutte, a cui si sente più vicino, e quando vede in lontananza quel sonoro respiro, accorre per raggiungerlo, continuando a stringere tra le mani la sua lampada ad olio che ne illumina cammino.
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La bellezza salverà il mondo
Autenticità, purezza, compassione: l'incredibile triade di ideali incarnati dal principe Myskin sembrano quanto di più estraneo possa esistere dall'idiozia, ma la verità è che la parola "idiota" ha un significato molto più ampio e profondo di quanto si possa erroneamente immaginare. Dopo il tema del libero arbitrio di cui sono intrise le vicende de "I fratelli Karamazov", il male de "I demoni" e la sua eterna lotta con il bene e con il senso di colpa che perseguita Raskolnikov in "Delitto e castigo", Dostoevskij elabora un personaggio che sembra quasi ai confini della realtà, un giovane uomo che pronuncia soltanto parole sincere, che compie azioni sempre rivolte al benessere del prossimo, che soffre e ride con lui e lo aiuta a estrarre dal sottosuolo dell'anima i pensieri più misteriosi e i dubbi che ciascuno di noi tenta disperatamente di seppellire, perchè teme l'esito della loro risoluzione. La capricciosa sfacciataggine di Elisaveta, la volubilità di Aglaja, l'orgoglio e le assurde contraddizioni di Nastasja e l'impetuosità di Rogozin sono lo sfondo di un bellissimo quadro che vede nel principe il suo soggetto principale, sempre fedele a se stesso e alle proprie convinzioni.
Così idiozia diviene sinonimo di originalità, di diversità, perché nessuno è come lui, non un'anima viva è in grado di comprenderlo pienamente, di accettare che tutto ciò che egli dice e fa non è frutto di un attento calcolo come Lebedev, non è una strategia mirata al raggiungimento di un fine ultimo che conduca ad un vantaggio personale, ma il comportamento sincero e trasparente di un individuo che vede la realtà con gli occhi un bambino, con l'ingenuità e l'innocenza di un fanciullo che si meraviglia di fronte a qualsiasi cosa e che agisce a favore di chi è più bisognoso della sua pietà e compassione. L'amore per due donne, Aglaja e Nastasja, viene interpretato da alcuni come un sentimento la cui doppiezza induce al disprezzo, all'incredulità, perché visto come un subdolo inganno che provoca l'infelicità della povera Aglaja. Soltanto Evgenij comprende che l'amore del principe Myskin non può essere paragonato alla passione di Rogozin né a qualsiasi altro tipo di sentimento terreno, è un moto dell'anima autentico e disinteressato, e come tale non può essere che rivolto a qualsiasi individuo che ne abbia bisogno: è amore per l'essere umano in quanto tale indipendentemente dalle sue qualità fisiche o psichiche. Ecco perché il principe sceglie Natasja, egli sente il dovere di curarla da quella perfida malattia che le oscura la mente convincendola di essere una donna perduta, priva di onore e dignità e quindi destinata ad una meritata ed eterna sofferenza. Nastasja pensa di essere colpevole di un peccato da cui non potrà mai riscattarsi e questa consapevolezza la spinge a bramare il dolore e la lascivia, a ostentare un orgoglio e un'autorevolezza che tenta di esercitare con i suoi improvvisi eccessi di amore ed odio, di passione e gelida indifferenza, con quegli occhi neri e profondi come voragini con cui strega qualsiasi uomo eccetto Myskin, il quale sa che lo sguardo aggressivo di Nastasja è solo una maschera che cela una ragazza indifesa.
L'idiota è tutt'altro che stupido, è acuto, sottile nelle sue riflessioni e quella che viene definita malattia, l'epilessia, diviene la chiave che gli consente di aprire le porte del futuro, di presentire gli eventi che cambieranno l’esistenza degli altri personaggi.
Altra figura di rilievo è quella di Ippolit, colpito da un male incurabile, da una condanna a morte che non ha il fascino cruento di quelle a cui Myskin aveva assistito, ma che procede lentamente, insidiosa. Ippolit teme ma allo stesso tempo brama il giorno in cui i suoi tormenti avranno fine poiché la vicinanza della fine lo paralizza rendendo i suoi ultimi attimi sulla terra insopportabili. Quale impresa può intraprendere un uomo con la consapevolezza che non riuscirà ad assistere alla sua piena realizzazione? La sua confessione è disarmante, sono le ultime parole di un uomo che ha coraggio, pur ostentando una tragica rassegnazione che solo in parte gli appartiene.
Dostoevskij dimostra per l’ennesima volta un’incredibile genialità nel delineare personaggi affascinanti, misteriosi ma sempre profondamente umani e reali. Invidia, vittimismo, infantilismo, egoismo, i semi della discordia che alimentano discussioni e dissidi a cui si contrappone il temperamento pacato del principe; si tratta tuttavia di una mitezza tutt’altro che noiosa, poiché come scopre il lettore, si basa su una purezza d’anima che viene ingiustamente scambiata per idiozia. In un mondo dominato dall’ipocrisia e dalla falsità, chi si distingue per la propria rettitudine sarà inevitabilmente un incompreso, un uomo malato rispetto ai sani principi dell’immoralità.
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la frantumazione dello specchio dell'io
Un'inezia, una futile osservazione su un dettaglio che Vitangelo Moscarda non aveva mai notato, lo conducono in un abisso di inquietudine, in una dimensione fatta di specchi che riflettono centomila immagini diverse ma nessuna in cui possa riconoscersi. Il relativismo, l'incomunicabilità, la dispersione dell'io in un mare di incertezza che impedisce all'uomo di recuperare la propria identità come singolo, sono le tipiche tematiche novecentesche disseminate in tutto il romanzo e sapientemente affrontate da Pirandello con quella comicità grottesca, quell'umorismo intriso dell'avvertimento del contrario, che suscitano nel lettore un sorriso terribilmente amaro.
Vitangelo è oppresso dal peso delle sue nuove consapevolezze: nulla è reale, vive in un mondo fatto di illusioni, costruito appositamente dall'uomo per dare un senso ad un'esistenza che altrimenti si esaurirebbe nel nulla. Così siamo continuamente indaffarati, alla ricerca di un'occupazione che ci distragga dall'inesorabile scorrere del tempo, mentre la vita viene consumata dall'inganno su cui l'abbiamo fondata.
Se gli altri ci vedono in modo diverso da come pensiamo di essere, se non c'è possibilità di conoscere e di conoscerci per ciò che siamo come individui e per ciò che pensiamo come uomini razionali, cosa ci rimane? Un'incapacità di comunicare che ci rende alienati ed estraniati proprio dalla realtà in cui ci siamo ostinati a credere per così tanto tempo.
