Opinione scritta da Portoro
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Campo libero
Il senso del limite (cultura e civilizzazione) è connesso a un'abitudine di regole e codici morali condivisi, più o meno avvertito nella misura in cui si partecipa alla vita sociale. In un contesto di desolazione suburbana, fra rioni demoliti in attesa che vengano su nuovi grattacieli, quattro fratelli restano soli: prima muore il padre, per un infarto; poi la madre, che passa dal lutto a una malattia di giornate a letto e interminabili dormite con i farmaci sul comodino.
Questa agonia è una sorta di preparazione allo sbando completo che vivranno i figli: Julie, diciassette anni e naturale mamma vicaria; l'io-narrante Jack, torvo quindicenne devastato dall'acne; Sue, tredicenne cavia introversa della curiosità sessuale dei primi due; Tom, il più piccolo, già vittima di bullismo a scuola, che alterna il desiderio di travestirsi da ragazza a quello di tornare neonato accudito.
L'estinzione dell'autorità è campo libero: la macabra euforia per una simile conquista, inattesa, altera il sentimento dei ragazzi persino rispetto alla scomparsa dei genitori: la gerarchia tra fratelli è più blanda, talvolta si dissolve in aperta complicità, ambigue effusioni, "esperimenti" e sfoghi - come quando mamma e papà si assentavano e loro potevano giocare senza più regole. La fine del controllo è l'inizio di un graduale regresso, imbarbarimento che trascura l'igiene della casa, anarchia alimentare, nottambulismo.
Il decesso della madre, peraltro, coincide con lo scoppio di un'estate impietosa e con la chiusura delle scuole. L'incertezza, il timore che i servizi sociali intervengano, e che la casa finisca rasa al suolo, come inghiottita dalle macerie tutt'intorno, induce i ragazzi a nascondere il cadavere materno in un baule e a riempirlo di cemento.
Tutto il romanzo verte sui simbolismi psicologici - Jack sogna spesso una scatola di cui non osa verificare il contenuto; e gli impulsi a trasgredire la legge, già presenti quando il padre era in vita, dilagano. Julie e Sue assecondano Tom, ne fanno una grottesca bambola con tanto di parrucca; Jack è ogni giorno più geloso della sorella maggiore che, in modo più o meno esplicito, sembra incoraggiare il suo desiderio. L'isolamento degenera in una autarchia famigliare, in un volontario ritiro che soffoca angosciato e, al tempo stesso, si crogiola nella propria emarginazione. Lo sviluppo dell'adolescenza di Jack, tra brufoli e cattivi odori, va in parallelo con la putrefazione che spacca il cemento, apre una fessura nel sepolcro. Questo sogno maleodorante, percorso da ostilità, tensioni, erotismo, culmina nell'incesto, che segna anche il brutale ritorno alla realtà.
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Il kibbutz (spoiler)
Il romanzo ci porta dentro un kibbutz di confine presentando, per quasi duecento pagine, l'intera comunità: un caso di socialismo ebraico applicato, con episodi quotidiani, rituali, tresche, invidie più o meno latenti, e lo spauracchio arabo di là dei monti.
L'insieme è un po' noioso, alla stregua del menage di pettegolezzi che descrive: l'arguzia di Oz, e la sua finezza analitica, innegabile ma discontinua, risultano insufficienti a reggere. Si va avanti per il credito letterario dell'autore, e in parte si è ripagati dall'entrata in scena di un "cattivo" che mette in subbuglio l'ordinaria piattezza della vicenda. Fin lì, la visione critica, ironica a tratti, dei principi fondativi, la fisiologica incongruenza degli ebrei di buona volontà, rischiava di far naufragare l'opera in un affresco di scontato realismo: il poeta Ruben che, abbandonato dalla moglie, infine cede a una relazione con una donna sposata; il marito di costei, Ezra, camionista, che sembra accettarne l'infedeltà finché non seduce (o è sedotto) dalla figlia sedicenne di Ruben, e addirittura la ingravida.
Lo scandalo, i risvolti di una vendetta che mina un intero sistema morale, rimanda di continuo alla moglie del poeta fuggita in Germania (cioè a casa degli assassini), e al destino ebraico inteso come sconfitta passiva, resa incondizionata, tanto alle "corna" quanto, a un livello antropologico e storico, alla ghettizzazione e all'Olocausto.
Il cattivo, Siegfried, fratello di Ezra, giunto anch'egli dalla Germania, introduce l'elemento della strategia, della manovra senza scrupoli (desidera la ragazza, col pretesto di ricondurla dalla madre); una riaffermazione della volontà che spesso coincide con la smania distruttiva, col gusto di corrompere una purezza idealizzata (a Mezudat Ram nemmeno i bambini sono puri).
Oz, in questo kibbutz, propone un mondo che tende al miglioramento, con incidenti di percorso, fallimenti, derive - ma che, in linea di massima, progredisce. La chiave è l'amore, in senso profano, un respiro sentimentale che prende fiato dal perdono, e dalla libertà che implica perdonare.
Il segno di questa scelta esprime, quindi, una certa fiducia nell'uomo; ma è ineluttabile che il risultato, una famiglia allargatissima, tradisca qualcosa a metà fra l'inverosimile e il consolatorio. La ragazza incinta si sposa col coetaneo Rami, innamorato fin dall'inizio; l'anziano Ezra si riavvicina alla moglie, la quale accoglie la giovanissima rivale in quanto figlia di Ruben (morto). Ogni personaggio, purgato da una sofferenza specifica (un lutto, una delusione) riconsidera le proprie convinzioni, le smussa pur di sopravvivere. Ma è una sopravvivenza che somiglia troppo all'accomodamento e ricalca i dettami di un lieto fine edificante.
