Opinione scritta da FrankMoles

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Arte e Spettacolo
 
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    29 Settembre, 2018
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Tra teatro e politica

Le Rane, portate in scena nel 405 nell'imminenza della sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso, sono una delle commedie più celebri e rappresentative della produzione di Aristofane.
Il dramma può considerarsi strutturalmente bipartito. La prima parte, ovvero la preparazione del viaggio con la visita ad Eracle e la discesa nell’Ade, ha una connotazione squisitamente comica: essa è infatti caratterizzata dalle dinamiche padrone-servo, dal motivo del viaggio di ricerca (che ha nobili modelli nelle discese agli inferi di Odisseo, Teseo, Orfeo, Protesilao e, ovviamente, Eracle), da travestimenti e scambi d’identità che alimentato la verve comica di Aristofane preparando il terreno alla sezione centrale della commedia.
Nella seconda parte, infatti, si svolge l’evento centrale del dramma, ovvero l’agone tra Eschilo ed Euripide: si tratta di versi per noi di fondamentale importanza nella ricostruzione della drammaturgia antica, nonché in merito alla ricezione immediata dei due tragediografi. È infatti fuor di dubbio che, nella strutturazione delle critiche che i due si rivolgono, Aristofane abbia attinto, oltre che all’aneddotica per le vicende biografiche sporadicamente evocate, a quello che era il punto di vista degli Ateniesi sui due poeti: ne sono prova la deviante interpretazione cui sono piegate tragedie eschilee come i Persiani (incentrati su motivi religiosi, ma nell’opinione pubblica divenuti un monumento poetico alla vittoria greca sul nemico barbaro), le considerazioni sulla difficoltà del linguaggio eschileo (ricco di neologismi e composti), il disprezzo per i degradati personaggi euripidei (è ben noto che Euripide non era un poeta particolarmente caro agli Ateniesi e che fu talora censurato in quanto scandaloso, come nel caso del primo Ippolito). Il commediografo, dunque, vestendo quasi i panni del critico letterario e comparando i due su contenuto e forma dei loro drammi, lascia trasparire il suo punto di vista sull’evoluzione che andava investendo la tragedia: fin dalla prima parte della commedia e poi nel corso dell’agone, appare evidente che le simpatie dell’autore sono rivolte alla solennità e nobiltà dei contenuti di Eschilo più che alla portata rivoluzionaria nei temi e nella forma di Euripide. A margine, è utile segnalare che Sofocle rimane pressoché estraneo alla vicenda per ragioni principalmente cronologiche: questi era morto, infatti, poco prima della rappresentazione delle Rane, il cui progetto era stato concepito e presentato ben prima; non potendo apportare significative variazioni alla trama in così poco tempo, ma non potendo nondimeno sorvolare sulla sua recentissima dipartita, Aristofane si limita quindi ad assegnargli un ruolo come riserva di Eschilo che rispecchia sostanzialmente il maggior tradizionalismo di un tragediografo amatissimo dagli Ateniesi, ma estraneo al divario ideologico che separa gli altri due grandi di V secolo.

Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il focus sul tema della poesia tragica, le Rane non si riducono tuttavia ad una commedia di riflessione metaletteraria. Nelle battute dei due contendenti, ma soprattutto nelle parole degli altri personaggi e nel giudizio finale di Dioniso emerge con chiarezza il legame avvertito da Aristofane tra poesia e società. La preferenza accordata ad Eschilo, infatti, non si basa su ragioni estetiche, bensì su ragioni ideologiche: è infatti noto che quest’ultimo si facesse promotore nei suoi drammi di una religiosità tradizionale e di un’etica volta al rispetto delle istituzioni, inquadrando i personaggi delle sue tragedie nel loro contesto pubblico. Al contrario, Euripide è tacciato di essere motivo di disgregazione politica per aver portato in scena eroi degradati e donne dissolute, per aver dato dignità a tutte le categorie sociali indistintamente, per l’ampio ricorso alla retorica, sintomatico di un percepito legame col socratismo. Così facendo, egli non avrebbe portato alla rovina solo la tragedia come genere poetico, ma anche i suoi concittadini, indotti ad estraniarsi dalla compagine statale, a concentrarsi sulle loro pulsioni e sui loro interessi privati, perseguiti mediante un uso indebito dell’arte della parola come strumento di prevaricazione politica, fino a portare Atene sull’orlo del baratro. Nel 405, infatti, dopo la battaglia delle Arginuse e in piena instabilità politica, la disfatta appare ormai inevitabile e la morte a breve distanza degli ultimi due grandi tragediografi, Euripide e Sofocle, sembra siglare simbolicamente la fine della gloria ateniese.

D’altra parte, che il precipuo interesse di Aristofane sia il messaggio etico-politico, appare chiaro anche dalla parabasi, momento privilegiato di interazione autore-pubblico in commedia: essa verte sulla caduta dei valori etico-politici che avevano reso grande Atene e, a differenza del tono minaccioso che contraddistingue luoghi analoghi nelle commedie più antiche, qui la rabbia sembra cedere alla lucida rassegnazione e all’amaro disincanto. Più che un ultimo faro di speranza, il ritorno di Eschilo sulla terra sembra quindi rappresentare un’indicazione per il futuro, il punto da cui ripartire nella ricostruzione dopo una caduta che appare ormai inesorabile: persino i morti indicano, infatti, gli Ateniesi come "i morti di lassù".

Nello stesso senso si può interpretare anche la composizione del coro: gli iniziati, che richiamano i misteri eleusini, cui, tra l’altro, Eschilo era legato in quanto originario di Eleusi, nell’Ade godono di una posizione privilegiata in virtù del loro più stretto rapporto con gli dei. Ancora una volta, Aristofane manifesta così il suo conservatorismo, che si riflette nella politica, nella religiosità e nell’arte. Difatti, nel motivare la sua scelta di riportare in vita Eschilo, Dioniso mette esplicitamente in relazione l’arte e l’impegno civile: la più alta forma di poesia, quella cantata nel dibattutissimo intervento del coro secondario di rane – la cui importanza simbolica è garantita dal titolo e dalla completa superfluità nell’azione drammatica, oltre che dalla sua inusualità –, non è il virtuosismo delle forme di cui Euripide si vanta, ma l’arte eticamente e politicamente impegnata di Eschilo – nonché, verrebbe da aggiungere, dello stesso Aristofane.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    07 Luglio, 2018
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Un'assurda solitudine

La caduta è un romanzo pubblicato nel 1956 in cui Camus, all’indomani della trilogia dell’assurdo (Il mito di Sisifo, Lo straniero e Caligola) prosegue l’indagine sulla condizione esistenziale dell’uomo moderno. Il romanzo è costituito infatti da una serie di monologhi di Jean-Baptiste Clamence, un brillante avvocato parigino trasferitosi ad Amsterdam, dove fa “studio” presso il bar Mexico City, i cui avventori diventano i suoi nuovi clienti. Egli, tuttavia, non concede mai loro la parola, cosicché l’intera opera si presenta come un dialogo tra il protagonista e un interlocutore fittizio, ovvero, in ultima analisi, il lettore.

"Bisogna che accada qualcosa, è questa la spiegazione della maggior parte degli impegni che gli uomini assumono."

Clamence è l’emblema dell’uomo che vive nell’assurdo, ovvero dell’uomo che trascorre la sua esistenza perpetrando un autoinganno volto a mistificare il suo non-senso. L’assurdo si manifesta nella dicotomia tra esteriorità ed interiorità: durante la sua vita da avvocato a Parigi, il protagonista si mostrava all’apparenza dedito alla virtù, al benessere altrui, guadagnandosi la stima di tutti; in realtà, ciò nascondeva un profondo egocentrismo. Egli infatti confessa apertamente di essersi comportato in maniera narcisistica, rivendicando una superomistica libertà che gli consentiva di perseguire e ottenere tutto ciò che desiderava. In virtù di ciò, Clamence si sentiva superiore a tutti, finché non comprese la duplicità che governava la sua esistenza e non decise di cambiar vita.

"La verità come la luce acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette in valore tutti gli oggetti."

Abbandonata la sua vita lussuosa, Clamence si mescola ai miseri avventori di uno squallido bar quasi con atteggiamento profetico, esercitando la professione del giudice-penitente: svelando “socraticamente” la colpevole menzogna in cui tutti gli uomini vivono come allucinati, in modo da rendere colpevole insieme a lui l’umanità intera, egli diventa quindi giudice universale. È evidente che la sua non è una redenzione; non è la rivolta di Sisifo all’assurdo della vita o il vitalismo di Caligola. Egli è, invece, un falso profeta, che elimina la menzogna non migliorando sé stesso, ma limitandosi a perseguire il suo narcisismo e giustificandosi mediante il meccanismo del giudice-penitente. Quella di Clamence è, giustappunto, una caduta: una caduta verso la solitudine e verso l’isolamento sociale.

"Non sapevo che la libertà non è una ricompensa, né una decorazione che si festeggi con lo spumante; e neppure un regalo, una scatola di leccornie. Oh! no, anzi è un lavoro ingrato, una corsa di resistenza molto solitaria, molto estenuante. Niente spumante, niente amici che levano il bicchiere guardandoti amorevolmente. Solo in un'aula tetra, solo sulla pedana al cospetto dei giudici, e solo a decidere, di fronte a se stessi o al giudizio altrui. Alla fine di ogni atto di libertà c'è una sentenza; per questo la libertà pesa troppo, specie quando si ha la febbre, o si è inquieti, o non si ama nessuno."

Qual è dunque la relazione tra verità e libertà? È possibile per l’uomo essere autenticamente libero in una società che si fonda sulle apparenze? La risposta di Clamence è chiara e chiara è la sua scelta a favore della verità e della libertà. Eppure, egli appare tutt’altro che svincolato dall’assurdo e ben lontano dal raggiungimento di quella felicità personale che gli umanissimi non-eroi di Camus affannosamente ricercano nella costante rivolta alla loro condizione.
Anche in questo caso, dunque, non sembra esserci una risposta risolutiva: l’uomo risulta sempre e ancora in balia di una solitudine che, tanto nella libertà della verità quanto nella menzogna dell’apparenza, non sembra aprire la strada verso il suo appagamento sociale e personale, né tanto meno si presenta come una scelta moralmente accettabile.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    12 Giugno, 2017
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Cecità e follia

Re Lear è una delle più illustri tragedie di Shakespeare, composta tra 1605 e 1606, in piena fase matura. Il tema principale del dramma è la follia, rappresentata nel suo dispiegarsi in varie sfaccettature attraverso i diversi personaggi. Di massimo rilievo è, ovviamente, la pazzia del protagonista, in cui la dimensione intellettuale sovrasta nettamente quella pragmatica, il che ha alimentato le discussioni sull’effettiva recitabilità di questo dramma: secondo molti, infatti, la grandezza di quest’anima non può esser trasposta in atti recitativi, solo la lettura può renderle giustizia. La rappresentazione della follia di Lear è unanimemente considerata uno dei vertici artistici di Shakespeare, che la dipinge nel suo continuo fluire, nelle oscillazioni tra razionale e irrazionale, nelle sue intrinseche contraddizioni coesistenti nell’animo del vecchio re. La follia di Lear culmina nella celebre scena della tempesta, anch’essa difficilmente inscenabile a teatro: il protagonista si immerge pienamente nella natura in subbuglio, diventa parte integrante del caos degli elementi naturali scatenati nella notte temporalesca; la follia diventa una condizione esistenziale a cui sembra partecipare anche il mondo della natura.
Questa pazzia è frutto di un’errata lettura del mondo da parte di Lear, un elemento tipico dei grandi eroi tragici shakespeariani, incapaci di cogliere e comprendere la molteplicità della realtà da cui sono circondati. Le parole ingannatrici di Gonerill e Regan contrastano con il loro animo insensibile e calcolatore, così come il silenzio di Cordelia non è in grado di rendere onore alla sua grandezza d’animo, al suo sentimento d’affetto per il padre. Gli eroi tragici sono ciechi di fronte al mondo. La cecità, strettamente connessa alla follia, è dunque un altro motivo portante di questo dramma, che si ritrova su un piano fattuale anche in Gloucester, un altro personaggio vittima degli inganni della parola ad opera di Edmund il Bastardo. Sia per Gloucester che per Lear la cecità di fronte alla realtà conduce a un dolore immenso e alla follia, culminando in entrambi i casi in una terribile morte: l’uno tenta il suicidio ma è salvato da Edgar, morendo comunque poco dopo, l’altro si uccide alla fine della tragedia dopo l’impiccagione di Cordelia, la figlia tanto odiata all’inizio. L’idea generale sembra esser dunque quella dell’instabilità che domina l’animo degli uomini, ripercuotendosi nelle loro vite con effetti nefasti per la loro incapacità, la loro piccolezza di fronte alla molteplicità del mondo.

Emblematica è, in tal senso, la figura del fool, ruolo tipico della produzione shakespeariana – per di più qui duplicato dal finto pazzo Tom/Edgar, la cui finta follia gli permette di ristabilire la situazione punendo Edmund –: il Matto è solo apparentemente un personaggio comico, poiché le sue parole nascondono, invece, profonde verità sull’insensatezza del mondo e delle azioni umane, evidenziando così proprio il tragico. Follia e tragedia sono, dunque, compenetrate nella realtà.
Un simile universo ideologico pone ovviamente l’accento sulla dimensione umana dell’azione, centrando quindi l’attenzione su determinati valori. Innanzitutto la giustizia, sulla cui effettiva realizzazione Shakespeare sembra nutrire seri dubbi a causa della natura stessa dell’uomo; la conclusione, estremamente tragica, più che ricomporre l’ordine – secondo la convenzione drammaturgica consueta nel Bardo – sembra voler consegnare alle generazioni future la speranza che riescano a correggere il mondo di ingiustizia e instabilità in cui si sono ritrovati. Antagonisti ed eroi muoiono parimenti, dunque l’esito appare in questo caso quanto mai incerto, così come irrisolta rimane la questione della giustizia.

Un altro valore centrale in questa tragedia è poi quello della nobiltà d’animo, che si incarna nell’affetto filiale, nella sincerità di Cordelia e del re di Francia, che ne apprezza proprio questi valori; ad essi antitetici sono i personaggi di Gonerill e Regan, prive di sensibilità e di moralità, in preda esclusivamente ai propri appetiti e interessi, al pari dei loro mariti, in particolare il Cornovaglia, dato che l’Albany si riscatta parzialmente nel finale. Specularmente a costoro si pongono i rispettivi servitori: da un lato abbiamo il vecchio Kent, che, pur cacciato da Lear, gli rimane fedele e trova il modo di restargli accanto per aiutar lui e la nobile Cordelia, dall’altro abbiamo l’ignobile Oswald, servo di Gonerill, che non esita a mancar di rispetto al vecchio re per ordine di quest’ultima, ai cui piani con la sorella partecipa attivamente finché non viene ucciso. Un’ultima polarità dello stesso tipo si ha, infine, tra Edgar ed Edmund: il primo è vittima inconsapevole delle trame del fratellastro e riesce comunque a riscattarsi con astuzia fino ad aver la meglio alla fine, mostrando la sua magnanimità nel prendersi cura del padre ormai accecato e morente; il secondo, ultima evoluzione della figura del villain con cui Shakespeare si è a lungo cimentato, compie il male per puro guadagno personale, redimendosi solo nel finale, peraltro invano. È importante segnalare che Edmund dichiara esplicitamente l’intenzionalità del suo agire, mettendo così in risalto la sua intelligenza pragmatica di pianificatore. Contrastando quanto detto poco prima dal padre, che aveva attribuito le colpe delle azioni dell’uomo all’influsso delle stelle, egli afferma che le scelte dipendono esclusivamente dalla natura stessa degli uomini, che ne sono dunque pienamente responsabili; ogni influsso esterno e trascendente è perentoriamente escluso con un tono di disprezzo verso la stupidità degli uomini incapaci di esser uomini e di sapere di esserlo:

"È questa la suprema stupidità del mondo, che quando ci sta male la fortuna - spesso perché l'abbiamo troppo ingozzata - attribuiamo la colpa delle nostre disgrazie al sole, alla luna e alle stelle, come se noi fossimo canaglie per necessità, stupidi per coercizione celeste, furfanti, ladri e traditori per prevaricazione delle sfere, ubriachi, mentitori e adulteri per obbedienza coatta all'influsso dei pianeti; e ogni nostra malvagità è dovuta a imposizione degli dèi. Mirabile scappatoia per l'uomo puttaniero, imputare i suoi istinti da capro a una qualche costellazione. Mio padre si è accoppiato con mia madre sotto la coda del Drago, e la mia natività è stata nel segno dell'Orsa Maggiore, ragion per cui sono violento e lascivo."

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    07 Giugno, 2017
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Determinato a dimostrarmi cattivo

Composto tra 1590 e 1593, il Riccardo III riprende e rielabora la leggenda nera del re inglese. Il dramma è dominato in lungo e in largo dalla figura del protagonista, che nella sua vocazione istrionica sembra anticipare Amleto. Particolarmente importanti dal punto di vista drammaturgico sono i suoi monologhi e le sue battute “a parte”: quando è solo in scena col pubblico, Riccardo mostra la sua vera natura, dichiara esplicitamente i suoi intenti ed esplica il suo piano d’azione, mostrando di tenere perfettamente in mano le redini della situazione fino alla parte finale, quando i suoi monologhi tendono a diminuire fino all’esplosione della coscienza dopo l’apparizione degli spettri. In questo modo Riccardo stabilisce un rapporto privilegiato col pubblico, sempre informato di ciò che accadrà e dunque in grado di cogliere la capacità di dissimulazione del protagonista quando è in scena con gli altri personaggi; egli sfrutta il suo istrionismo, creando così empatia, attirandosi le simpatie degli spettatori, la cui iniziale comprensione per un uomo condannato dalla perfida natura viene messa gradualmente in crisi dall’accumularsi dei delitti.
Riccardo presenta sé stesso fin da subito come un villain, categoria tipica dei morality plays medievali, e richiama nel dramma la figura allegorica del Vizio, l’Iniquità, caratterizzata da ambiguità di linguaggio. La sua scelta di compiere il male senza badare alla coscienza, considerata un elemento che paralizza l’azione e la giustificazione dei codardi, è presentata come una scelta obbligata, l’unica concessagli dalla natura: il villain Riccardo è una piatta incarnazione del male, monolitica, ancora lontana dalla compiutezza tragica di villains come Iago e Edmund, che compiranno il male per il male, con fredda e geniale intelligenza. Riccardo è piuttosto rappresentato come un mostro perverso, che si compiace del male compiuto, che ammira sé stesso e la sua ombra: la sua dimensione umana, esclusa dall’isolamento volontariamente scelto al fine di conquistare la corona, emerge solo nella scena della notte precedente la battaglia finale, quando Riccardo è per la prima volta preso dalla paura di sé, dal senso di colpa, mostrando crepe nella sua sicurezza finora inscalfibile: Riccardo riconosce di esser solo e che questa è stata la sua rovina, egli è un outsider come lo sarà Shylock.
Come si era già visto nelle parti precedenti della tetralogia, Riccardo è dominato dal desiderio di potere: a differenza di quanto accadrà col tragico Macbeth e con la sua travagliata coscienza, tuttavia, egli non ha la minima esitazione ad eliminare chiunque gli sia d’ostacolo, pianifica nei minimi dettagli con maniacale vitalismo e trionfalismo ogni passo da compiere per conseguire il suo obiettivo. La crudeltà delle sue azioni è sottolineata dalle riflessioni di personaggi secondari (i ruoli meditativi sono spessi affidati da Shakespeare a personaggi di questo tipo) come i sicari di Clarence o dei principini: anche loro sono presi dai sensi di colpa o dalla pietà, sentimenti del tutto sconosciuti al freddo Riccardo, che sembra solo intenzionato a vendicarsi della natura e dell’odio che tutti nutrono nei suoi confronti. Inoltre, a differenza dell’ascesa al potere violenta di Macbeth, l’ascesa al potere di Riccardo è per elezione: il drammaturgo infatti sembra voler concentrare la riflessione non solo sulle colpe dell’empio protagonista, ma anche su quelle di tutti coloro che non sono stati in grado o non hanno voluto ostacolarlo, per paura, ingenuità, interesse, cecità o compiacimento del male. I nobili tramano contro di lui o sfruttano la sua forza, ma non sono capaci di cogliere il pericolo; lady Anne si fa ingenuamente convincere dal suo corteggiamento serrato; i sicari e i suoi alleati eseguono i suoi ordini senza la minima discussione o esitazione; i cittadini sono paralizzati dal timore e non agiscono, a stento compaiono in scena. Gli unici in grado di tener testa a Riccardo sono i principini, che smascherano le sue intenzioni ma vengono presto eliminati, e le donne, la cui forza risiede nelle capacità del linguaggio e delle maledizioni: emblematica la figura di Margherita che, attraversando tutta la tetralogia, diventa la voce della coscienza storica, le cui maledizioni sono previsioni storiche più che oblique profezie (come saranno quelle delle Streghe in Macbeth).

La conquista della corona rappresenta il momento spartiacque del dramma: Riccardo è preso da un’ansia maniacale di rinsaldare il suo potere e la sua escalation di delitti non si può più fermare, il limite del sangue è stato ormai superato (lo dirà, anticipatamente, anche Macbeth). Ciò conduce con ritmo incalzante all’irrimediabile rovina, cui Riccardo va incontro fedele al suo coraggio, per mano di Richmond, che giunge provvidenzialmente a ristabilire la pace del regno: la ricomposizione finale dell’ordine minato da crimini è una necessità nel teatro shakespeariano e qui si combina anche con la necessità di celebrare la regina Elisabetta I, discendente del neoincoronato Enrico VII.
La fine di Riccardo lo eleva, in ultima analisi, al rango di eroe tragico, sebbene egli sia ancora imperfetto e non del tutto compiuto nella sua modernità: il sussistere di tratti comico-grotteschi e i vincoli imposti dall’immodificabile andamento della Storia, comunque, non impediscono di scorgere in lui, seppur in forma ancora embrionale, alcuni degli elementi che caratterizzeranno i grandi eroi tragici della produzione matura di Shakespeare.

Per ovvi motivi il linguaggio assume in questo dramma un’importanza fondamentale: esso è lo strumento d’azione di Riccardo, che nelle parole evidenzia la sua ambiguità, la sua capacità di dissimulare, il suo essere regista dell’azione per i suoi piani e attore tragico in prima persona, raggiungendo il culmine nella scena della recita col sindaco; le parole sono inoltre l’unica arma in mano alle donne del dramma che, non potendo partecipare attivamente alle lotte di un mondo di violenza e appetiti, traggono la loro forza dalle loro maledizioni, dai loro sfoghi di dolore e di desiderio di vendetta, dalle loro trame alle spalle dell’odiato Riccardo. L’analisi linguistica dunque rivela molto sui personaggi di questo dramma e sulle loro caratteristiche, seppur non ancora non perfettamente definite in maniera individuale come accadrà nelle opere mature, ad eccezione ovviamente del protagonista, che domina l’azione e i dialoghi anche quando non è in scena. In particolare, importanti sono la ricca aggettivazione e il ricorrente uso dei simboli e dei paragoni animaleschi, tutti atti a suggerire la mostruosità infernale di Riccardo. L’ambiguità si può rintracciare, inoltre, anche nelle indicazioni temporali: nelle poche volte in cui si fa riferimento all’ora, infatti, spesso si tratta di un orario a cavallo tra notte e giorno, un’opposizione che, come quella tra luce ed ombra, torna a più riprese in questo dramma e prelude a quella che successivamente sarà sviluppata come contrasto tra essere ed apparire.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    29 Mag, 2017
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Lo Streben e il nichilismo

Il Faust è un poemetto drammatico pubblicato nella versione definitiva nel 1831. Quest’opera consacrò Goethe come il più importante autore della letteratura tedesca, nonché uno dei più rilevanti di quella mondiale. Alla sua composizione il poeta attese per circa sessant’anni, dunque il poema rispecchia il pensiero in evoluzione di Goethe di pari passo con l’avanzare dell’età. Thomas Mann ha sottolineato come la prima parte dell’opera, che è stata interessata dalle prime due fasi del processo compositivo, rifletta il poeta ancora studente, dunque i suoi istinti e le sue stesse storie giovanili, come quella con Margherita; la seconda parte, composta successivamente nella terza e ultima fase, riflette invece la maturazione e la vecchiaia di Goethe, la cui prospettiva tende quindi ad allargarsi.
Appartiene alla seconda fase il Prologo in cielo che, inserito nella parte iniziale, contribuisce ad innalzare il significato ultimo dell’opera, dando inizio al distacco dalla fase iniziale e preparando il trapasso all’universalità e alla maggiore profondità della seconda parte. In questa sezione infatti avviene un dialogo in cui il diavolo Mefistofele sfida Dio, che non si degna di rispondere a tono alla sua provocazione: l’oggetto del contendere è l’anima di Faust, che come tutti gli uomini “erra finché desidera”. E’ questa la cornice a cui si riallaccerà poi il finale del dramma.

“Somiglia la vita a questo poema:
ha un principio e una fine,
eppure non è un tutto.”

La storia riprende un personaggio di lunga e importante tradizione nella letteratura europea, quello del dottor Faust, uno studioso che vende la sua anima al diavolo in cambio della soddisfazione della sua infinita sete di conoscenza. Essenziale è quindi il rapporto che intercorre tra i due protagonisti, Faust e Mefistofele, che incarnano due aspetti sempre coesistenti dell’uomo. Faust è un uomo edotto in ogni disciplina ma sempre insoddisfatto per l’insufficienza del suo sapere; egli è annoiato dalla vita poiché cerca un infinito che gli è precluso dalla sua stessa natura umana.

“Il filo del pensiero è rotto.
Qualunque sapere, e da quanto, mi nausea.
Desideri che bruciano, calmarli
in fondo alle libidini.
[…]
Precipitiamoci nel fremito del tempo,
nel roteare degli eventi!
Allora dolori e piaceri,
successi e delusioni
s’avvicendino pure, come capita.
Solo se non ha requie l’uomo impegna se stesso.”

Quando pertanto fa la sua comparsa il diavolo Mefistofele a tentarlo per avere la sua anima, Faust è inevitabilmente attratto dalle sue ammalianti proposte di scoperta e piaceri infiniti, dunque accetta il patto con lui. In seguito Faust diventa un giovane cavaliere che invecchia poi nel corso del lungo dramma. Mefistofele, connotato dalla sua signoria sul repellente, sull’orrido, sullo sporco, incarna il negativo, ovvero la concezione del nichilismo: “Sono lo spirito che sempre dice no. | Ed a ragione. Nulla c’è che nasca | e non meriti di finire disfatto. | Meglio sarebbe che nulla nascesse.” E’ un personaggio votato alla distruzione e al disfacimento, alla ricerca del male. Ciò è reso ben evidente dalla sapiente costruzione di esso messa in atto da Goethe. L’autore, non rinnegando l’esistenza di questa parte sudicia nell’animo umano e nel suo stesso animo, vi si approccia con un atteggiamento di ironia: Thomas Mann ha evidenziato come quest’ironia sia segno del distacco critico con cui il poeta era in grado di analizzare lucidamente se stesso e la natura umana. I due parlano lingue differenti, hanno punti d’osservazione sull’uomo e sulla vita differenti, tanto che non lesinano reciproco sarcasmo. E’ l’interazione di Faust e Mefistofele, dello Streben e del nichilismo, del divino e del diabolico, dunque, a conferire vitalità all’opera e a garantirle quell’universalità che ne fa uno dei più importanti capolavori della letteratura mondiale.
Nel personaggio di Faust, sebbene costui parta come vecchio, Goethe riflette evidentemente se stesso. In particolare, nella prima parte dell’opera, informata dallo spirito dello Sturm und Drang, il poeta narra implicitamente vicende della sua vita da giovane, le sue passioni, i suoi amori, la sua ricerca di libertà, la curiosità verso il mondo e la scoperta dei piaceri. Emblematica di ciò è la storia con Margherita, che trova un corrispettivo diretto con la vita dell’autore; si tratta di un amore prettamente giovanile, caratterizzato dal vivace contrasto tra una sensualità soffusa e un sentimento puro, tra la bellezza attraente e la bellezza a tratti sacrale. Margherita è quindi un personaggio connotato da una manifesta verecondia e da una latente passionalità, il che genera l’impressione di un personaggio verosimile, una ragazza d’estrazione umile sorpresa dal corteggiamento di uno studente istruito, quale era Goethe ai tempi della storia d’amore. La loro storia comunque finisce male per la fanciulla.