Nessuno può liberarsi della forma che gli è stata attribuita, essa ci segue come un'ombra e ci rende prigionieri in un'identità che non sentiamo appartenerci. Il flusso della vita è così bloccato in un'immagine, un'istantanea, un riflesso nello specchio che muta e varia non appena volgiamo lo sguardo altrove.
Nessuno può VEDERSI VIVERE, così ci limitiamo a catturare degli istanti nell'incessante movimento della natura, attimi che proprio nel momento in cui vengono catturati, divengono un simbolo di morte perché nulla che vive può fermarsi e quando ciò avviene, muore.
Vitangelo riflette, sperimenta, tenta di stravolgere la forma che gli è stata attribuita, quella figura di usuraio che sembra aver ereditato dal padre, comportandosi in modo insolito, diverso. Purtroppo è destinato a fallire, dimostrando che ormai non c'è più speranza, cambiare significa apparire pazzo agli occhi degli altri, che temono la novità e preferiscono pensare che essa sia sinonimo di delirio e follia; uniformarsi vuol dire invece tranquillità, esistere ma non VIVERE.
Che fare di fronte ad una realtà così tristemente irrecuperabile? Vitangelo, tra sé e i centomila che vedono le persone in lui, preferisce liberarsi di tutti, sceglie di non essere nessuno in particolare ma di entrare in simbiosi con la nuvola, con il filo d'erba, con la dimensione mutevole, ma viva, della natura. Si accontenta della "forma del pazzo" piuttosto che accettare quella dell'usuraio; non potendo scegliere, vittima delle opinioni altrui, meglio apparire folli e conservare almeno l' intenzione di non voler essere un altro ingranaggio di quel meccanismo artificioso e artificiale che chiamiamo esistenza, meglio distaccarsene per quanto possibile, e vivere in una solitudine che comunque non avremmo potuto evitare.
Pirandello è chiaramente figlio del suo tempo, profondamente influenzato anche dalle sue vicende personali, e per quanto sia triste pensare che non è poi così difficile riconoscerci in un mondo come il suo, io voglio pensare che ci sia ancora speranza. Viviamo in una realtà in cui l'immagine, la forma, dominano la nostra mente più di quanto facessero nei compaesani di Vitangelo, tuttavia ritengo che sia ancora possibile liberarsene. Costruiamo noi stessi e coloro che ci circondano in base alle nostre esigenze, attribuiamo giudizi affrettati in un mondo in cui essere apprezzati talvolta corrisponde a ricevere consensi su un social network e ignoriamo il significato più profondo della ricerca della nostra identità. Ciò non significa però che non si possa cambiare, magari rischiando di apparire folli come Vitangelo all'inizio, ma prima o poi, rimanendo fedeli alle nostre idee, credo che sia possibile raggiungere la perfetta sovrapposizione tra chi siamo, chi pensiamo di essere e ciò che sembriamo.
Così un romanzo che evoca tristezza può esortarci ad agire piuttosto che rinvigorire la nostra inerzia.
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La paradossale fratellanza degli uomini
Ragione e sentimento, bene e male, avidità e generosità, delirio e avvedutezza, amore e odio: questi sono i motivi contrastanti che popolano un romanzo in grado di riflettere con sconcertante chiarezza la profonda lotta di emozioni e idee che sconvolge l'animo umano. Ivan, Alekseij, Dmitrij e ovviamente l'enigmatico Smerdjakov, quattro fratelli che sembrano talvolta estranei, legati da una figura paterna avara ed egoista, il cui comportamento si dimostra totalmente diverso da quello che ci si aspetta da un genitore. Fedor è infatti un uomo che si lascia trascinare dalla vita e dalle passioni, che continua a mentire agli altri e a se stesso diventando l'artefice e la vittima di uno scherzo senza fine; un buffone capriccioso che si prende gioco del figlio tentando di sedurre la sua amata, ma che manifesta fin da subito un inaspettato spirito di osservazione. Egli infatti comprende sin dagli inizi che Alesa è diverso degli altri, che nel suo cuore albergano sentimenti autentici e valori nobili che lo rendono il vero eroe della storia, come lo stesso autore sottolinea nella prefazione. E se Dostoevskij non avesse condotto per mano i nostri pensieri verso la figura di Alesa, se il vecchio Fedor Karamazov, con la sua esistenza dissoluta, non fosse stato capace di emozionarsi se non davanti al terzo figlio, il lettore ne avrebbe riconosciuto la centralità all'interno dell'opera? Quattro fratelli e quattro personalità ugualmente affascinanti e travagliate dai misteri della fede e dalle insidie del dubbio: nemmeno Alesa può sconfiggere definitivamente il diavolo perchè anche questo è parte di noi. Come in ogni sua opera Dostoevskij rende i propri personaggi l'emblema di un ideale, la manifestazione concreta di un modo di essere: Ivan simbolo della Ragione, Dmitrij incarnazione del Sentimento e Alekseij come connubio schilleriano dei due; allo stesso tempo però non trascura mai quelle insicurezze, paure, inquietudini che appartengono inevitabilmente a ciascuno di noi. Nei suoi romanzi il lettore non troverà mai un personaggio buono e uno cattivo, il bianco e il nero, ma un’innumerevole quantità di sfumature che non possono dar vita ad una tinta decisa dal momento che, se la nostra anima fosse un quadro, non potrebbe assolutamente assomigliare ad un Mondrian ma solo ad un Kandiskij. Così attimi di sorprendente razionalità lasciano subito spazio alla furia delirante di Ivan o di Smerdjakov, come se ciascuno di noi fosse improvvisamente preso da una crisi epilettica, quel disturbo di cui lo stesso Dostoevskij era vittima e che, nella sua assurda manifestazione, sembra rivelare all’uomo verità nascoste che con la pura ragione non avrebbe mai potuto indovinare: ecco che il delirio diviene un’epifania, la malattia una fonte di sanità.
Sarei stata davvero impaziente di leggere il seguito di questa grande opera. I fratelli Karamazov ricoprono un ruolo centrale, le loro vicende dominano la scena, ma non sono gli unici personaggi degni di nota. Forse l’orgoglio ferito di Katerina non meriterebbe un approfondimento? I sentimenti contraddittori che albergano in un animo pronto a sacrificarsi per il puro gusto di ricevere la compassione altrui, il dissidio di una donna che finge di calcolare le proprie mosse per poi agire d’istinto. E cosa dire di Grusenka? La donna fatale che riesce ad ammaliare persino l’innocente Alekseij e che, nonostante la maschera di indifferenza e crudeltà che è solita indossare, non è altro che una ragazza in balia di forti passioni, di un amore giovanile culminato nella delusione e che infine soccombe ai sentimenti di Dmitrij. Due donne, due modi di amare e di soffrire per un uomo che nella sua spregevole depravazione, mantiene quel briciolo di integrità sufficiente a suscitare compassione nel lettore. Dmitrij è ingenuo, è così palesemente innocente da diventare infine colpevole agli occhi di coloro che non lo conoscono per ciò che è ma per ciò che si suppone abbia fatto.