Va da sé, in Israele c'è bisogno anzitutto di questo - oggi non meno di quarant'anni fa, quando il libro è stato pubblicato.
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Suicidarsi nella radura
Già il luogo in cui Roithamer decide di suicidarsi, una radura, rievoca Heidegger e quell’improvviso diradamento nell’Essere che, in “Correzione”, è rovesciamento definitivo (un cappio, una corda legata a un albero). Il rapporto andrebbe approfondito: ci sono numerose testimonianze dell’avversione di Bernhard per questo “ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava” (così in “Antichi maestri”), ma resta più di un sospetto: anche la ripetitività della prosa, la cadenza ipnotica della narrazione, e in fondo tutti gli ambienti spogli idonei al pensiero (la soffitta di Hoeller, per esempio, e lo stesso Cono, irraggiungibile, occultato al centro della foresta di Kobernausser) rimandano a quella sorta di mistica ontologica che Heidegger praticava nella sua baita, in piena Foresta Nera. La disciplina monastica dell’esercizio intellettuale, il progressivo ritiro dalla vita sociale, la strenua difesa della propria natura o “personalità”, con radicale dispiegamento di insofferenze e ribellioni al quotidiano più gretto, assumono in Bernhard il carattere dell’intransigenza assoluta, e sfumano in una maniacalità di rituali via via più precisi, quasi mortali. Tutto è professione di purezza, un lavorio in cui si radunano con tenacia ossessiva le risorse vitali dell’individuo: idee, progetti, audaci realizzazioni. L’esistenza è intesa come un’opera che pretende il massimo sforzo, anche metodologico. Senza di questo, è nulla. Ma anche il compimento dell’esistenza si rivela, al culmine, Nulla. Roithamer concepisce il Cono, edificio di cui non esistono precedenti in Europa, per la felicità di sua sorella; tuttavia – di fatto – il completamento dell’opera implicherà la morte della creatura da lui più amata, e la fine della sua vita medesima (come scienziato, come uomo). Questo destino di annientamento è avvertito in ogni singolo istante, ridimensiona qualsiasi esperienza, prima materiale, poi spirituale – in una funesta escalation in cui tutto è connesso (all’infanzia, al susseguirsi di fallimenti emotivi e sentimentali). L’effetto comico raggiunto in diversi passaggi scaturisce, quindi, da fondamenta tragiche: la colossale fossa comune della Storia occidentale; la storia, verrebbe da pensare, della coscienza umana.
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Un bacio sulla fronte
(Anche) “A colpi d’ascia” è una stupefacente liquidazione del mestiere romanzesco e, in particolare, della composizione accademica: completo disinteresse per l’allestimento narrativo e per la strategie di suspense. Tutto in Bernhard è scrittura, decostruzione di una ipocrisia connaturata nell’uomo e, anzitutto, nell’intellettuale. La scena del romanzo è psichica, con sollecitazioni esterne perlopiù luttuose (qui il suicidio di un’amica e, come accade sovente, un suicidio “annunciato”) o ridotte a spunto per raccontare, tra insofferenza e plateale esaurimento, grette abitudini sociali, una sorta di nevrosi austriaca e, nella fattispecie, viennese (la “cena artistica” a casa dei coniugi Auersberger). La scrittura si affida a una spirale di elucubrazioni e instancabili rimuginii, senza mai scivolare in flusso di coscienza – perché non si tratta di riprodurre soliloqui, come farebbe un guitto degli stili letterari, ma di abbandonarsi al rinvangare ossessivo del pensiero. Così, a ogni pagina, ritornano parole emblematiche, tipo “disgusto”, “rivoltante”, “catastrofico”, “atroce”, “nauseante”; o intere frasi in un concatenamento della più profonda sfiducia nel genere umano, a cominciare dalle sue istituzioni (lo Stato ridicolo, il disastroso Burgtheater, etc. ). Il giudizio impietoso sulla meschinità dell’Uomo, tra vittime e carnefici che si scambiano il ruolo, si abbatte in primis sui sentimenti. L’amore, ineluttabilmente, diventa odio; l’amicizia feroce disprezzo: Bernhard stesso patisce questo deterioramento degli affetti: negli anni Cinquanta, spiantato, adorava gli Auersberger, frequentava con assiduità la loro casa, sopraffatto dagli agi borghesi, da un’aristocrazia dello spirito alla quale, giovane e inesperto, desiderava innalzarsi. Trent’anni dopo, la biblioteca di famiglia, gli arredi d’epoca, i cibi prelibati, la mondanità di cui aveva profittato, gli appaiono un adescamento, una menzogna. I suoi amici l’avevano, sì, riconosciuto come scrittore e introdotto nella società degli artisti, ma non si era trattato di “mecenatismo”; lui si era inserito in una storia di grandiosa ospitalità che riempiva un vuoto coniugale dilagante, aveva interpretato la parte del giullare per una coppia letteralmente devastata dalla noia. Tutti i rapporti, di fatto, si giocano su questa reciproca economia, con un debitore che, presto o tardi, si sente in credito. La posta in palio è l’identità, e il “valore” che ciascuno sente di rappresentare. Perciò, alla fine, non c’è pietà né perdono – nonostante ci si congedi, per sempre, con un bacio sulla fronte.
