Opinione scritta da Tiziana Bertoldin

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Tiziana Bertoldin Opinione inserita da Tiziana Bertoldin    14 Dicembre, 2016
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Di tutto un po', anche troppo

Conosco l'Autrice dal suo primo libro, che non mi era piaciuto, quindi non ho letto i successivi. Questo mi è stato regalato. L'ho avvicinato con interesse e senza alcun pregiudizio. Sono una psichiatra che ha lavorato per oltre venti anni in un servizio improntato all'approccio basagliano. Ho fatto in tempo a conoscere alcuni luoghi manicomiali degradati, in Italia, prima che fossero definitivamente chiusi o dismessi. Il libro non mi è piaciuto. Mette insieme troppe cose. C'è la denuncia del potere psichiatrico e del degrado massimo a cui si può giungere seviziando i malati di mente, ma c'è anche la denuncia del potere politico, nella forma della dittatura dei colonnelli in Grecia. Ci sono le torture, e le storture, dell'ospedale psichiatrico di Leros, ma anche le torture della casa sulla montagna dove vengono portati gli internati detenuti politici. Già queste due cose insieme sono difficili da cucinare e servire bene, sul piano letterario. Tuttavia l'Autrice aggiunge ancora cose: la denuncia della famiglia e del potere maschile, insieme al destino atroce delle donne, matte e non matte, è tra queste: brutalità, incesto, aborto clandestino, abusi di ogni tipo e di ogni sorta. Ancora non basta: ci sono anche le violenze sui bambini, a Leros e altrove: si intreccia alla vicenda la tragedia dei migranti della nostra contemporaneità. Per ognuno di questi argomenti ci vorrebbe un libro a parte. La Fallaci lo scrisse: Un Uomo, dedicato ad Alekos Panagulis, resistente contro il regime dei colonnelli in Grecia. Non andò oltre. Questa Autrice va sempre oltre. Da Leros, Atene, varie località della Grecia, a un certo punto ci si ritrova a Budrio, vicino a Bologna, in campagna, dove parte un tragitto autobiografico, familiare, follia della madre, follia della figlia (l'Autrice), oltre ai "mattucchini" che girano per il paese, giusto per ricordare che il libro, tra le tante cose, parla della follia. Nel tragitto autobiografico non manca la psicoanalisi, come spesso accade descritta come inutile, uno spreco di tempo e risorse, né mancano tutti gli amici disturbati dell'Autrice, che sembrano presi di peso dal DSM (manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali). Non sono riuscita a seguire del tutto l'Autrice quando si è spinta nella Sierra Leone, e sono rimasta delusa di come viene trattata la figura di Angela, che, coraggiosa, ben tratteggiata e caratterizzata nella prima parte del libro, si sfuma in seguito in modo indefinito. Il libro è molto doloroso da leggere, a volte crudele e brutale, scritto in un italiano che forse vuole essere ricercato, ma non dà alcuna idea di vera empatia e sfrutta anche troppo parole violente e volgari.Tuttavia il suo peggiore difetto è proprio quello di mettere in un pentolone troppe cose, e troppo importanti ognuna per se stessa.... viene anche il dubbio che tutto il lungo prologo greco serva da pretesto all'autrice per narrare dei propri problemi psichici personali e familiari, ma soprattutto personali. Intricato, confuso, certo molto ambizioso, ma qualche volta l'ambizione può sfociare nella presunzione.

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Altri libri dell'Autrice
Un Uomo, di Oriana Fallaci
Le parole per dirlo, di Marie Cardinal
Novelle per un anno , di Luigi Pirandello
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Romanzi
 
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Tiziana Bertoldin Opinione inserita da Tiziana Bertoldin    08 Mag, 2015
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Il dolore e la clinica

Il romanzo viene dichiarato nelle presentazioni esempio di "grande letteratura". Forse il tempo fa cambiare il concetto di "grande letteratura". Forse una cartella clinica di un ospedale o di un hospice per malati terminali possono diventare "grande letteratura". Forse un testo come "La morte di Ivan Illic" di Leone Tolstoj non è più, oggi, grande letteratura perché non corredato di sufficienti dati su argomenti oncologici, assistenziali, terapeutici, palliativi. Ho letto questo libro perché ho avuto un'esperienza simile a quella del protagonista, e l'idea di "inventare la madre" mi ha sedotto. Tuttavia: il protagonista non è sufficientemente credibile, troppo vecchio per essere "traumatizzato" da un lutto (26 anni), troppo irrisolto per avere un consistente profilo personologico, lavoricchia, si intende un po' di cinema, ha una ragazza quasi magica, ha un debole rapporto col padre, però agisce come un infermiere professionale sperimentato e dispensa termini oncologici da manuale medico professionale. Il rapporto col mondo medico è non troppo velatamente soggetto di critica, i medici sono disumani, i figli, al contrario, capiscono tutto e non sono capiti: questo genera rabbia e aggressività nascosta. Tutta la prima parte del libro e anche parte della seconda sono infarciti di termini medico oncologici e tanatologici. La parte del libro che si salva è nell'ultimo terzo, quando il figlio esprime, sia pure in frammenti, il vero vissuto del lutto. Il finale invece nuovamente non è credibile. Con la morte della madre il figlio in un certo senso "si libera". L'ambivalenza sottesa al fatto che questo possa essere in qualche modo legato alla perdita della madre non viene minimamente analizzata, né lo è stata prima l'ambivalenza legata alla convivenza con un malato gravissimo. Questi dati sminuiscono il valore del libro. Se per fare "grande letteratura" fosse sufficiente sapere usare una terminologia medico oncologica diagnostica e tanatologica, molti potrebbero essere "grandi letterati" senza grosso sforzo. Non ho trovato questo "realismo" né bello né utile. In molti grandi libri si parla della morte e del lutto, senza bisogno di realismo medico, un tempo non se ne sapeva abbastanza, in epoca contemporanea la sapienza dello scrittore dovrebbe sapere evitare le trappole della società medicalizzata.

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Rosa candida
La morte di Ivan Illic
Il tempo della vita
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