Parallelamente alla vicenda dei Karamazov, la storia del santo e saggio Zosima, del piccolo Iljuseka e del sagace Kolja: persone che nascono e che muiono, che gioiscono e che provano dolore ma che, nonostante la lussuria, la crudeltà, l’egoismo, che attribuiamo spesso all’essere umano, sono capaci di azioni autenticamente buone e manifestano una solidarietà in grado di unire in una astratta ma percettibile fratellanza tutti coloro che popolano il mondo dei vivi e dei morti.
Forse il Grande Inquisitore ha ragione, forse gli uomini si spaventano quando entrano in contatto con la pura libertà, hanno bisogno di regole, accettano di barattare il libero arbitrio con una schiavitù che garantisce tranquillità, ma è ormai chiaro che non si può descrivere l’esistenza come una linea netta: ci sono situazioni, circostanze eccezionali a cui nessuno può trovare una precisa spiegazione e lo stesso atto di riconoscere i limiti della propria conoscenza, l’istante in cui si inizia a dubitare, si comincia anche inevitabilmente a credere. La domanda non è “Dio esiste?”, ma “Come posso negare l’operato di un essere divino?”; d’altra parte la negazione presuppone l’affermazione e se lo scettico Ivan vede il diavolo non può più rifiutare l’esistenza di Dio. San Tommaso già credeva prima di vedere, Ivan ha ucciso forse prima di Smerdjakov e non ha mai avuto bisogno di cercare la fede, non faceva altro che reprimerla.
Il romanzo offre quindi infiniti spunti di riflessione che non posso affrontare completamente in una recensione e probabilmente molti di essi non mi sono ancora chiari, ma è proprio questo l’aspetto che amo di Dostoevskij, la sua capacità di insinuare un’idea, un dubbio che non potremo mai risolvere forse ma che stimola la nostra mente ad inoltrarsi nel misterioso universo della psiche. Ciò che rende un libro una grande opera non è all’interno di essa ma all’esterno, non è nelle parole dell’autore ma nei milioni di pensieri e di emozioni che riesce a suscitare nel lettore, portandolo a creare una sua unica, personale versione del romanzo.
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Il castigatore di trasforma in castigato
Esistono uomini straordinari che hanno il diritto di compiere qualsiasi genere di azione, anche la più indegna e deplorevole come l'omicidio, al fine di superare gli ostacoli che impediscono ai loro grandiosi progetti di realizzarsi, e uomini ordinari, mediocri, che invece non possono far altro che sottomettersi a questa legge continuando a vivere una tranquilla e vuota esistenza.
E' inutile negarlo, la teoria di Raskolnikov, il protagonista di questo incredibile romanzo, ci affascina e ci intriga più di quanto possiamo immaginare. Anche il più umile e modesto degli esseri umani ha provato almeno una volta nella sua vita l'ebbrezza superomistica dell'infallibilità, della superiorità del proprio io su quello degli altri che non possono comprendere la nostra grandezza dalla loro sconcertante mediocrità.
Tuttavia, come le vicende di Raskolnikov insegnano, questa è una concezione destinata a fallire e a trasformarci schiavi di un inganno che abbiamo generato noi stessi e che ci rende ciechi di fronte al reale stato delle cose. Avere la presunzione di considerarsi migliori degli altri, ergersi ad una posizione di giudice dell'umanità che può agire a suo piacimento, anche rinnegando i principi di civiltà pur di perseguire il suo fine, è una rivisitazione assurda della politica platoniana. Il saggio, in quanto tale, non può commettere scelte sbagliate. Ma chi stabilisce la propria appartenenza al gruppo dei cosiddetti saggi? E coloro che possono essere considerati tali, non sono prima uomini, individui che provano emozioni, che intraprendono grandi imprese, ma che commettono errori, gesti irrazionali?
Raskolnikov, studente vinto da un lacerante senso di noia e apatia, come un eroe romantico, spera di dimostrare la propria superiorità intellettuale uccidendo una vecchia strozzina, ritenendo il suo delitto un'opera benefica perché ha eliminato dalla faccia della terra un individuo che egli definisce "pidocchio". Tutto avviene ad un ritmo estremamente rapido e al termine di questo istante di arrogante follia omicida, il protagonista si sente tutt'altro che sollevato. Egli cade in uno stato di angoscia e inquietudine tanto da apparire pazzo agli occhi degli altri, mentre in realtà è più lucido di quanto si possa immaginare. Progressivamente si rende conto che il suo atto di affermazione di una libertà e di una volontà inesistenti, lo hanno reso prigioniero. Lui, il castigatore dei "pidocchi", degli individui abietti, diventa castigatore di se stesso, non possedendo più la capacità di percepire la realtà per quella che è. Tutto ciò che lo circonda sembra richiamare quel terribile delitto, una persecuzione continua che lo porta ad assumere comportamenti contraddittori: da un lato cade in uno stato di paralisi ancora più intenso a quello precedente per cui le giornate passano inesorabili senza che egli se ne accorga, trascorrendole spesso dormendo sul lacero divano della sua stanza; dall'altro cammina da un angolo all'altro della città, si muove, scappa da se stesso. Perde la concezione del tempo e dello spazio e apprende la sconcertante verità sul suo delitto: lui non è un Napoleone, non ha saputo trasformare in pratica quella teoria così assurda e l'omicidio, atto disumano, la ha appunto privato di tutto ciò che lo rende uomo.
Solo l'amore, i sentimenti semplici e sinceri di una ragazza come Sonja e l'amicizia incondizionata di Razumichin possono riscattarlo, salvarlo da un abisso in cui lo stesso Raskolnikov ha deciso di gettarsi pur essendo, in fondo, un giovane di animo buono e gentile, di gran lunga più apprezzabile di Lugin, l'uomo meschino e calcolatore.
E' quindi subito evidente che l'opera di Dostoevskij non sono indaga in profondità l'animo umano e le sue debolezze, ma trasmette dei valori importanti. Ciascun personaggio ha un significato più concreto e uno allegorico, incarnazione di un ideale che culmina con un'affermazione o negazione mai categorica, perché nel misterioso mondo della psiche niente è completamente giusto o sbagliato: l'anima è una tela dipinta da toni sfumati, non esiste monocromatismo.