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Il declino ovunque
Si arranca un po’ a leggerlo, ma si va avanti - con passo rassegnato da corteo funebre. Ogni tanto c’è una grande pagina che si eleva dalla cenere – il nero stilistico, ali di un corvo, è così lucido da sfavillare: proprio sulla scorta di questi bianchi intensissimi val la pena di affrontare Bernhard. I suoi romanzi, d’altronde, mirano dritti all’obitorio della civiltà, andrebbero sfogliati sulla panchina di un cimitero, col sottofondo di un’upupa. Per apprezzarli bisogna trovarsi in sintonia con i requiem, avere un debole per tetri paesaggi al crepuscolo, subire il fascino della deteriorabilità, patire un macabro interesse per l’organico e per il destino di putrefazione che accomuna qualsiasi forma di vita. “Gelo”, quindi, è un romanzo rivolto anzitutto ai materialisti indefessi, agli atei risentiti che vorrebbero distruggere il mondo per vendetta, agli oncologi mancati che ripiegarono, chissà perché, sulla letteratura. Se la parola “speranza” rievoca subito il concetto di menzogna, e se si intende il suicidio come un atto di suprema lucidità, uno scrittore come Bernhard è davvero il massimo. Una sorta di evangelista del nichilismo secondo cui ogni Verità, di per sé, è un abisso di miserie, furti e sciacallaggio; un baratro di voracità cannibalesche, di slanci effimeri che subito ricadono in uno stato di abbrutimento ancora più violento. Non si salva nessuno da questo colossale mattatoio in cui ci si macella a vicenda. Il teatro è un borgo sperduto fra i monti, in una conca opprimente, semiassiderata e piena di carogne. Sepolti nella neve, residui bellici, ordigni che esplodendo mutilano i bambini; c’è anche un fiume in cui galleggiano carcasse di mucca, un bosco in cui si aggirano scuoiatori becchini e operai di una centrale elettrica in costruzione, una cupa umanità ingobbita, elucubrante, spinta dalla “lussuria” imbecille. Gli episodi sono una concatenazione di disgrazie d’alta montagna: l’incendio in cui muore una contadina, o un giovanotto nel fiore degli anni schiacciato dalla propria slitta; poi la contemplazione delle salme, e il funerale. In tutto questo, gli interminabili monologhi di Strauch, portavoce di una filosofia che nega il Senso e qualunque possibilità di evoluzione. Non gli si può dare torto; però, forse, la tira un po’ per le lunghe.
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Dal film al romanzo
Ieri ho visto "La Vénus à la fourrure" di Polanski. Un'occasione per ripensare al classico di Sacher-Masoch e a un intero apparato di riferimenti - non tanto clinici quanto culturali: "Il freddo e il crudele" di Gilles Deleuze, per esempio, che definisce la relazione fra sessualità e Legge (la figura del Padre); ma anche questo film bellissimo.
Il pretesto narrativo è l'audizione per una piece su "Venere in Pelliccia". C'è un teatro e due soli personaggi: Thomas, il regista snervato da un'intera giornata di prove, e l'ultima candidata al ruolo di Wanda. La Seigner, sontuosa, è divisa in una schizofrenia fra lo stereotipo dell'attrice sgallettata e il rigore della virago erudita, che polemizza col testo di Sacher-Masoch e col regista stesso. Sembra incarnare, di fatto, la Venere crudele del romanzo, e bastano poche battute per comprenderlo: dopo le schermaglie iniziali, col racconto del rocambolesco viaggio in metropolitana, e con voluti strafalcioni per fuorviare Thomas (il tipico intellettuale frustrato), la donna tira fuori una voce gelida e imperiosa - e il regista si ritrova così, suo malgrado, nei panni di Severin. Ma non era questo il suo inconscio desiderio? Nel film, il gioco scoperto della finzione si avvale (anche) di una certa magia sonora. Quando i due fingono di bere il caffè, si avverte in lontananza il tintinnio dei cucchiaini, il vibrare in mano della tazzina; quando mimano la stipula del contratto, si ode flebile il fruscio della carta. L'incanto della rappresentazione - tout court - è nella fluidità dei ruoli fra vita e Teatro, e delle identità personali che si riveleranno intercambiabili. Per Wanda, non a caso, il rapporto fra la Venere e Severin è ambivalente e, a ben guardare, il dominato (che induce all'accordo scritto, che implora abusi, castighi, umiliazioni) è il vero dominatore, che riduce la donna a oggetto "strumentale": è la sofferenza fisica a rendere possibile l'eccitazione sessuale di Severin. Allo stesso tempo, nell'infatuazione di Wanda per il greco Papadopulos, si cela l'omosessualità latente dello schiavo, che ambisce a una sorta di virilità per interposta persona.
La Seigner è una sprovveduta che banalizza Sacher-Masoch in un porno psicologico, o una baccante del femminismo pronta a fare a pezzi Dioniso?
Consiglio il film e, naturalmente, il romanzo.