Nella seconda parte dell’opera, quindi, Goethe estende il suo sguardo e, abbandonando l’autobiografia, punta a costruire un personaggio che rispecchi l’uomo contemporaneo, l’uomo moderno. Ecco dunque che Faust diviene simbolo dell’inquietudine romantica, dell’uomo volto vanamente e titanicamente alla ricerca dell’infinito, in costante tensione verso la scoperta di piaceri e obiettivi sempre più alti. Goethe cerca dunque la conciliazione dell’uomo moderno con l’universo classicistico: il romantico Faust seduce e si innamora della mitica Elena, tradizionale paradigma della bellezza. Nell’Elena di Goethe rivivono le suggestioni poetiche di Omero, di Saffo, di Euripide; si tratta di una donna emblema del bello e della seduzione, una donna dai tratti quasi divini, ben lontana dall’umanissima Margherita. Il loro amore, da cui nasce anche un figlio, Euforione, assume i connotati del magico, sfuma nella dimensione del viaggio onirico, al termine del quale, dopo l’assunzione in cielo di Elena ed Euforione, Faust rimane svuotato. Egli è invecchiato, è rimasto solo coi ricordi, con la sua natura umana e con la sua scommessa col diavolo; ha capito che il vero unico bene dell’uomo è vivere l’attimo.

“Passato! Una parola sciocca.
Perché passato?
Passato e puro nulla sono la stessa cosa!
A che pro dunque l'eterno creare!
Per far sparire il creato nel nulla
«È passato!» Che senso si ricava?
È come se non fosse stato affatto,
eppure gira in tondo, come fosse.
Per me io preferisco il Vuoto eterno.”

Mefistofele crede quindi di aver vinto, vedendo l’uomo sconfitto dal tempo, ma all’ultimo Faust è salvato insieme allo spirito di Margherita da Dio e dagli angeli per la sua costante aspirazione all’infinito. Il finale segna dunque la vittoria di Dio su Mefistofele, del bene sul male, dello Streben e del titanismo sul nichilismo, dell’uomo sull’umanità.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    25 Mag, 2017
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L'utopia della salute

La coscienza di Zeno è il romanzo più rappresentativo di Italo Svevo. Pubblicato nel 1923 in una deludente indifferenza generale, nonostante l’appoggio oltralpe di importanti personalità come James Joyce, esso giunse al successo solo tardivamente.
Il romanzo prende le mosse da una finzione letteraria: nella prefazione parla il dottor S., uno psicanalista che, per vendicarsi dell’interruzione della cura da parte del suo paziente Zeno Cosini, decide di pubblicarne le memorie che lui stesso l’aveva invitato a scrivere. Secondo quanto scrive il dottore, tali memorie sono infarcite di verità e bugie, il che immediatamente introduce un fondo di ambiguità che costituirà la cifra dell’intero romanzo: da un lato, ciò che ci apprestiamo a leggere è stato scritto da un narratore presentato come inattendibile; dall’altro, non si sa quanto sia lecito dar credito a un dottore dal comportamento così poco professionale. A minare ulteriormente la credibilità del narratore, si aggiunge il doppio filtro del mezzo di comunicazione: in primo luogo la scrittura, che presuppone un ordinamento razionale da parte dell’autore; in secondo luogo, la scrittura non per sé stessi ma per un destinatario, che induce lo scrittore a presentare tutto a proprio favore.
“La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione.”

Zeno Cosini ripercorre nelle sue memorie la sua vita, non procedendo tuttavia per ordine cronologico, ma secondo un ordine apparentemente casuale, dettato da semplici criteri analogici e liberamente associativi. Egli darà quindi largo spazio ad episodi particolarmente significativi, nei quali si manifesta la sua malattia: l’inettitudine. Fin dall’inizio, infatti, Zeno si ritiene malato, come ben esemplificato dall’incapacità di smettere di fumare, dal difficile rapporto fatto di silenzi col padre. Il culmine è raggiunto nella narrazione della storia del suo matrimonio: rifiutato dalla sua amata Ada e da una delle sue sorelle (Alberta), egli è indotto a sposare la meno gradita delle sorelle, Augusta, per non rimanere solo. Col tempo egli si lega ad Augusta di un semplice e tenero affetto, mai sfiorato tuttavia dall’amore passionale che lo porta alle sue avventure extraconiugali, in particolare quella con la giovane Carla. La contrapposizione tra Augusta e queste passioni riflette nella mente di Zeno quella tra salute e malattia: egli è malato ed è incapace di rinunciare all’irrazionalità pur nei suoi sensi di colpa verso la moglie, per lui vera e propria personificazione della salute: “Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato. Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.”.

Nel frattempo, Zeno mette in piedi un’attività commerciale insieme al cognato Guido, marito di Ada, celando il suo sentimento di rivalsa con un’opera di autoconvincimento di bontà. Guido ci è presentato come un inetto, incapace di gestire il suo patrimonio e, per di più, impegnato a tradire la moglie con la segretaria Carmen, suscitando lo sdegno di Zeno. E’ in questo capitolo che giunge al culmine l’ironia, meccanismo alla base dell’intera narrazione autobiografica di quest’ultimo: egli infatti tende a presentare – impossibile definire quanto volontariamente – ogni cosa a proprio favore, mascherando al lettore e anche alla sua stessa mente la realtà con l’ironia. Quando, alla morte di Guido, Zeno non arriva in tempo al funerale perché intento a salvarne il patrimonio, suscitando le accuse di Ada, ormai vecchia e malata, lo scacco della verità è servito: ognuno dei protagonisti è incapace di discernere verità e irrealtà, cosicché la verità pura si presenta come un’utopia, resa tale dal relativismo che contraddistingue la condizione umana. Allo stesso modo, un’utopia appare quindi anche la salute perfetta.
“Tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un'estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch'esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo piú semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca.”

E’ a questo punto che Zeno supera gli altri due precedenti inetti sveviani, Alfonso Nitti di Una vita ed Emilio Brentani di Senilità: egli ha maturato l’idea che per l’uomo la salute non è altro che la presa di coscienza e l’accettazione della propria malattia. Il rapporto iniziale tra sanità e malattia è completamente ribaltato, dunque lui è sano perché consapevole di esser malato, mentre gli altri sono malati perché si credono sani: “Non è per confronto ch'io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e che era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere.”.

Giunto a tale convinzione, Zeno decide di sospendere la cura psicanalitica presso il dottor S., fortemente criticato per il suo tentativo di curare la condizione umana e dietro la cui figura si potrebbe nascondere il padre della nascente psicanalisi Sigmund Freud (ma vi sono anche altre proposte di identificazione). Sospesa la cura, Zeno decide di spedire al dottore le sue memorie con l’aggiunta di un’ultima parte in cui, oltre a esporgli le sue idee sulla psicanalisi, afferma di esser guarito avendo compreso che la vita umana è inquinata alla radice e che l’occhialuto uomo potrà raggiungere la salute solo in uno scenario apocalittico magistralmente e acutamente delineato, al culmine della malattia: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie .”

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La dittatura dei maiali

La fattoria degli animali è un romanzo in forma di favola satirico-allegorica, sul modello di Esopo, che Orwell iniziò a progettare nel 1937 ma riuscì a pubblicare, dopo svariate difficoltà, solo nel 1945, a guerra terminata. Infatti, come da lui illustrato nello scritto "La libertà di stampa", pensato per esser posto come prefazione all’opera, gli editori, pur in mancanza di ferme disposizioni dall’alto, erano riluttanti a pubblicare il romanzo per i suoi chiari riferimenti al regime sovietico di Stalin, un importante alleato dell’Inghilterra durante la guerra. Il suo operato, pertanto, era ignobilmente giustificato o sottaciuto dall’ortodossia corrente, dall’autore descritta come un vero e proprio scrupolo di coscienza da parte di intellettuali accusati di difendere il liberalismo dal nazifascismo non esitando a far ricorso a metodi totalitari, quali la censura della libertà di parole o di stampa. Come anche nel romanzo, di cui questo scritto è un autentico corollario esplicativo e teorico, Orwell denuncia una perdita del senso reale di valori alla base dell’identità culturale del mondo occidentale, ovvero il pensiero critico e la libertà: “Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire.”.

Il romanzo è ambientato in una fattoria. Un giorno gli animali decidono di ribellarsi al dominio degli umani, incarnati nel fattore ubriacone e distratto Jones: cacciato costui, essi dunque stabiliscono un regime detto Animalismo, in cui ognuno lavora per la comunità, producendo secondo le sue capacità e ricevendo secondo le sue necessità. Tuttavia, ben presto i maiali, guidati da Napoleone, che ha preso il posto del Vecchio maggiore, ispiratore della rivoluzione, concentrano il potere nelle loro mani: Napoleone diventa sempre più un despota autoritario e astuto, si dota del sostegno dei cani, reprime ogni resistenza (come quella delle galline), espelle l’idealista Palladineve accusandolo di sabotaggio e incolpandolo di ogni successivo danno. Napoleone promuove a parole una situazione di uguaglianza, ma nei fatti gli altri animali vivono in una condizione di povertà e indigenza cui sono incapaci di ribellarsi per asservimento, per cecità, per timore, per rassegnazione o per incapacità di pensare. Nonostante i sospetti sul tempestivo variare di leggi, i maiali in qualche modo convincono sempre i loro sudditi all’obbedienza in nome del bene comune, tra inni e sentenze. I maiali vivono nell’ozio e nella ricchezza mentre gli animali faticano quotidianamente nella miseria. Il tradimento diventa massimamente evidente nel finale, quando si scopre che i maiali hanno imparato a camminare su due zampe e persino il motto iniziale della rivoluzione, “Quattro gambe buono, due gambe cattivo”, viene opportunisticamente modificato in “Quattro gambe buono, due gambe meglio”: ormai più nulla distingue i maiali dagli uomini, i nuovi padroni dai vecchi padroni.

L’allegoria è chiaramente volta a denunciare le ipocrisie e il fallimento della rivoluzione bolscevica: all’idealismo del Vecchio Maggiore, che rimanda a Lenin, e al sincero animo rivoluzionario di Palladineve, che rimanda a Trockij, è subentrata l’astuzia di Napoleone, che rappresenta chiaramente Stalin. Questo mette in pratica una politica dispotica fatta di opportunismo e crudeltà, di abili mistificazioni con le parole sue e dei suoi asserviti o con le iniziative pubbliche – come quella per la costruzione del mulino a vento, che sembra far riferimento ai piani quinquennali di Stalin –, di violente repressioni delle resistenze – le galline che si oppongono rimandano ai kulaki che contrastavano la collettivizzazione delle terre – e di leggi e idee teoriche manipolate o rielaborate all’occorrenza. L’instaurazione di un simile regime è, invero, resa possibile dal sostegno dei cani, che rappresentano il corpo di polizia staliniano, dalla propaganda di regime di Piffero o Minimus, fatta di omissioni e mezze verità, e dall’incapacità degli altri animali di ribellarsi per cieca fedeltà alla rivoluzione e per accettazione acritica degli ordini (Boxer, Trifoglio, simboli della gente comune, dei lavoratori sovietici), per cinica rassegnazione (Beniamino), per disinteresse (Mollie, simbolo degli aristocratici russi), per parassitismo (i topi e i conigli, che rimandano agli strati più bassi della società, come ladri e mendicanti).
Ciò che Orwell rappresenta dunque è il fallimento di una rivoluzione, i cui ideali vengono traditi per desiderio di potere. “Tutti sono uguali, ma c'è chi è più uguale di altri”: i valori di uguaglianza e libertà che l’avevano animata non riescono a trovare compimento nella supposta società comunista poiché il nuovo regime della Fattoria degli Animali degenera in una nuova condizione di povertà e schiavitù. Il regno dei maiali non rivela alcuna differenza col precedente regno degli uomini che tanto era stato combattuto: “Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo e dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”.
Invero, la caduta dei sinceri ideali rivoluzionari appare rappresentata come un tratto non specificamente proprio del regime staliniano, ma di qualsiasi rivoluzione. Il tema centrale del romanzo è dunque la corruzione, presente in forma germinale in ogni atto rivoluzionario. La morale della favola è che ogni ideale si corrompe nel momento in cui viene raggiunto il potere e che molto spesso le masse non sono in grado di realizzarlo e opporvisi, preferendo assumere un implosivo atteggiamento passivo.

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Cinismo e disperazione

Il giovane Holden è un romanzo di formazione pubblicato nel 1951 che ha avuto grande successo e larga eco in virtù del suo sincero quadro sulla disillusione di una generazione assorbita dalla società di massa e dall’individualità anestetizzata.

“Un sacco di gente, soprattutto questo psicanalista che c'è qui, continuano a chiedermi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. È una domanda così stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete, finché non lo fate? La risposta è che non lo sapete. Credo di sì, ma come faccio a saperlo?”

L’azione si svolge nell’arco di tre giorni, da un sabato al lunedì seguente: il sedicenne Holden Caulfield, di famiglia benestante, è stato appena espulso dalla sua scuola per profitto insufficiente. Disilluso e insofferente, il giovane perde la stima anche per l’unico professore che apprezzava in seguito ad una ramanzina e litiga violentemente col compagno Stradlater a causa di una ragazza. Carico di rabbia e odio, decide dunque di far le valigie e andar via dalla scuola tre giorni prima; non potendo tuttavia tornare a casa per timore della reazione dei genitori ed essendo squattrinato, decide di andare in un hotel scadente. La prima notte fuori, dunque, trascorre all’insegna del degrado, tra alcool e una prostituta immediatamente mandata via. Il giorno dopo, Holden si incontra con i vecchi amici Sally e poi Carl, ma in entrambi i casi constata l’insanabile divario che lo separa da loro. In seguito ad una nuova serata di alcool, torna a casa e, con la complicità della sorella minore, che non manca di sgridarlo, riesce a nascondersi dalla madre. Si reca quindi dal vecchio professore di letteratura inglese Antolini, che sembra riuscire a confortarlo e gli offre ospitalità; tuttavia, dopo essersi addormentato, al suo risveglio sente che il professore lo accarezza e, temendo un approccio sessuale, scappa via spaventato e decide di scappare via da New York. La sorellina, tuttavia, riuscirà a trattenerlo e il romanzo si chiude sull’immagine del giovane che la guarda sulle giostre; nel frattempo, si accenna anche alla terapia psicanalitica che Holden seguirà e alla tubercolosi che lo colpirà.

“A chi precipita non è permesso di accorgersi né di sentirsi quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipitare giù. Questa bella combinazione è destinata agli uomini che, in un momento o nell'altro della loro vita, hanno cercato qualcosa che il loro ambiente non poteva dargli. O che loro pensavano che il loro ambiente non potesse dargli. Sicché hanno smesso di cercare. Hanno smesso prima ancora di avere veramente cominciato.”

L’esemplarità e la grandezza del personaggio di Holden, che hanno indotto il pubblico a leggervi il ritratto di una generazione, risiedono nella sua ambiguità: egli stesso, del resto, si definisce “il più fenomenale bugiardo”. Disperato e disilluso, intollerante verso le convenzioni e le finzioni sociali, Holden è costantemente alla ricerca di un’evasione, da cercare nell’alcool, nel sesso, in ricordi sbiaditi, in idee impraticabili e infine nella decisione di fuggire. Tutto ciò è mascherato da un cinismo esasperato, così realista da suonare quasi crudo e inaccettabile alle orecchie di una società stereotipata che non vuol sentire voci fuori dal coro, che non lascia spazio a voci disturbate e disturbanti, che lascia indietro chi non riesce ad adeguarsi al canone di massa. Fino all’ultimo ogni lettore spererà di trovare finalmente il modo di dimostrare a Holden che si è sbagliato sul mondo, che non è giusto fuggire, che non fa tutto schifo come il protagonista continua a ripetere; ma questa non si rivelerà che una vana pretesa esterna, aliena alla del tutto comprensibile rassegnazione disillusa del giovane disadattato. Il ritratto è crudo ed impietoso, a tratti shockante per un realismo che nella vita quotidiana si fa fatica ad accettare, preferendo celarlo con rassicuranti speranze e spesso artefatto ottimismo. Se dovessimo esser sinceri, dovremmo dar ragione al professor Antolini quando dice ad Holden: “… scoprirai di non essere il primo che il comportamento degli uomini abbia sconcertato, impaurito e perfino nauseato. Non sei affatto solo a questo traguardo, e saperlo ti servirà d'incitamento e di stimolante. Molti, moltissimi uomini si sono sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro… se vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai qualcosa da dare, altri impareranno da te. È una bella intesa di reciprocità. E non è istruzione. È storia. È poesia.”

Anche Holden, dunque, ora che ci ha scritto la sua esperienza, fa parte di questa storia, di questa poesia.

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L'indecifrabilità del caso

“Quella strana convinzione che le vicende che mi capitano abbiano un senso ulteriore, significhino qualcosa; che la vita con le sue vicende racconti qualcosa di sé, ci sveli gradatamente qualche suo segreto, stia davanti a noi come un rebus il cui senso è necessario decifrare, e le vicende che viviamo siano la mitologia della nostra vita e in questa mitologia stia la chiave della verità, e del mistero. Si tratta forse di un inganno? È possibile, è addirittura probabile, ma non riesco a sbarazzarmi del bisogno di decifrare continuamente la mia vita.”

Quando, alla fine degli anni Quaranta, lo studente Ludvik Jahn aveva spedito a Marketa una cartolina che si burlava dell’ottimismo comunista, egli non avrebbe mai immaginato che quello stupido scherzo avrebbe dato inizio ad un simile viaggio. Espulso dal partito per iniziativa di Zemanek, persa la possibilità di studiare all’Università e costretto a lavorare in miniera, Ludvik vede la sua vita precipitare rapidamente verso un baratro da cui non riesce ad uscire. Chiuso nella sua incomprensione e obbligato alla finzione sociale della vita quotidiana, egli sembra trovare un varco nella mistica figura di Lucie: i due si innamorano, sono persino invidiati da tutti i compagni del ragazzo. Tuttavia, il loro sentimento non si rivela abbastanza profondo, o forse è troppo nascosto nei recessi profondi per rivelarsi: i due amanti sembrano non riuscire mai a toccarsi davvero, poiché Ludvik sembra non esser in grado di afferrare l’anima paurosa della ragazza e Lucie sembra non esser in grado di abbracciare liberamente il corpo del ragazzo. Incatenati nella loro alterità, i due si lasciano e poco dopo Ludvik va in prigione.
I due si incontreranno di nuovo molti anni dopo, negli anni Sessanta, ma sarà solo un attimo fugace, senza ripercussioni. I due sono ormai troppo diversi e Ludvik, tornato al suo paese, viene in contatto con voci che ci erano state già sporadicamente presentate nella prima parte del romanzo. Anche qui abbiamo una storia d’amore, ma la situazione, rispetto alla storia con Lucie, è nettamente differente. Il giovane seduce infatti Helena, la moglie insoddisfatta del suo vecchio nemico Zemanek, col solo scopo di vendicarsi di quest’ultimo. Tuttavia, sembra intervenire un nuovo scherzo del destino: non solo la vendetta risulta un fallimento, essendo anche il rivale ormai disinteressato alla moglie, ma si rivela persino una beffa, poiché la donna si innamora di lui, giungendo ad un tragicomico tentativo di suicidio, scongiurato ancora dal caso.

“Ma allora, chi aveva sbagliato? La storia stessa? Quella divina, quella razionale? Ma perché, in fondo, considerarli suoi errori? Appare così solo alla mia ragione umana, ma se la storia ha realmente una ragione, perché mai dovrebbe essere una ragione che si preoccupa della comprensione umana, una ragione con la serietà di un professore? E se la storia scherzasse? E in quel momento mi resi conto di quanto fosse impotente il mio desiderio di revocare il mio scherzo, quando io stesso e tutta la mia vita eravamo compresi in uno scherzo molto più vasto (per me senza fine) assolutamente irrevocabile.”

Nel finale, dunque, Ludvik torna da un vecchio amico incontrato poco prima, Jaroslav: anche costui, nella ricchezza e nella prosperità, aveva visto deluse tutte le sue aspettative nel figlio e aveva visto crollare tutto quanto aveva cercato di costruire con buone intenzioni. L’indecifrabilità del caso e dei suoi eventi spinge i due amici a riunirsi. Ludvik decide dunque di abbandonare le sue domande irrisolte e le sue turbe mentali, riscoprendo sé stesso nelle sue radici, nei valori che aveva sempre allontanato da sé, nella troppo scontata semplicità di una vita fatta di musica e feste:

“All'improvviso mi venne voglia di mandare tutto al diavolo. Di andare via e smetterla di preoccuparmi di tutto. Non voglio più restare in questo mondo di cose materiali che non capisco e che mi ingannano. Esiste anche un mondo diverso. Un mondo nel quale mi sento a casa e nel quale mi ritrovo.”

Quando tutto sembra volgere per il meglio interviene ancora un nuovo scherzo del caso: alla vista dei giovani ubriachi e festaioli, Jaroslav è preso da una disperazione che ben presto si traduce in un malore. Così, tra l’incipiente riscoperta di sé di Ludvik e l’incapacità di lasciarsi cadere nell’oblio di Jaroslav, si chiude il romanzo, lasciando aperte tutte le domande sul rapporto tra l’uomo e la Storia, tra l’uomo e la vita, tra l’uomo e il caso.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    20 Ottobre, 2016
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Anestesia della coscienza: fallita

“Eccoli gli uomini: vanno avanti e indietro per la strada: ognuno è un mascalzone e un delinquente per natura, un idiota. Ma se sapessero che io sono un omicida e ora cercassi di evitare la prigione, si infiammerebbero tutti di nobile sdegno.”

Annichilimento della ragione: questo spinge il giovane Raskol’nikov a commettere il suo delitto, un omicidio che per uno strano incrocio di premeditazione e casualità diventa duplice. Vittime sono un’usuraia, un pidocchio dell’umanità, e l’innocente Lizaveta, colpevole solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. E’ da qui che parte il dramma della coscienza del protagonista. Se fino a questo momento la lotta interiore del giovane si era combattuta essenzialmente tra ragioni economiche e ragioni morali, dunque qualcosa di prettamente personale, ora essa si sposta su un piano trascendente, assumendo connotati più universali con l’entrata in gioco di principi filosofici, storici, religiosi, umani. In una Pietroburgo sfocata, teatro di miseria e depravazione, l’animo di Raskol’nikov diventa un teatro insanguinato da scontri sconosciuti, tanto che il giovane giunge sul baratro di una pazzia – se reale o solo presunta dagli altri non è mai chiarito.

“Oh, che gli importava ora della propria abiezione, di tutte quelle vanità, dei tenenti, delle tedesche, delle cambiali, degli uffici di polizia, eccetera, eccetera! Se in quel momento lo avessero condannato anche a esser bruciato, neppure in tal caso egli si sarebbe mosso, e forse non avrebbe nemmeno ascoltato con attenzione la condanna.”
Raskol’nikov tenta di anestetizzare la sua coscienza, tra autoconvincimento e inconfessata paura di esser scoperto, tra orgoglio e inettitudine – egli non utilizza mai i soldi rubati alla vecchia, “ufficialmente” il motivo dell’omicidio –, proseguendo ancora sulla strada della prostrazione della volontà. Nel prendere in giro gli altri, egli si assume l’ebbrezza del rischio con la sua teoria degli uomini normali e degli uomini di genio, direttamente ereditata dalla filosofia della storia di Hegel: gli uomini normali sono la maggioranza, ovvero coloro i quali si incaricano di rispettare e far rispettare le leggi della moralità e della società; gli uomini di genio sono le rare eccezioni, ovvero coloro i quali fanno progredire la storia poiché a loro è lecita l’infrazione della legge per un fine superiore e per la propria autoaffermazione, cioè quelli che Nietzsche chiamerà superuomini. E’ così che egli tenta di giustificare a sé stesso la propria azione, convincendosi di aver eliminato dal genere umano un essere inutile e pidocchioso, dannoso. Ma l’idealità di questa teoria cozza esplicitamente con l’umanità sopita del giovane.
“Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo cosí stretto da poterci posare soltanto i due piedi, – avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene cosí, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità –, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l'uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.”

A cambiar le carte in tavola intervengono gli altri personaggi: l’affetto cieco e puro della madre e della sorella, donne di sani principi pur nella miseria; il fedele appoggio dell’amico Razumichin, emblema dell’ideologia socialista con la sua praticità e lo spirito altruista; l’infamia di Lugin, il ricco promesso sposo della sorella che rivela la sua ipocrisia e bassezza morale; la pena per la famiglia di Marmeladov, un ubriacone conosciuto in una bettola che ha colpito il protagonista con la storia della sua sfortunata famiglia. Ma sono tre in particolare i personaggi-chiave per il cammino della coscienza di Raskol’nikov. Il primo è Svidrigajlov: uomo abietto e depravato, sospettato di omicidi e pedofilia, oltre ad aver infamato la sorella di Raskol’nikov, in lui il protagonista trova un suo doppio degradato. L’implicito legame tra i due è testimoniato dalla pregnante opacità dei loro dialoghi, laddove l’estremizzato nichilismo di Svidrigajlov riesce a pungere la coscienza ancora solo addormentata di Raskol’nikov, che vede in lui il suo terrificante possibile futuro.
“– Noi ci rappresentiamo sempre l'eternità come un'idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se lassù non ci fosse altro che una stanzetta, simile ad una rustica stanza da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni? Se l'eternità non fosse altro che questo?
– Possibile, possibile che non riusciate a figurarvi qualcosa di più consolante e giusto di questo?, esclamò Raskòl'nikov con un sentimento doloroso.”

Il secondo è Porfirij Petrovi?: giudice istruttore del processo per l’omicidio delle due donne, egli si pone come l’avversario dialettico di Raskol’nikov, rappresentando l’invincibile voce della razionalità. Si tratta dell’unico personaggio che il protagonista realmente teme, l’unico su cui presagisce la sua sconfitta: la sua intelligenza e la sua abilità, infatti, tengono a lungo il giovane sul filo, tra sospetti celati e dissimulazione, in uno stillicidio che alimenta l’esasperazione del protagonista. Porfirij è convinto della colpevolezza di Raskol’nikov, ma non ha prove per dimostrarla, pertanto fa leva sulle sue capacità oratorie per indurlo a confessare, pur non sganciando mai il suo obiettivo da un fine morale: il suo intento non è infatti quello di punire il colpevole, ma quello di far sì che sia il colpevole stesso a richiedere una punizione come espiazione. Porfirij induce Raskol’nikov alla confessione non per sé stesso, ma per liberarlo dalle colpe che evidentemente lo sconvolgono. Dostoevskij è infatti convinto che ogni uomo macchiatosi di un delitto desidera, nel profondo, espiarlo per soddisfare il proprio senso morale. E’ per questo che Porfirij non sfrutterà la confessione di Raskol’nikov, attendendo che sia lui inesorabilmente a confessare, segnando così il fallimento della teoria degli uomini di genio.
“Avete perduto ogni fiducia, e credete che io vi lusinghi grossolanamente; ma quanto avete già vissuto? Quanto capite? Ha inventato una teoria e poi si vergogna che abbia fatto cattiva prova, che sia riuscita una cosa ben poco originale! È riuscita un'infamia, è vero, ma voi tuttavia non siete un infame che non lasci più speranza. Siete tutt'altro che infame a tal punto! Tutt'altro che infame a tal punto! Per lo meno, non vi siete illuso a lungo, siete subito arrivato agli estremi limiti. Sapete come vi giudico io? Vi giudico uno di quelli a cui si potrebbero anche strappar le budella, e continuerebbero a stare in piedi e a guardare con un sorriso i loro torturatori, – purché trovassero una fede o un Dio. Ebbene, trovatelo e vivrete. Voi, anzitutto, già da molto tempo avete bisogno di cambiar aria. Eh, via, anche la sofferenza è una buona cosa. Soffrite. […] Lo so, che vi manca la fede, ma non state a sottilizzare scaltramente; abbandonatevi alla vita senz'altro, senza ragionare; non abbiate timore: vi porterà direttamente sulla riva e vi rimetterà in piedi. Su quale riva? Che ne so io? Io credo soltanto che abbiate ancora molto da vivere.”

Il terzo è Sonja: figlia dell’ubriacone Marmeladov e della sua moglie tisica, costretta a prostituirsi per mantenere la sua famiglia, è lei la vera e propria responsabile del risveglio e della rinascita di Raskol’nikov. Commosso dalla sua storia, il giovane si innamora di lei, un amore puro, senza alcun accenno di sensualità, un amore delle anime. E’ lei la prima persona a cui il protagonista confessa il suo delitto e, nonostante lei fosse amica di Lizaveta, pur nel suo turbamento gli rimane vicina, risveglia la sua coscienza dandogli qualcosa in cui credere. Sonja si fa incarnazione di entrambe le vie di salvezza costantemente propugnate di Dostoevskij per l’uomo, ossia l’amore e la fede in Dio, a cui avvicina l’ateo Raskol’nikov con i suoi riferimenti alla morale cristiana e alla risurrezione di Lazzaro nel Vangelo. Ella lo porta all’apice della disperazione (“Perché doveva vivere? Quale scopo proporsi? A che tendere? Vivere per esistere? Ma un migliaio di volte egli era stato pronto anche prima a dare la sua esistenza per un'idea, per una speranza, anche per un capriccio. La semplice esistenza era sempre stata poca cosa per lui, aveva sempre voluto di piú. Forse soltanto per la forza dei suoi desideri egli si era allora creduto un uomo a cui piú che ad altri fosse permesso.”) e così lo induce a confessare il suo crimine, aprendogli le porte alla rinascita, alla salvezza attraverso la sofferenza, a una nuova vita che sembrava impossibile, proprio come per Lazzaro. Ma qui comincia un’altra storia.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    24 Giugno, 2016
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Come un cane!