Forse è per questo che, nonostante il lettore si renda perfettamente conto degli errori commessi da Razumichin, tende a simpatizzare per il personaggio. Libertà non significa sregolatezza,la prima implica ordine, la seconda genere il caos, quante volte l' abbiamo ripetuto? Ma come il protagonista dimostra chiaramente, tra l'astratto e il concreto, tra la teoria e la realtà, esiste un'enorme differenza e pur predicando ideali di giustizia e uguaglianza, nessuno può affermare di essere sempre stato imparziale e rispettoso, questa è la debolezza o forse anche la forza dell'essere umano, la sua capacità di commettere errori imperdonabili da cui può imparare qualcosa.
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Un vuoto deserto colmo di speranze
"Ognuno è solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera", queste sono le parole di una famosa lirica di Salvatore Quasimodo e che, secondo il mio punto di vista, colgono perfettamente il senso dell'opera di Buzzati. Il tenente Drogo si reca alla fortezza con malinconia e rassegnazione, sperando ardentemente di poter abbandonare quel luogo ancora prima di raggiungerlo. L'aspetto austero dell'edificio, il frustrante suono della cisterna, le assurde e complicate regole che i soldati sono tenuti a ricordare e a rispettare, gettano Drogo in uno stato di malessere e insoddisfazione, ma soprattutto di ossessione per la fuga inesorabile del tempo, temendo di dover consumare gli anni migliori della sua vita in un luogo così inospitale. Paradossalmente, il deserto dei Tartari che si scorge dalle piccole finestre, è l'unica oasi nell'arida solitudine che il protagonista deve affrontare. La speranza che un giorno giunga qualcuno dal nord, che si verifichi un attacco da parte dei nemici riscattando la fortezza da quella soffocante staticità e interrompendo la monotonia estenuante delle giornate che si susseguono una identica all'altra, è l'unica che riesce a rendere la permanenza di Drogo meno insopportabile. Così anche Drogo subisce il fascino misterioso della fortezza e, quando gli viene finalmente offerta l'opportunità di andarsene, decide invece di rimanere. Improvvisamente sente di avere così tanto tempo ancora a disposizione che non c'è più alcun bisogno di preoccuparsi della fuga della sua giovinezza.
Tuttavia i quattro mesi diventano ben presto quattro anni, e Drogo piomba nuovamente in una condizione di profonda disillusione e pentimento per non aver abbandonato la fortezza prima, mentre ora è bloccato tra quelle spesse pareti che assorbono la sua esistenza. Drogo non ha più scelta e anche il periodo di licenza che trascorre in città si rivela una delusione perché, diversamente da quanto immaginava, lì non c'è più nessuno ad attenderlo, ognuno ha continuato imperturbabile la propria vita senza curarsi della sua assenza. Intanto le speranza in un possibile attacco, in una guerra in quel deserto di esacerbante pace, continua ad occupare i pensieri di Drogo e dei pochi soldati rimasti. Un lume, una linea nera in lontananza bastano a far riaffiorare quella gioia di vivere che sembrava essere perduta per sempre. Purtroppo, proprio quando qualcosa effettivamente accade dopo anni di lacerante attesa, Drogo è troppo vecchio e malato per prendere parte alle operazioni e viene addirittura rimandato a casa. Tutti quegli anni spesi ad aspettare un segno, un avvenimento che desse un senso alla sua vita e che premiasse i suoi sacrifici, vengono così gettati al vento, ma Drogo non ha nemmeno più la forza di arrabbiarsi o di deprimersi. Si prepara a morire con tranquillità e anche se solo, abbandonato da tutto e da tutti, vuole terminare la propria vita da vero soldato, da uomo che ha combattuto contro il più pericoloso dei nemici: il tempo. Le lancette scorrono sul quadrante dell'orologio della vita, passano i secondi, i minuti, le ore, e quando scocca la mezzanotte ed inizia un nuovo giorno, sentiamo già il peso del tempo trascorso, la paura di non averlo impiegato nel migliore dei modi, di averlo anzi sprecato. Ma il valore incredibile del libro è proprio questo: alla fine Drogo, anche in punto di morte, non smetterà mai di sperare e acquisisce immediatamente la consapevolezza che in ogni caso la vita vale la pena di essere vissuta e il tempo trascorso a sperare, a gioire, a soffrire è sempre ben speso perché è proprio questo ciò che chiamiamo vita. Colmare quel deserto roccioso con piacevoli, anche se illusorie, aspettative è stato quanto di meglio si potesse fare e il solo fatto di aver avuto la possibilità di immaginare una battaglia, è la più grande vittoria che si riesca ad ottenere.
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Il faro che riporta alla luce l'interiorità degli
(Attenzione: spoiler! Per quanto mi riguarda non guastano comunque la lettura del libro).
"Gita al faro" è il primo libro che leggo di Virginia Woolf e sono certa che sarà seguito da una lunga di serie di altre opere di questa fantastica autrice. Già dopo aver sfogliato poche pagine ho subito capito che sarebbe stato un romanzo che mi avrebbe suscitato forti emozioni e che non avrei mai dimenticato, e così è stato. E' difficile scrivere un'opinione su un'opera tanto perfetta sotto ogni punto di vista: la raffinatezza stilistica che conferisce alle frasi quel suono vago e fluttuante tipico delle poesie; la semplicità di una storia che non è fatta di eventi complessi e sviluppi intricati, ma dai pensieri mutevoli e dall'interiorità misteriosa degli esseri umani, dalle loro paure, dal loro senso di insoddisfazione e dal loro modo di vedere il mondo che li circonda. Quasi nulla accade concretamente, perché i protagonisti del romanzo non sono individui ma idee, sensazioni che viaggiano liberamente attraverso il tempo e raccontano così una storia infinita e fluttuante, come le onde del mare che separa l'abitazione dei Ramsay dal faro. Tuttavia il lettore avverte l'orrore della guerra, la sofferenza della morte attraverso l'avvicendarsi delle stagioni, la Natura che, imperturbabile, continua ad evolvere, a fare il suo corso, mentre l'uomo sembra paralizzato, immerso in una realtà dalla quale vuole fuggire, alla ricerca di un'identità che non riesce più a trovare perché ormai lo specchio su cui era solito contemplare il suo riflesso si è rotto: il mondo è in frantumi e le poche certezze che possedeva sembrano essere svanite per sempre.