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Una grande testimonianza umana
Questo libro di Lalla Romano è un memoir amoroso, e non può che parlare (anche) di morte. Non ci sono cadute macabre né compiacimenti sentimentali. Consta di due parti: la prima, "Quattro anni", relativa alla conoscenza col futuro marito Innocenzo Monti; la seconda, "Quattro mesi", resoconto della malattia di lui, "diminutio" e progressivo allontanamento che lo condurrà alla Fine (ma l'Eterno, come si dice nella postfazione, è tempesta). Un'opera di altissima testimonianza umana, di sentimenti grandi, senza pose né allusioni monumentali, in cui riverbera con spaventosa purezza il mito di Eros e Thanatos. L'amore, nella maggior parte dei casi, implica un addio tragico, e il dilemma: meglio morire prima o dopo dell'altro? Il "destino biologico" non si può decidere, va da sé, e il libro lo racconta affidandosi a una prosa asciutta, levigata. Gli affetti, l'amicizia, i ricordi dell'infanzia, tutto converge in questa storia a due, tra libertà e possesso, spirito e carnalità. C'è Lei, l'artista coi suoi egoismi e slanci, l'intemperanza, la pretesa di vita selvaggia; e c'è Lui, Innocenzo, l'uomo di banca che fa carriera, poeta che non scrive, ma erudito, fruitore d'arte - superiore in tutto poiché senza atteggiamenti, senza vanità d'autore. "Nei mari estremi" è una sorta di omaggio, l'ultimo, all'uomo meraviglioso, il compagno, il maestro di pietà di Lalla Romano - degno dell'amore che li ha uniti in vita, questo sentimento è rivissuto pagina dopo pagina con onestà e, in una certa misura, con sconcerto: perché è assurdo che sia finito (in due tombe sovrapposte, come stavano nel vagone letto; lui sotto, lei sopra).
In termini letterari il romanzo è formidabile, aggira l'autoreferenzialità per osservare con distacco perfino la disperazione - senza urlarla, senza gettarla addosso al lettore. Tutto è sobrio, se non addirittura austero - una bellezza senza ornamenti, di pensiero filosofico che amoreggia, di astrazioni che si fanno corpo, e talamo. Ancor più di un libro stupendo, una lezione, una vera e propria "stilistica" dell'Amor Profano.
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Questioni di meteo
In questo romanzo piove un po’ troppo. Si comincia a imbarcare acqua fin dalla prima pagina, e poi via a precipitazioni sparse, anche di una certa intensità. Ma è niente rispetto al diluvio lessicale che attinge dall’italiano, dal barbaricino, e da quell’ineluttabile mescolamento che troviamo nel “popolo”. In tanti scrittori contemporanei (tutti radicatissimi nella propria terra) c’è una nostalgia del pensiero rustico – ma filtrato, riorganizzato in termini editoriali fino alla parodia più o meno involontaria. Riprodurre l’ingenuità implica una prosopopea odiosa, cioè un complesso di superiorità da fini letterati (...), e l’esito – non di meno – è piuttosto goffo. In pochi, tuttavia, sembrano accorgersene. Questi libri contaminati, tra Arcadia e folclorismo, si vendono. Piovono fitti in libreria. Spesso si parla di “stile”, piuttosto che di moda. O di “poetica”, in luogo di operazione editoriale. Un’operazione scrupolosa, che si regge sulle specialità del posto con erudite concessioni al vocabolario alto, e a una fraseologia da ricamo industriale. Ma di cosa si sta parlando? Di un giallo sardo. Omicidio, indagini, macchiette di provincia che vanno e vengono sullo schermo aristocratico del narratore Poeta. Concetti poveri che, in balia di una studiatissima prolissità, sembrano già qualcos’altro (filosofia?). Descrizioni minuziose, leccate, che lasciano sgomenti come un quadro iperrealista. E, ancora, similitudini dell’entroterra, metafore da agriturismo, etnografia velata di politica (non troppo, però). Consigliatissimo per capire lo stato della narrativa italiana.
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Cosa fare della propria vita?
Quella sera dorata è un romanzo sul mutamento di situazioni, sentimenti e prospettive di vita. La materia mutante è sempre lì, in vista, anche se non si riesce a metterla a fuoco o a fissarne i punti di viraggio: Cameron riporta lunghe conversazioni, pranzi, cene, merende, silenzi, passeggiate fra gli alberi, alludendo a uno scarto di “inesprimibilità” che orienta le scelte dei suoi personaggi, agiti dall’inconscio più che attori di una coscienza. È un romanzo di viaggi e addii, con una base malinconica che non degenera mai in facili struggimenti. Omar e Arden, Caroline e Adam, Pete e Deirdre hanno una buona caratterizzazione, e una chiara identità lessicale, il che è importantissimo per un’opera che si regge su dialoghi insistiti. Questo, al di là delle centinaia di “disse” e “rispose”, è un pregio, poiché la conversazione, sebbene fluida e piegata di continuo dall’ambiente circostante, non appare mai casuale o dispersiva. L'impianto narrativo è solido, e la lettura piacevolissima.
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Una creatura da ripudiare
Harriet e David sono una coppia di semidisadattati con una visione della felicità piuttosto "fuori moda": nel pieno fermento libertario degli anni Sessanta, credono nella famiglia e anelano di mettere al mondo otto figli. Ostentano un tradizionalismo audace: comprano una villa a tre piani nella campagna inglese, con tanto di ipoteca, e il papà di David (un armatore miliardario) finisce per accollarsi le spese.
Non c'è approvazione intorno ai giovani sposi, ma i loro slanci irresponsabili attirano la curiosità e la benevolenza un po' interessata del parentado: in breve tempo diventano il centro di una famiglia allargata, e la villa è subito meta di pellegrinaggio.
La prima parte del romanzo mette in scena la realizzazione di un progetto morale e di vita, coi figli che si susseguono in un continuo viavai di gente per casa, e la felicità che dilaga smussando conflitti caratteriali e di classe. Gli stessi Harriet e David ne sono meravigliati: la notte, abbracciati, quasi si vergognano della loro esistenza gioiosa dove ogni sacrificio è premiato e ogni problema si risolve quasi da sé (soprattutto dopo che la madre di Harriet e un'amica vedova si sono trasferite alla villa per dare una mano).