Interpretato allegoricamente in un’infinità di prospettive, ora interconnesse ora contrapposte, questo romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1925 dall’amico Max Brod e divenuto uno dei capisaldi della letteratura moderna, ben riflette le inquietudini che travagliavano Kafka. Vi ritornano infatti immagini e riflessioni che ricorrono altrove nella sua produzione, nonché nei diari ed epistolari; e si tratta di suggestioni di varia natura (religiose, esistenziali, filosofiche, letterarie, storico-sociali), il che ha favorito il pullulare di interpretazioni sostanzialmente equipollenti.

“Come può essere colpevole un uomo?”
Quando in una mattina qualunque Josef K., un comune impiegato bancario, viene inspiegabilmente arrestato da due uomini in divisa, presentatisi a casa sua senza alcun preavviso, ha inizio la sua affannosa corsa nel surreale. Una corsa tesa a scavare e a districarsi nelle profondità dell’enigma irrisolto della condizione umana. Sempre indefinita rimarrà la colpa di cui K. è accusato, eppur sempre presente a gravare sulle sue spalle. Sempre indefinita rimarrà la somma autorità del Tribunale, che sembra muovere i fili degli accusati senza ragione. Sempre indefinito rimarrà il ruolo degli altri uomini e delle altre donne che compaiono nel romanzo a dar il loro misterioso contributo alla vicenda di K. E sempre indefinito rimarrà lo stesso protagonista, sospeso tra le sue contraddizioni, mai indagate romanticamente ma trasparenti dalle sue azioni.

Nel suo forsennato e claustrofobico tentativo di ricondurre tutto alla razionalità e all’oggettività, K. rivela tutta la drammaticità della situazione degli uomini. Nel corso della storia, lo stupore dell’innocente viene costantemente a scontrarsi con la realtà di un’atavica colpa, la ricerca di un ordine col dispiegarsi dell’insensato. Il tentativo di difendersi dunque lascia gradualmente il posto alla consapevolezza di una condanna già pronunciata. Non c’è per l’uomo possibilità di un’assoluzione completa, preclusa dalla sua stessa razionalità che gli impedisce di abbandonarsi ad assoluti; al più egli può aspirare a un’assoluzione apparente o al differimento: e se la prima non è che il vano trionfo dell’effimero, dell’istante, in un eterno ritorno alla drammatica oscillazione del pendolo tra colpa e assoluzione, l’altro non è che quasi un pascaliano divertissement, una continua lotta contro i mulini a vento, altrettanto tragica nella sua umanamente nobile, ma pur sempre vana perseveranza. La spinta vitalistica, poi, che vuole anestetizzare la coscienza di K. non attecchisce mai del tutto, anzi viene in ultima analisi sconfitta dalla scelta di vita nichilistica; una scelta difficile, ma l’unica rimasta possibile a chi sa di esser già stato condannato a morire come un cane, per il solo fatto di esser nato uomo.

Lo stile essenziale e disadorno, a tratti faticoso a leggersi nell’apparente e grottesca insignificanza, è attentamente ricercato dall’autore, che giunge così a scarnificare anche con la parola l’esistenza. Non è lasciato il minimo spazio alla liricità o al soggettivo, tutto è volto alla spersonalizzazione e all’oggettività, in un vuoto razionale che raggiunge l’akme della sua sconfitta nella cruenta ed impietosa scena finale. Kafka prosegue sulla strada della modernità inaugurata dal romanzo di fine Ottocento legandola alla propria angoscia esistenziale. L’indugio talvolta espressionistico nelle descrizioni, nella gestualità o in motivi liberi prettamente allegorici marcano l’alterità tra il linguaggio e la vita, tra l’ordine e l’insensato. Il linguaggio non risulta mai adeguato a cogliere o a descrivere il reale sconosciuto: del resto per lo stesso Kafka risultò a lungo impossibile contemperare la sua vita personale con la sua vita da scrittore, vissuta come un mondo altro rispetto a quello reale ma mai del tutto distaccato.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    24 Mag, 2016
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Sogni poetici, invenzioni e capricci malinconici

Le Operette morali di Giacomo Leopardi sono una raccolta di ventiquattro scritti in prosa che spaziano tra la novella e il dialogo.
La conformazione della raccolta prevede la giustapposizione di scritti senza apparente continuità tra loro, sebbene sia sempre ravvisabile l’unitaria linea di pensiero sottesa ad essi. Il titolo della raccolta illustra la finalità di questi scritti: il fine morale è unito all’intento satirico, segnalato dal topico diminutivo, desunto dal retore greco Isocrate, che allo stesso modo attenuò la sua opera d’analoga finalità. Non esistono nelle letterature moderne dei precedenti per il genere letterario adottato da Leopardi, il cui modello è Luciano con i suoi Dialoghi, in particolare con i Dialoghi dei morti, dal momento che spesso ricorrono personaggi e ambientazioni dell’aldilà.
Varie e a tratti indefinibili sono le fonti da cui egli desume la sua materia: questi scritti sono, infatti, contraddistinti da una straordinaria intertestualità che spazia dalla letteratura antica a quella moderna, da quella italiana a quella europea. Per quanto riguarda l’atteggiamento ideologico, è possibile rinvenire tracce dell’ironia del dissacrante Ariosto e dell’illuminista Voltaire. E’ inoltre rilevante sottolineare, accanto all’intertestualità, l’aspetto dell’intratestualità, dal momento che temi, situazioni ed espressioni presenti in quest’opera si potranno agevolmente ritrovare nel resto della produzione leopardiana, ossia i Canti e soprattutto lo Zibaldone, bacino collettore della riflessione filosofica del poeta.

Tra i personaggi compaiono, oltre a quelli d’invenzione, personaggi storici, filosofici, letterari e mitologici; di tutti viene massimamente sfruttata dall’autore la potenzialità simbolica e ideologica: essi sono infatti utilizzati da Leopardi come strumenti per la sua satira politica, sociale ed esistenziale. Importante è che lo stesso autore dichiara programmaticamente che nessuno dei personaggi vada identificato ideologicamente con lui stesso, poiché in caso contrario verrebbe meno l’attrattiva del lettore, che viene invece spinto alla curiosità dall’insinuarsi e dal confrontarsi di più prospettive in certo grado tutte in rapporto con la figura autoriale. Ciononostante, soprattutto alla luce dei riferimenti intratestuali, è possibile rintracciare e interpretare l’ideologia del poeta, massimamente messa in luce dal personaggio di Tristano nel Dialogo di Tristano e di un amico, non a caso posto in chiusura della raccolta, quasi a porre il sigillo all’opera e ad indirizzarne con certezza la comprensione.

L’espediente letterario più frequente, in virtù dello scopo satirico della raccolta, risulta essere necessariamente l’ironia, di cui Leopardi si serve per riflettere e osservare con amara lucidità vari aspetti della vita dell’uomo, ma anche per la più volte affermata capacità taumaturgica del riso, uno dei pochi appigli a disposizione dell’uomo.
Il primo bersaglio della satira è l’uomo stesso. L’uomo è, secondo il poeta, necessariamente condannato all’infelicità per via del connaturato ed inappagabile desiderio infinito di felicità, che si contrappone aporeticamente alla finitezza del suo animo. L’uomo non è che una breve parentesi nella dimensione dell’eternità propria della Natura e dell’universo, i veri nemici dell’uomo, che dovrebbe allearsi coi suoi simili nella sopportazione dei mali comuni. Ricorre spesso dunque l’amara e disillusa considerazione sul destino degli uomini, tanto più forte in coloro i quali ne hanno assunto tale consapevolezza da non poter più nemmeno sperare nell’illusione dell’immaginazione: l’unica via di fuga rimasta è quella estrema, la morte, che più volte viene invocata e desiderata dai personaggi che appaiono ideologicamente affini all’autore, che anche altrove esprime il desiderio della morte come liberazione dall’infelicità esistenziale.
Da questa filosofia materialistica nasce l’aperta critica di Leopardi alla sua epoca, il vile secolo della distruzione delle conquiste illuministiche. L’autore, come anche in altre sue opere, si scaglia contro le fallaci ed ingannevoli convinzioni spiritualistiche ed ottimistiche atte a salvare e consolare gli uomini. L’Ottocento è dunque visto dall’autore come un periodo di regresso ideologico e filosofico rispetto al precedente razionalismo settecentesco, una decadenza che si esemplifica nella caduta di ogni realistico ideale in nome dell’astratto e dell’apparenza, culminanti nel culto dell’effimero, la Moda, significativamente accostata alla Morte.

In un periodo di dibattito linguistico sull’italiano, contrapposto al francese, Leopardi sceglie significativamente di utilizzare l’italiano del registro medio in un contesto filosofico, conferendo alla lingua dignità anche in questo campo. Lo stile è vivo e serrato, funzionale al tono generale meditativo e satirico, dunque con una sintassi sempre elegante e ben organizzata. A livello lessicale, è importante segnalare la frequenza di termini appartenenti alla sfera semantica dell’indefinito e del vago, dell’immaginazione, del ricordo e della speranza, tipici del discorso poetico leopardiano; ciò attenua sensibilmente la distanza tra la sua prosa filosofica e la sua poesia lirica, che risultano perfettamente compenetrate nel genio leopardiano, sospeso tra razionalità e interiorità.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    23 Mag, 2016
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Quel guazzabuglio del cuore umano

I Promessi Sposi, opera capitale del Romanticismo italiano e della letteratura mondiale, furono scritti da Manzoni tra 1821 e 1823 col titolo provvisorio Fermo e Lucia, poi mutato in quello definitivo nelle successive edizioni del 1827 e del 1840. Manzoni sceglie la neonata forma del romanzo, senza precedenti in Italia (se si esclude l’Ortis di Foscolo, ancora lontano dalla forma compiuta del romanzo ottocentesco), in quanto è da lui ritenuta la più adatta al suo scopo, ossia narrare il vero dalla prospettiva dei deboli. A tale intento inadeguato gli si era mostrato il teatro: il romanzo infatti, svincolato da canoni tradizionale in quanto di recente diffusione, gli consentiva una maggiore libertà contenutistica e formale, lasciando all’autore il compito di orchestrare la rappresentazione della realtà. La caratteristica principale del romanzo manzoniano è il suo rapporto con la storia: egli scrive infatti un romanzo storico ambientato nella Milano spagnola del Seicento, che tante analogie presentava con la situazione presente della Lombardia asburgica. Il realismo storico dello scrittore è tale che egli introduce nel soggetto d’invenzione dei personaggi storici reali di cui trova notizia nei documenti, quali la monaca di Monza, il cardinale Borromeo o l’Innominato: ciò conferisce ulteriore verosimiglianza al romanzo. Considerate dunque tali premesse, risulta evidente il valore di un romanzo che nella sua polifonia ci fornisce un dettagliato e politematico ritratto della contemporaneità così abilmente mascherata nella finzione letteraria dell’Anonimo manoscritto secentesco.

Ecco dunque presentarsi sulla scena – perché il romanzo assume a tratti movenze e tonalità vicine a quelle del dramma grazie al suo realismo e alla sua verosimiglianza – una sterminata galleria di personaggi atti a fornire l’immagine del mondo visto dagli umili, a cui lo scrittore si associa. Abbiamo quindi il quadrato sistema dei personaggi: a due oppressi (Renzo e Lucia) e ai loro due aiutanti (fra’ Cristoforo e il cardinale Borromeo) corrispondono due oppressori (don Rodrigo e l’Innominato) e i loro due aiutanti (don Abbondio e la monaca di Monza); agli affetti familiari (Agnese, il cugino di Renzo) corrispondono i rapporti vuoti o imposti dai rapporti di forza (i bravi, conte Attilio, conte zio, Azzecca-garbugli); ai due personaggi ecclesiastici d’estrazione popolare (don Abbondio, fra’ Cristoforo) ne corrispondono due d’estrazione nobiliare (la monaca di Monza e il cardinale Borromeo); alla voce dell’anonimo secentesco corrisponde la voce narrante dell’autore, che interviene di continuo dalla sua prospettiva onnisciente ad orientare l’intendimento dei lettori e a gestire con la sua ironia il ritmo e i fili della narrazione; alla realtà storica corrisponde la sfuggente divina Provvidenza.
Tali studiate contrapposizioni sono funzionali ad evidenziare il messaggio manzoniano, rivolto a molteplici ambiti della sua attualità.

Immediato appare l’intento sociale, da cui il romanzo prende dichiaratamente le mosse. La sua scelta di incentrare l’attenzione sulle classi umili è del tutto rivoluzionaria, dal momento che il loro mondo non era finora stato considerato letterariamente degno se non a scopo caricaturale; il motivo di una simile scelta è evidentemente da ricercare nell’intento di dar voce alle masse, asservite agli individuali poteri locali ed effimeri detenuti da signorotti che si collocavano al di là di una legge troppo facilmente manipolabile e nullificata. Questo si riflette, da un lato, nella piaga economico-sociale della povertà, i cui effetti sono esemplificati nella rivolta del pane in cui Renzo rimane coinvolto o nella denunciata miseria del lazzaretto per gli appestati, e dall’altro nella questione politico-morale della giustizia, il cui ordine naturale viene normalmente sovvertito in nome della paura, come ben mostrano l’infido Azzecca-garbugli e il codardo don Abbondio.

Come far fronte a siffatta situazione? Per Manzoni la risposta appare chiara: l’unica via d’uscita è la fede in Dio. L’autore dunque affida alla Chiesa il compito di guida spirituale vicina agli umili per guidare la società al bene pubblico e gli uomini alla salvezza. Ecco dunque troneggiare le figure del tutto positive dell’irreprensibile e autorevole cardinale Borromeo, incarnazione del Bene giunto a pieno compimento, e del pietoso e attivo fra’ Cristoforo, il cui idealismo improntato a romantico titanismo si scontra ed è costantemente bilanciato dalla fede incrollabile, il che lo porta a perseguire in ogni modo il bene. A loro si oppongono radicalmente don Abbondio e Gertrude, il curato e la monaca che hanno tradito la loro missione spirituale rivelando in ciò tutta la loro umana imperfezione: non sono personaggi privi di una coscienza morale o incapaci di amare, sono invece personaggi in cui la fede non ha ancora sopperito ai limiti della loro umanità, da un lato la paura e l’ideologia del quieto vivere e dall’altro la passione amorosa. Per questo motivo essi sono spesso vittime dell’ironia del narratore autoriale, sebbene Manzoni mostri verso di loro anche pietà e comprensione, rivelando una certa compartecipazione nei confronti del loro animo.

Le vicissitudini dei quattro personaggi centrali evidenziano massimamente lo scontro da Manzoni vissuto in prima persona tra reale ed ideale. L’autore condensa il suo personale ed umanissimo conflitto interiore nelle figure di Renzo e Lucia: Renzo, con le sue contraddizioni, col suo impeto istintivo e la sua fede, col suo senso della giustizia terrena contrapposta a quella divina, appare per molti versi una proiezione della personalità scrittore, che infatti mostra sempre empatia nei suoi confronti, esimendosi da qualsiasi giudizio morale complessivamente negativo; Lucia, con la sua perfezione spirituale e la sua bellezza pura e casta, rappresenta l’ideale a cui Renzo tende con struggente amore al pari di Manzoni nei confronti della fede. La forza dirompente di quest’ultima raggiunge il suo apice nella conversione dell’Innominato, evento in grado di spostare gli equilibri a favore del bene. E non poteva d’altronde che essere lui il più portato alla conversione: egli infatti è sempre stato perfetto nel Male, dunque il passo è per lui certamente più semplice che per il mediocre don Rodrigo, in grado di soffocare la sua non troppo forte coscienza morale, o addirittura per il Griso o il conte Attilio, del tutto privi di senso morale e infinitamente piccoli nella loro mediocrità.

E tuttavia neanche lo scioglimento della vicenda conduce a un finale lieto a 360°: le ultime pagine, infatti, gettano sul futuro congiunto dei protagonisti delle ombre che riconducono il tutto alla dimensione della normalità e della quotidianità. Una quotidianità in cui ha larga parte il male e la sofferenza secondo la visione pessimistica di Manzoni rispetto al destino degli uomini. L’autore nega infatti ogni intervento della Provvidenza nelle faccende umane, a differenza dei personaggi che credono ad essa pur non essendo in grado di coglierne l’essenza, anzi adattandola alle loro mentalità, talvolta in assurdi al limite del grottesco su cui il narratore ironizza bonariamente. In questo Manzoni si dimostra erede del razionalismo del movimento illuminista, da cui tuttavia si distacca per la mancanza di fiducia nel progresso: l’uomo è coinvolto negli eventi del mondo, gli umili si trovano costretti a sottostare alla logica della sopraffazione, gli uomini tutti sono costretti a convivere con la loro realtà storica e la loro natura da adattare a dei principi morali universalmente validi. La modernità dell’autore è dimostrata dal fatto che tali aspetti del suo realismo saranno approfonditi dalle correnti successive, a partire dal Verismo.

Le diverse edizioni differiscono non tanto per lo sviluppo narrativo quanto per la lingua: l’autore infatti rivide la sua opera al fine di avvicinare il registro linguistico al fiorentino contemporaneo d’uso comune, in modo da render l’opera accessibile a un pubblico vasto ed eterogeneo con un tono colloquiale, generalmente sobrio e talora vicino a sprazzi di liricità. La coesistenza della sua voce narrante con quella dell’anonimo secentista è ulteriormente significativa: l’autore, infatti, ironizza sullo stile baroccheggiante tipico della scrittura del Seicento, uno stile finalizzato a nascondere il vuoto contenutistico e lontano dal gusto contemporaneo. Le sue scelte linguistiche per l’edizione quarantana saranno determinanti negli sviluppi della lingua italiana: il Manzoni divenne ben presto un’autorità nel campo, con cui era inevitabile confrontarsi sia stilisticamente sia letterariamente. E’ questo uno dei tanti aspetti della fortuna di un romanzo che ha consegnato alla cultura italiana una tale vastità di situazioni ed espressioni divenute proverbiali o personaggi assurti a veri e propri caratteri tipologici per eccellenza da esser necessariamente annoverato tra i più grandi capolavori della letteratura.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    06 Aprile, 2016
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La malattia mortale

Come in altre opere dell’autore tedesco Thomas Mann, al centro della narrazione vi è un personaggio dall’animo artistico, lo scrittore Spinell, che ha deciso di ritirarsi in una clinica per prendersi un po’ di riposo nell’aria di montagna. Il suo carattere particolare, tuttavia, salta subito all’occhio: mal visto dagli altri pazienti, nonché dal dottore stesso, Spinell rivela ben presto la sua indole. Quando arriva la signora Kloterjahn, infatti, nasce un legame profondo d’ineffabile passione e attrazione: il racconto del suo passato da pianista e l’abbandono del suo sogno in seguito al matrimonio vanno inevitabilmente a toccare le corde più profonde dell’uomo, creando una sintonia nel mirabile segno dell’arte che raggiunge il suo culmine nell’atmosfera di delicata voluttà generata dalle note del Tristano di Wagner suonato dalla donna, simbolo prefigurale di un amore infelice che conduce alla morte. Musica e poesia si fondono in un’armonia visionaria che pervade i sensi dei due, l’uno nel pieno dell’estasi del suo estetismo sentimentale, l’altra nel timoroso recupero di una parte di sé a lungo sopita.

Abbandonatosi alla sensazione d’infinito, Spinell scrive quindi una lettera al marito della donna, un mercante, rivendicando le affinità di spirito tra loro e rimproverandolo per aver allontanato, ancora giovane, la donna dall’arte con il suo stile di vita borghese. E’ a questo punto che ha luogo la scena madre del racconto, che apre la via ad ogni possibile riflessione: Spinell e Kloterjahn vengono a uno scontro verbale, incarnando l’uno l’inclinazione artistica e l’altro la vita materiale. Tra i due non vi è tuttavia reale comunicazione: essi non solo parlano due linguaggi tra loro incompatibili, ma sembrano affrontarsi da due mondi distanti e distinti, due insiemi senza alcuna possibilità d’intersezione. Evidente è, nel dialogo, lo sbilanciamento simbolico: se da un lato l’artista in tensione verso l’assoluto è vicino alla natura e all’interiorità spirituale, il mercante è certamente più vicino alla vita, a quella che viene sottintesa come “normalità”. Lo scontro dunque tende a risolversi in un confronto tra una sorta di pazzia instabile data dall’indole artistico-estetica e la normalità della vita da borghese.

A sancire quale delle due posizioni risulterà vincitrice sarà la donna, vero ago della bilancia del racconto: l’inaspettato aggravarsi delle sue condizioni di salute la conduce rapidamente alla morte, rivelando così la vera natura dello scontro tra le due concezioni di vita. L’animo artistico porta con sé il germe di una malattia mortale, tra inquietudine e instabilità dei sensi, in netta contrapposizione con il vitalismo ostentato e incredibile agli occhi di uno spirito “naturale” di quella vita borghese che altro non è che un odioso paradigma di normalità.
L’inquietudine dell’artista di fronte alla contraddizione tra sé e il mondo viene suggellata quindi nell’immagine finale del racconto, ossia la gioia assurdamente spontanea sul viso del figlio dei Kloterjahn durante una passeggiata nella natura, una gioia a cui Spinell non può che voltare le spalle, estraneo, inorridito. Un artista è incapace di guarire dalla sua malattia perché, come in preda a una sorta di sindrome di Stoccolma, ne è profondamente innamorato e non sa come poterne fuggire.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    25 Marzo, 2016
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Animo d'artista

Tonio Kröger è un racconto di Thomas Mann pubblicato nel 1903 che sembra ripercorrere molto da vicino la storia personale dell’autore. Quello che fu a lungo il titolo provvisorio della novella, Literatur, rivela la centralità che l’autore attribuiva a quello che è il tema portante dello scritto, ossia la definizione del rapporto dell’artista con la vita.

Tonio è un giovane borghese che fin dall’adolescenza si trova in conflitto interiore tra la natura mercantile del suo contesto familiare, impersonato dal padre, e la sua vocazione artistica figlia di una particolare sensibilità, in comune con lo spirito libero della madre. Sono anni complessi per Tonio, e tutte le difficoltà provengono dal graduale formarsi in lui di un temperamento affatto singolare, di una diversa prospettiva sul mondo e sulle persone, ciò che nella sua maturazione egli riconoscerà come la sua coscienza artistica. Una coscienza sofferta, origine del suo conflitto con se stesso e col suo mondo. Emblematico lo scarto di profondità che Tonio avverte nei confronti di Hans e di Inge, personaggi che su di lui esercitano un fascino atavico con la loro bellezza nordica e il loro superiore distacco, personaggi di un’intrinseca liricità tutta contemplativa, mai concretamente compiuta e tuttavia sempre presente in una dimensione quasi mistica.

“E se gli accadeva di sbagliar strada, ciò era perché per alcuni uomini non esiste una strada giusta. A chi gli chiedeva che cosa intendesse fare nel mondo, dava risposte contraddittorie, perché, come soleva dire (ed anche questo l'aveva già annotato), egli portava in sé possibilità per mille modi di esistenza, insieme alla segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di altrettante impossibilità.”
La presa di coscienza della sua diversità passa per Tonio dall’esperienza della dimensione della concupiscenza dei sensi, dal ritorno tra i ricordi d’infanzia e dal ritrovamento dei vecchi amici; esperienze vissute dal giovane nel segno di un’inquietudine che va man mano maturando fino a diventare consapevolezza della propria indole e scelta di perseguirla, perché diversamente non potrebbe fare. 'Un borghese per strade sbagliate' lo definisce la sua amica Lisaweta, testimone del passaggio di Tonio dal conflitto esistenziale tra vita e arte alla loro assimilazione e compenetrazione in una vita fatta di inquietudine, di contemplazione dall’alto sulla vita propria e degli altri, di amore per la felicità, di felicità per la coscienza del proprio combattuto destino, di isolamento drammatico. Significativa è la costante musicalità stilistica sottesa alla scrittura spesso simbolista, a dare la cifra di un’opera tutta umana. Non è certo un caso, d’altronde, il costante riferimento di Tonio ad Amleto, simbolo per antonomasia dell’io in conflitto interno e alle prese con la difficoltà di vivere conciliando la propria coscienza e le necessità del mondo. Proprio qui risiede il problema posto dall’animo dell’artista.

"La letteratura non è un mestiere, è una maledizione. E quando comincia a diventare percepibile, questa maledizione? Presto, spaventosamente presto. A un’età in cui ancora si dovrebbe vivere tranquillamente, in pace e d’accordo con dio e col mondo. E invece lei comincia a sentirsi segnata, a sentirsi in un’enigmatica contrapposizione rispetto agli altri, alle persone normali, comuni e l’abisso di ironia, di miscredenza, di opposizione, di conoscenza, di sentimenti che la separa dagli uomini si scava sempre più profondo, e lei è sola, e poi non ci sarà possibilità d’intesa."

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    21 Marzo, 2016
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La città malata

“Riposare nella perfezione è il sogno di chi tende all'eccelso, e non è forse il nulla una forma di perfezione?”
Il vecchio signor Aschenbach è un uomo sospeso tra i romantici impeti, le passionali aspirazioni del suo animo, e la decadente consapevolezza di sé, della propria età, della propria solitudine. Una natura in costante conflitto interno tra la rassegnata accettazione e l’incontrollabile desiderio di non accettare il proprio essere; un fuoco ormai spento e l’ultima scintilla che risale dalle ceneri. In una parola, è un artista.

“In quasi tutti gli artisti è innata la tendenza voluttuosa e ingannatrice ad accettare l'ingiustizia che genera bellezza, a rendere omaggio e mostrare simpatia alla predilezione aristocratica.”
Come ogni artista, il vecchio signor Aschenbach vive delle sue lacerazioni, le ama quanto la sua stessa vita, esse sono la sua vita, i suoi sensi e la sua ragione. E’ un artista amante della bellezza, della sua immateriale inconoscibilità e della sua materiale esperibilità. Un artista in continuo contatto con le zone oscure della mente umana, con l’ineffabile voluttà, con l’ancestrale richiamo naturale della bellezza pervasiva, astratta ma concretamente immanente, fino a fargli accarezzare la pederastia. Un artista volutamente inquieto, diviso tra la passione imperante e la coscienza della vecchiaia, tra il desiderio e la paura. Un artista che ha fatto della solitudine la sua dimensione e giustificazione, della sua interiorità l’abisso in cui amabilmente sprofondare per vivere di bellezza e non di morale.

“La solitudine genera l'originalità, la strana e inquietante bellezza, la poesia, ma anche il contrario: l'abnorme, l'assurdo, l'illecito.”
Un artista della vita e della conoscenza, viaggiatore solitario per la caliginosa Venezia, che col suo grigio ipnotico si traduce in un paesaggio dell’anima in preda ai suoi fumi onirici. Venezia è una città romantico-decadente, una città di passioni e di nostalgiche rimembranze. E’ una città combattuta tra la bellezza ammaliante del mare e la cupa atmosfera di invadente tensione del cielo. E’ una città dell’irrealtà e del “forte sentire”. Come la sua anima, anche Venezia è una città affascinante proprio perché manifestamente malata, anche Venezia è un mondo chiuso e straripante. Inevitabilmente anche Venezia è destinata a morire sotto i colpi della peste, come Aschenbach sotto quelli della sua passionalità.

“Questa era Venezia, la bella lusinghiera e ambigua, la città metà fiaba e metà trappola, nella cui atmosfera corrotta l'arte un tempo si sviluppò rigogliosa, e che suggerì ai musicisti melodie che cullano in sonni voluttuosi.”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    27 Febbraio, 2016
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Tutto quel che ho amato al mondo!

Notre-Dame de Paris è il grande romanzo che nel 1831 consegnò Victor Hugo alla fama letteraria di cui ancor oggi gode. Considerato un testo proemiale in relazione al Romanticismo francese, di cui Hugo è stato acclamato iniziatore, esso sviluppa un nuovo tipo di genere letterario, il romanzo inteso come un teatro epico.