Ogni personaggio emerge perfettamente attraverso una parola, uno sguardo, un movimento che delinea la sua personalità in modo eccezionale. La signora Ramsay, con la sua elegante bellezza che conquista chiunque la osservi anche solo per un istante e che potrebbe essere ammirata per mesi o decenni perché non è quella bellezza esagerata, eccentrica che tende a sopraffare, ma è delicata, antica e nonostante ciò, senza tempo. Una donna che si serve del proprio fascino per tenere unita la famiglia, per rendere la vita un po' meno amara e la casa più confortevole. Tuttavia la signora Ramsay non è solo questo, anche se gli ospiti e lo stesso signor Ramsay sembrano ignorarne completamente il lato intellettuale, anche lei ne possiede uno articolato e misterioso. Colei che non fa altro che pensare al matrimonio ma che brama segretamente un'eterna giovinezza ogni volta che si ferma ad osservare il figlio prediletto, James; colei che probabilmente non crede in Dio ma che inaspettatamente, ha dato ai due corvi dei nomi che appartengono alla tradizione religiosa, Giuseppe e Maria; colei che tenta di fissare degli attimi, dei brevi istanti nel flusso irrefrenabile della vita, celando le proprie profonde riflessioni dietro un semplice lavoro a maglia.
Dall'altra parte emerge il marito, un uomo che appare come un tiranno con la sua autorevolezza e con quella superiorità intellettuale che lo rende forte ma vulnerabile al tempo stesso perché lo costringe a soddisfare un'aspettativa che non sempre è in grado di sopportare. Dietro quella maschera di sicurezza impenetrabile, il signor Ramsay nasconde un'anima fragile, incerta sulle proprie reali capacità e ricca di amore e ammirazione per una moglie bellissima. I due coniugi comunicano con un linguaggio fatto di sguardi che, tuttavia, non riesce a renderli mai completamente consapevoli del sentimento di affetto e stima che provano l'uno per l'altra. Ad osservarli dall'esterno, con i suoi piccoli occhi orientali, c'è Lily Briscoe, una donna che preferisce l'arte al matrimonio e che continua a provare una dolce invidia per la signora Ramsay anche dopo la sua morte. Lily che è pervasa da un lacerante senso di inadeguatezza e perseguitata dalle parole taglienti di Tansley, il quale afferma sarcasticamente che le donne non sono in grado di scrivere né di dipingere. Nonostante ciò, Lily non potrà mai smettere di essere un'artista, perché l'arte è qualcosa che è indissolubilmente legato alla nostra anima e nessuno può liberarsene; pensare all'albero che dovrà disegnare per completare la sua opera, è fonte di conforto, le dà sicurezza in quelle situazioni in cui si sente diversa, isolata dalla realtà che la circonda. Quel dipinto che terminerà solo dopo anni, quando ormai nulla è più come prima, è una massa indistinta di colori ed emozioni che esprimono perfettamente l'evoluzione disordinata e caotica delle vicende dei Ramsay. La gita al faro impedita dalla pioggia, dopo la guerra, dopo l'abbandono della casa, dello scialle verde che continua ad ondeggiare mosso dalla brezza, giungerà a compimento solo alla fine per volontà indiscutibile del signor Ramsay. Così, mentre il tempo sembra essersi fermato, congelato per anni in quella casa, mentre il resto del mondo combatteva contro il nemico, quando il ghiaccio finalmente si scioglie e il signor Carmichael sta ancora leggendo con il calore emanato dal suo lume, Lily si rende conto che in realtà niente è più come prima. Non le resta che pensare al dipinto, per completarlo, consapevole del fatto che, anche se rimarrà chiuso in una stanza, ricco di polvere e oscurato dal buio, sarà comunque una forma d'arte e in quanto tale eterna, sopravvivendo a quella bellissima donna che invece era destinata a perire.
Potrei spendere fiumi di parole su questo incredibile romanzo, ma rischierei di inoltrarmi anch'io in quelle acque misteriose che separano la terra dal faro, quello stesso faro che nei giorni di sole o di tempesta rimane sempre lì, immobile, gettando una debole luce sull'interiorità dell'uomo, sui suoi desideri nascosti, perché è questa la caratteristica che accomuna tutti i personaggi: ciascuno di essi con atteggiamenti e idee differenti, porta dentro di sé un lato della propria anima che non mostra a nessuno, un senso di insicurezza che emerge impercettibilmente dalle sue azioni ma che tenta ad ogni costo di seppellire nelle terre più profonde del proprio io, forse perché ne prova vergogna, o forse perché ne è troppo geloso per condividerlo. In ogni caso alla fine ci troviamo di fronte alla storia di esseri umani con i quali è inevitabile identificarsi, perché manifestano la stesse debolezze e le stesse virtù di qualsiasi uomo di qualsiasi epoca.
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Il paese delle meraviglie è davvero meraviglioso?
E' consuetudine definire meraviglioso qualcosa di fantastico, piacevole, fonte di gioia e di pace, o almeno questa è sempre stata la mia opinione sul significato del termine. Così, quando ho deciso di leggere l'opera di Carroll per la prima volta a 19 anni, pensavo di fare un breve viaggio nel mondo dell'infanzia, nella spensieratezza e nella leggerezza di quelli che forse sono gli anni migliori della nostra vita, persuasa dal fatto che un'avventura nel Paese delle Meraviglie, non potesse che avere un effetto benefico. Tuttavia, non appena scivoliamo insieme ad Alice nel misterioso tunnel che conduce in un luogo fantastico, fatto di animali parlanti e e bizzarri personaggi, ci rendiamo subito conto che niente è come sembra. Il Paese delle Meraviglie non è popolate da dolci e socievoli creature, ma da un coniglio elegantemente abbigliato che continua a provare ansia per un ritardo inspiegabile, da un bruco che fuma una pipa, da un gatto con un ghigno inquietante che appare e scompare a suo piacimento e da una spietata Regina di Cuori, che cola sua grottesca abitudine di condannare tutti a morte, sembra avere tutto tranne un cuore. Alice è stordita di fronte alla strampalata dimensione in cui è capitata e nel corso del suo viaggio non prova felicità e stupore come ci si potrebbe aspettare, ma solitudine e sconcerto. Nessuno vuole davvero trascorrere del tempo con lei, nessuno la ascolta né la prende in considerazione: ogni personaggio che popola il Paese delle Meraviglie tratta Alice come una ragazzina ingenua e non intende sopportare le sue continue, ma comunque giuste, obiezioni. Alice è costretta ad adattarsi alle strane caratteristiche e abitudini di quel mondo e così è sottoposta ad una mutazione continua sia fisica che mentale, tanto che inizia anche a perdere consapevolezza della propria identità, per quello che un bambino di sette anni può conoscere al riguardo. La follia, la stravaganza delle creature che incontra hanno uno strano effetto non solo sulla protagonista ma anche e soprattutto sul lettore che vede il Paese delle Meraviglie come un luogo grottesco e assurdo, ma che allo stesso tempo sembra più reale di quanto si possa immaginare. Il microcosmo creato da Carroll in fondo alla "buca del coniglio" è tutt'altro che un mondo adatto ai bambini, al contrario è ricco di insidie e di inspiegabili abitudini e manifesta, tra le righe, innumerevoli significati nascosti che lo rendono incredibilmente vicino all'età vittoriana. I giochi di parole, il nonsense contenuto nelle azioni ripetitive e monotone del cappellaio matto e della lepre che non proveranno mai una nuova esperienza se non quella di scorrere di un posto lungo la tavola imbandita per il tè, accentuano la percezione di una realtà statica e bigotta dominata dall'apparenza e dall'ordine, da cui molti scrittori del vittorianesimo tentano di fuggire attraverso le loro opere. Il Paese delle Meraviglie diviene così, proprio come l'Inghilterra dell'800, un luogo fatto di contraddizioni, di caos e di precisione, di sfrontatezza e di paura, di oscurità e di meraviglie, di fantasia e di realtà. Così, non lasciatevi ingannare dall'immagine della dolce Alice sapientemente disegnata da Tenniel, da un titolo che sa di favola perché Carroll scrive tutt'altro che un libro per bambini: è una storia sottile e ricca di significato che consiglio a qualsiasi genere di adulto.