Per alcuni anni si verifica una sorta di appiattimento temporale dominato da un'euforica convivialità e da un'indifferenziata vacanza, mentre i due protagonisti insistono nel loro sogno privo di anticoncezionali. Finché non arriva la quinta gravidanza, cioè una quinta sfida alla sorte. Già l'anomala vitalità del feto è un tetro segnale.
La storia qui sembra rivelare un andamento metaforico, col Male che, infine, presenta il conto. Dopo pochi mesi Harriet è distrutta, e si fa prendere dai nervi. Scaramucce, tensioni, incredulità fra gli invitati permanenti che a ogni buon conto la perdonano: è stanca, si capisce, partorisce a getto continuo, e non ne può più. Qualcuno, infatti, suggerisce una pausa. Lei è inquieta, va dal medico, che però la rassicura. Ma più che una gravidanza sta affrontando un calvario. Il bambino si contorce, scalcia di brutto, e Harriet non riesce più a dormire. All'ottavo mese dà alla luce un mostro giallognolo di cinque chilogrammi, con un viso strano e lo sguardo freddo che non intenerisce nessuno. Tutti, in sua presenza, avvertono ripugnanza, se non proprio terrore. Chi è Ben? O meglio, cos'è?
Cresce duro, scostante, ottuso, senza apprendere nulla, sviluppando una forza erculea che sperimenta qua e là, strangolando prima un cane, poi un gatto. Non ci sono prove, ma i parenti si allontanano poco a poco. La villa si svuota. La famiglia stessa si disunisce: David ammette che quella creatura non può essere "suo figlio", e teme per gli altri bambini - i quali, istintivamente, hanno già scartato il povero Ben. Il quinto figlio è allora spedito in una specie di Cottolengo inglese, costretto in una camicia di forza nell'attesa che tolga il disturbo fra gli escrementi.
Ma Harriet (il fatale amore materno) non resiste, si fa cinque ore di macchina per raggiungere l'istituto e prelevare il suo bambino. Questo fatalismo distruttivo, che manderà all'aria il progetto iniziale, è l'aspetto preminente della parte centrale dell'opera. E il personaggio della madre si erge ridimensionando tutti gli altri, un po' gretti e deludenti al suo cospetto.
Il libro è bello, senza retorica, sebbene vi aleggi un Eterno Ritorno della barbarie, con espliciti riferimenti all'involuzione degli anni Ottanta e al proliferare della criminalità da baby-gang. La prosa è asciutta, con un narratore onnisciente che a tratti fa rimpiangere soluzioni narrative più "moderne".
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Il romanzo dell'evasione
Leda è una docente universitaria quarantottenne, separata, madre di due figlie che, ormai adulte, si trasferiscono in Canada. Rimasta sola, si scopre poco afflitta; anzi, in una certa misura, liberata. Parte per una villeggiatura col suo bagaglio di frustrazioni letterarie e sensi di colpa da emancipazione (in passato, nel tentativo di realizzarsi, aveva temporaneamente abbandonato le figlie).
L’isolamento vacanziero innesca continui flashback (più o meno autocritici) e bilanci esistenziali. Molte pagine se ne vanno così, ripercorrendo una casistica di penosi affrancamenti: la donna volitiva che si ribella alla schiavitù della maternità; l’intellettuale fine che si discosta da una rozza discendenza femminile di napoletanità casalinghe; la studiosa di letteratura inglese che lotta invano contro le sguaiataggini della sua parlata, etc. Se ne ricava una biografia che cerca riscatto nell’affinamento culturale, e, anche, nel ripudio delle origini: la costruzione, pietra su pietra, di un’identità nuova è il destino dei “diversi”?
Leda, per sua stessa ammissione, è un po’ snob.
Durante la villeggiatura si scopre attratta da Nina, una giovane mamma che frequenta lo stabilimento balneare. Dall’ombrellone, la osserva giocare con la figlia Elena e una sinistra bambola che diventa presto simbolo condiviso di femminilità in embrione. Leda è affascinata dal placido erotismo di quella simbiosi, ma al tempo stesso dal potenziale eversivo, individualistico, di Nina, in cui rivede se stessa da giovane. Inizia quindi un gioco di proiezioni. La giovane mamma, infatti, è circondata da una chiassosa famiglia “allargata”, napoletani invadenti, socievoli sul filo di una violenta aggressività che manipola, gestisce, ricatta gli altri bagnanti (e, col nome di “Camorra”, il resto del mondo). Leda, che ha la fissa dell’incivilimento, ruba la bambola e inizia a coccolarsela e a “lavorarci” nella solitudine della sua villetta presa in affitto. Vuol ripulire quella creatura di gomma, sgravarla del limaccio che ha bevuto (uno sperma sabbioso, fecondante). In verità, non sa spiegarsi l’esatta ragione di un simile comportamento, ma lo porta avanti nonostante il dramma scatenato nella piccola Elena, che, senza la sua bambola, si dà in capricci interminabili, contesta la mamma, e mette a soqquadro l’intero paese.
Il romanzo, a questo punto, vira sul thriller, con tensioni lesbiche calibrate e psicologismi ben sorretti. Nell’insieme, una buona lettura che, per quanto mi riguarda, dopo “I giorni dell’abbandono”, esaurisce il capitolo Ferrante.