Ecco dunque che la Parigi del tardo Medioevo diviene l’ambientazione di una vicenda troppo ampia e maestosa, com’è d’uso in Hugo, per essere sintetizzata. Al centro delle attenzioni dell’autore vi è sempre l’uomo, questo puntino insignificante nell’economia dell’universo di cui viene messa in risalto la sublime grandezza interiore. L’infinito, tema centrale all’interno della corrente romantica, viene qui applicato all’anima dei personaggi, che per le strade di Parigi recitano la loro parte nella storia, oscillando continuamente tra santità e abiezione, tra gloria e miseria, tra sogno e realtà, tra luce e buio. I personaggi che Hugo ritrae in questo dipinto di parole presentano le innumerevoli sfumature dell’umanità sotto i più disparati aspetti. Sul piano sociale, sono rappresentati tutti gli ambienti della società parigina: la corte del re e gli aristocratici con i loro altarini, i miserabili come Quasimodo o Esmeralda con la loro dignità umana, il clero tra le contraddizioni dell’animo dell’arcidiacono Claude Frollo, gli uomini di cultura sognatori come Pierre Gringoire, la massa popolare della quotidianità, i giovani scapestrati e i carcerati. Sul piano morale è rappresentato lo scontro costante tra bene e male nella storia ma soprattutto nell’animo di ogni uomo, cosicché ogni apparenza di linearità etica è sovvertita, messa in discussione da eventi, passioni e necessità esterne ed interne; dunque un arcidiacono può diventare un mostro e una zingara ritenuta l’immagine del diavolo l’emblema della purezza, un barone può diventare un profittatore e una vecchia carcerata una madre pronta a perder la vita il nome dell’amore, uno storpio scherzo della natura può diventare un salvatore. Ecco dunque, ancora una volta, la rivincita dei miserabili, di un press’a poco come il reietto Quasimodo, di una zingara eterea ai margini della società, di una vecchia pazza che smarrito ogni barlume di razionalità, su quelli che oggi chiameremmo i benpensanti, il fior fiore della società, la guardia reale impietosa, un arcidiacono troppo umano per essere inflessibile nel suo ruolo, un filosofo fuori dal mondo e un popolo ciecamente assuefatto alla disumanità e alle contraddizioni della società parigina.

E come l’anima di ogni uomo è il suo centro portante, il suo punto focale nel rapporto col mondo, allo stesso modo la confusionaria e distratta Parigi è dominata dalla maestosa immagine della cattedrale di Notre-Dame, la cui descrizione non è meno minuziosa di quella che l’autore riserva ai personaggi. Vera e propria anima della città, la cattedrale diviene un punto di convergenza per tutti i personaggi coinvolti, un punto di osservazione sul mondo tra ammirazione e sgomento, un punto di riflessione tra passioni e accadimenti. E’ all’interno della cattedrale che si consuma massimamente il conflitto tra bene e male che attanaglia i personaggi ed è all’interno della cattedrale che l’anima si dispiega nella sua sublime magnificenza ed abiezione. La cattedrale non è solo il punto di partenza ed il punto di arrivo del romanzo, ma è anche il suo intero percorso con le sue ramificazioni e deviazioni. In conclusione, tutto si riconduce inevitabilmente alla scritta su una delle torri, Ananke, termine greco che indica l’assoluta necessità del Fato, che come un’ombra domina sulla vita degli uomini tenendo le redini nella loro lotta con la vita, al termine della quale non è cosa da poco poter dire Tutto quel che ho amato al mondo! di fronte a qualcuno, prima di tornare polvere.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    21 Febbraio, 2016
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Misteri al chiaro di luna

Salomè è un’opera teatrale scritta in francese da Oscar Wilde nel 1891 per l’attrice Sarah Bernhardt e che fu al centro di polemiche sia a proposito della sua messa in scena, dal momento che Wilde veniva in quegli anni travolto dallo scandalo e, per di più, si trattava di un’opera che suscitava scandalo, sia della sua traduzione in lingua inglese, inizialmente affidata a Lord Alfred Douglas, “Bosie”, rivelatosi però inadeguato. Si tratta di una tragedia in atto unico che trae spunto da un evento biblico che ha avuto fortuna nella storia della letteratura, nonché delle arti musicali, e che Wilde rielabora, inserendolo nel contesto della sua peculiare esperienza artistico-letteraria. Non sorprende che un’opera simile, estremamente dissacrante nel suo essere antitetica ad ogni senso morale e incentrata sul fascino perverso del Male, abbia fatto scandalo nei puritani e moralistici ambienti della borghesia inglese che Wilde tanto detestava. Impreziosita altresì nella prima pubblicazione dalle immagini del discusso Aubrey Beardsley, Salomè è un’esperienza unica nel generalmente leggero teatro dell’autore inglese: anche attraverso le illustrazioni, essa sembra suggerire un rapporto tra la protagonista, sintesi sacrilega ed erotica dell’esperienza decadente, e l’autore, in un suo percorso personale di approfondimento della potenza seduttiva e distruttiva degli impulsi generati dalla bellezza, tema, come noto, centrale nell’intera vita reale e letteraria di Oscar Wilde.

La vicenda si svolge durante un banchetto nel palazzo in cui Erode, re di Giudea, vive con la sua compagna Erodiade, ex moglie del fratello. Un dialogo tra il giovane siriaco e altri soldati vede al centro la bellezza della luna splendente e quella della giovane Salomè, figlia di Erodiade. Questa è fortemente attratta da Iokanaan, il profeta Giovanni Battista, che, rinchiuso sul fondo di una cisterna, predice sciagure ai tracotanti sovrani di Giudea. Tuttavia Iokanaan rifiuta con sdegno le avances sessuali dell’incontenibile fanciulla, che lo vuole baciare. Mentre il giovane siriaco, di lei innamorato, si uccide nell’assistere a questa scena, e Iokanaan continua a inveire contro l’indignata Erodiade, Erode, affascinato dalla fanciulla, chiede a Salomè di eseguire per lui la danza dei sette veli: in cambio lei otterrà ciò che vuole. Salomè dunque danza nel sangue del giovane siriaco e, al termine, chiede al re la testa del profeta, per la soddisfazione della madre e l’orrore del re. Inizialmente ritroso nell’ucciderlo, Erode è alla fine costretto a mantenere la sua parola e consegna la testa di Iokanaan alla fanciulla, che con soddisfazione bacia la sua bocca. Erode, sgomento per tale scena, ordina ai soldati di uccidere Salomè e così si chiude il dramma.

Opera di difficile lettura e interpretazione, questa tragedia ruota attorno a due motivi principali, la luna e gli impulsi, che si collegano per generare un’aura di profondo e impenetrabile mistero a tinte macabre. Per quanto riguarda il tema della luna, il suo chiaro splendore è introdotto sin dalla prima scena ed è un elemento che rimane sullo sfondo, costantemente rievocato con forza, durante tutta l’estensione del dramma. La presenza della luna in tutta la sua bellezza viene dunque immediatamente associata alla fascinosa e inattingibile bellezza della giovane Salomè, che focalizza su di sé l’attenzione di tutti ed esercita un misterioso ascendente. Si sviluppa così il tema degli impulsi, esemplificati nelle morbose parole piene di desiderio rivolte da Salomè a Iokanaan (“Bacerò la tua bocca, Iokanaan; bacerò la tua bocca”) e nell’ammirazione incontenibile di Erode per la fanciulla.
Nasce da ciò un inarrestabile crescendo d’intensità, in cui le parole cedono il passo ai movimenti sulla scena, creando una sorta di atmosfera onirica e misterica che viene portata al parossismo nelle due macabre scene culminanti: la danza dei sette veli eseguita al chiaro di luna nel sangue del giovane siriaco appena suicidatosi e l’esaudimento del desiderio di Salomè, che bacia le labbra del decapitato profeta (“Ho baciato la tua bocca, Iokanaan”), in un trionfalismo minato dalla consapevolezza di esser irretita in un incanto tutto umano. Il metafisico e sacrale mistero che avvolge nell’ombra queste scene, su cui la luna punta i suoi impalpabili riflettori, è rotto dall’ordine dello sgomento Erode di uccidere la fanciulla. Ciò segna la cesura tra l’onirico mondo dell’arte e il ritorno alla vita reale per lo spettatore (o lettore), che certamente al termine del dramma rimane non poco in subbuglio, consapevole di essersi trovato di fronte all’irrazionale mistero dell’umana natura nelle sue dimensioni più scabrose e incomprensibili.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    01 Febbraio, 2016
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Caos e incanto

Sogno di una notte di mezza estate è una delle più celebri commedie di Shakespeare, la cui fama è stata meritatamente perpetuata da innumerevoli riproposizioni e rifacimenti. Tralasciando la trama, la particolarità di questa commedia consiste nell’intrecciarsi e sovrapporsi di tre piani scenici, rappresentanti tre diverse dimensioni della realtà: la cornice delle nozze di Teseo e Ippolita simboleggia il mondo della realtà, le vicende dei quattro giovani amanti nel bosco di elfi e fate il mondo della fantasia e la rappresentazione di Piramo e Tisbe il mondo dell’arte. In tutto ciò l’elemento motore degli eventi è rappresentato inizialmente dall’amore, la cui forza, che spinge i protagonisti ad agire, non va però sopravvalutata nella sua incidenza. L’effetto comico è dato, infatti, dall’apparente casualità secondo cui tutto accade: se infatti già la prima fuga, in cui ciascuno segue i propri amanti, risulta folleggiante, a complicare ulteriormente la situazione intervengono elfi, fate e folletti, ovvero entità che pur rimanendo sconosciute a tutti i protagonisti, riescono a mescolar le carte delle loro vite pur badando precipuamente ai loro interessi. Puck, usando il filtro amoroso e provocando la trasformazione di Bottom, appare come colui che tiene in mano le redini del destino, gestendole in maniera del tutto casuale e disinteressata. Ecco che dunque, tra le passioni e il caso, tutto si rimescola inaspettatamente e imprevedibilmente, le situazioni si ribaltano senza alcuna logica e l’unica cosa che rimane costante è la fuga dei quattro amanti, che ricorda molto da vicino gli inseguimenti per il bosco incantato e nel palazzo di Atlante dell’Orlando furioso di Ariosto. Come in quest’ultimo poema, dunque, e come, in realtà, in buona parte della letteratura del XVI secolo (si pensi pure al Don Chisciotte di Cervantes o all’Elogio della follia di Erasmo), domina una caliginosa sensazione di vanità, d’irrazionalità e di folle irrealtà, che va a culminare con l’impressione di sogno che i giovani avranno al loro risveglio, quando l’arrivo di Teseo e Ippolita li riporterà nel mondo reale.

A cavallo tra mondo della fantasia e mondo reale si pone il mondo dell’arte, su cui Shakespeare apre una fondamentale finestra, caratteristica topica della sua drammaturgia. L’inserzione della rappresentazione di Piramo e Tisbe gli consente di sfruttare a pieno le capacità del teatro all’interno del teatro stesso e di affrontare anche importanti tematiche in relazione ad esso: innanzitutto, interessante è notare come la messinscena degli artigiani si risolva in una farsa, una parodia comica di un soggetto tragico che molte affinità presentava con l’inizio di questo stesso dramma (Piramo e Tisbe fuggono in un bosco perché ostacolati nel loro amore proprio come Lisandro ed Ermia) e che, per di più, proprio in quegli anni Shakespeare rielaborava nella grande tragedia Romeo e Giulietta. La rappresentazione degli artigiani, dunque, giunge a configurarsi come un doppio del dramma in cui è inserito e come una rielaborazione comica di quest’ultima tragedia. Inoltre, l’insistenza sulla goffaggine della rappresentazione e gli evidenti scarsi mezzi a disposizione di questa improvvisata compagnia forniscono a Shakespeare l’occasione di esporre sue idee drammaturgiche e, soprattutto, di parlare, attraverso le parole molto spesso di Teseo nell’ultimo atto, delle precarie condizioni del mondo teatrale inglese di fine Cinquecento: la denuncia della mancanza di mezzi, degli stenti della professione di attore, spesso ridicolizzata, si risolvono in quello che sembra un invito al pubblico ad apprezzare sempre la buona volontà e a collaborare facendo uso della fantasia per sopperire alle manchevolezze economici o anche semplicemente strutturali del teatro elisabettiano. Ciò è ben rappresentato dal prender vita sulla scena di elementi inanimati (il leone, il chiaro di luna, la parete) per i quali i drammaturghi erano soliti affidarsi a didascalie sceniche che affondano le loro radici nel teatro classico.

Da un punto di vista stilistico, Shakespeare mostra come sempre la sua straordinaria perizia nel mescolare abilmente registri diversi, che spaziano dal tono tragico a quello comico, dal tono lirico-elegiaco a quello ideologico, il tutto su uno sfondo filosofeggiante nell’analizzare l’interattività delle varie dimensione del mondo della natura, con la consueta attenzione alla centralità della figura umana in esso.
Tra le tanti fonti che si possono rintracciare, in particolare forte è il debito contratto con la letteratura classica per la realizzazione di questo dramma. A livello strutturale, infatti, questa commedia presenta alcune convergenze con la commedia nuova greca e con quella latina, quali i ricorrenti, seppur privi di regolarità, pezzi cantati a far da sottofondo o separazione tra le scene (oltre a contribuire a conferire un’aura di magia) o lo stesso epilogo cantato che invita il pubblico ad applaudire la rappresentazione, topos della commedia classica. A livello contenustico, poi, oltre all’ambientazione nella mitologica Atene di Teseo e Ippolita e all’utilizzo di nomi tipici della grecità antica, evidente è il rifacimento alle Metamorfosi di Ovidio, in cui si narra la storia di Piramo e Tisbe (e in cui compare il personaggio di Titania; inoltre la trasformazione in asino di Bottom è un chiaro riferimento a L’asino d’oro di Apuleio.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    19 Gennaio, 2016
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L'umanità di un imperatore

Quando Platone nella sua Repubblica auspicava l’avvento di uno Stato in mano ai filosofi, era probabilmente a figure come quella di Adriano che pensava utopisticamente. Nel romanzo di una vita, tra anni di sconforto e di ricerche appassionate mirabilmente documentati negli affascinanti Taccuini, Marguerite Yourcenar traccia il ritratto di uno dei più interessanti imperatori romani. Adriano regnò nel II secolo, il saeculum aureum, periodo di grande prosperità di un impero ormai stabilizzatosi istituzionalmente e territorialmente, ereditato dall’illustre predecessore Traiano, emblema del buon governo. Il motivo della non casuale scelta di questa figura è spiegato dall’autrice stessa, affascinata da un imperatore vissuto in un’epoca di transizione, in cui andava ormai decadendo la fiducia nella religione tradizionale e ancora non si era diffuso il cristianesimo: si tratta quindi di un’epoca che vede inevitabilmente al centro l’uomo e la sua vita continuamente in bilico tra il Titano e l’Olimpico.

Di conseguenza, la Yourcenar esclude ogni traccia di sé stessa nell’opera, lasciando la parola allo stesso Adriano che, in una fittizia lettera al successore Marco Aurelio, traccia la propria autobiografia, ripercorrendo con una vena di nostalgia romantica la sua intera vita, dagli esordi nella carriera politica e la mai celata brama del potere alla morte al termine di un ventennio di regno finalizzato a consegnare ai posteri un impero all’altezza della sua storia, passando per la giornaliera meditazione sulla filosofia e sulle arti, sull’amore e sul buon governo, sull’uomo e sugli dei, sul mondo e sulla sorte, sulla vita e sulla morte. Ulisse costantemente in cerca della sua Itaca, come lui stesso si definisce, l’Adriano approfonditamente studiato e ritratto in maniera storicamente fedele dalla scrittrice francese è un imperatore di cui emerge tutta l’umanità: la rievocazione delle vicende storiche fa da sfondo a un diario di commiato dalla vita e altro non è che uno spunto per indugiare su riflessioni esistenziali, politiche, morali, culturali che accompagnarono la vita dell’imperatore nell’età senza gli dei.

Annullando così la distanza tra un imperatore e un uomo qualsiasi, l’opera viene quindi a sottrarsi alla troppo semplicistica definizione di romanzo storico, raccogliendo e amalgamando in sé l’eredità della letteratura filosofica e del saggio storico. Ne nasce un’opera dal valore universale sull’esperienza umana, come apertamente dichiarato dall’autrice nei Taccuini (“Ogni uomo che ha vissuto l’esperienza umana sono io.”) e di straordinario valore culturale anche in relazione alla storia contemporanea. Più volte infatti è possibile scorgere dei velati riferimenti quasi premonitori alla modernità nelle parole di un imperatore certamente molto avanti rispetto al suo tempo in ambito culturale. E non è un caso che fortissimo sia l’appassionato richiamo di Adriano alla cultura greca, tesoro di tutti quei principi di civiltà, politica ed etica che Roma è riuscita a metter in atto all’ennesima potenza, dando vita a uno splendore culturale che la contemporaneità sembra andar perdendo. Ed è qui che si inserisce il più forte monito, terribilmente attuale, della Yourcenar alla sua era: “Fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.”.

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Poesia italiana
 
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    02 Gennaio, 2016
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Epopea del mito

Le Metamorfosi sono probabilmente il vertice della produzione di Ovidio, che vi si dedicò fino all’8 d.C., quando andò in esilio. Si tratta di un poema epico-mitologico in 15 libri, contenenti una vera e propria raccolta di innumerevoli miti attinti a svariate fonti, che percorrono l’intera letteratura greca e latina.
Ovidio stesso designa la sua opera come un carmen perpetuum, ossia un canto ininterrotto, che parte dalle origini del mondo (il Caos primigenio) e giunge fino alla storia contemporanea (il catasterismo di Cesare e l’apoteosi di Augusto), ricapitolando tutte le storie e i cicli mitici della cultura antica. Il poema si chiude con una sorta di commiato da parte dell’autore, che si autoelogia per la grande opera terminata e ritiene di poter meritatamente aspirare all’eternità grazie alla sua poesia. L’immensa materia di questa epopea del mito – circa 250 sono i miti narrati – non è disposta in maniera del tutto caotica e casuale come appare, ma si possono rilevare alcuni, seppur labili, criteri ordinatori: un criterio cronologico, un criterio spaziale, un criterio d’analogia o di contrasto di metamorfosi o di tematiche, un criterio di legami genealogici tra i personaggi coinvolti.

Nell’accostarsi a questo genere letterario Ovidio non poteva non tener conto dell’illustre precedente, l’Eneide di Virgilio, che recentemente aveva riportato in voga il poema epico, la forma letteraria più confacentesi alla poesia celebrativa; tuttavia, ben conscio della complessità della sua operazione artistica, Ovidio si relazionò al genere in maniera originale, proseguendo in quella degradazione del mito in senso umano che aveva già iniziato nelle Heroides. Dunque i personaggi delle Metamorfosi sono efficacemente rielaborati dal poeta, che in tono distaccato narra le loro storie che vedono spesso protagonista l’amore, la più umana delle passioni: di conseguenza l’umanizzazione va a coinvolgere non solo gli eroi e le eroine del mito, ma persino le divinità, vittime degli stessi sentimenti che caratterizzano l’uomo. Peraltro, il ricorrente ritorno del tema erotico è funzionale ad instaurare un elemento di continuità con la passata produzione elegiaca e didascalica del poeta.
La struttura stessa dell’opera, poi, ricollega il poema, più che all’universale modello virgiliano da poco impostosi, ai dettami della poesia alessandrina: il rifiuto che essa prevedeva nei confronti del poema epico di ampie dimensioni, infatti, non cozza con l’opera ovidiana dal momento che quest’ultima è, in definitiva, costituita da una serie di storie in sé autonome e conchiuse, dunque veri e propri epilli, legati tra loro dalla metamorfosi. Il tema della metamorfosi è dunque il filo rosso sotteso all’intero poema, che si propone di narrare la storia dell’uomo secondo l’ininterrotto divenire. Illuminante a proposito del concetto di metamorfosi è il lungo discorso di Pitagora nel XV libro: nell’illustrare la teoria della metempsicosi, il filosofo dimostra che tutto sia in costante evoluzione e come la materia sia continuamente soggetta a un mutamento di forme che mai lascia andar perduta l’essenza. In tutte le metamorfosi che vengono descritte c’è sempre un elemento di continuità che si preserva nel passaggio dalla forma precedente a quella nuova, proprio come accade nella metempsicosi pitagorica.

Molto si è discusso a proposito delle implicazioni politiche sottese a tale opera. Ben noto è infatti che Ovidio, pur appartenente al circolo di Mecenate, ebbe rapporti non sempre perspicuamente positivi con Augusto e la sua ideologia, nei confronti della quale la sua produzione letteraria non può che suggerire un certo contrasto. Di conseguenza, se la coltivazione del poema epico rispondeva ai dettami della poesia celebrativa che il circolo imponeva, d’altro canto la scelta di una simile materia mitologica sottraeva Ovidio a una non sentita servile adulazione. Pertanto, gli estremamente sporadici riferimenti alla gloria della Roma augustea e l’ultima sezione, con la narrazione della trasformazione in stella di Cesare e dell’apoteosi di Augusto, sono probabilmente da intendere come meri atti di omaggio dovuti. Eppure, dietro di essi non si è mancato di scorgere un’ambiguità di fondo, che sembra, pur glorificando l’attuale splendore Roma, presagire un futuro inesorabile declino. Il culmine di ciò si trova nel commiato, dove la speranza di una propria personale fama eterna non è affidato alla potenza di Roma, ma alla propria poesia, unico mezzo per garantirsi l’immortalità.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    26 Dicembre, 2015
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Il ribaltamento della fortuna

Portando in scena una tragedia incentrata sul dolore della guerra di Troia, tema molto caro al tragediografo, risulta evidente il messaggio di Euripide. Nel 415, infatti, Atene era impegnata nella guerra del Peloponneso e recente era la violenta distruzione dell’isola di Melo, che ci è narrata da Tucidide. Con questa tragedia, dunque, Euripide denuncia le atrocità della guerra, insistendo reiteratamente sulla distruzione in un’atmosfera luttuosa e mettendo sullo stesso piano il destino dei vinti e quello dei vincitori. Il primo tiene patentemente banco in tutto il dramma, come peraltro segnalato dalla costante presenza in scena di Ecuba, che nell’utilizzo dell’illustre metafora nautica, giunge ad identificarsi con la stessa Troia in rovina; Ecuba dunque prorompe in una serie ininterrotta di lamenti, denunciando i mali e le sofferenze che gli sconfitti patiscono e ponendo l’accento sulla crudeltà degli Achei. Il ribaltamento della fortuna, la metabolé, coinvolge Troia, ora desolata da ricchissima che era e tutte le donne troiane, vittime dell’insensata crudeltà achea: la profetessa vergine Cassandra prima violata da Aiace e poi da Agamennone, la nobile vedova Andromaca assegnata in nuove nozze a Neottolemo, l’innocente Polissena sacrificata vanamente alla tomba di Achille, Ecuba assegnata ad Odisseo, il più odiato dei Greci. Il culmine della sofferenza è raggiunto nella violenta uccisione del piccolo Astianatte, di cui viene incolpato, in particolare, Odisseo stesso. Il destino nefasto che attende gli inconsapevoli Greci è, invece, il rovescio della medaglia: essi si sono macchiati di una serie interminabile di atti di hybris, conducendo una guerra ingiusta in modo atroce e inutilmente crudele. La "Hybris", l'Empietà, si pone come elemento all’origine di tutti i mali, unificando quelle che sono state talora considerata scene slegate giustapposte nella tragedia. All’empietà dei Greci si contrappone quindi la dignità dei Troiani, preservata anche nella sorte più sciagurata e nella più funesta disperazione. Il messaggio antibellicista di Euripide, che sarà rilanciato nel 412 con l’Elena, giungendo ad affermare che si è combattuto per un simulacro d’etere, non è tuttavia privo di prospettiva storico-politica: il tragediografo, infatti, come ben dimostra nel discorso di Cassandra, è ben consapevole della necessità politica della guerra; ciò che lui denuncia, dunque, è l’atrocità con cui essa viene combattuta, lanciando una veemente critica all’atteggiamento da iniqui dominatori che gli Ateniesi avevano tenuto nei confronti dei Melii, di cui l’anno prima avevano fatto strage appellandosi alla legge del più forte per giustificare un violento imperialismo.

Interessante è il modo in cui Euripide si rapporta con il mito, nonché con altri suoi drammi similari. Egli trae la materia narrativa dall’Iliade e dai poemi del ciclo post-omerici, in cui era già narrato il destino delle donne troiane dopo la guerra e l’uccisione di Astianatte scaraventato dalle mura. Tuttavia, com’è sua abitudine, il tragediografo rivisita originalmente il mito in maniera funzionale ai suoi scopi. La variazione sul tema è ben evidente fin dall’inizio: Poseidone infatti era stato tradizionalmente uno dei più acerrimi nemici dei Troiani in Omero, mentre qui viene presentato come alleato di Troia in ossequio alla leggenda che ne attribuiva la fondazione a lui e ad Apollo. Ciò è funzionale a contrapporlo a Pallade, di cui viene significativamente messa in risalto la volubilità, nel voltar rapidamente le spalle ai Greci, da sempre protetti, perché offesa: riecheggia qui la polemica contro la religione tradizionale portata avanti da Euripide, che sosteneva l’indifferenza degli dei alle vicende umane, attribuendo loro un atteggiamento di ostilità. Centrali sono poi, ovviamente, le figure delle donne troiane che compaiono. Su tutte domina, evidentemente, Ecuba, che da regina si avvia a diventar schiava e per tutta la tragedia lamenta la condizione di Troia. Interessante è poi la figura di Cassandra, vergine più volte violentata, che, assimilata a una menade nel suo delirio, predice da invasata la morte sua e di Agamennone: tuttavia, a differenza di quanto narrato da Eschilo nell’Agamennone, si presenta come causa principale del doppio omicidio, trascurando le altre colpe che già da tempo aleggiavano sulla casa atride. Nel suo discorso inoltre Cassandra recupera la razionalità per dimostrare, come una retore, che la sorte dei Troiani è migliore di quella dei Greci. In particolare, di sicuro impatto doveva essere la scena del suo ingresso, che sovrapponeva il rituale funebre a quello nuziale; nel continuo passaggio dalla razionalità all’invasamento, l’attore che la interpretava doveva certamente rendersi protagonista di un pezzo di bravura. Per quanto riguarda Andromaca, essa è presentata come un personaggio quasi di statura filosofica nel tentar di dimostrare nel suo discorso come morire sia meglio che vivere nel dolore. Essa si contrappone ad Ecuba nel concentrarsi solo sui suoi mali; d’altra parte, è accomunata all’Elena del 412 nell’attribuire le sue disgrazie presenti alle sue migliori doti, che ne hanno procurato la rovina. Per la precisione, le doti a cui Andromaca fa riferimento (peraltro “dimenticando” un’unica trasgressione narrata nell’Iliade) sono quelle tipiche della donna greca, quelle stesse condizioni a cui Medea si ribellava nel celeberrimo monologo del 431. Esaltando la propria virtù come donna e moglie, Andromaca si pone in radicale contrasto con Elena. Quando Elena fa il suo ingresso in scena, infatti, invece di mostrarsi umile come dovrebbe fare in quanto prigioniera e colpevole della guerra, palesa un atteggiamento arrogante nei confronti dell’inetto e degradato millantatore Menelao, messo in ombra nello scontro verbale tra lei ed Ecuba. Elena si presenta come un’astuta e perfetta retore, in grado di sovvertire i gradi di verità e divenendo, da colpevole che era, non solo vittima della violenza altrui (Afrodite, Paride, Deifobo) ma anche ingiustamente condannata, dal momento che sarebbe meritevole di lodi per aver salvato la Grecia. La sua capziosa insolenza si spinge addirittura a condannare Era e Pallade, mettendole alla berlina. Le dee saranno però difese da Ecuba, che tuttavia, nel suo discorso di replica, si spinge troppo oltre nell’esagerazione, probabilmente perché Euripide non voleva che il pubblico si identificasse in lei, almeno in questa fase. Lo scontro tra Ecuba e Elena è precipuamente finalizzato ad un’esibizione di vacua retorica di stampo sofistico, la quale era stata peraltro già criticata nella veemente polemica verso l’abilità oratoria di Odisseo. Proprio quest’ultimo è ancora protagonista di un’innovazione radicale di Euripide nei confronti dell’epos tradizionale: eroe positivo per eccellenza a partire da Omero, in questa tragedia e in tutta la trilogia (in particolare nel Palamede) Odisseo è presentato in maniera estremamente negativa come un ingannatore incurante delle leggi divine e umane.

Dal punto di vista linguistico, poi, si segnala la forte insistenza sul lessico funebre, con molteplici e vari riferimenti al dolore, al pianto, alle lacrime, alla rovina e alla morte; il lessico funebre viene poi mescolato, con straordinario effetto scenico, a quello nuziale da Cassandra, che innalza così un ambiguo e sinistro canto delirante. Al tono cupo, si affianca poi il linguaggio tipico della retorica nei vari monologhi recitati con razionalità e abilità dai personaggi. Si aggiunga a ciò l’insistenza sui termini indicanti la buona sorte e la sciagura, messe in relazione dal concetto di metabolé che percorre l’intero dramma. Prevale quindi un tono epico e solenne, che ben rende il forte pathos che domina la tragedia.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    23 Dicembre, 2015
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Insegnare l'amore

L’Ars Amatoria è generalmente considerata uno dei vertici della produzione di Ovidio, come dimostrato dall’ingente fortuna successiva del testo. Si tratta di un poemetto didascalico sui generis articolato in 3 libri.
La caratteristica principale dell’opera è la distorsione del genere che l’autore attua. Pur inserendosi nella tradizione della poesia didascalica, infatti, Ovidio marca la sua originalità nel rapporto che instaura col genere letterario. Già il titolo è indicativo: Ars Amatoria è infatti un’espressione concettualmente ossimorica, dal momento che si vuole insegnare una doctrina per un sentimento, quale la passione amorosa, che di per sé sfugge ad ogni controllo e ad ogni regola. La materia di questo pseudo-poema didascalico induce poi Ovidio ad utilizzare non l’esametro epico, ma il distico elegiaco tipico della poesia d’amore. Questi elementi, unitamente al linguaggio tipico del trattato scientifico, contribuiscono a generare l’ironia ovidiana, che mette in diretta comunicazione l’autore coi suoi lettori.