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L'insensatezza frustrante di un'attesa che dura un
Quando ho visto "Il castello" di Kafka sullo scaffale della libreria sono stata sopraffatta dalla curiosità per l'ombra di fascino e di mistero che emana il titolo e che suscita sempre il suo autore. Così piena di aspettative ho iniziato a leggere e più andavo avanti, maggiore era il senso di disorientamento e assurdità che mi pervadeva. Un uomo senza nome, che viene identificato da una semplice lettera giunge in un bizzarro villaggio e tenta continuamente, con ogni mezzo di comunicare con il castello, con un'autorità nota a tutti ma allo stesso tempo così riservata a misteriosa da non dare mai risposte, insinuando un lacerante dubbio sulla sua effettiva esistenza. Il protagonista attende, persevera nei suoi vani tentativi, instaura anche relazioni con gli abitanti del villaggio ed è costretto a sopportare l'invadenza opprimente dei due aiutanti che, in realtà, si rivelano degli antagonisti. Tuttavia ci si rende conto progressivamente che è lo stesso eroe ad essere antagonista di se stesso, condizione inevitabile di ogni essere umano. L'impegno che dimostra nella speranza di trovare un significato, una regola che dia un senso all'oscura burocrazia del castello è fallimentare e, alla fine, la sua esistenza, come quella di ognuno di noi, non è altro che un'attesa insensata ed eterna che culmina nel nulla. Lo stesso finale incompleto del libro, l'impressione che ci sia sempre qualcosa in sospeso mi ha ricordato il "nonsense" beckettiano di "Waiting for Godot": individui privi di identità che cercano risposte in un mondo dominato dal vuoto di un'autorità assente.
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La bellezza impalpabile dei sogni
L'opera di Dostoevskij dimostra come la lungimiranza e la profondità di un autore e dei suoi libri possa essere contenuta in poche pagine, essenziali ma superbe. La caratteristica che ho amato di più di questo romanzo è la sua semplicità che, è importante sottolineare, non corrisponde a facilità. Il libro è semplice perché fatto di sentimenti autentici, sinceri e non ricerca argomenti complessi e sofisticati per indagare a fondo l'animo degli esseri umani. Due personaggi sui quali si proietta l'ombra di un terzo misterioso uomo, si incontrano e parlano di loro stessi, delle proprie debolezze, dei propri sogni senza avere paura di rivelarsi l'uno all'altro pur essendo dei perfetti sconosciuti. Al contrario, il fatto stesso di non sapere nulla del proprio interlocutore li spinge ad aprire il loro cuore, con la consapevolezza che non saranno giudicati ma semplicemente ascoltati.
Quattro notti sono sufficienti a creare un'intimità incredibile tra i due, come se il tempo trascorso insieme si fosse inspiegabilmente dilatato. Il protagonista appare quasi come un eroe romantico, vissuto in un mondo di fantasia così meraviglioso da rendere infinitamente duro il ritorno alla realtà, una realtà che sembra estranea, nemica di un uomo che non conosce compagnia se non quella dei suoi intricati pensieri. Si tratta quindi di sogni dalla bellezza impalpabile, sogni che ci rendono umani ma che talvolta assorbono così fortemente la nostra anima da trascinarci in un oblio da cui è difficile fare ritorno. Questa è la ragione per cui il protagonista vive in solitudine e soffre per questo tanto che prova una gioia incommensurabile non appena trova qualcuno che sia disposto a parlare con lui e che apprezza i suoi bizzarri ragionamenti. Da un lato c'è quindi l'ingenuità e la dolce ignoranza di una ragazza e dall'altro un uomo intelligente, colto, che finalmente riesce a dare sfogo alle proprie emozioni così attentamente custodite e nascoste a coloro che avrebbero tentato di criticarle, quando invece i sentimenti non possono essere giudicati ma devono essere semplicemente ascoltati. Purtroppo però la vita ha una sua concretezza, una sua realtà che non siamo in grado di annullare semplicemente con la nostra fantasia e il sognatore è destinato a fallire e a piombare nuovamente nel suo stato di solitudine. Così quelle quattro notti di risate e di lacrime, di astratta concretezza, sebbene così brevi e fugaci, lo hanno reso felice e hanno dato un senso alla sua esistenza.
Si tratta quindi di un libro fatto di sentimenti forti e miti allo stesso tempo, di fantasia e realtà, un libro che ci ricorda quanto sia piacevole talvolta abbandonarsi alla catena illimitata dei nostri pensieri e della nostra immaginazione in un'epoca in cui il rischio più grande forse non è quello di perdersi nei sogni, ma smarrirsi in un mondo virtuale che ci priva della nostra identità.