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Il pene quotidiano
Il romanzo analizza la dimensione femminile nel momento dell’abbandono: il “che cos’ha lei più di me”, l’isterismo sboccato, l’introspezione ossessiva, lo smarrimento, la graduale accettazione che scivola in disincanto, con l’ineluttabile condanna del maschio (egoista, poligamo) e dei sentimenti in generale (pantomima finalizzata al sesso). È un’operazione accorta, che ripercorre i luoghi comuni della rinuncia casalinga: la donna cede il passo alla madre, la carriera affonda nelle sabbie mobili della famiglia. Il tema, serio, non lascia mai questo sentiero già tracciato. Il che induce a facili immedesimazioni, in contesti quotidiani, comuni, dove le ambizioni giovanili e il culto del sex appeal s’infrangono contro incombenze domestiche indefettibili: la caffettiera sul fuoco, il cane da portare ai suoi bisogni, un figlio che vomita: tutto, in questa realtà del focolare, ha la precedenza sui sogni. Come può, una donna, non abbrutirsi? È il suo stesso sacrificio che la fa tramontare. E lui, il marito, il banalissimo Mario, cerca un nuovo inizio con una donna più giovane – solo per ripetere, forse, un ciclo erotico prestabilito, fatale.
Il libro ha venduto, e se n’è tratto un film. C’è un buon dispiegamento del discorso, con sporadica comparsa di trovate linguistiche e immagini “letterarie” in un insieme, tuttavia, modesto. Spiace la sproporzione tra l’appiattimento di certe dinamiche psicologiche, ridotte a mera “genitalità”, la sciatteria bisillabica di «fighe», «cazzi», «culi», e il rilievo prolisso, un po’ noioso, dato alla manualità delle faccende svolte “con la testa altrove”. È la distrazione improvvida della madre affranta che immagina suo marito «fottere» con l’amante... L’esito materialista, brutale, basso, è offerto saltando a piè pari un itinerario di elucubrazioni più elevate, a maggior ragione se si considera che la protagonista ha velleità da scrittrice.
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Crash
Il romanzo è ripetitivo, a tratti noioso, forzato nella dimostrazione della tesi che lo ispira: l’investimento erotico sull’automobile come estensione più o meno metaforica del corpo (insieme di particolari anatomici), e come teatro elettivo dell’atto sessuale. Sarebbe stato più opportuno – credo – farci un saggio, anche per analizzare con modalità più oneste la disumanizzazione tecno-pornografica, la deriva gelida di un’idea fissa che, girando e avvitandosi su se stessa, dimentica l’Altro, collassa in una lugubre solitudine di progetti meccanici (incentrati, di fatto, sulla morte).
Nella postfazione, la parte più interessante del libro, Ballard svela tutta la serietà dei suoi intenti – ma questo non basta a salvare l’opera, che vive di picchi isolati, perlopiù clinici, con relativi geyser di sangue, vomito, sperma e liquidi di raffreddamento.
La psicopatologia, è vero, amplia il panorama umano e culturale, purché non ci si limiti a descrivere una mera casistica con episodi ossessivi, un po’ inerti, e si affronti l’intera dinamica eziologica restando comunque nell'ambito dei codici umani.
Solo così, da lettori, possiamo risalire alle cause, ai patimenti “scatenanti”.
Il romanzo è una forma di umanismo, anche se i mezzi per esprimerlo cambiano. Ma i personaggi di Crash somigliano a robot, o terminali erotici, e nessuno, nemmeno chi abbia questo tipo di sessualità, può davvero comprenderli.
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Una grandiosa marcia funebre
Gli ultimi cinquant’anni dell’Impero, con Francesco Giuseppe al trono, rappresentano il tentativo di conservare lo Stato nonostante tutti i segnali di un epilogo già in corso. È la decadenza, coi suoi rituali svuotati, le manovre in attesa di una guerra che si preannuncia fatale, il patriarcato cattolico, il mantenimento dell’ordine e dell’obbedienza nei sudditi, un imponente sistema pedagogico che mira al mantenimento di una cultura organica e sovranazionale. Il romanzo segue in parallelo la vicenda dei Trotta e quella dell’imperatore: un’epopea identificabile col declino di un’epoca che impasta burocrati e soldati, e che si regge su formalismi alienati, su una virilità che tace i sentimenti, incapace di manifestarli e, talvolta, di provarne. Tutto è un riverbero di fede (negli Asburgo, e in Dio), una sonnolenza di valori trasmessi con ottusità, per inerzia, di padre in figlio. Ci si sveglia quand’è troppo tardi, nel pieno di un incubo storico, e il pathos dilaga solo per dirsi addio, e morire.
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La persistenza
“Le braci” è il libro della persistenza: per vocazione è destinato a restare al mondo, e lo merita, perché è un capolavoro.
Questo è un giudizio di valore che non osserva la mera struttura dell’opera (un lavorio paziente sulla suspense) o lo stile (di rara purezza), ma l’avvicinamento ai grandi temi dell’umanità, il modo in cui risuonano, caldi, pagina dopo pagina, tratti dal metallo freddo di un’arpa.
La prima parte, col flashback sulla fanciullezza dei due amici, s’avvale d’una lentezza maestosa, un po’ ottocentesca, ma senza i cedimenti o la prolissità che, talvolta, caratterizzano le recrudescenze di quel secolo: è un realismo in cui i travi d’una casa di famiglia scricchiolano, e fuori, la vecchia campagna crepita al sole. Quando la temperatura scende, ci si ritrova in penombra, coi pendoni spessi di una tenda, i bracci dei candelabri che già attendono i ceri; e alla parete, una sequela di ritratti a olio, con uno spazio vuoto...
Ogni elemento descrittivo è vivido, reso elegante da uno sguardo che s’è allenato nell’isolamento, e col ricordo. Il protagonista stesso, un generale supersite dell’Impero asburgico (e della cultura mitteleuropea) ha trascorso quarantuno anni in attesa: sapeva che il suo amico Konrad sarebbe tornato, e il momento è giunto (in un contesto serale, d’imminente congedo: perfetto e, forse, inutile).