I primi due libri sono dedicati ai ragazzi, che il poeta istruisce su dove trovare le donne, come approcciarsi a loro per sedurle, come conquistarle e come tenerle poi saldamente legate a sé. Il terzo libro è invece dedicato alle donne, cui si forniscono consigli di seduzione, di bellezza, di conquista e asservimento degli uomini. Al termine del secondo e del terzo libro l’autore pone un suo sigillo autoriale.
Ovidio si pone dunque come praeceptor amoris, proponendosi di insegnare l’amore ai suoi lettori e non mancando comunque di sottolineare la difficoltà della sua missione, dal momento che le tecniche di corteggiamento variano da persona a eprsona. Tuttavia, a differenza dei poeti elegiaci che lo avevano preceduto in questo ruolo (Tibullo, Properzio), egli scinde la sua esperienza d’amante da quella di insegnante, cosicché il patrimonio elegiaco viene dal poeta ereditato e rielaborato nell’ambito delle strategie seduttive. I principali metodi di seduzione e conquista proposti sono l’inganno e la simulazione/dissimulazione. Essi sono infatti le armi più efficaci che gli amanti hanno a disposizione e che si concretizzano in doni e trucchi, finte blandizie e lacrime, false scenate di gelosia e tradimenti accettati, da una parte e dall’altra. In questo modo, quasi in una parodia dei topoi elegiaci, ha luogo l’amore, in cui ogni aspetto prettamente sentimentale è assente a favore della ricerca del piacere sessuale. L’amore è presentato quindi come un "lusus", un gioco piacevole e gradito ed è descritto in una dimensione mondana e pubblica; ciò rende l’opera una splendida testimonianza della vita degli ambienti galanti della Roma augustea, rappresentata in uno stile di grande eleganza e, peraltro, arricchito dall’ingente patrimonio mitico, che interviene di frequente a esemplificare gli insegnamenti e a spezzare la monotonia di un’enumerazione di precetti.

L’opera è dunque con tutta evidenza una delle migliori testimonianze dell’abilità e della consapevolezza artistica di Ovidio, che tuttavia non fece adeguatamente i conti con i rischi socio-culturali che essa comportava. L’Ars amatoria, infatti, contrastava ampiamente con il programma di restaurazione morale all’insegna dei prisci mores proposto da Augusto, in particolare nella sezione riguardante le donne. Di questo il poeta doveva con tutta probabilità esser consapevole, come dimostra il fatto che più volte nell’opera egli dichiari apertamente di rivolgersi alle donne libere, dunque le schiave e le liberte, e non alle matrone romane, madri di famiglia e maritate a uomini insigni. Tuttavia ciò non bastò e fu questo il "carmen" che, unitamente all’"error" (probabilmente il coinvolgimento di Ovidio in uno scandalo erotico di corte con al centro Giulia, figlia di Augusto), procurò al poeta l’ingiunzione di esilio nella barbara Tomi, dove egli concluse la sua vita nel rimpianto della mondanità romana da lui tanto amata.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    22 Ottobre, 2015
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Uomini e potere

Tra le più apprezzate opere shakespeariane, anche per la particolare potenza stilistica e linguistica dei versi in questione, si ritiene che il Giulio Cesare utilizzi materiale della storia antica per stimolare la riflessione sulla storia contemporanea; in particolare, si ritiene che il dramma rifletta l’inquietudine del regno inglese all’avvicinarsi della morte della regina Elisabetta I, che, non avendo questa eredi, avrebbe rischiato di gettare l’Inghilterra in analoghi conflitti interni.

Protagonista della tragedia non è dunque Giulio Cesare in sé, o Bruto come da molti ritenuto, ma è proprio la morte di Cesare, con ciò che la precede e ciò che essa provoca. Decisamente in secondo piano appare dunque, in realtà, proprio il personaggio che dà il titolo all’opera, in particolare in relazione agli altri personaggi. Magnanimo, coraggioso e ambizioso (“I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l'uomo di coraggio non assapora la morte che una volta. La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà.”), Cesare è vittima del mero malanimo dei congiurati e di Cassio, spinti ad ucciderlo perlopiù da motivi di onore personale e da interessi propri dei Senatori, timorosi di essere esautorati da un potenziale dittatore (“Non so quel che pensiate, tu ed altri, di questa vita, ma, per conto mio, meglio vorrei non essere mai nato che viver nel terrore d'un mio simile, d'un uomo in carne ed ossa come me.”). Ben diverso è il discorso da fare a proposito di Bruto, che, come egli stesso dichiara, ama profondamente suo padre adottivo, ma ama ancor di più la sua patria, che egli ritiene in pericolo a causa di Cesare (“L'abuso di grandezza si avvera quando essa disgiunge la tenerezza d'animo dal potere.”). Bruto, dunque, non è mosso da interessi personali né tantomeno da odi privati e preesistenti, ma è suo malgrado costretto a unirsi alla congiura in nome del suo forte senso di giustizia e amor di patria. D’altronde, la moralità e l’onore incarnati da Bruto emergono anche nel momento in cui questi accusa di corruzione il fidato amico Cassio, mostrando di aver a cuore la giustizia e il bene di Roma più di ogni altra cosa. Un riconoscimento al suo valore, rispetto a Cassio e agli altri congiurati, è la concessione delle onoranze funebri da parte di Antonio, che gli dedica, in chiusura del dramma, un memorabile e meritato encomio: “La sua vita fu onesta e così piena delle sue qualità che la natura potrebbe alzarsi e dire all'universo: "Questi era un uomo! "”. Marc’Antonio poi, come accadrà tanto nella storia reale quanto nel dramma shakespeariano Antonio e Cleopatra, si presenta anche qui come un personaggio ambiguo. Il suo astuto e veemente discorso al pubblico (“Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.”), a tradimento degli accordi pattuiti con Bruto, è evidentemente finalizzato a rivoltare l’opinione pubblica contro i cospiratori; tuttavia, se in un primo momento poteva sembrare che la sua motivazione fosse l’incrollabile fedeltà verso Cesare, gli accordi presi segretamente con Ottaviano, nipote di Cesare, lasciano trapelare con forza il più che fondato dubbio di interessi di potere anche da parte sua. E’ dunque evidente che la tematica principale del dramma sono gli scontri a cui il potere può condurre; e a farne le spese sono anche uomini non colpevoli di nulla, come Cesare, o mossi da buone intenzioni, come Bruto, gli unici personaggi del dramma rispondenti al ritratto del vir romanus. A questi personaggi principali bisogna poi aggiungere la massa informe costituita dal popolo e dai soldati: questa, nel limitato spazio del funerale di Cesare, evidenzia tutta la sua incapacità e influenzabilità, cambiando idea al cambio dell’oratore; si tratta certamente di un terreno fertile per gli aspiranti dittatori, pertanto anche il popolo entra a buon diritto nel novero dei colpevoli degli scontri intestini e della rovina della patria.

Oltre al potere, altre tematiche tipicamente shakespeariane che si possono rintracciare nel dramma sono: l’importanza il rapporto dell’uomo con la fortuna e col destino, espresso da Cassio in una frase molto significativa (“C'è una marea nelle cose degli uomini che, colta al flusso, mena alla fortuna; negletta, tutto il viaggio della vita s'incaglia su fondali di miserie.”); la riflessione sul teatro, presente in una battuta sul comportamento dei congiurati, paragonato al ruolo dell’attore, che, secondo Shakespeare, deve recitare con animo solido e nobile fermezza, senza lasciar trasparire i pensieri reali: strettamente connesse a ciò sono l’importanza dell’arte della parola e la dissimulazione, elementi tipici di una situazione politica confusa, in cui tali fattori possono rivelarsi determinanti e vincenti.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    02 Ottobre, 2015
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Ebbrezza e solitudine

Protagonista è Jaromil, un giovane cresciuto da un padre che non lo voleva e da una madre che riponeva in lui tutta la sua vita e le sue speranze di ritrovare una felicità e un amore ormai perduti. Fin dalla gravidanza e dalla nascita, la via di Jaromil è segnata: la madre idolatrava Apollo e la sua lira, auspicando un figlio poeta. E in effetti i suoi sogni sembrano concretizzarsi, perché fin da bambino il protagonista mostra un’elevata sensibilità artistica soprattutto nel campo delle parole. Ecco dunque che Jaromil, crescendo tra mille debolezze e difficoltà, diventa il poeta, autore di versi incomprensibili ed ermetici. Tuttavia di pari passo con la sua attività poetica va la sua solitudine.
“Capiva che veramente adulto è solo chi è libero padrone di uno spazio chiuso dove può fare tutto quello che vuole senza essere osservato né controllato da nessuno.”
Il rifiuto, la stranezza e l’alienazione dal mondo reale che la sua sensibilità gli impone, fanno sì che Jaromil si chiuda in una torre d’avorio dove il suo spazio è la poesia, nutrita non dalla realtà ma dalla sua immaginazione, l’unico luogo in cui il giovane poeta può realizzare i suoi impulsi e tutto ciò che la vita gli nega. Egli giunge a immaginare e immedesimarsi in un suo alter ego, Xaver, che vive romanticamente di avventure, alla giornata, senza radici e legami, senza altri interessi se non il vivere la sua libertà: "Il peggio non è che il mondo non sia libero, ma che la gente abbia disimparato la libertà".

Solo in questo modo dunque Jaromil riesce a recuperare un accordo col mondo, attraverso l’ebbrezza illusoria concessagli dal lirismo per sfuggire all’intollerabile solitudine.
L’avvento della rivoluzione comunista, di cui Jaromil era sostenitore, peggiorerà ulteriormente la situazione: il coinvolgimento ideologico e il successo di Jaromil come poeta di regime grazie a versi più scadenti ma più facilmente apprezzabili, non faranno che aumentare il distacco del protagonista dalla realtà e la sua fallace identificazione con l’eroico Xaver. Jaromil esercita così un illusorio controllo sulla sua vita, sentendosi potente nel prevaricare la sua ragazza o nel ribellarsi all’ingombrante presenza di sua madre, vivendo il sesso come una prova di virilità e crescendo in sfida con se stesso, ma senza conoscersi realmente.

Arriva però poi il momento in cui l’illusione si rompe e l’ebbrezza viene distrutta: Jaromil viene riportato alla realtà e comprenderà che, come disse Rimbaud, poeta francese a cui spesso si richiama, “la vita è altrove”, altrove rispetto al lirismo inebriante, rispetto all’onnipotenza dell’immaginazione, rispetto al travolgente idealismo politico, rispetto all’abisso della solitudine.
La vita è altrove perché è negli impulsi e nelle loro contraddizioni, nel loro appagamento e nella loro delusione, nel pensiero e nella sensazione; né amore, né poesia, né sesso, né politica possono sostituirla o riempirla.


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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    20 Settembre, 2015
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Il macigno rotola ancora

Sisifo, dipinto tradizionalmente come il più scaltro dei mortali, è un personaggio della mitologia greca; punito per aver osato sfidare gli dei, fu costretto da Zeus a far rotolare un enorme macigno dal pendici alla sommità di un monte, per vederlo poi puntualmente ricadere giù una volta giunto in cima.

Nella sua dissertazione sull’assurdo Albert Camus strumentalizza l’eterno mito, fornendone una lettura metaforica funzionale alla tesi da lui sostenuta nel saggio. Proprio come Sisifo, costretto ad una fatica che si rivela costantemente vana, l’uomo si trova, non per sua volontà, a dover spingere il suo macigno per le impervie vie della vita, con l’amara consapevolezza che alla fine di tutto non ci sarà che la morte, vanificazione di ogni sforzo in rapporto al mondo. In ciò risiede l’assurdo, vera e propria condizione esistenziale per l’uomo: “A questo punto del proprio sforzo, l'uomo si trova davanti all'irrazionale e sente in sé un desiderio di felicità e di ragione. L'assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo.”

Come porsi dunque di fronte al proprio ineluttabile destino mortale e alla consapevolezza dell’assurdità della vita? Se “un uomo è sempre preda delle proprie verità”, non resta dunque che la scelta tutta umana tra la contemplazione e l’azione. L’astratta contemplazione dell’esistenza, caratteristica tipica dell’esistenzialismo, conduce sulla via del suicidio, che Camus analizza come fenomeno filosofico. L’autore giunge così a dimostrarne l’inutilità, secondo un’argomentazione strettamente antropologica e mai sconfinante in banali moralismi, religiosi e non. Da un lato, il suicidio fisico fisico non risolve il problema dell’assurdo, dall’altro il suicidio spirituale, consistente nell’affidarsi totalmente a una potenza assoluta esterna (il Dio di Kierkegaard, la Ragione di Husserl) non fa che sviarlo illusoriamente. Il suicidio, ovvero l’oblio della consapevolezza, non è una risposta umanamente ragionevole a un umano problema.

“Quanto rimane, è un destino di cui solo la conclusione è fatale. All'infuori di questa unica fatalità della morte, tutto – gioia o fortuna – è libertà, e rimane un mondo, di cui l'uomo è il solo padrone.”. Chi, al contrario, sceglie l’azione indirizza se stesso sulla via della libertà. La presa di coscienza della natura della vita da parte dell’uomo assurdo deve essere accompagnata dall’accettazione di questa convivenza forzata con i suoi mali, non dal vano ed illusorio tentativo di guarire da essi. In questo modo l’uomo assurdo, nello spazio limitato e soggetto a regole incontrollabili della sua esistenza, avrà compiuto la sua rivolta contro il destino e contro se stesso e si sarà conquistato la sua libertà. Libertà che è creazione, che è arte, che è vivere, che è soprattutto sopportare. Una libertà che nulla ha a che fare nemmeno col superuomo di Nietzsche, che col suo nichilismo rischia pericolosamente di cadere nel relativismo e in un’illusoria speranza di felicità da onnipotenza. La felicità non sta nel vivere tutto potendo, ma nella lotta contro il non poter tutto, poiché in questo consiste l’assurdo. Bisogna che il macigno continui sempre a rotolare.
“Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    15 Settembre, 2015
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Un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua p

La storia si snoda lungo due direzioni tra loro legate. La nobildonna Porzia, a Belmonte, è stata promessa in sposa dal padre defunto a colui che riuscirà a risolvere il gioco dei tre scrigni, d’oro, argento e piombo: solo chi sceglierà quello contenente il ritratto della giovane donna ne otterrà la mano. Il veneziano Bassanio vuole provare, ma non dispone del denaro necessario per il viaggio; perciò il suo amico Antonio decide di farsi prestare del denaro dal mercante ebreo Shylock, ritenuto un avido usuraio. Qualora il denaro non venga restituito entro la scadenza fissata, Antonio dovrà rendere all’ebreo una libbra di carne. Bassanio risolve l’enigma e, scegliendo lo scrigno di piombo, trova il ritratto della donna, con la quale nel frattempo era anche inaspettatamente nato un sentimento vero. La gioia viene però subito oscurata da una tragica notizia: le navi che trasportavano i beni di Antonio sono affondate, pertanto Antonio si trova a dover fronteggiare Shylock, il quale, per vendetta verso i cristiani come Antonio che lo maltrattano sempre e anche adirato per la fuga d’amore di sua figlia Jessica col cristiano Lorenzo insieme ai suoi beni, è deciso a far valere la propria obbligazione. Mentre Bassanio e il suo seguito si precipitano a Venezia con il doppio dei soldi dovuti, nella vana speranza di convincere Shylock, Porzia e Nerissa escogitano un piano: si travestono dunque esse stesse da giudice e scrivano, presiedendo al processo di fronte al Doge di Venezia. Dopo iniziali difficoltà di fronte a Shylock che si appella alla legge che è dalla sua parte, trascurando ogni senso di umanità e moralità, Porzia, facendo leva sullo stesso formalismo dell’ebreo, lo invita a tagliare esattamente una libbra di carne, non poco più e non poco meno, pena la perdita dei suoi beni. Shylock dunque, rassegnato alla sconfitta, rinuncia ed esce di scena, mentre il dramma si chiude nei festeggiamenti degli altri.

"Il mercante di Venezia" è un dramma di difficile classificazione. Viene generalmente considerato una tragicommedia per via delle due anime che in esso convivono: se da un lato il lieto fine, la frequenza di espedienti ironici come il doppio senso e il gioco di parole e la presenza del clown Lancillotto avvicinano l’opera al genere comico, dall’altro è innegabile il tono tragico, con punte di macabro, che domina in più parti, senza trascurare la gravità delle tematiche affrontate.
La doppia anima del dramma si riflette nel contrasto alla base della trama: da una parte Venezia, luogo di mercanti, di odio, di logica utilitaristica, di formalismo e di contrattualismo; dall’altra Belmonte, luogo di aristocrazia, di amore e di felicità. Posta la situazione in questi termini, risulta evidente la vittoria finale di Belmonte, col risanamento dei contrasti, il coronamento degli amori e la riconoscenza morale dell’amicizia. Su questo trionfo dell’amore e della felicità rimane tuttavia un’ombra che mitiga il lieto fine: l’esclusione di Shylock dal finale felice lascia come in sospeso la vita di un personaggio solo e abbandonato alla sua cattiveria e al suo vacuo formalismo, che da punto di forza è divenuto causa della sua sconfitta. Questa tensione ben si percepisce leggendo tra le righe dello scambio finale tra Lorenzo e Jessica, in cui si rievocano storie di amori mitici in cui la passione ha rivelato la sua doppia lama. “Ma amore è cieco, e gli amanti non vedono le amabili follie cui s'abbandonano.”

Molto ha fatto discutere il ritratto fornito da Shakespeare di Shylock, caratterizzato come un avido usuraio attaccato al significato letterale delle parole. Si tratta di una rappresentazione in accordo con la tradizionale idea, peraltro non verificabile in prima persona, che nell’ebreofobica Inghilterra elisabettiana si aveva degli ebrei; si tratta perdipiù di un ritratto molto vicino alla realtà dei puritani, ben più numerosi degli ebrei nell’Inghilterra di fine Cinquecento. Risulta evidente dunque che un’altra delle tematiche toccate da questo dramma è il contrasto tra cristiani ed ebrei, molto sentito all’epoca. I tratti attribuiti a Shylock potrebbero far pensare a un antisemitismo da parte di Shakespeare. Tuttavia, nel corso del dramma l’ebreo va stemperando l’odio verso i cristiani: esso non diminuisce nell’intensità, ma si rivela non frutto di un pregiudizio, bensì frutto di altro odio ricevuto immotivatamente. Cristiani ed ebrei vengono dunque a confondersi nell’amore e nell’odio e soprattutto nelle questioni di denaro, in cui anche i primi sono evidentemente implicati. Il presunto messaggio antisemita che molti hanno letto nel personaggio di Shylock viene così a cadere, scomparendo definitivamente nello sfogo memorabile e sempre attualizzabile sfogo del vero protagonista del dramma: “Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall'estate e dall'inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?”. Nel momento in cui Shylock rivendica la sua uguaglianza, la sua sconfitta non è più la sconfitta dell’ebreo avido e formalista, ma solo la sconfitta dell’UOMO avido e formalista.

Un ultimo significato, tipicamente shakespeariano, che si può leggere nello scioglimento finale del dramma è quello metateatrale. Sconfitta del formalismo vuol dire vittoria del molteplice, della fantasia e, di conseguenza, soprattutto della parola. L’espediente utilizzato da Porzia e Nerissa per risolvere la situazione, unitamente all’utilizzo di determinati termini, costituisce un ennesimo richiamo al teatro, che ancora una volta, come altrove in Shakespeare, si rivela un efficace strumento per il trionfo del bene, della verità, dell’amore.
“Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte.”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    02 Settembre, 2015
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La lotta contro il mondo

“Le sublimi anime passeggiano sopra le teste della moltitudine che oltraggiata dalla loro grandezza tenta d'incatenarle o di deriderle, e chiama pazzie le azioni ch'essa immersa nel fango non può, non che ammirare, conoscere. – Io non parlo di me; ma quand'io ripenso agli ostacoli che frappone la società al genio ed al cuore dell'uomo, e come ne' governi licenziosi o tirannici tutto è briga, interesse e calunnia – io m'inginocchio a ringraziar la Natura che dotandomi di questa indole nemica di ogni servitù, mi ha fatto vincere la fortuna e mi ha insegnato a innalzarmi sopra la mia educazione. So che la prima, sola, vera scienza è questa dell'uomo la quale non si può studiare nella solitudine, e ne' libri: e so che ognuno dee prevalersi della propria fortuna, o dell'altrui per camminare con qualche sostegno su i precipizj della vita.”

Romanzo epistolare tra le opere più famose di Ugo Foscolo e apertamente ispirato al Werther del tedesco Goethe, le Ultime lettere di Jacopo Ortis narrano la lotta contro il mondo di un giovane, con tutta evidenza alter ego dell’autore. Ragazzo di personalità passionale e portata alla riflessione, Jacopo Ortis vive il dramma di due brucianti delusioni. La prima è di natura politica e si deve al trattato di Campoformio, con cui Napoleone nel 1797 spense tutte le speranze che molti Italiani ed intellettuali, tra cui ovviamente Foscolo, riponevano in lui; si rende evidente così la vittoria degli interessi di Stato sugli ideali che l’autore appoggiava credendoli incarnati nel futuro imperatore francese. A questa prima doccia gelata si aggiunge l’amore impossibile con Teresa, promessa sposa a un giovane di buona famiglia, Odoardo. Verso di lui Jacopo fa convergere tutto il suo doloroso disprezzo per una società in cui interessi politici ed economici riescono ad aver la meglio su amore e passione, erotica e politica. Jacopo giunge quindi alla conclusione che la società è nemica della natura umana, è essa stessa il cancro dell’uomo poiché lo abbandona nella scelleratezza della razionalità fredda e calcolatrice.

Ciò che distingue Ortis dal Werther goethiano è stato individuato non tanto nel contenuto, evidentemente affine, quanto nello stile. Se l’alter ego di Goethe scrive in una prosa potente e riccamente passione, l’alter ego di Foscolo si esprime con un linguaggio poetico e a tratti sublime, tanto da poter definire le sue lettere poesia in prosa. Inoltre, se Werther evidenziava grandemente la dimensione umana, Jacopo è un personaggio di grande levatura filosofica, perfettamente calato nella nascente mentalità del Romanticismo: il protagonista fa infatti emergere dalle sue lettere una visione del mondo oramai ben lucida.

“Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s'io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d'una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l'anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch'io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell'universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell'eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.”

Una volta aperti gli occhi, la sua filosofia sembra anticipare concetti che di lì a poco saranno il nucleo del pensiero del più grande poeta romantico italiano, Giacomo Leopardi: la disillusione verso la vita, il disprezzo verso la Natura matrigna, la morte dei desideri, la presa di coscienza del nulla della vita umana di fronte alla sconfitta delle passioni, il fallimento dell’immaginazione e l’attesa dell’unica consolazione possibile, la Morte.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    20 Agosto, 2015
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Passione tra storia e mito

L’opera si apre con Antonio fermo in Egitto presso la seducente regina Cleopatra, per la quale è preso da cieca passione. Tuttavia il triumviro, venuto a sapere che Pompeo si prepara ad attaccare nuovamente, è suo malgrado costretto a rientrare in patria per fronteggiare la situazione coi colleghi Lepido e Ottaviano. Per rinsaldare i difficili rapporti con quest’ultimo, si decide di dare in moglie ad Antonio sua sorella Ottavia, il che genera le ire di Cleopatra; tuttavia l’iniziativa si rivela presto fallimentare, poiché la fanciulla non può competere con la regina nel cuore di Antonio. Egli infatti, tornato in Egitto e dopo averne incoronato se stesso e Cleopatra sovrani, viene in conflitto aperto con Ottaviano. Lo scontro navale vede però il tradimento della regina d’Egitto, che ritira le sue navi, provocando la netta sconfitta del deluso e disonorato Antonio. Il triumviro tuttavia la perdona facilmente, così come farà di lì a poco dopo aver visto Cleopatra flirtare con un messaggero di Ottaviano. Cieco al tradimento della sua amata, riprende il conflitto col nemico, che ancora una volta risulta vincitore. Infuriato con la regina per averlo tradito, vuole ucciderla; dunque ella escogita uno stratagemma per muoverlo a pietà: rifugiarsi nel mausoleo e fargli arrivare la notizia della sua morte. L’esito del piano è però diverso da quello che Cleopatra si aspettava: invece di correre disperato al mausoleo a piangerla, Antonio opta per il suicidio e si fa uccidere da un servo; la regina arriva in tempo solo per vederlo spirare. Successivamente, temendo di doversi prestare al pubblico ludibrio a causa di Ottaviano, Cleopatra si avvelena morendo eroicamente e preservando il suo onore.

A metà tra storia e mito, tra tragedia e commedia (in quanto sono presenti elementi dell’uno e dell’altro genere), quest’opera pone simbolicamente a confronto Roma e Alessandria d’Egitto. Roma rappresenta il potere, si fonda sulla ragion di stato, incarnata da Ottaviano, e può essere letta in chiave metaforica come una critica alle costrizioni che il potere impone a coloro che se ne occupano. Alessandria rappresenta il trionfo dell’edonismo, fondato sul piacere e sulla bellezza che la bellissima Cleopatra incarna alla perfezione, e si configura come un luogo utopico d’attrazione, interpretabile come un’esaltazione delle naturali pulsioni dell’uomo. Tra la razionalità e la logica statale di Ottaviano e il desiderio sprizzato dalla seducente femminilità di Cleopatra si pone un Antonio incapace di gestire l’una e l’altra dimensione. Tirato da ambo le parti e incapace di conciliarle, egli finisce col degradare se stesso: infatti, da un lato viene meno al suo eroismo da condottiero scontrandosi con il suo collega triumviro e disinteressandosi della sua patria minacciata perché preso dalla passione, dall’altro persevera, come accecato, nel non rendersi conto dell’ambiguità della regina egizia, soprassedendo ai suoi tradimenti e giungendo infine all’autodistruzione. Peraltro, il suo dramma si consuma nell’ignominia, poiché egli non è nemmeno in grado di compiere da sé l’onorevole suicidio, umiliandosi ancora una volta e portando a compimento la composizione della sua immagine di anti-eroe vinto dalla passione.
A riscattare l’immagine di Antonio interviene tuttavia Enobarbo, personaggio secondario nel dramma, ma che è reso interessante da un’acutezza di pensiero, tanto che si può ipotizzare che a lui Shakespeare affidi il ruolo-chiave di trasmettere il messaggio dell’opera. Enobarbo è il luogotenente di Antonio, ma in seguito al traviamento amoroso di quest’ultimo, nel corso del conflitto con Ottaviano egli cambia schieramento, scegliendo di servire lo Stato. Tuttavia Antonio, invece di punirlo confiscandone i beni, ordina che questi gli vengano immediatamente consegnati; colpito dalla sua magnanimità e pentito del suo tradimento, Enobarbo si uccide: egli ha riconosciuto la grandezza di Antonio, la cui virtù esula dal valore come condottiero e riguarda, invece, il lato umano, di cui la passione è ovviamente parte integrante, seppur incontrollabile.
D’altronde anche Ottaviano, pur vincitore, mostrando il suo animo nobile, non riserva ai morti un trattamento indegno, anzi li seppellisce con tutti gli onori meritati.

L’ambiguità dei personaggi non consente di ricavare una morale univoca. Riconoscimento dell’ineffabile forza vincente della passione? Amaro riconoscimento da parte dell’autore della costante sconfitta dell’umanità di fronte al potere? Come sempre Shakespeare, con uno stile fluido e di grande altezza poetica, instilla il dubbio, lasciando allo spettatore/lettore l’arduo compito di rispondersi.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    07 Luglio, 2015
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Le tre del pomeriggio

Dormire, svegliarsi, scrivere, osservare, bere, ascoltare musica, dormire.
Questa è la routine della vita di Antonio Roquentin, uomo che sarà presto invaso da una sensazione: la Nausea. Nausea che assale corpi che si muovono secondo automi dettati dalla quotidianità. Nausea che si appropria di animi sottrattisi al pensiero, la più pura essenza umana, in nome di un inconsapevole "divertissement" di pascaliana memoria.

La Nausea si manifesta nel momento in cui si assume profonda consapevolezza dell'elemento apparentemente più scontato con cui l'uomo crede di aver a che fare e perciò trascurato, ovvero l'esistenza. Prender consapevolezza dell'esistenza, infatti, implica un intimo contatto con la sconcertante assurdità dell'esistenza stessa, che sopraggiunge in modo per noi incontrollabile, segue regole insite nella sua natura cui dobbiamo inspiegabilmente sottostare, ma pretende di svolgersi secondo il nostro arbitrio limato da vincoli sociali contrastanti. Un motore ignoto determina lo scorrere del mondo in modo apparentemente casuale, il che è ben reso dal ritmo disarmonico della narrazione, che alterna capitoli brevissimi ad altri ben più estesi, giornate più lente a giornate che passano impercettibilmente senza lasciar segno, a riprodurre il ritmo vitale in cui tutti siamo coinvolti. Tutto sfugge al controllo, compresi sentimenti che dovrebbero unire e invece finiscono per dividere ulteriormente solitudini inspiegabili che si incontrano e flirtano per poi separarsi.