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Un libro da leggere e da vivere
L'opera di Tolstoj (non parlo di romanzo visto che lo stesso autore rifiutava tale definizione per il suo libro) è un vero capolavoro non solo perché è scritto in modo poetico, suggestivo nella descrizione dei paesaggi, solenne nella narrazione delle battaglie, profondo nelle riflessioni dei personaggi, ma soprattutto poiché ricerca e riflette sulla vita, per questo ritengo che sia un libro da leggere e da vivere. L'esistenza umana è caratterizzata da gioie e dolori, vittorie e sconfitte, momenti di orgoglio e soddisfazione ma anche di tristezza e delusione, di guerra e pace. Il titolo infatti non deve essere inteso semplicemente nel suo significato letterale, l'alternanza di episodi di guerra, di scontri, con quelli di pace negli eleganti salotti di San Pietroburgo. Guerra e pace richiamano gli stati d'animo dei personaggi, le loro contraddizioni, la loro volontà di trovare pace in uno stato di guerra che è soprattutto interiore e che li rende incredibilmente umani.
Pierre lotta continuamente contro un lacerante senso di insoddisfazione, avvertendo il peso della vanità della vita con le sue frivole passioni e trova una risposta alle sue domande in Dio, nella semplicità e nell'autenticità di un uomo; spezza le catene che lo legavano alla società con le sue convenzioni, con un matrimonio combinato, con la falsità che pervade le conversazioni dei nobili russi e conquista la libertà durante la prigionia, apprende la felicità dalla sofferenza.
Natasa con la sua allegria e freschezza si lascia trascinare dalla vita e dalle sue emozioni, commette degli errori, trascorre attimi di immensa gioia e momenti di profonda soffocante tristezza e alla fine si trasforma in una donna stupenda e premurosa, forse meno intrigante di quella giovane fanciulla che faceva strage di cuori ma anche più ammirevole.
Nikolaj, l'uomo nobile e sensibile che paradossalmente trova pace nella guerra, legato ai valori della famiglia che riesce a sentirsi migliore e pienamente felice dopo il matrimonio con una donna quasi perfetta.
Mar'ja, il brutto anatroccolo che cela un'anima tenera e sincera, capace di affrontare qualsiasi situazione per quanto dura possa essere. Mar'ja cerca consolazione nella preghiera e nella religione e nonostante il suo apparente stato di fragilità, con gli occhi continuamente colmi di lacrime, è forte e determinata, e sono proprio quelle lacrime amare a rendere il suo sguardo più dolce e il suo volto più luminoso.
Infine Andrej, colui che è continuamente insoddisfatto della propria esistenza considerata mediocre, mentre dentro di sé nutre un'insaziabile fame di gloria e successo. Le esperienze della battaglia, della malattia, della morte, la passione travolgente per una donna lo porteranno ad abbandonare le sue futili ambizioni per comprendere il vero senso della vita. L'amore fraterno tra gli uomini, il legame che esiste tra di essi indipendentemente dai torti compiuti o subiti è più forte di qualsiasi cosa e questa conquista individuale è superiore a qualsiasi vittoria militare.
Questi sono soltanto alcuni dei personaggi di Tolstoj, i quali tra l'altro risultano molto più complessi di quanto si possa immaginare. L'elemento che li accomuna e che rende il libro un'opera grandiosa, è la continua ricerca di qualcosa, di un significato, di un obiettivo da raggiungere che renda la nostra vita degna di essere vissuta e questo è il proposito non solo di Pierre, Natasa, Nikolaj, Mar'ja, Andrej ma quello di ogni essere umano.
Infine la riflessione sulla storia, sulla legge che domina le azioni dell'uomo e la versione incredibilmente autentica della campagna di Napoleone in Russia, che non risulta come una spedizione grandiosa e spettacolare ma come una guerra vera: eccitante, coinvolgente, poetica ma pur sempre dolorosa e tragica come qualunque guerra.
Non credo che esistano delle parole per esprimere l'incommensurabile valore di tale opera, quindi ritengo la mia recensione risulterà insufficiente e per questo ne consiglio la lettura: non lasciatevi spaventare dalla mole perché quando ci troviamo di fronte ad un capolavoro non si può e non si deve contare il numero delle sue pagine.
(mi scuso per eventuali errori nella scrittura dei nomi dei personaggi)
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Si può perdere la propria umanità?
Questa è la domanda che il protagonista e l'autore stesso si pongono all'interno del romanzo: Si possono perdere i ricordi, le emozioni, la capacità di sacrificarsi per gli altri, di esprimere le proprie idee? Insomma è possibile privare l'uomo della sua umanità? Si tratta di un interrogativo incredibilmente sconcertante e al tempo stesso intrigante perché, nonostante Orwell abbia scritto il libro dopo la seconda guerra mondiale, il rischio di perdere la propria individualità per trasformarsi in automi senza personalità sembra sempre più attuale nell'era dei social network. Il linguaggio, l'atmosfera, l'analisi sottile che Orwell presenta della società distopica verso la quale si è proiettato alla luce degli ultimi avvenimenti del ventesimo secolo, sono angoscianti per quanto spettacolari, fantascientifici e comunque intrisi di un crudo realismo. Io ho fatto un esperimento, ho voluto leggere il romanzo in lingua originale e l'ho apprezzato moltissimo soprattutto perché più andavo avanti con la lettura e più mi rendevo conto di quanto i registi e gli scrittori contemporanei abbiano inevitabilmente e forse anche inconsapevolmente tratto ispirazione dalle idee di Orwell. Ritengo comunque che un grande capolavoro della letteratura europea come questo rimanga eccellente indipendentemente dalla lingua in cui viene letto. Per quanto riguardala risposta alla precedente domanda lascio spazio a libere interpretazioni, sperando che possa essere uno stimolo a leggere il romanzo.
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La stravolgente saggezza del folle
Ho iniziato a leggere questo libro per gioco, richiamando in un certo senso il carattere dell'opera , una sfida contro me stessa e contro coloro che mi dicevano che non sarei mai stata in grado di terminarlo. E' stata una lettura impegnativa, questo non si può negare, ma d'altra parte, leggere uno dei più grandi classici della letteratura europea non poteva certamente essere semplice... Ad ogni modo ho assolutamente adorato questo romanzo apprezzando non solo l'originalità dimostrata dall'autore nell'ideare delle avventure così stravaganti e divertenti, ma soprattutto la caratterizzazione di ciascun personaggio e in particolare ovviamente del protagonista, il grande Don Chisciotte. La sua follia, la convinzione di essere un cavaliere e la volontà di comportarsi come tale lo rende unico in tutta la letteratura di ogni epoca, anche se l'elemento più sconvolgente secondo il mio punto di vista, è la sua inaspettata saggezza. Verrebbe da chiedersi: come può un folle essere anche saggio? Io ritengo che il confine tra avvedutezza e pazzia sia più sottile di quanto ci aspettiamo e Don Chisciotte ne è la prova. Per quanto la sua ostinazione a salvare la fanciulla amata, a combattere contro dei banali mulini o delle botti di vino possa sembrare assurda, questo è il termine esatto, accade spesso che faccia delle riflessioni profonde, inconfutabili, assolutamente vere. Trovarsi d'accordo con un pazzo significa a propria volta essere folli? Non necessariamente, ecco uno dei concetti fondamentali che ho potuto apprendere dalla lettura del libro. Ognuno di noi ha così tante sfaccettature che non è possibile alcuna generalizzazione, così come un uomo che si crede cavaliere non deve essere esclusivamente definito folle, un preconcetto che spesso possediamo quando ci troviamo di fronte a quest'opera. In fin dei conti non capita a tutti a volte di vedersi, o almeno volersi vedere, in modo diverso rispetto a come si è realmente?