L’incontro costituisce la seconda (altrettanto bella) parte del romanzo: è un monologo-retrospettiva degli inavvertiti sfaldamenti di quella amicizia, uno sparso rosseggiare di braci in lungo e in largo – con una donna ormai defunta, la moglie del generale, che adesso impone degli interrogativi e l’istruzione di uno struggente processo alla vita. Tutto verte sul destino, su una radice inestirpabile che determina l’Uomo, lo condanna a un’identità e, in un certo senso, all’Errore.
Le braci ne rappresentano, appunto, la tenue sopravvivenza – quel residuo passionale, d’attaccamento e di senso di proprietà, che si mantiene nella memoria di quanto si è perduto.
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La burocrazia dei peccati
Il riferimento a Boccaccio, in Piero Chiara, è spesso dichiarato anche in epigrafe ai suoi romanzi (“Il Pretore di Cuvio”, “Spartizione”), ma non è certo un omaggio erudito. È, semmai, la consapevolezza di percorrere una strada classica di narrazione pura e vitale, piena di gusto per i fatti umani: un Decamerone ridotto, provincializzato, in balia di una nuova piccineria ancor più comica, forse (perché è più miserabile e tragica), dell’originale .
Anche qui, in riva al Lago, abbiamo una quotidianità scarna, cattolica, di vizi nascosti e ingobbiti. E tre sorelle, tre disgrazie che solo la parrocchia poteva accogliere. La turbativa è un uomo insulso come gli equilibri che è venuto a rompere: un abitudinario, un gretto fatto per l’iter della burocrazia in un’Italia già fascista. Si chiama Emerenziano: arriva, scruta, misura; e si mescola, tiepido, alla freddezza locale. Deciso a prender moglie, posa gli occhi sui tre sgorbi. Attratto dalla sorella di mezzo, Tarsilla (quella dalle gambe lunghe), sceglie la più anziana, Fortunata, la cui peculiarità sono i capelli lunghissimi; ma ha notato anche la più piccola, Camilla, il cui pezzo forte è rappresentato dalle mani. Si assiste così a una serie di magre schermaglie con inviti pretestuosi e stentata conversazione, e con pranzi noiosi a cui nessuno, preso com’è dai propri calcoli, si ribella.
L’infelice metronomo della religione inizia a perdere colpi, e le possibilità della lussuria aleggiano, danno ai personaggi una certa svagatezza: li osserviamo cambiare poco a poco, tutti, finché non si raggrumano in una promiscuità incestuosa, miope, scandita da turni grotteschi. Ecco a notte alta quella taciturna sex machine di Emerenziano passare da una camera all’altra delle tre sorelle, calendarizzare il “dovere”, elargirlo con equanimità; e udiamo levarsi voci e giustificate malignità in paese...
Il meglio di Piero Chiara è proprio in questa cronaca impietosa di banalità e camuffamenti, dove la macchietta sfugge per un istante al sorriso cattivo che suscita, e si rivela in tutta la sua sfortunata povertà, anche storica.
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Il nano peloso
In Piero Chiara l’ingranaggio narrativo non perde un colpo : c’è un’ambientazione provinciale di mezze figure sulle quali s’impone il protagonista nano, Augusto Vanghetta, con le sue avventure amorose di fedifrago compulsivo che segnano il carattere farsesco della vicenda, e il limite letterario, anche, d’un certo gusto per la macchietta. Il pretore scimmiesco che cornifica in lungo e in largo una moglie morta di sonno (salvo mettersi in casa lo smidollato che gli renderà la pariglia) è un movente un po’ debole; allestire questo teatrino nell’Italia fascista non basta a riscattare l’istrionismo di fondo, e tutta una serie di anticipazioni che, in parte, smorzano la sorpresa della lettura. Gli spunti, quindi, non si trovano in quello che accade, ma in “come” Piero Chiara racconta.
Moltissima letteratura, è vero, scaturisce da un pretesto, tuttavia qui mancano dei picchi - psicologici e stilistici. Nell’insieme, il romanzo non aggiunge né toglie al genere “provinciale”.
Resta però un ottimo esempio di narrazione leggera, di “tocco”.
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Il povero Agostino
Giudicato dai più “romanzo di formazione”, Agostino è un espediente psicanalitico per affrontare lo spauracchio dell’impotenza sessuale. Moravia è abilissimo nel trasferire questa dubbiosità all’italiana sull’insicurezza di un adolescente al suo debutto in società (la banda dei ragazzi poveri): il sospetto che l’incivilimento borghese sottragga all’Uomo qualcosa di vitale è elaborato per mezzo della spietata competizione che vede il protagonista (di famiglia agiata) soccombere. La sua raffinatezza è un handicap su tutti i fronti, diventa la metafora di una superiorità “debole”, svirilizzata rispetto alla brutalità e alla malizia degli altri ragazzi. Percosso, dileggiato, sconfitto a braccio di ferro, Agostino è preso di mira dal bagnino pederasta, e, in un’angosciosa gita in barca, lo respinge. La banda però non gli crede, e lui si conferma l’ultimo dei maschi.
Lo sfondo di questo fallimento è incestuoso: la madre da cui Agostino si allontana, ingelosito e perdente al cospetto del suo nuovo fidanzato. Tuttavia, rispetto al motivo dell’impotenza, quello dell’incesto è più fiacco, pruriginoso. Al di là dei rimandi edipici, la Madre è troppo avvenente per assurgere al simbolico: una Giocasta di un metro e quaranta e centoventi chili metterebbe in crisi il Mito, e gli stessi specialisti. Moravia però non si lascia prendere la mano, e dà al suo acerbo Edipo l’antidoto: un bordello in cui sostituire alla mamma... una puttana.