Di qui il senso di Nausea nel prendere coscienza del fatto che la vita non è un concetto astratto, ma una realtà concreta, immanente, che scorre nel nostro corpo e che pulsa nel mondo circostante. Una presenza così forte e in sé sconvolgente da risultare insopportabile a chi ha coscienza delle sue contraddizioni. In particolare, il contrasto tra la volontà di autodeterminarsi e la consapevolezza di non essere autodeterminato catapulta l'uomo in una spirale che termina nell'abisso. L'uomo consapevole vive in bilico tra l'assurdo e la sua negazione, tra la verità intuita e quella percepita (o meglio, che si vuol percepire), tra la propria natura e la negazione di sé in nome del "vivere felice". Conoscere la vita porta a disprezzarla, viverla porta ad apprezzarla. Meglio la verità o la felicità?

È l'abisso reso con la geniale immagine delle tre del pomeriggio, che rappresenta la condizione esistenziale cui si perviene inevitabilmente a causa della Nausea da conoscenza dell'assurdo: alle tre del pomeriggio è troppo presto o troppo tardi per fare qualsiasi cosa.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    18 Giugno, 2015
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Infinito amore e infinito odio

Calista ha il volto della debolezza e la mente di una giovane strappata alla sua giovinezza da un amore trascinante. Pilar ha la voce della forza di una giovane capace di strapparsi al suo destino predisposto in un luogo dalla mentalità arretrata.
Calista vede le certezze della passione che l’aveva travolta crollare sotto i colpi del marito Alexandros, violento, e della sua opprimente famiglia, che non fa che accentuare la sua solitudine interiore. Pilar vede le certezze del suo mondo di indipendenza crollare sotto i colpi di un amore sbagliato che la tradisce quando ormai è troppo tardi.
Calista vorrebbe scappare, ma non ci riesce ed è costretta a farlo quando non vorrebbe, pagando al caro prezzo di lasciare i suoi figli un destino apparentemente avverso nella sua lotta segreta col marito. Pilar scappa da un figlio indesiderato, ma per tutta la vita rimpianto e disperatamente cercato.
Calista riesce, pur in una costante disperazione, a ritrovare se stessa e a riportare l’amore nella sua vita, ma ancora una volta la tragedia torna nella sua vita per due volte, guidata dal caso e dalla vendetta. Pilar riesce, pur in una costante inquietudine, a conservare la speranza che la porta a perseguire con insistenza le sue apparentemente utopiche ricerche dall’insperato lieto fine.
Calista, ormai vinta dal mondo e dalla vita, libera il razionale ma terribile odio accumulato nel corso di tanti anni difficili. Pilar, vincitrice sul mondo e sulla vita, libera l’amore per troppo tempo accumulato e inopinatamente messo da parte.

Catherine Dunne realizza una suggestiva trasposizione in prosa di quella che potrebbe essere tranquillamente la trama di una tragedia greca, alla quale ricorrono diversi e certamente non casuali riferimenti rintracciabili nei nomi (richiamanti la mitologia) o nei contenuti (errore, vendetta, pentimento, passione, caso). Avvincente e interessante nello svolgimento, ottima nella caratterizzazione degli inconfondibili personaggi definiti dalla loro parola e dal loro atteggiamento, la storia è tenuta insieme dal fil rouge che collega amore e speranza alla vita, con l’immancabile intervento del caso imponderabile che unisce e mette infine a confronto due donne di spiccata sensibilità e intelligenza, che non sanno quanto le loro vite abbiano rischiato di incontrarsi.

Per Calista, la fine è un nido vuoto, dove nulla è ormai rimasto.
Per Pilar, la fine è una vita ritrovata, al prezzo di un enorme segreto nascosto.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    01 Giugno, 2015
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Troppa anima

“Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l'intera speranza del mondo? Come venirne fuori? Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d'accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un'esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola. Non è per te. Non è vero?”

Caligola, gettato nel dolore dalla morte della sua sorella e amante Drusilla, ha conosciuto la disperazione, una passione dell’animo in cui si giunge a ripugnare ogni vita intorno nella sua effimera essenza, in cui si smarrisce il profondo senso della realtà e della libertà. “Libero è solo chi è condannato a morte” dice l’imperatore romano, che instaura un regime in bilico tra la follia e il terrore ma ben lungi dall’incoerenza: il filo rosso che fornisce a Caligola il criterio tramite cui agire, tra crudeltà, dissolutezze e immoralità varie ed eventuali, è la libertà di seguire la propria anima. Torna nell’opera di Camus, in maniera a tratti lampante, quel contrasto tra l’uomo e il mondo, con le sue regole etico-sociali, che Nietzsche aveva risolto col principio della trasvalutazione dei valori; e chi meglio di Caligola rappresenta il superuomo? In posizione di potere, egli è in condizione di agire secondo la volontà suggeritagli dai suoi sensi e messa in atto con la scelta razionale della libertà.

Se dunque il Caligola può offrire certamente spunti di riflessione sul rapporto tra potere e sottoposti, costretti ad obbedire ad ogni lucida follia dell’imperatore, d’altro canto non può essere limitato a ciò, in quanto offre una riflessione di più ampio respiro sull’assurdo della vita dell’uomo. Nel costante dualismo tra ragione e sentimento, tra vita e poesia, tra schiavitù e libertà, Caligola compie la scelta più difficile e meno comune, ossia il dispiegamento spregiudicato e illimitato del proprio essere. Egli riconosce tragicamente che questo mondo in sé non basta alla felicità inappagabile che ogni animo persegue: “Questo mondo così com'è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell'immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo.”. La fuga dell’uomo dai limiti della realtà si manifesta in una demenza superomistica in cui la volontà di potenza si allarga oltre i confini della propria interiorità e della vita. Si tratta tuttavia di una posizione che, per quanto comprensibile agli animi più profondi, risulta sempre scomoda in quanto rende necessariamente schiavo chi non è in grado di giungere a una disperazione talmente illuminante da liberarlo dagli imposti limiti dell’etica sociale.
Chi è allora il vero pazzo? Caligola il diverso, il crudele? Oppure la massa di servitori che assecondano la follia in virtù del solo rapporto di forze? Lo stesso Caligola, provocatore, sembra spingersi sempre più oltre per verificare fino a che punto costoro siano schiavi del proprio materialismo razionale. La regola della vita umana sembra esser diventata l’eccezione della natura umana stessa. “Come tutti gli esseri senz’anima, non potete sopportare chi ne ha troppa. La gente sana detesta i malati. Chi è felice non può vedere chi soffre. Troppa anima! Che seccatura, no? Allora si preferisce chiamarla malattia: e tutti sono in regola, contenti.”

“Gli uomini muoiono e non sono felici” ripete a più riprese Caligola; in punto di morte (una morte che sul palco significativamente non avviene), quando finalmente la congiura a lungo vaneggiata ha luogo, fiero e disperato esplode il suo grido che apre uno squarcio nell’anima e nella realtà: “Sono ancora vivo!”.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    28 Mag, 2015
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La Commedia della Follia

Quando Ludovico Ariosto scrive il suo capolavoro, siamo agli inizi del Cinquecento, in pieno Rinascimento, periodo culturalmente e politicamente ricco di luci e ombre. Il recupero del classicismo aveva portato a una nuova coscienza del reale; l’Italia era dominata dal sistema politico delle corti, laddove i letterati ed artisti svolgevano la loro attività secondo i dettami politici dei loro principi-mecenati. Alla corte estense di Ferrara opera Ludovico Ariosto, personalità tesa a preservare una propria libertà artistica, il che genererà un contrasto di fondo con la sua condizione di poeta di corte. La visione disincantata delle dinamiche umane e politiche dell’autore trova espressione dunque nel grande poema epico, che, attingendo ai modelli ereditati dalla tradizione romanza e volgare, mette in luce la commedia della follia che domina la vita dell’uomo. La guerra tra cristiani e musulmani rimane dunque sullo sfondo, mentre in primo piano ci sono le guerre dell’uomo con se stesso e con gli altri, con le passioni e con le inspiegabili forze che muovono il mondo, narrate ed esemplificate con eccellente sapienza artistica, nobilitata da richiami linguistici ai classici latini e volgari, e con una vena comica, ma non per questo non impegnata. La trama complessa, su cui non mi soffermo, è costituita da un’immensità di fili narrativi tra loro intrecciati, forse impossibili da ricordare, ma in cui è comunque possibile orientarsi considerando alcune parole-chiave, tra loro strettamente connesse, per comprendere l’intima essenza di questo caposaldo della letteratura italiana.

FOLLIA. Ad essa si allude già nel titolo, che richiama in realtà un episodio sì rilevante, ma non preponderante in un’opera policentrica. In piena armonia con le tendenze culturali dell’epoca, la follia risulta nel paradosso della realtà la condizione di normalità dell’uomo. Tutti i cavalieri, cristiani o pagani che siano, sono rappresentati in una grottesca contraffazione della figura del paladino tradizionale: al ligio combattente per la propria etica Ariosto sostituisce degli stolti uomini che seguono i loro istinti, lasciandosi ingannare ingenuamente da una realtà che non è come appare (il contrasto tra realtà ed apparenza è un Leitmotiv della cultura umanistico-rinascimentale). Inconsapevoli e incapaci, essi creano tutti una serie di situazioni teatrali comiche in cui Ariosto riversa ironicamente la sua disillusione sulla natura dell’uomo. La pazzia è ovunque (l’esempio principe è la guerra, il più grande esempio della follia umana secondo Ariosto) e le passioni, in primis l’Amore, prima e più comune forma di pazzia, guidano le azioni di tutti i personaggi in una smaniosa corsa verso l’incomprensibile.

VANO. Ciò che accomuna tutti i personaggi del poema è la ricerca di un oggetto del desiderio (una donna, un elmo, un amante e quant’altro); una costante ricerca destinata (tranne in un solo caso, funzionale all’encomio del protettore del poeta) a rimanere sempre inappagata. Gli uomini, mossi dalla passione e dimentichi di ogni barlume di razionalità, vanno continuamente incontro al fallimento poiché incapaci di districarsi nelle contraddizioni di una realtà dominata dal caos e dal disordine. La vanità di ogni azione è dunque legata al carattere effimero delle passioni, che conducono inevitabilmente al fallo, termine estremamente ricorrente nel poema proprio ad indicare il tratto comune ad ogni vita dominata da insane passioni, di cui il poeta, lungi da ogni tipo di moralismo, ammette di esser vittima egli stesso. L’errore di ogni uomo è quello di pretendere di conoscere nella propria condizione di permanente e inconsapevole cecità di fronte al destino.

CASO. Autore laico e poco interessato a disquisizioni ed indagini metafisiche, Ariosto attribuisce la responsabilità degli eventi al caso. La Fortuna, latinamente intesa come sorte cieca, è il mondano primo motore immobile, la forza invincibile che determina l’inquieto susseguirsi di avvenimenti contro cui nulla può la virtù umana, la boccacciana “industria”, di cui la sorte si prende indistintamente gioco. Il suo carattere irrazionale spiega (senza spiegarla) il turbine confuso e caotico di eventi in cui l’uomo è coinvolto, la realtà contraddittoria e incomprensibile alla ragione dell’uomo, naturalmente portato dunque alla follia. L’unica forma di conoscenza umana possibile è quindi legata paradossalmente alla stultitia, ossia la “pazzia”, ma anche la “stupidità”, che, come detto, caratterizzano i protagonisti del poema. Ogni certezza e stabilità è dunque negata radicalmente dall’Ariosto, che vi sostituisce un altro termine-chiave della sua poesia, il “forse”, riconducendo tutto al campo della possibilità. E se tutto è possibile, l’autore non si fa scrupolo di combinare, come fosse normale, l’elemento magico a quello reale: razionalità e fantasia sono perfettamente coesistenti e, perdipiù, sono un ottimo strumento letterario per suscitare interesse nel pubblico. La verità assoluta non esiste e l’uomo brancola nel buio. Come programmaticamente dichiarato dal poeta nell’opera, il lettore potrà cogliere il senso dell’opera solo, ancora una volta paradossalmente, capovolgendo quanto letto.


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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    30 Aprile, 2015
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Sono un uomo ridicolo

“Tutto è indifferente.”
Quando hai deciso che la tua vita non vale niente, aspetti solo un cielo stellato che ti convinca a farla finita. Non ti aspetteresti mai che una bambina in lacrime qualsiasi possa risvegliarti dal sonno della realtà. In una sera come tutte le altre, ormai pronto a togliersi la vita, un uomo viene inspiegabilmente toccato da un dolore che decide di non aiutare, ma che porterà nel cuore. Un dolore che lo fa sprofondare in un sogno rivelatore: il suicidio si è compiuto, ma il protagonista viene trasportato in un mondo fantastico di amore, felicità e libertà. E’ il paradiso terrestre dell’età dell’oro, mitico periodo in cui l’uomo avrebbe conosciuto la felicità ignorando il male. E’ la negazione dell’homo homini lupus hobbesiano.

“Io li ho pervertiti tutti!”
Un uomo che ha vissuto sulla Terra non può credere che esista un mondo senza sofferenza. Quale felicità può esistere senza il dolore? Certo solo un surrogato, non la vera felicità. E quando l’età dell’oro decade tra delitti e menzogne? Il fondamentale problema di quest’opera, ossia il tragico rapporto con il male, viene risolto dall’uomo ridicolo nel modo più antico di tutti: “La cosa principale è: ama gli altri come te stesso, ecco che cosa è importante, ed è tutto, non occorre proprio nient’altro: sarebbe subito possibile mettere tutto in ordine. Ma questa è soltanto una vecchia verità, che è stata ripetuta e letta un miliardo di volte, ma che non ha messo radici! ‘La coscienza della vita è superiore alla vita, la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla felicità’, ecco quello che si deve combattere.”
L’uomo può essere felice anche sulla Terra, nel momento in cui, superato il “Tutto è indifferente”, sarà in grado di praticare quotidianamente la benevolenza verso l’altro, l’amore etico che è l’unica potenza in grado di liberare l’umanità dallo sterile dolore.

La felicità perfetta di Dostoevskij non è esclusivamente pura filantropia, ma un cammino interiore di sublimazione del dolore personale verso una più alta finalità: risolvere il senso drammatico della libertà e trovare il coraggio di essere liberi, liberi di essere felici. Solo così l’umanità potrà uscire dalla pazzia che imperversa per il mondo e lo obnubila, al punto che solo in sogno si può conoscere una Verità così semplice ma così trascendente che chi la possiede è un uomo ridicolo:
“Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo. Potrebbe essere una promozione se per loro non rimanessi comunque un uomo ridicolo. Ma ora non mi arrabbio più, ora li trovo tutti gentili, perfino quando ridono di me, anzi proprio allora li trovo particolarmente gentili. Se non mi sentissi così triste guardandoli, io stesso mi metterei a ridere con loro, non di me, ma per piacere loro. Mi sento triste perchè essi non conoscono la verità, mentre io si. Oh che terribile peso è essere il solo a conoscere la verità! Ma essi non lo capirebbero. No, non lo capirebbero.”
Ma l’uomo ridicolo ha visto la Verità. La sua anima è piena. La sua vita ha un senso. La bambina non deve piangere più.
Nulla è indifferente.

L’amore è libertà. La libertà è felicità. L’età dell’oro non è Utopia, perché l’età dell’oro è dentro l’uomo, pronta ad esplodere.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    21 Aprile, 2015
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Il sognatore

“Era una notte meravigliosa. Una di quelle notti come forse possono essercene soltanto quando si è giovani, egregio lettore. Il cielo era così stellato e così luminoso che, guardandolo, involontariamente veniva fatto di chiedersi: possibile che sotto un cielo come questo possano vivere persone adirate e lunatiche di vario genere?”

In una Pietroburgo trasfigurata in luogo d’isolamento vive il nostro protagonista, un uomo senza nome, indefinito; indefinito come la realtà in cui si costringe a vivere. Solo e alienato, quest’uomo trascorre le sue giornate in un mondo interiore avulso da qualsiasi contatto reale col mondo. E’ la figura del sognatore, magistralmente delineata, qui come altrove in Dostoevskij, come quella di una persona che vive in una realtà prodotta dalla sua mente, scontrandosi col mattino rivelatore della verità e dell’illusione. Ma che succede quando un sognatore esce dal suo mondo pseudo-dorato? Nella prima delle quattro notti bianche, il protagonista è attirato da una fanciulla, Nasten’ka, il primo essere umano che toccherà realmente la sua anima. Nasten’ka riuscirà a portare alla luce il mondo dei pensieri del sognatore, che in un lungo monologo scandaglierà il proprio cuore con la profondità che caratterizza il grande scrittore russo, capace di analizzare la drammatica contraddizione tra realtà e sogno, vita ed evasione. L’impatto della fanciulla è così forte che, inevitabilmente, il protagonista se ne innamora di un sentimento spirituale, a tratti stilnovistico. Ma anche Nasten’ka è una sognatrice: attende dopo un anno il ritorno dell’amato ed è turbata; il nostro eroe, per quanto straziato, persegue la felicità della sua amata e si affanna per aiutarla e consolarla. Ma l’uomo non si fa vivo e Nasten’ka sembra innamorarsi gradualmente. Proprio quando tutto sembra volgere al lieto fine, l’uomo riappare. La realtà torna ad essere sogno. Dopo quattro notti, il mattino è arrivato.
Dostoevskij conclude questo romanzo breve riconciliando l’inestricabile contraddizione tra sogno e realtà. La realtà non è che illusione. E’ il trionfo della soggettività: ognuno costruisce un mondo secondo il suo pensiero, abnegando se stesso nell’immaginazione tanto cara a Leopardi, via d’uscita dall’angosciosa solitudine che affligge l’animo di ogni uomo che sente col cuore e con la mente, e cadendo nel futuro, spaventoso, sottosuolo dostoevskiano.

“Allora senti che la fantasia, quella inesauribile fantasia, alla fine si stanca, si esaurisce in quella tensione permanente perché maturata, abbandona gli ideali presognati: essi cadono in polvere, si spezzano in frammenti; e se non esiste un'altra vita, allora ci tocca di costruirla con questi frammenti.”

Qual è il frammento da cui ripartire?
E’ un amore ideale e positivo nella sua spiritualità (che peraltro trova un corrispettivo nella vita sentimentale dell’autore, che questo romanzo breve sembra ricalcare).
E’ il contatto con il mondo finalmente avvenuto.
E’ l’attimo di beatitudine che Nasten’ka ha donato al sognatore. E’ solo un attimo, ma, per un uomo senza storia, vale quanto una vita. E’ il sogno della sua vita.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    14 Marzo, 2015
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Il migliore dei mondi possibili?

"Che cos'è l'ottimismo?" diceva Cacambò.
"Ahimè!" disse Candido "è la smania di sostenere che tutto va bene quando si sta male".

Con queste parole Voltaire, uno dei capisaldi del grandioso Illuminismo francese, si contrappone per bocca del protagonista alla filosofia di Leibniz. Secondo l’ottimismo metafisico da quest’ultimo propugnato e incarnato da Pangloss (nome che vuole essere una presa in giro ai seguaci di Leibniz), precettore di Candido, l’uomo vive nel migliore dei mondi possibili, coinvolto in una serie di avvenimenti che tendono necessariamente al bene. Questa convinzione, all’inizio fortemente radicata nel protagonista e a lungo difesa, deve tuttavia fare i conti con un incredibile susseguirsi di accadimenti in cui il caso manifesta instancabilmente le sue infinite possibilità capovolgendo ogni certezza. Se dunque il bello diventa brutto, il ricco diventa povero, addirittura il morto torna vivo, allora risulta palese che l’inspiegabilità delle cose umane non segue alcuna regola cosmica definita; di conseguenza ogni discorso metafisico o pseudo-tale si rivela puro concetto che svuota la mente degli uomini.

In questo breve racconto filosofico dal ritmo veloce come lo scorrere della vita, l’acuto Voltaire demolisce con spirito satirico la sterilità del cieco ottimismo leibniziano, ponendone le falle sotto gli occhi di tutti; non per questo tuttavia egli propone un’esaltazione del pessimismo. Tutt’altro. Il sottile gioco d’intelligenza messo in atto dall’autore francese è finalizzato alla presa di coscienza dell’innegabile esistenza del male; questa amara consapevolezza deve essere però affrontata con un ottimismo più ragionato e produttivo, mirato a riconoscere che, pur non essendo il migliore possibile, il nostro è l’unico mondo possibile. La conclusione, memorabile, di Candido rivela il modo di vivere più adatto: “dobbiamo coltivare il nostro giardino”.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    06 Marzo, 2015
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La bilancia della giustizia

“Ci sono due modi per dar conto dell’esistenza di questo libro. O è realmente esistito un fascio di fogli ingialliti e irregolari che registravano, uno ad uno, gli ultimi pensieri di uno sventurato; o si è incontrato un uomo, un sognatore impegnato a osservare la natura a beneficio dell’arte, un filosofo, un poeta, chissà, che ha fatto di un’idea la propria fantasia, che l’ha presa, o meglio, che si è lasciato prendere da essa e non ha saputo liberarsene se non riversandola in un libro. Di queste due spiegazione, il lettore sceglierà quella che più gli aggrada.”

Condannato a morte!
Queste tre parole risuonano nella mente dell’autore di questi fogli ingialliti e irregolari. E’ un uomo, ma non ha un nome. Ha una colpa, ma non sappiamo quale. Ha una vita, ma ancora per poco. E’ solo nella sua cella, ma questa è popolata dai fantasmi dei suoi precedenti “inquilini”. Nella voce anonima di questo uomo, lo scrittore (o sognatore o filosofo o poeta) Victor Hugo ha riversato con veemenza la sua critica alla pena di morte, che nullifica un essere umano, a prescindere da chi questo sia o da cosa abbia fatto. La pena di morte era ai tempi di Hugo una triste consuetudine spettacolarizzata nella quotidianità di una Parigi troppo indifferente alla vita e all’umanità.

“Miserabile” e “orrendo”.
Colpisce con quanta frequenza ritornino queste due parole nel diario del condannato, la prima riferita a sé stesso, la seconda a ciò che lo circonda. Privato del sole e del cielo, della famiglia e della libertà, egli racconta le troppo lunghe e troppo brevi ultime sei settimane della sua vita, quelle comprese tra la sentenza e la ghigliottina. Il viaggio nella sua mente si districa tra il pericoloso far nulla nella sua sordida cella e i ricordi di una vita passata che riaffiorano, come nel più banale degli esseri umani. Tutti sappiamo che la morte fa parte della vita, ma avere la certezza del momento in cui questo accadrà determina l’angoscia inesplicabile di un tragico conto alla rovescia. Speranza e rassegnazione si rubano continuamente il posto nell’animo del condannato; ma ciò che vince è lo sgomento di fronte all’apparentemente ordinaria amministrazione della vita di un uomo, indifferente come una pietra della cella, banale come un nome nell’agenda del prete confessore, morto come una persona dimenticata.
Che differenza c’è poi tra un condannato e un re? Denaro e potere possono consentire a qualcuno di aver nella sue mani la speranza di un animo e la vita di un corpo?
Che differenza c’è poi tra un condannato e un giudice? La vita è un prezzo troppo alto da pagare, soprattutto se giudicare spetta a Dio.
Che differenza c’è poi tra un condannato e la folla che assiste a un’esecuzione come a uno spettacolo? Forse che qualcuno di loro può dirsi certo che non toccherà anche a lui un giorno, o a un marito, una moglie o un figlio?
E’ dunque peggiore un condannato di chi lo condanna? O di chi assiste alla sua uccisione con entusiasmo? O di chi non lo salva avendone il potere?

“In questo processo verbale del pensiero agonizzante, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato, non ci sarà più di una lezione per quelli che condannano? Forse questa lettura renderà la loro mano meno frettolosa, quando capiterà qualche altra volta di gettare una testa che pensa, una testa di uomo, in ciò che essi chiamano la bilancia della giustizia? Forse non hanno riflettuto, questi poveretti, su questa lenta successione di torture racchiusa nella sbrigativa formula di una sentenza di morte? Si sono mai soltanto soffermati sulla straziante idea che nell'uomo che sopprimono c'è un'intelligenza, un'intelligenza che aveva contato sulla vita, un'anima che non si è preparata alla morte? No. In tutto questo non vedono altro che la caduta verticale di una lama triangolare, e probabilmente pensano che per il condannato non esista nulla, né prima né dopo. Queste pagine li faranno ricredere. Pubblicate forse un giorno, fermeranno per qualche istante le loro menti sulle sofferenze dello spirito, poiché sono proprio queste che essi non sospettano.”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    05 Marzo, 2015
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Il vero amico è come un altro te stesso

Quando Cicerone scrive quest'opera, si trova in una difficoltosa fase della sua vita, precipitato in un vortice di implicazioni politiche in cui molto forte è il bisogno di legami autentici, pochi e rari come quello che lega l'autore al dedicatario dell’opera, il suo fedele amico Tito Pomponio Attico.
Si tratta di un dialogo: morto il suo amico Scipione Emiliano, Gaio Lelio discorre coi generi Fannio e Scevola sul valore dell’amicizia, tessendo un appassionato elogio di tale legame in quello che viene configurandosi più come un monologo sporadicamente intervallato dagli ammirati interlocutori. Inizialmente Lelio rievoca la figura dell’amico, celebrato per la sua encomiabile virtù, la quale viene quindi elogiata e posta a fondamento della reale amicizia, che secondo Lelio può sussistere solo tra persone virtuose. Gran parte del dialogo è dunque dedicata alla definizione di tale valore, che viene a costituire l’elemento naturale che innesca un’amicizia, contrariamente a quanti ritengono che essa sorga dall’indigenza, dalla debolezza o dalla manchevolezza. Si tratta di una veemente critica alla filosofia ellenistica, in particolare all’epicureismo e, a tratti, stoicismo e cinismo, che secondo Lelio ridimensionano l’amicizia riconducendone le origini a finalità utilitaristiche. La virtus per i Romani è un ideale meramente pratico: ne abbiamo conferma dall’insistere di Lelio sull’importanza delle idee politiche in un rapporto tra due persone, che ne risulta ampiamente influenzato (come d’altronde Cicerone aveva avuto ben modo di apprendere nel corso della sua vita). Tuttavia, sebbene la politica informi indubbiamente la vita sociale pubblica e privata, nel suo discorso Lelio porta un rilevante elemento di novità: viene infatti altresì svolta un’indagine etica concernente le basi del legame di amicitia, etimologicamente affine all’amor e che la cultura romana indiscutibilmente legava al sostegno politico, riadattando l’ideale greco della filantropia. E’ per questo che tale rapporto può instaurarsi anche tra membri di ceti sociali differenti, in quanto elemento di unione sono virtus e probitas, requisiti imprescindibili per un’amicizia eterna in quanto non soggetti a mutamento come le vicende e tendenze umane. “Ma poiché le cose umane sono fragili e caduche, si deve sempre cercare qualcuno da amare e che ci ami; tolti infatti l’affetto e la simpatia ogni gioia è tolta alla vita”: in modi simili l’amicizia viene pertanto a più riprese esaltata come uno dei più grandi beni della vita umana, pur recando con sé quelle sofferenze e inquietudini che gli stoici volevano respingere. Ma respingere l’amicizia implica abbracciare la solitudine, la condizione più contraria alla natura e all’animo dell’uomo, che in essa smarrirebbe il senso del vivere. Riprendendo il filosofo pitagorico Archita, Lelio afferma che “se qualcuno fosse salito al cielo e avesse contemplato la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quella contemplazione non gli avrebbe dato nessun piacere; mentre glielo avrebbe dato grandissimo, s’egli avesse avuto qualcuno a cui raccontare la cosa.” Il vero piacere risiede dunque nella condivisione, in quanto la rettitudine conduce a legarsi tra loro uomini in cerca di stessi ideali, tanto da affermare che “Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio.”