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Una storia di esseri umani
Sento di poter definire questo libro una storia di esseri umani, un'affermazione che potrebbe sembrare bizzarra ma che mi sembra la più azzeccata. I personaggi del romanzo infatti, non sono né valorosi eroi né vigliacchi, sono persone che amano, che soffrono, che commettono errori ma che, allo stesso tempo, tentano di riscattarsi in qualsiasi modo sacrificandosi per gli altri e dimostrando che l'uomo è capace di semplici ma nobili azioni. Questo è l'ottimismo di Hosseini, sempre celato dietro situazioni spiacevoli, ma comunque presente. Non posso dire che questo sia il miglior romanzo dell'autore perché credo che "Mille splendidi soli" sia insuperabile, tuttavia ho particolarmente apprezzato l'abilità con cui le storie sono legate tra loro, le complicate e spesso nascoste parentele che uniscono le vicende dei personaggi, la loro continua ricerca di una liberazione di qualsiasi genere: da un luogo, dalla famiglia, da una colpa, da un rimpianto. La narrazione con le sue anticipazioni e flashback, con il suo rimo casuale, ha un andamento quasi joyciano e questo mi ha colpito particolarmente. Credo che alcuni siano troppo severi con questo romanzo, non è un capolavoro ma contiene emozioni autentiche e sentimenti sinceri e lo consiglio vivamente, se non altro per comprendere il significato oscuro del titolo: posso garantire che, alla fine, l'eco rispose davvero.
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Il coraggio di fare le proprie scelte
Quando si cita Tolstoj con la famosa frase "Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo", spesso si rischia di semplificare e banalizzare la grande opera dello scrittore, adottando un'affermazione così profonda e complessa nel suo contesto, in situazioni inadatte. La caratteristica che più ho apprezzato di questo romanzo è stata proprio la capacità di sorprendere, di raccontare qualcosa di vero ma soprattutto inaspettato rispetto alla comune conoscenza che se ne ha prima di leggerlo. L'amore impossibile tra un giovane uomo e una donna sposata, i giudizi della società e quelli del lettore di fronte ad una donna che decide di assecondare la propria passione: "Anna Karenina" non è solo questo. Anna è un simbolo, l'emblema di colei che ha il coraggio di fare le proprie scelte in modo autonomo, ma non è l'unica a farlo all'interno del romanzo. Il personaggio di Levin è fondamentale dal mio punto di vista, poiché anche lui compie una scelta importante: decide di mettere in discussione se stesso e le sue idee alla ricerca di una risposta che troverà soltanto alla fine, sollecitato dalle semplici parole di un uomo. Inoltre non si può dimenticare che il libro fornisce un quadro dettagliato e chiaro della società russa evidenziando le dinamiche con cui i personaggi agiscono all'interno di essa, costretti ad affrontare i suoi preconcetti e debolezze ma rimanendo indissolubilmente legati alla propria terra e alle proprie tradizioni.
In conclusione lo consiglio fortemente, in primo luogo perché credo che un grande classico di questa levatura non possa mancare sulla mensola dei libri di un lettore appassionato; in secondo luogo perché, nonostante sia ambientato in un'epoca così apparentemente lontana, conferisce ai nostri giudizi e al nostro modo di vedere gli altri un carattere differente, e non è forse questo il pregio più grande di un romanzo? Aiutarci a guardare il mondo da un'ottica diversa? Fidatevi, non lasciatevi scoraggiare dal numero delle pagine.
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molto bello incredibilmente vero
La dolcezza, la cruda sincerità, l'intelligenza incredibile e la fervida immaginazione di Oskar Shell lasciano il lettore sorpreso e allo stesso tempo divertito fin dalla prima pagina del romanzo. Oskar, con le sue scarpe pesanti, le bizzarre invenzioni e le ingiustificate paure, conquista chiunque e colora il libro con il verde della sua infinita speranza. In realtà ciò che ho apprezzato di più di questo romanzo incredibilmente originale e unico nel suo genere, non è soltanto la figura di Oskar ma anche quella dei nonni, con il loro linguaggio silente fatto di sguardi ed espressioni, la loro strana abitudine di ingannare costantemente se stessi non riuscendo mai a comprendere veramente cosa condividano. Condividono tutto ma allo stesso tempo nulla, qualcosa di ineffabile, che nemmeno le centinaia di quaderni di Thomas riescono ad esprimere. Si tratta quindi di una continua ricerca: di una serratura, di una ragione di vita, di affetto e comprensione, di qualcosa che accomuna tutti gli uomini di ogni secolo. Per questo, riprendendo il titolo dell'ultimo capitolo, ritengo che il libro sia molto bello ed incredibilmente vero, poiché con la sua semplicità e l'autenticità dei personaggi è in grado di trasmettere un messaggio profondo e universale riuscendo ad emozionare anche il più cinico dei lettori.
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Fare della propria vita un'opera d'arte
"Il ritratto di Dorian Gray" è in assoluto il mio libro preferito, anche se non sono in grado di spiegarne con esattezza la ragione; forse perché il tentativo del protagonista di rendere la propria vita un'opera d'arte rende il libro stesso una raffinata ed elegante forma d'arte letteraria, o semplicemente perché Dorian, nei suoi eccessi, nel suo irrefrenabile e vano desiderio di conservare la propria giovinezza, cela le aspirazioni impossibili di ognuno di noi. Confesso di essere in disaccordo con molte affermazioni di Lord Henry e dello stesso Wilde, ma tali idee vengono espresse con una tale abilità e sconvolgente sincerità, che è inevitabile apprezzarle comunque. Non voglio rivelare altro di questo fantastico libro poiché credo che per comprenderne i molteplici significati e l'incredibile raffinatezza sia necessario leggerlo. Forse questa è un'altra caratteristica che lo rende unico: la sua bellezza è ineffabile.
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