Quest’opera è comunemente ritenuta un dialogo filosofico, per quanto sia questa una definizione impropria e, in un certo senso, limitativa. Infatti se la si dovesse giudicare solo da un punto di vista filosofico, ne deriverebbe un forte ridimensionamento del suo reale messaggio, per via dell’indubbiamente superficiale (pressoché inesistente) scavo psicologico del sentimento: ben nota è infatti la scarsa inclinazione speculativa dei Romani, che da sempre prediligono la prassi alla teoria, cosicché paragonare un’opera di Cicerone alla forma di scrittura prediletta da Platone risulterebbe notevolmente sfavorevole all’oratore latino. D’altro canto, nelle parole stesse di Lelio, forte risuona la critica ai docti, ossia i filosofi greci.
Risulta invece indubbiamente più efficace, ai fini della valutazione dell’opera, considerarla un semplice trattato, un’orazione scritta di argomento morale in cui confluiscono la tradizione etico-filosofica del pensiero greco e i valori-base della società romana. Cicerone difatti non analizza l’amicitia secondo categorie di pensiero, ma ne stabilisce i presupposti pratici, esemplificando nelle parole di Lelio la virtus, la probitas e tutti i principi cardine dell’etica romana, lontana dagli ideali speculativi e metafisici basilari nelle filosofia greca. Cicerone non è filosofo, è un uomo politico in difficoltà che dà voce al proprio pensiero in un appassionato elogio dell’amicizia, considerata dunque non nella sua sostanzialità emotiva ma nella sua praticità quotidiana, il che non esclude uno sguardo sull’uomo. Inoltre, il tono colloquiale favorisce un linguaggio semplice in una prosa rapida e fluente, lontana dall’astrattezza dell’aulico e del solenne che forse un filosofo greco avrebbe, invece, prediletto.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    22 Febbraio, 2015
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Processo all'indifferenza

Procedendo nella lettura una domanda continuava a insistere nella mia testa: dove vuole andare a parare? E’ stato necessario giungere all’ultima pagina per capirlo. Il fascino di questo libro, uno dei capisaldi dell’esistenzialismo e della produzione di Camus, risiede nel suo significato sempre sfuggente, che d’altronde ben si accompagna alla tematica centrale del romanzo: il rapporto dell’uomo con la vita e col mondo, due dei più immensi misteri in cui l’essere umano deve continuamente districarsi, giungendo talvolta ad esiti tanto più sconcertanti quanto più approfonditi.

" "Non hai dunque nessuna speranza e vivi pensando che morirai tutt'intero?". "Sì"- gli ho risposto. Allora ha abbassato la testa e si è rimesso a sedere. Mi ha detto che aveva pietà di me. Non credeva che un uomo potesse sopportare una simile cosa. Quanto a me, ho sentito soltanto che cominciavo ad annoiarmi."

Meursault è un uomo di origine francese che vive ad Algeri. La sua esistenza trascorre nel segno di un’inquietante indifferenza nei confronti del mondo circostante, che il protagonista sembra considerare altro da sé. E’ capace di non provare alcuna emozione in occasione della morte della madre, né tanto meno alcun sentimento amoroso nei confronti di Maria (se non desiderio fisico), che addirittura gli chiede di sposarlo ricevendo in risposta un sostanziale “per me è lo stesso”; i suoi rapporti umani sono segnati da un imperante sensazione di vacuità e apatia rispetto a qualsivoglia parvenza di moralità o giudizio. Il caso domina la vita di Meursault e il caso lo porterà a uccidere senza reale motivo un arabo. La seconda parte del romanzo è dunque dedicata al processo e alla prigionia dell’uomo, che affronterà il tutto in uno stato di impassibilità sconcertante, ritenendo inutile tanto tentare di discolparsi quanto, in alternativa, sentirsi in colpa. E’ per questo che il processo è incentrato, più che sul delitto commesso, sull’indifferenza generale di Meursault, interpretata da avvocati e giudice come una prova di un’insensibilità esente da pentimento e, soprattutto, da ogni speranza, tanto da indurlo a rifiutare persino Dio. Quest’uomo vive già da tempo come un condannato, poiché possiede una lucida coscienza del reale come mera apparenza.

“Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora nelle annate non meno irreali che stavo vivendo.”

Lo scorrere del tempo e l’evolvere della vita non lo intaccano; sebbene scritto in prima persona, forte è infatti la sensazione che il protagonista-narratore racconti il tutto da una prospettiva esterna, che marca il suo straniamento dalla realtà.
Inevitabile arriva dunque per l’uomo la condanna a morte, che porta con sé l’acquisizione da parte di Meursault di un’ennesima verità negativa ma necessaria (come lo stesso Camus la definì in una prefazione) sull’assurdità di una vita comandata dal caso in cui si pretende dagli uomini che fingano un insostenibile amore o, ancora peggio, potere sulla vita! Solo a questo punto, nel silenzio, avviene dunque la riconciliazione dello “straniero” con il mondo:

“Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida d'odio.”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    21 Febbraio, 2015
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Distopia di decadenza

La scena si apre con Prassagora che ci introduce nel vivo dell’azione: siamo all’alba e le donne si incontrano in segreto con indosso gli abiti dei loro mariti; il piano è quello di prender parte all’assemblea straordinaria che si terrà quella mattina e votare una proposta sconvolgente: affidare il potere alle mani delle donne, più capaci amministratrici del tesoro e dello Stato. In un susseguirsi di prove comiche, Prassagora viene posta a capo dell’iniziativa in quanto la più abile con le parole. Il progetto va dunque a buon fine: le donne ottengono il governo della città di Atene. Successivamente Blepiro, marito di Prassagora, svegliatosi senza abiti, viene informato da Cremete su quanto stabilito in assemblea. Nel mentre, sopraggiunge Prassagora, che espone ai due uomini il programma del nuovo governo: principio-cardine sarà l’uguaglianza tra i cittadini, che sarà garantita attraverso un regime di comunismo di beni e persone, sotto l’amministrazione dello Stato, cosicché si elimineranno ingiustizie e soprusi, preservando la pace. Il consenso non è unanime, ma tutti sono costretti a sottostare alle nuove leggi. Il seguito della commedia sfrutta uno dei punti di tale programma: in virtù dell’uguaglianza tra giovani e vecchi, sinonimi di bellezza e bruttezza, è stato infatti stabilito che, qualora un giovane voglia fare l’amore con una ragazza, dovrà prima soddisfare le voglie di una vecchia. Ecco dunque che una giovane fanciulla e una vecchia litigano per un giovane, ragazzo che, suo malgrado, sarà costretto a seguire la seconda. Tuttavia interviene a questo punto una vecchia ancora più brutta, la quale reclama il suo diritto di precedenza, come una terza ulteriore che interviene subito dopo ad accrescere l’effetto comico della vicenda. Segue quindi la scena finale, in cui si svolge un sontuoso banchetto a casa di Prassagora e Blepiro, tra i cui festeggiamenti si conclude la commedia.

L'opera è in evidente continuità con la Lisistrata, rappresentata nel 411 e con al centro lo sciopero del sesso indetto dalle donne al fine di indurre gli uomini a firmare la pace, ma da questa si differenzia per una fondamentale caratteristica: se nel 411 la guerra del Peloponneso volgeva a sfavore di Atene, nel 391 il tracollo della città è ormai avvenuto da oltre dieci anni. La guerra si è infatti conclusa, segnando la fine della gloria ateniese e la decadenza politica e morale di una polis in cui dilagano la corruzione e il malcostume. Se dunque, come nella Lisistrata, ritroviamo la carnevalizzazione della letteratura e del teatro, che consente alle donne di giungere al potere, capovolgendo grossolanamente l’ordine precostituito della società, l’espediente viene sviluppato dal commediografo in maniera differente. Prassagora, con la sua politica apparentemente innovativa, tanto da apparire scandalosa agli uomini, si fa portavoce delle nostalgiche aspirazioni di Aristofane, che auspica un ritorno ai valori del passato che tanta gloria avevano procurato ad Atene. Nelle parole della protagonista emerge il profondo disgusto del commediografo per la realtà cittadina contemporanea, infamata da una maniacale ossessione per i processi (più volte denunciata nelle sue opere), dalle delazioni dei sicofanti, dalla menzogna e della cospirazione contro l’ordinamento democratico, dalla corruzione dell’etica familiare, mentre ormai lontano è il ricordo del mondo degli eroi. La strada verso il “rinnovamento conservatore” presenta lampanti analogie, immediatamente riscontrabili, con l’idea politica che Platone (si ritiene, generalmente, in seguito) esprimerà nella Repubblica: uguaglianza tra i cittadini e comunismo di beni, donne e figli. E’ lecito ritenere che Aristofane si aggreghi ad un pensiero politico che prendeva sempre più piede nell’Atene post-guerra del Peloponneso, un’Atene segnata da una pseudo-democrazia corrotta e internamente lacerata da rivalità e bramosie. Funzionale a questo intento risulta la scelta di porre come paladine di questo nuovo ordine le donne; ancora una volta, infatti, non siamo di fronte ad un’opera di rivendicazione sociale, ma, in linea con la misoginia della società ateniese, l’acquisizione del potere da parte delle donne non è altro che l’ennesimo colpo a uomini vili e incapaci anche di dominare sul sesso debole, perché comicamente presi da bisogni scatologici. Tuttavia, a differenza di quanto accade nella Lisistrata, in cui l’iniziativa delle donne ottiene successo e garantisce la tanto agognata pace, nella commedia in questione immediatamente vengono a galla problemi legati alle nuove leggi, rappresentati con la consueta sapienza comica nella scena del giovane conteso, in cui si potrebbe anche leggere un’ulteriore critica alle donne, di cui si sfrutta la fama di beone e di sfrenatezza sessuale. Le vecchie leggi non possono più sussistere nella nuova Atene, poiché, se immutato è il loro valore morale, non lo è l’etica sociale, degli uomini e delle donne senza distinzione. Il mondo alla rovescia dunque consente ad Aristofane di creare una sorta di distopia improntata alla decadenza della città, alla quale si riferisce concretamente attraverso rotture dell’illusione scenica atte a coinvolgere il pubblico teatrale (in gran parte maschile) nelle critiche addotte per bocca di Prassagora. Alla speranza mostrata dal finale della Lisistrata subentra qui da un lato il disincanto del poeta, dall’altro l’illusione degli uomini, evidenziata dal sontuoso banchetto di festeggiamento in casa di Prassagora, mentre là fuori tre vecchie litigano per portarsi a letto un giovane desideroso dei piaceri di una fanciulla.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    19 Febbraio, 2015
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Soltanto il caso ci parla

"Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla."
Grazie all'assurdo concatenarsi di sei banalissime coincidenze, le differenti vite di Tereza, donna semplice e interiormente contrastata per infami retaggi d'infanzia, e di Tomas, affermato medico e impietoso tombeur des femmes, si incontrano, dando origine a un amore segnato dal paradosso: fino a che punto il caso può chiamarsi destino? Fino a che punto ciò che è doveva essere così e non altrimenti? Il peso della necessità mette in subbuglio due vite in cui non è facile trovare un senso, se non quel "Es Muss Sein" ("così deve essere"), che Tomas fin dall'inizio si ripete. Ma il valore della necessità verrà riconosciuto solo nel momento in cui sarà stata sperimentata l'insostenibile leggerezza dell'essere, quel pervasivo sentore di vacuità che accompagna ogni uomo sospeso nella ricerca di un equilibrio tra l'inesorabilità del caso e la volontà di dar forma e significato alla propria vita. Una vita evanescente, dominata dalla kierkegaardiana impossibilità di scegliere, poichè scegliere implica conoscere e confrontare, il che è in netto contrasto con l'unicità della vita: "Einmal est Keinmal", ciò che è accaduto una sola volta è come se non fosse mai accaduto. Riferendosi a Nietzsche, Kundera nell'incipit scrive: "Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla." Di qui l'aporetica lotta tra il pesante e il leggero, meravigliosamente espressa dal titolo stesso del romanzo, tra scelta e volontà, mirabilmente enfatizzata dal richiamo al celebre mito di Edipo. In un'opera ad elevatissimo tasso di filosofia, l'autore mostra come la lotta dell'io individuale con l'apparente linearità e necessità casuale che lo circondano si traduce in una molteplicità di atteggiamenti (tutti riconducibili alla personalità di Kundera stesso) su cui nessuno è nella posizione di esprimere un giudizio di assoluto valore. Non c'è giusto e non c'è sbagliato, c'è solo l'umano.

"La storia è leggera al pari delle singole vite umane, insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina nell'aria, come qualcosa che domani non ci sarà più." Mi servo di questa frase per agganciare l'altro tema che nel romanzo rimane sempre a far da sfondo alla vicenda. Praga, 1968: infuriano le lotte al comunismo che si concluderanno nella cosiddetta "Primavera di Praga". Impossibile per l'autore esimersi da un confronto con l'attualità, verso cui, con estrema coerenza, non si esprime alcun giudizio di condanna: i comunisti sono convinti di essere nel giusto tanto quanto i suoi oppositori. Cosa dunque permette all'uomo di elevarsi al di sopra dell'insostenibile leggerezza dell'essere, che si estende da una dimensione personale a una sociale? "Il vero antagonista del kitsch totalitario è l'uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un'occhiata a ciò che si nasconde dietro." Solo ed esclusivamente il pensiero abbiamo come strumento in grado di aprirci la via verso il senso e verso la verità, rendendo evidente il profondo segreto dell'Es Muss Sein.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    07 Febbraio, 2015
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Due più due fa quattro?

“Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente.”
Comincia così l’opera che segna la svolta artistica di Dostoevskij, da qui in poi orientato alla ricerca di una via di fuga per l’uomo dalla solitudine e dalla disperazione nell’amore e in Cristo.

L’opera si articola in due sezioni. Nella prima parte il protagonista ci presenta la sua condizione di uomo emarginato dalla società, verso cui nutre disprezzo e sospetto. Egli preferisce rifugiarsi nel “sottosuolo”, ovvero l’oscuro baratro della sua mente, che lo isola da una società tesa al progresso scientifico e alla matematizzazione della vita umana. L’intento era quello di schematizzare la natura dell’uomo attraverso la Ragione, rendendolo un essere paragonabile a un tasto di pianoforte, non libero ma mosso da un’universale mano invisibile. Ma l’uomo del sottosuolo sa che l’intima essenza dell’uomo non è la ragione, ma la volontà, concetto così strettamente legato alla libertà da risultare a tratti inspiegabile, ma non per questo rinnegabile. Il volere supera la razionalità, sconfinando nel contrasto interno all’uomo, che vede implodere e mescolarsi in sé impulsi talvolta rovinosi, ma pur sempre umani. Circoscrivere l’uomo in una tabella risulta pertanto ridicolo all’uomo del sottosuolo: “L'uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà, forse tutto il fine a cui tende l'umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s'intende, dev'essere null'altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l'inizio della morte.”

Attraverso le riflessioni del protagonista, si giunge così alla seconda parte, in cui l’uomo racconta, a titolo di esempio per quanto detto, eventi che emergono nella sua memoria a manifestare la sua inettitudine nei rapporti umani. Questa costante condizione subirà uno scossone dopo la notte con la prostituta Liza, la prima persona a mostrargli un sentimento, il che getterà il protagonista in profondo conflitto interno col desiderio di dominio, forma standard del suo modo di relazionarsi agli altri.
“..tutti noi siamo disavvezzi alla vita, tutti quanti zoppichiamo, chi più chi meno. Siamo a tal punto disavvezzi, che talvolta proviamo una specie di ripugnanza per la “vera vita”, e pertanto non possiamo neppure sopportare che ce ne parlino. Anzi, siamo arrivati a un punto tale che quasi quasi consideriamo l’autentica “vera vita” come una fatica, o addirittura come un lavoro, e dentro di noi siamo tutti convinti ch’è meglio di com’essa ci viene presentata nei libri. Ma perché ci agitiamo certe volte, perché facciamo i capricci, che cosa cerchiamo? Non lo sappiamo neppure noi. […] Ci è penoso perfino essere uomini, uomini con un corpo vero e proprio, col sangue nelle vene; ci vergogniamo di questo, lo consideriamo un’onta, e ci sforziamo in ogni modo d’incarnare un certo tipo di uomo universale che non è mai esistito. Noi siamo nati morti..”
Grazie a Liza, scoprirà che la vita descritta nei libri, la vita dell’amore, la vita in cui due più due non fa necessariamente quattro, può esistere anche nella realtà. Ma non è facile uscire dal sottosuolo.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    02 Febbraio, 2015
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Buio

"Avevo ventisette anni. Per ventiquattro nel mondo. Poi sette mesi nel fianco della montagna con la Principessa del caffè. Tre mesi di nuovo fuori, a trasportar cose, poi due anni e due mesi da solo."
Chi scrive è un carcerato, condannato all'ergastolo per aver tenuto sotto sequestro una giovane donna e per aver poi ucciso in carcere una guardia. Anonimo; a chi importa il suo nome? Non è che un uomo, o forse neanche più quello, perchè la prigione e l'isolamento annullano la vita. In un lungo flusso di coscienza, il protagonista-narratore ripercorre i giorni tutti uguali del carcere, dando voce a pensieri straordinariamente lontani dalla quotidianità, ma straordinariamente umani. Ci si aspetta di trovare dei "cattivi", ma entrando nel mondo descritto dal protagonista lo scarto col reale si fa sempre più marcato, tanto da indurre il lettore a riconsiderare i giudizi verso questo. Buono e cattivo non esistono, o almeno non come li conosciamo. La narrazione attraversa i momenti cruciali della vita del carcere: il ritorno con la mente alle azioni commesse e alle proprie vittime, i difficili rapporti con carcerati e carcerieri, la solitudine interiore e l'assenza d'intimità, l'attaccamento alle cose, ai pensieri e ai dolori, la speranza nel futuro. Il narratore scava a fondo nella sua coscienza, descrivendo senza filtri i pensieri che percorrono la sua mente nel tempo senza fine dell'ergastolo.

"Fuori c’è un sacco di gente che dopo i cinquant’anni si ammazza, perché ha capito che il mondo non si aspetta piú niente da loro. Tolto l’eredità, forse. Qui invece col fine pena a sessant’anni pensi di avere ancora tutto da fare. Di poter diventare astronauta, ballerino, imprenditore. Perché dietro hai poco. Come se le cose della vita stessero in un sacco, dove non puoi vedere, ma senti che pesa e comunque, se hai tirato fuori cosí poco, qualcosa dev’esserci rimasto. Tutta la vita non consumata dev’essersi conservata, in qualche modo, da qualche parte. Dovrà arrivare. Non può essere evaporata semplicemente passeggiando, dormendo. "

Decisamente un'intuizione originale e dal notevole potenziale quella dell'autore; unico piccolo neo il linguaggio, forse troppo monocorde, ma d'altronde funzionale a riprodurre il continuo circolo e ricircolo dei pensieri di un carcerato.
Certo, l'impatto del lettore col nuovo mondo non è facile: il lettore all'inizio si sente quasi spaesato, in un ambiente irreale, ma man mano che si procede il libro si rivela un crescendo d'emozioni, tanto che, girata l'ultima pagina, forte sarà la sensazione di aver concluso un viaggio e di esser uscito da un freddo buio.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    28 Gennaio, 2015
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L'amor tragico

“Questa mattina porta una pace che rattrista; nemmeno il sole mostrerà la sua faccia. Andiamo via da qui, a ragionare di questi dolorosi avvenimenti. Per alcuni sarà il perdono, per altri il castigo immediato: poiché mai storia fu più triste di quella di Giulietta e del suo Romeo.”

Superfluo soffermarsi sulla ben nota trama di una delle più celebri tragedie shakespeariane, che col suo linguaggio altamente poetico ha consegnato al mondo alcune delle più amate pagine della letteratura romantica di tutti i tempi. Particolarmente significativi sono i celeberrimi paragoni tra la fanciulla amata e il Sole sorgente, contrapposta all’invidiosa Luna, o l’inno alla luminosità degli occhi di Giulietta, in grado di sostituire più che degnamente le stelle della volta celeste. Di forte impatto è inoltre il costante contrapporsi di giorno e notte, il cui simbolismo è giocati a ruoli invertiti: la luce vede sangue e scontro, l'oscurità il trionfo segreto dell'amore nel suo florido splendore.

Nell'acceso dibattito sulla classificazione dell'opera si è detto, giustamente, che questo dramma si distacca notevolmente dalle grandi tragedie shakespeariane. Ciò che quasi concordemente si riconosce come l’elemento più tragico nel periodo della maturità di Shakespeare è la libertà degli eroi protagonisti, i quali autodeterminano il loro destino secondo le loro azioni e i loro pensieri. Ciò non accade in "Romeo e Giulietta": sui personaggi aleggia un’imperscrutabile sorte che porta ad eventi tragici, andando al di là del volere umano.
Talvolta si è fatta rientrare la tragedia nei morality plays, opinione secondo cui l’insegnamento prodotto dalla vicenda drammatizzata sarebbe la necessità di controllare i propri istinti, riconduncendoli alla ragione. A sostegno di tale tesi si potrebbero riportare le celebri parole di Frate Lorenzo, invito alla moderazione: “Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si consumano al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente: l'amore che dura fa così.” La tragedia parte infatti dall’idea dell’amore, indubbiamente la più grande passione dell’uomo, che viene analizzata sotto il filtro dell’esperienza di Romeo. Questi appare inizialmente in preda alla sofferenza per l’amore negatogli dalla casta Rosalina, su cui il giovane ha proiettato il suo sentimento, che appare idealizzato in una serie di immagini ossimoriche e contrastanti come lo è l’amore: “L'amore è una nuvola che si forma col vapore dei sospiri: se la nuvola svanisce l'amore è un fuoco che brilla negli occhi degli amanti; se s'addensa ai venti contrari può diventare un mare che cresce con le lacrime dell'amante. E che cos'è l'amore, se non una pazzia mite, un'amarezza che soffoca, una dolcezza che dà sollievo”. L’incontro con Giulietta gli rivelerà invece l’astrattezza di tale idea: la giovane Capuleti concretizzerà in sé l’immagine di bellezza e di luce in cui si specchia la passione amorosa, insegnando a Romeo ad amare non solo con la mente e con la parola, ma soprattutto con occhi e cuore. Quella che coinvolge i due protagonisti è stata definita una cotta adolescenziale, poiché presenta tratti come l’incapacità di attendere e l’idea di un amore perfetto ed eterno, per quanto giovane ed evidentemente sconosciuto; una cotta destinata fin dall’inizio a un annunciato esito tragico per la sua stessa intensità, contrapposta ai condizionamenti esterni provenienti dalla situazione delle famiglie. Paradossalmente solo nella morte, l’amore di Romeo e Giulietta raggiunge l’apice della sua realizzazione.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    25 Gennaio, 2015
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L’orrore del reale è nulla contro l’idea dell’orro

Macbeth è uno stimatissimo generale dell’esercito di Scozia, al servizio del re Duncan. Insieme a Banquo, ha avuto un incredibile incontro con degli esseri spaventosi, tre streghe, che gli hanno predetto il guadagno del titolo di conte di Cawdor e poi di re, mentre Banquo sarà capostipite di una dinastia di re. Dal momento che poco dopo Macbeth verrà insignito della contea di Cawdor, il suo animo inizia ad esser preso da una smisurata ambizione, che si scontra con il suo senso di moralità. Tuttavia Lady Macbeth, sua moglie, lo istiga ad uccidere il re dopo la cena. Riuscendo a vincere le sue esitazioni e dandogli manforte, i due compiono l’efferato assassinio di notte, facendo in modo di poter far ricadere la colpa sulle guardie al mattino dopo. I figli di Duncan, spaventati, scappano dalla Scozia, dando adito a sospetti su un loro coinvolgimento e, soprattutto, garantendo a Macbeth la corona, in quanto cugino del defunto re. Si realizza così la seconda profezia. Tuttavia ora egli è preso da cieco timore a causa della predizione a Banquo, pertanto ingaggia dei sicari incaricati di uccidere lui e suo figlio, Fleance, che però riuscirà a salvarsi Inoltre comparirà poi il fantasma di Banquo ad inquietare ulteriormente il tormentato re, che decide di incontrare nuovamente le Sorelle Fatali che gli forniscono profezie e visioni apparentemente tranquillizzanti: nessun uomo nato da donna potrà infatti eliminarlo e lui non sarà mai sconfitto finché il bosco di Birnan non avanzerà verso il colle di Dunsinane contro di lui. Poiché lo mettono anche in guardia da Macduff, ordina agli assassini di eliminare anche lui e la sua famiglia; ma Macduff è in Inghilterra da Malcolm, per richiamarlo in patria, non tollerando la tirannide di Macbeth. Mentre costoro organizzano il ritorno in Scozia per spodestare il tiranno, Lady Macbeth si uccide in preda a strazianti sensi di colpa, mentre suo marito, perso ormai ogni barlume di raziocinio, è deciso ad andare avanti incontro al destino. Ecco dunque che le ultime profezie delle streghe si concretizzano: l’armata nemica di Macbeth si maschera con dei rami, così sembra che il bosco avanzi; inoltre il re si viene a scontrare con Macduff, che dichiara di esser stato strappato dal ventre di sua madre prima del tempo e poi lo colpisce a morte. Diventa dunque re di Scozia Malcolm, ricomponendo l’ordine.

La tragedia contiene in sé numerosi motivi d’interesse, che ne fanno uno dei punti più alti dell’arte di Shakespeare.
La tematica fondamentale è, evidentemente, la brama di potere, tendenza così umana e frequente da interessare, anche se in modi e misure diverse, vari personaggi del dramma. Ovviamente centrali sono le figure del protagonista e di sua moglie, il cui pensiero e la cui azione sembrano seguire due percorsi opposti per confluire allo stesso punto: la morte. Macbeth è un uomo dilaniato internamente dal conflitto tra il suo istinto, che lo spingerebbe all’ambizione e al potere, e la sua razionalità, che lo vorrebbe trattenere nei limiti della moralità e della giustizia che tante lodi gli ha procurato. Al contrario, Lady Macbeth è una donna moralmente abominevole, pronta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi, avvelenando con le sue parole l’animo di suo marito e spingendolo a compiere un atto terribile, nella reazione al quale si concretizza il contrasto tra i due attraverso immagini eloquenti: Macbeth dice che neanche l’oceano potrebbe purificare la sua mano sporca di sangue, anzi assumerebbe esso stesso un colore purpureo, mentre sua moglie afferma che basterà qualche goccia d’acqua per lavare la sua mano assassina. Inoltre, mentre quest’ultima continuerà a vivere tranquillamente godendo degli effetti di quanto hanno ottenuto, il protagonista continuerà ad esser tormentato dai sensi di colpa; inoltre, nel suo animo, alla smisurata sete di potere, si sostituisce una lancinante paura di perdere quanto guadagnato, il che vanificherebbe l’orrore compiuto uccidendo Duncan. Ecco dunque che i ruoli tra i due improvvisamente e inaspettatamente si invertono: se Macbeth abbandona ogni indizio di moralità, inaugurando una serie di mandati d’assassinio per proteggere il suo potere e fortificandosi con le apparenti rassicurazioni delle Sorelle Fatali, Lady Macbeth inizia a dar di matto, palesando nel sonnambulismo i sensi di colpa che la spingeranno al tragico suicidio. Qui si inserisce un commento del protagonista di natura esistenziale: “ La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla: è una storia raccontata da un’idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla.”. La vanità della vita, per sua natura caduca e fragile viene condensata da Shakespeare in pochi versi d’incalcolabile incisività, che, per via della non casuale collocazione, suonano come la dichiarazione finale di un Macbeth oramai deciso ad andare fino in fondo e a sfidare il suo destino, pur celando un cattivo presentimento a tratti percepibile e che si dimostrerà ben fondato: le parole delle streghe l’hanno posto davanti a un’ingannevole verità, svelata dalla spada di morte di Macduff per giungere poi alla consueta ricomposizione dell’ordine.

L’altra tematica che costituisce uno dei tratti distintivi dell’opera è la costante presenza del soprannaturale. Il ruolo centrale di quest’elemento appare fin da subito evidente: l’apertura vede le Sorelle Fatali protagoniste, in una prima scena del tutto trascurabile ai fini della trama, dunque chiaramente funzionale ad introdurre la dimensione demoniaca che percorrerà l’intera tragedia. Le tre streghe (cui si aggiunge poi Ecate) non hanno nome né cari, hanno aspetto terrificante e disumano e si caratterizzano immediatamente come esseri appartenenti a un mondo che con l’uomo non ha nulla a che vedere. Qual è dunque il loro ruolo e cosa le spinge ad agire? In accordo alla loro mostruosa natura, le loro sibilline parole sono veicolo di veleno per la mente e l’animo umano, spinto così a compiere il male da creature che null’altro scopo nella vita hanno se non quello di seminare distruzione compiacendosi del male causato. Importante è notare il congiungimento tra la realtà sovranaturale delle streghe e quella degli uomini, rappresentato dalla realizzazione delle profezie: anche quelle della dinastia regale discendente da Banquo, che apparentemente non trova riscontro nella tragedia (Malcolm era figlio di Duncan), in realtà sembra suggellare il nuovo re d’Inghilterra Giacomo I, successore di Elisabetta I e di origine scozzese.
Alla sfera del soprannaturale appartiene anche il fantasma di Banquo, visibile solo a Macbeth, la cui funzione è quella di incrementare la tensione del dramma interiore di un pluriassassino sconvolto dalla mostruosità della sua mano. Anche Macbeth e sua moglie partecipano dunque di questa sovrarealtà, portando il soprannaturale nella vita umana nella scena dell’assassinio del re Duncan: il loro agire e i loro dialoghi sembrano congelati in una dimensione demoniaca sostituitasi temporaneamente a quella umana, incorniciata dal silenzio e dall’oscurità. Il controtrapasso inizia col picchiettare sulla porta, rumore che segna la reazione del mondo umano, il ritorno alla vita.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    23 Gennaio, 2015
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L'inspiegabilità del male

Otello, detto “Il Moro”, è un comandante al servizio di Venezia che ha sposato Desdemona, figlia del nobile senatore Brabanzio; questo viene informato del matrimonio “innaturale” da Roderigo, aspirante alla mano di Desdemona e pertanto istigato da Iago, alfiere di Otello che tuttavia trama alle sue spalle per un presunto torto di letto e per un torto d’onore: Otello ha infatti nominato come suo luogotenente Cassio e non lui. Otello viene incaricato dal doge di andare a Cipro per allontanare i Turchi e lo segue anche la sua sposa. Lì Iago, forte della fiducia, più volte affermata, di Roderigo, Cassio e Otello, riesce a far destituire Cassio dalla sua posizione col contributo di Roderigo. Inoltre egli insinua nella mente del Moro il sospetto che Cassio sia divenuto l’amante della sua sposa, infiammando l’animo del generale con prove ingannevolmente addotte, su tutte un fazzoletto che Otello aveva regalato a Desdemona e che sua moglie Emilia, amica di quest’ultima, gli aveva procurato trovandolo per terra: Iago fa credere a Otello che Cassio ne fosse in possesso, il che diventa per lui la prova definitiva. Schiacciato dalla gelosia che ha ormai sconfitto il suo sentimento d’amore, il Moro, aizzato ancora una volta da Iago, uccide di notte Desdemona, la quale fino all’ultimo reclama la sua incolpevolezza e ribadisce il suo amore di fronte a tutto. Sopraggiunge dunque Emilia, che viene a scoprire dunque l’inganno ordito da suo marito. Quando tutti giungono e scoprono la morte di Desdemona, la donna rivela le trame di Iago, il quale nel frattempo si era liberato con l’inganno di Roderigo, ma non aveva potuto far lo stesso con Cassio. L’alfiere di Otello uccide su due piedi la moglie, ma subito dopo il Moro, colpito dai rimorsi della verità, si uccide a sua volta in nome del suo amore. Iago viene quindi portato via, ma alla confessione preferisce il silenzio e la tortura, mentre Cassio prende il posto di Otello.

La tragedia è palesemente giocata sulle opposizioni tra i personaggi che la popolano. Otello e Iago sono ritratti in maniera diametralmente opposta a partire dal colore della pelle, elemento significativamente sovvertitore del tradizionale simbolismo che vedeva riflessi nel bianco la purezza e l’onore e nel nero la barbaria e il satanismo. Essi dunque ben rappresentano l’inganno cui la realtà spesso sottopone gli uomini, troppo superficiali per andar oltre i loro sensi. Ai due uomini corrispondono due donne, che, sebbene non messe in contrapposizione, rivelano inevitabilmente il divario tra loro esistente in termini sociali e morali attraverso i loro discorsi e le loro azioni, pure tenendosi sempre fedeli l’una all’altra.

Il personaggio di Otello contiene in sé l’instabilità delle passioni umane che tutti noi esperiamo quotidianamente. In lui il trapasso da un’emozione all’altra avviene quasi inavvertitamente, con una naturalezza tipica dei più riusciti personaggi shakespeariani, individui comuni e al tempo stesso unici nel loro genere. Ecco dunque che il Moro passa in un attimo dall’amore all’odio, dalla dolcezza al furore della gelosia, dalla cieca e sorda follia omicida all’amaro pentimento; passaggi bruschi e continui determinati, come nella vita di tutti i giorni, da avvenimenti, parole e pensieri indotti parimenti dal mondo interiore e da quello esterno. Al contrario Desdemona, forse il personaggio più irreale della tragedia, si fa portavoce della stabilità: ella non contravviene mai all’ordine prestabilito, non ribellandosi al suo amato, nemmeno quando è sul punto di ucciderla, e facendosi immagine della perfezione morale in accordo alla cristianità. Il suo saldo e intoccabile amore sopravvive a tutte le pene che il suo nobile cuore le procura, conferendole quasi un’aura di divinità, soprattutto se paragonata alla schietta umanità di Emilia. Tutti i personaggi sono tuttavia sovrastati da Iago, fin dall’inizio vero protagonista della tragedia. In grado di catalizzare l’attenzione su di sé, l’alfiere di Otello palesa fin da subito i suoi intenti, comunicati al pubblico in una continua rottura dell’illusione scenica attraverso monologhi che, oltre ad accrescere il pathos, poiché l’informazione è sempre incompleta, ne evidenziano il carattere. Iago è un infido, in grado di manipolare tutto e tutti a suo piacimento, facendo leva sull’immeritata fedeltà che tutti gli riconoscono (Roderigo, Cassio, Otello, Desdemona). Può essere considerato una sorta di anti-Amleto: a differenza dell’altro celebre personaggio shakespeariano, in cui il pensiero soverchia l’azione rendendolo incapace di agire secondo il suo destino per 4 atti, Iago fin dal primo atto agisce senza ritegno, servendosi delle sue parole ingannatrici e sibilline affinché gli altri si comportino secondo i suoi piani e intervenendo senza esitazione in prima persona quando necessario. Ma quali sono i suoi scopi? Iago pretende di vendicare un non meglio precisato “furto” di donna subito da Otello e la mancata nomina come luogotenente. Tuttavia, ciò che di lui stupisce, meravigliando e sconvolgendo al tempo stesso, è l’assoluta indifferenza con cui gioca con le emozioni e le aspirazioni degli altri. Egli ha evidentemente il controllo della situazione, grazie alla forza del suo multiforme linguaggio, capace di mascherare la verità come più opportuno in ogni situazione, servendosi tanto di oscene licenziosità quanto di pungenti reticenze. La sua estraneità a qualsiasi tipo di morale ne fa un personaggio emblematico in quanto freddo e lucido calcolatore la cui soddisfazione risiede solo nel portare a compimento le sue trame, a confronto delle quali le giustificazioni addotte nient’altro sono che pretesti per compiere il male senza il benché minimo bagliore di pentimento. Il suo silenzio finale, segno di disinteresse anche nei confronti della propria sorte oltre che di quella altrui, è una delle più ardite e intelligenti trovate di Shakespeare, in grado di svelare una tragica e misteriosa verità sulla natura dell’uomo: il male esiste, ma non è spiegabile.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    19 Gennaio, 2015
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Realtà VS Apparenza

La scena è in Egitto dove Elena, moglie di Menelao, si trova ormai da 17 anni, poiché, come narrato dalla stessa protagonista, il suo ratto non è stato che un mero inganno ordito da Era. Adirata per l’oltraggio subito nel momento in cui Paride ha preferito a lei e ad Athena Afrodite, che l’aveva allettato promettendogli la bellissima "Elena dalla bella chiom"a in cambio, nel mitico giudizio delle tre dee, la moglie di Zeus aveva infatti forgiato un’illusoria immagine della donna fatta di nuvole cosicché mentre Greci e Troiani sono a combattersi per un simulacro vivente, la vera Elena è rifugiata in terra d’Egitto alla corte del nobile re Proteo. Quest’ultimo è però morto e ora la donna è entrata nelle mire del suo spregevole figlio Teoclimeno, a cui non vuole concedersi in ossequio alla sua fedeltà per suo marito Menelao. Quando giunge Teucro a informarla della fine della decennale guerra di Troia, del mancato ritorno a Sparta di Menelao, di cui non si hanno notizie, e della morte di sua madre e dei suoi fratelli, Elena è fortemente disperata. Viene tuttavia a sapere dall’indovina Teonoe, figlia di Proteo, che Menelao è vivo e molto vicino. Di lì a poco infatti il re spartano sbarca in Egitto in abiti cenciosi, tanto che Elena sulle prime non lo riconosce; Menelao, invece, che portava con sé la falsa Elena e l’aveva fatta chiudere in una grotta perché non scappasse, rimane sconcertato dall’incredibile somiglianza della donna a sua moglie. Elena cerca di convincere il marito della sua identità raccontando la vicenda del fantasma, ma il ricongiungimento avviene realmente solo grazie all’intervento di un compagno di Menelao, che gli comunica la sparizione dell’eterea immagine della falsa Elena, ricomponendo i pezzi del puzzle. La coppia è dunque di nuovo insieme ma bisogna escogitare un modo per scappare, poiché Teoclimeno vuol fare della donna sua moglie. Scartate le idee combattive del marito e portata dalla loro parte Teonoe, dopo aver giurato di scappare insieme o uccidersi insieme, Elena e Menelao attuano il piano escogitato dalla scaltra donna: fingendo di aver ricevuto da un vecchio (Menelao) la notizia della morte di suo marito, questa chiede e ottiene da Teoclimeno una nave per celebrare, secondo il presunto uso greco, il rito funebre per Menelao morto in mare, promettendo maliziosamente di sposarlo subito dopo; i due dunque si allontanano dalle coste egizie andando verso il loro lieto esito del ritorno a Sparta. Teoclimeno, informato dell’accaduto da un messaggero che era riuscito a scappare dalla nave dei due, si scaglia irato contro la sorella Teonoe loro complice silenziosa, ma intervengono i Dioscuri, fratelli di Elena e da poco divinizzati, i quali lo fermano, affermando che tutto è accaduto secondo il volere divino e preannunciando la futura divinizzazione della stessa Elena.

Pur rientrando certamente agli occhi del pubblico ateniese nel genere della tragedia, per via della materia mitica di cui tratta, l’Elena è un dramma che sfugge ad ogni classificazione per via dei diversificati elementi che concorrono a formarne la struttura. L’happy ending, meno preferibile e meno frequente seppur consentito, l’ambientazione esotica, lo stravolgimento formale delle tradizionali strutture della tragedia e alcune caratteristiche dell’intreccio che sembrano preludere alla commedia nuova hanno fatto sì che essa fosse variamente definita ilarotragedia, tragicommedia, dramma borghese, tragedia romanzesca. Tra le varie etichette affibbiate all’opera particolarmente significativa è quella di dramma filosofico: innegabile è infatti la presenza in sottofondo di una vena filosofica che serpeggia nell’Elena come nella gran parte della produzione euripidea, strettamente legata alla sofistica del periodo in cui si inserisce. Centrale nella tragedia in analisi è un tema particolarmente caro ai sofisti: il doppio. La dicotomia della realtà si esprime in ultima analisi nel rapporto-scontro tra realtà e apparenza. L’esempio più evidente di ciò è la scomposizione dell’io della protagonista che viene totalmente rivisitata da Euripide: Elena, storicamente paradigma di seduzione e adulterio, assurge al rango di nobile donna fedele e innamorata di suo marito e soffre della cattiva fama procurata al suo nome dalla sua falsa immagine fatta di nuvole. Ciò che di lei dice Teucro è ciò che tutti i Greci dai tempi di Omero pensavano di lei; Euripide segna in questo modo una spiazzante innovazione destinata certamente a catturare l’attenzione dei suoi spettatori per evidenziare quanto ingannevole può essere l’apparenza. Di ciò è esempio anche il nuovo Menelao portato in scena: vedere un eroico re del mito ridotto in stracci doveva certamente fare un certo effetto al pubblico teatrale. Il dramma si gioca dunque su un radicale capovolgimento del mito tramandato dalla tradizione, in un intreccio giustamente definito romanzesco che si concluderà col lieto fine ai danni di un antagonista. Il contrasto sofistico tra due diversi è inoltre ben espresso anche dal confronto tra la donna, che punta sull’astuzia, e il marito, che fa leva sulla forza fisica. In quella che potrebbe essere vista come una parodia tragica dell’epica, l’eroismo di Menelao viene rifiutato e forse velatamente schernito (si è parlato a proposito di lui di miles gloriosus) a favore di una risoluzione lontana dall’epos e dai valori della superata civiltà della vergogna e più vicina ai gusti che si imporranno con la commedia nuova. Anche in questo saper conciliare la tradizione epico-tragica e i gusti in mutamento del pubblico risiede l’abilità del tragediografo innovatore.

Il complesso rapporto tra apparenza e realtà, che tanti danni ha causato, mostra chiaramente la vanità e il mistero che avvolgono la vita dell’uomo. E la guerra di Troia, sempre viva nel ricordo e nelle parole dei personaggi che l’hanno vissuta, Menelao su tutti, potrebbe dunque esser considerata l’emblema della vanità e della pericolosità dell’agire umano basato sull’apparenza, in contrasto con la serenità di un ambiente esotico come quello egizio in cui risiede la verità (Fin troppo facile è scorgere, negli infausti ricordi del sanguinoso conflitto a Ilio, un riferimento alla nefasta guerra del Peloponneso, che all’epoca della rappresentazione vede Atene in netto svantaggio). Di nulla l'uomo può esser certo nella vita se non dell’impossibilità di una conoscenza salda della realtà e della sua impotenza di fronte alla sorte prestabilita dalle divinità: "Le forme del divino sono molteplici, e molte le azioni degli dei contro le nostre attese. Quel che si credeva possibile non si realizza, mentre un dio fa accadere l’impossibile. Così termina questa storia."

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    18 Gennaio, 2015
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Tragico conoscere

Tragedia dall’incalcolabile fortuna nei secoli, fu definita dall’autorevole voce di Aristotele nella Poetica la perfetta concretizzazione dei meccanismi dell’azione tragica: il passaggio da una situazione di felicità ad una di infelicità attraverso un mutamento non dovuto a un errore ma ad una peripezia e/o ad una agnizione, un riconoscimento, che è quanto accade nell’Edipo re.

Nel prologo troviamo Edipo, divenuto re di Tebe dopo aver liberato la città dal terribile mostro della Sfinge risolvendo il suo enigma, alle prese con la pestilenza che affligge la popolazione. L'oracolo di Apollo ha vaticinato che la città è macchiata dalla presenza dell’assassino di Laio, predecessore di Edipo, ucciso da briganti sulla strada verso Delfi. Edipo proclama dunque un bando che prevede l’esilio per l’assassino e per chiunque lo nasconda, lanciando sul responsabile delle maledizioni. Segue uno scontro verbale con l’indovino Tiresia, interrogato al fine di scoprire l’identità di colui che macchia Tebe; questo però ritiene più opportuno non parlare. Di fronte all’insistenza dell’adirato Edipo, Tiresia gli dice che l’assassino è lui. Il re inizia dunque a sospettare che lui e Creonte tramino per spodestarlo, generando l’indignazione sia di Tiresia, che gli predice che il colpevole sarà scoperto entro la giornata e mendicherà in solitudine fino alla fine dei suoi giorni, sia di Creonte, con cui ha una forte discussione. Interviene a separarli Giocasta, moglie di Edipo e sorella di quest’ultimo, la quale lo invita a non prestar fede agli oracoli: le era infatti stato predetto che Laio sarebbe morto per mano di suo figlio, invece è stato ucciso a un trivio da briganti mentre si recava a Delfi. A sentir queste parole, Edipo inizia a sospettare di esser lui l’assassino del re, ricordando di aver ucciso un vecchio uomo e la sua scorta a un trivio mentre si allontanava da Corinto: aveva infatti avuto un orribile vaticinio, secondo cui avrebbe ucciso suo padre e si sarebbe unito a sua madre. Manda dunque a chiamare l’unico servo di Laio sopravvissuto all’aggressione fatale, il quale si era subito allontanato dalla reggia tebana quando Edipo fu incoronato. Giunge poi un messo da Corinto ad annunciare la morte del re Polibo, padre di Edipo, che dunque si rincuora a sentir il fallimento di una parte della profezia. Quando chiede di sua madre, tuttavia, il messo gli svela che Polibo e sua moglie non hanno con lui alcun legame di sangue: egli stesso l’aveva preso quando era ancora in fasce da un servo di Laio, lo stesso servo sopravvissuto. La terribile verità, già intuita da Giocasta che tenta di distoglierlo dall’indagare oltre, è per Edipo vicina: il servo di Laio, giunto a palazzo, svela di non aver ucciso il neonato come ordinatogli.Il protagonista, in preda alla disperazione rientra urlando nel palazzo. Un messaggero annuncia dunque il suicidio di Giocasta e l’accecamento di Edipo con delle fibbie d’oro, in quanto non c’è per lui più nulla che valga la pena vedere. Compare poi Edipo che saluta e compiange il triste futuro delle sue figlie e implora Creonte, l’unico ora in grado di reggere la città, di esiliarlo, in quanto odiato dagli dei.

Il protagonista svolge una profonda analisi su se stesso per scoprire il mistero che avverte nel suo passato; tuttavia il progressivo disvelamento di ciò che non conosce lo porterà a scoprire una terribile verità, da cui molti tentano di distoglierlo (Tiresia, Giocasta, il servo di Laio), ma che costituisce il fulcro della vicenda esistenziale di Edipo. Identificandosi e non identificandosi nell’assassino di suo padre e nel marito di sua madre, Edipo marca un distacco tra la sua volontà e il suo destino. Sia lui che Giocasta hanno tentato di sfuggire al futuro vaticinato loro dagli dei, fallendo miseramente nei loro intenti. Si realizza così la vittoria del destino, in cui si manifesta il supremo volere divino, sulla volontà: Edipo è responsabile di un’azione compiuta involontariamente in adempimento ad una sorte cui riteneva di potersi sottrarre; ma il fato è cieco e si realizza al di là del volere umano. Si tratta di un tema che doveva profondamente colpire lo spettatore ateniese della seconda metà del V secolo, in cui si era ormai affermato il razionalismo, legato alla volontà e al concetto di responsabilità. La moderna cultura veniva così a scontrarsi con la lontana cultura magico-primitiva tipica del mito, che, per quanto lontana, non poteva che generare inquietudine e riflessione sul tema della colpa.
Il conoscere assume così nella vicenda di Edipo un alone di tragicità: simbolo della coraggiosa indagine su sé stessi, la sua figura si carica tuttavia anche di una valenza negativa. Chi vuol sapere più di quanto gli è concesso, pecca di tracotanza e viene inevitabilmente punito scoprendo la terribile verità che si cela dietro l’apparenza della realtà. Significativa è in questo senso la punizione che Edipo sceglie di autoinfliggersi: egli si priva degli occhi, quegli occhi colpevoli di non aver visto come avrebbero dovuto e, allo stesso tempo, di aver guardato dove non avrebbero dovuto. In tal modo il protagonista rifiuta platealmente la sua realtà.

Altra tematica al centro della tragedia è dunque quella del mutevole destino umano. “Guardate uomini di Tebe: Edipo è questi, che sciolse l’enigma famoso e fu potente tra gli uomini. Nessuno mirò senza invidia la sua fortuna; ed ora vedete in quale gorgo di sciagura è precipitato. E allora fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore”. Così canta il coro nel canto d’esodo, chiarificando mirabilmente il concetto che il tragediografo esemplifica nella vicenda di Edipo: la vita dell’uomo è sconvolgentemente fragile e tutto ciò che lo riguarda è soggetto al cambiamento incontrollabile. Il passo dalle stelle all’abisso è terribilmente breve.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    11 Gennaio, 2015
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La razionalità dell'irrazionale

Tragedia ad alto tasso di filosofia, Le Baccanti, considerate il capolavoro della produzione di Euripide, sono aperto manifesto della cultura del relativismo e della nuova tragica concezione dell’esistenza umana.

Il dramma si apre col prologo di Dioniso/Bacco, dio del vino e dei campi, sopraggiunto a Tebe per introdurre il suo culto nella città. Figlio di Zeus e Semele, egli non è creduto di natura divina dalle sorelle di questa (Agave, Ino, Autonoe) e da Penteo, suo nipote (figlio di Agave) e attuale re tebano. Per punire il re e la città per l’oltraggio subito, Dioniso ha punto tutte le donne della città instillando in loro il germe della follia cosicché si sono tutte radunate sul monte Citerone a celebrare i riti sacri al dio in preda al furore bacchico: sono dunque diventate le Baccanti. Ciononostante Penteo non si lascia convincere anzi, fa imprigionare il dio Dioniso, travestito da un giovane che dice di esser stato mandato dal dio per introdurre il culto di Bacco. Questo tuttavia si libera agevolmente; intanto dal Citerone giunge un messaggero a riferire le sconvolgenti azioni delle Baccanti, che al segnale divino, come prese da follia, lo celebrano con danze e canti sfrenati, bevono vino sgorgato dalle rocce, squartano a mani nude delle bestie e si aggirano per i villaggi vicini distruggendoli e rapendo bambini. Dioniso convince dunque Penteo a recarsi sul monte per osservare da vicino quanto ascoltato travestito da donna; una volta lì, issatolo su un ramo perché potesse veder bene, istiga le Baccanti che con inaudita violenza lo aggrediscono e la sua stessa madre, Agave, lo sgozza e torna trionfalmente al palazzo con la sua testa su un bastone, pensando di aver ucciso un cucciolo di leone. L’anziano Cadmo, padre di Agave e nonno di Penteo, che aveva appreso tutto da un messaggero, dissolve l’obnubilazione della donna, che così riconosce inorridita il figlio ucciso. Appare dunque ex machina il dio Dioniso, che annuncia di aver progettato ciò come punizione per l’empia città di Tebe che non ne ha riconosciuto la natura divina e condanna Agave e Cadmo ad allontanarsi dalla città; i due dunque si separano, in preda al lancinante dolore.

Dominante nel dramma è il tema della conoscenza. Vengono contrapposte la sapienza antica tradizionale e la saggezza reale razionale: affermata la scarsa attendibilità della prima, legata a modelli predefiniti e poco legati all’evidenza della realtà quotidiana, è tuttavia messa in discussione anche l’utilità di una ricerca della verità, umanamente inattingibile. Questo atteggiamento è un netto contrapporsi alla razionalità socratica e sofistica. Ma chi è dunque il sapiente? Come più volte evidenziato sapiente è colui che, raggiunta la consapevolezza della sua incapacità di conoscere, accetta l’incompletezza della dimensione razionale, dedicando pertanto la sua vita a occupazioni comuni e non a impossibili indagini. Sapiente è colui che non conosce, che non conosce la sua infelicità o la reprime abbandonandosi ai piaceri, ben rappresentati dal vino. Ecco dunque il ruolo del dio Dioniso, universalmente simbolo dell’irrazionale e della follia, come ben evidenziato dai suoi riti misterici e dal furore prodigioso ed inspiegabile delle Baccanti. Penteo, sovrano privo di leggi (poiché contrario al culto dionisiaco), si pone dunque in netta antitesi con Dioniso, alla cui figura si uniformerà secondo un graduale processo in cui rilevanti sono in particolare i due dialoghi serrati col dio stesso, prima e dopo il suo arresto. Nel primo, estremamente significativo ai fini del senso globale della tragedia è l’affermazione del dio secondo cui i barbari che hanno già accolto il suo culto si sono dimostrati in questo più razionali dei Greci; è evidente la tesi di fondo: l’accettazione dell’irrazionalità è quanto di più razionale un uomo possa fare, riconoscendone l’inevitabilità e la dirompente e incontrastabile potenza. Dimostrazione di ciò è quindi il secondo dialogo tra i due, successivo al resoconto del messaggero, in cui Penteo comincia a risentire degli effetti della follia vedendo doppio e iniziando a intravvedere i segni caratteristici di Dioniso (le corna di un toro). Nella contraddizione universale, Dioniso e Penteo si rivelano dunque speculari: Penteo diventerà Baccante e Dioniso assume i tratti di uno spietato despota. Nella sua morte violenta si può a ragione vedere anche la sconfitta ultima del sapere, a ribadire nuovamente che sapiente e felice è chi vive giorno per giorno, non curandosi di capire ciò che non è in grado di conoscere. Inoltre la tragica fine di un eroe tragico come Penteo rappresenta simbolicamente il nefasto destino di chiunque osi sfidare la legge non quella civile ma quella divina. E che a mettere in atto tale punizione sia Dioniso, apparentemente sovvertitore dell’ordine e dell’equilibrio, evidenzia chiaramente la sua parità rispetto agli dei olimpici, colpevolmente non riconosciuta dal sovrano di Tebe: l’irrazionalità va riconosciuta come parte integrante dell’esistere umano. La follia instillata dal dio viene dunque tratteggiata come elemento necessario per una vita beata e si manifesta in modo cruento per coloro che la rifiutano e nella serenità per chi la accetta. Il trionfo del dionisiaco sull’apollineo, in questa tragedia più che mai lampante, sarà uno dei motivi che spingerà Nietzsche a considerare Euripide il momento di morte della tragedia, che perde il suo valore di indagine sulla razionalità dell’uomo: l'irrazionale è divenuto razionale e la vita inconoscibile.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    06 Gennaio, 2015
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Donne contro la guerra

Lisistrata è una delle più note commedie di Aristofane in quanto ispirò motivi che saranno in seguito variamente rivisitati; si inserisce in modo originale nel dibattito sulla guerra del Peloponneso in cui Atene era coinvolta contro Sparta in un momento di estrema difficoltà per l’esercito ateniese, che pochi mesi prima aveva incassato una pesante sconfitta.
Protagonista è una donna ateniese, Lisistrata, nome parlante che vuol dire “colei che scioglie gli eserciti”, la quale, stanca della guerra che ormai imperversa da vent’anni andando verso un infausto esito, propone alle altre donne provenienti da ogni parte della Grecia di intraprendere uno sciopero del sesso fino a che gli uomini non stipuleranno la pace. Vinte le iniziali titubanze, le donne danno inizio al loro piano e, inoltre, si chiudono nell’Acropoli, luogo deputato tradizionalmente agli uomini in quanto sede del tesoro grazie a cui far la guerra. Seguono alterchi tra il coro di uomini, indignati ed esterrefatti per l’insolenza delle donne, e il coro di donne, che rispondono a tono ritenendo di poter gestire la situazione in maniera più adeguata al benessere di Atene e della Grecia. Nonostante le defezioni di alcune incapaci di resistere all'astinenza, la protesta prosegue. Il piano di Lisistrata è di condurre gli uomini all’esasperazione affinché cedano alle loro richieste spinti dalla mancanza del sesso: esempio più evidente di ciò è l’esilarante scena tra Cinesia e Mirrine, la quale, secondo le istruzioni di Lisistrata, lo seduce facendogli credere che verrà meno al giuramento, lo eccita temporeggiando all’inverosimile per poi fuggir via al momento clou. La situazione per gli uomini diventa insostenibile cosicché il piano delle donne va a buon fine: Ateniesi e Spartani, disposti a tutto pur di riavere le loro donne, stipulano la pace con la supervisione delle donne capeggiate da Lisistrata. La commedia si conclude così in un’atmosfera gioiosa.

La Lisistrata si aggiunge al lungo elenco di opere in senso antibellico dal commediografo realizzate. Caratteristica peculiare di questa commedia è la cosiddetta carnevalizzazione della realtà che ha luogo sulla scena teatrale, ossia l’inversione del tradizionale ordine delle cose nella vita quotidiana. Ecco che dunque protagonista attiva è una donna, non un uomo come solitamente accadeva, la quale, insieme a concittadine, prende un’iniziativa del tutto impensabile nella società ateniese e, in generale, greca antica: ribellarsi agli uomini e porli in una condizione di subordinazione, utilizzando la loro arma più forte, ossia il sesso. Inoltre le donne si arroccano sull’Acropoli, luogo ad esse assolutamente vietato, e impongono la loro gestione del tesoro e, di conseguenza, della politica della polis, storicamente appannaggio esclusivamente del sesso maschile, a culminare nella scena in cui gli uomini stipulano la pace sotto lo sguardo giudice delle donne. Il mondo carnevalesco inscenato si riflette anche nel microscopico, come ben evidenziato dalla scena di Mirrine e Cinesia, akmé della potenza comica della trama aristofanea: mentre le seduce, Mirrine esercita evidentemente il controllo sull’eccitato marito, arrivando a rifiutarsi di far l’amore per terra per non disonorarlo (tradizionalmente erano le donne a procurarsi una reputazione da poco di buono prestandosi a rapporti sessuali per terra) e a giurare in nome di Apollo, giuramento attestato solo in bocca a uomini (le donne giuravano su divinità femminili quali Era, Afrodite, Artemide). Si è fatto dunque Aristofane portavoce di istanze in favore della popolazione femminile? Più volte si è fatto passare il commediografo per un difensore delle donne, anche in virtù delle Ecclesiazuse, affini per la carnevalizzazione sociale a favore di queste ultime; tuttavia considerarlo un primo femminista sarebbe evidentemente un tendenzioso anacronismo e una grave imprecisione interpretativa dal momento che la vittoria delle donne sugli uomini altro non è che la denuncia della decadenza morale di Atene, in cui valori civili e politici sono sottomessi ormai agli istinti. Caratteristica fondamentale del mondo carnevalesco inoltre è il suo esaurirsi nell’ambito della manifestazione teatrale. Aristofane non è un rivendicatore d’uguaglianza sociale e questo è ben evidenziato dal fatto che, già al termine della Lisistrata, l’ordine tradizionale viene ristabilito dagli uomini che riconducono a casa le rispettive donne, tornate, come sempre, in loro possesso. In questo modo, senza che fosse destato il benché minimo sospetto di aver di fronte un sovvertitore degli equilibri sociali, gli spettatori ben comprendevano che l’inversione di ruoli altro non era che espediente comico sapientemente usato dal più alto commediografo della letteratura greca per coniugare diletto e impegno politico.

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