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L'artista allo specchio
È un libro sincero in cui l’acutezza di Brancati non si cela dietro intenti parodistici, ma penetra nella condizione del “masculo” per sprofondare nell’idiozia del suo chiodo fisso. L’impianto filosofico (un determinismo dell’appagamento, rubizzo e iperteso) è affidato all’epopea baronale dei Castorini, la cui voracità erotizza e fotte, anche a tavola. Paolo emerge, sbilenco, come una sorta di monumento funebre che reca in mano la torcia fallica della famiglia, e ne segna il declino per una sorta di autocoscienza. Solo suo padre, l’esangue Michele, aveva presentito il tragico epilogo di una genia ingorda, ottenebrata (che, insieme al godimento, reitera l’impossibilità d’essere felice).
C’è un distinguo fra sensualità e lussuria, e il romanzo lo marca attraverso una vicenda barocca di continui inseguimenti fra il disegnio della fantasia sessuale e la sua attuazione. Tutti i moti ascendenti dello spirito sono così disgregati dalla compulsione “bassa”, che precipita nutrendosi delle scorie prodotte. È questo il richiamo al Diavolo, o alla nevrosi, laddove il piacere non corrisponde agli istinti, ma all’abbrutimento; laddove il riscatto è morale, e anelante una specie di mistica geograficamente connotata (il Sud dei santi): un'ebetaggine rovesciata, casta.
Sarebbe stato il capolavoro di Brancati, se non fosse intervenuta la morte, a sigillo. Ma è un romanzo che ha comunque ispirato moltissimo, perché mette davanti allo specchio gli struggimenti di tanti artisti che, né più né meno, hanno amato la Donna, senza poter essere all’altezza del loro amore.
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Appunti su Alcott
I.
Interrompo Alcott, a pagina 30, allarmato dagli elementi pedagogici che pur m’aspettavo e dai continui solleciti alla rinuncia intesa quale supremo atto d’amore – pedagogia o educazione civica dei sentimenti che destina così al martirio il povero cittadino abbiente. L’episodio natalizio, con la parata d’innocenti piccole donne che sotto la guida della madre-gendarme sfilano verso la casa dei vicini pezzenti (i quali, in barba alla miseria, proliferano) è davvero crudele – s’apre qui una tremenda forbice tra una formazione individuale sana e il rovinarsi sociologico mutuato dalla cristianità masochista.
L’imprinting a cui Alcott sottopone il lettore è l’immagine di un continuo annullamento dei propri bisogni in tributo a valori più alti, il petulante differimento di qualsiasi soddisfazione personale a vantaggio di un paradiso che subentrerà poi, a ricompensa e/o indennizzo. La stessa Jo, ribelle, si muove nell’ambito di questo dogma anzitutto materno, perlomeno in tutto il primo capitolo, sebbene il padre, cappellano in guerra, sia una legge che nell’assentarsi dalla vita famigliare ha trovato nella moglie un prete supplente impareggiabile: Casa March è una gendarmeria del cuore.
Ne sono stupito per due ordini di motivi: il primo è il carattere esplicito di una vera e propria catechesi della rinuncia, ma in termini così immediati da rasentare il terrorismo – non ho letto il Cuore di De Amicis, e non trascuro una certa bava nazionalista tipica dell’Ottocento unitario, tanto in Italia e in Germania quanto negli Stati Uniti, dove la Guerra di Secessione rappresentava un pretesto ideale per il solito monoteismo welfare alla romana, un Dio che sostanzia il proprio ente in qualcosa tra Robin Hood e l’Inps; il secondo è la mia esperienza personale, laddove gli errori di generosità, bisogna ammetterlo, sono un derivato culturale cristiano-cattolico: sono, in altre parole, una manifestazione d’imbecillità indotta, acquisita.
II.
Gli indizi di una liaison tra Meg e Laurie sono tre: i primi due si ricavano da quanto Jo rivela subito dopo aver scoperto il “premio” per la rinuncia mattutina, col paradiso dolciario inviato da Mr. Laurence, il cui nipote è «in gamba», anche se «Meg fa tanto la sostenuta» e non vuole che gli si rivolga la parola; più sotto, riferendo della restituzione della gatta (il gineceo esteso perfino al regno animale), è ancora Jo a raccontare di aver chiacchierato col giovanotto, «di cricket e di altri giochi, ma poi, quando [egli] ha visto che arrivava Meg, se n’è andato». Se la sorella maggiore è il baluardo, la security sulle minori, i suoi interventi non sono tanto riconducibili alla protettività quanto a un debole, che in certi ambienti ingessati è tradito appunto dall’ostilità, da un reciproco tener la distanza. Più che protettiva Meg appare dunque incuriosita – e in termini narratologici quella di Alcott è una finta. In chiusura di capitolo si legge ancora «È la prima volta che ricevo un bouquet: come è bello!» disse Meg guardando i suoi fiori.
La liaison s’instaura poi nel secondo capitolo, durante la festa, ma tra Laurie e Jo, di fatto proseguendo gli approcci di cui s’era letto nel primo capitolo.
Il motivo dei fiori è l’ennesimo pretesto per rilanciare la bellezza della povertà; anzi, la miseria quale unico presupposto della gioia più autentica. La purezza è vista nell’essenzialità, nello scheletro, in quanto ridotto ai minimi termini – così le rose di Beth, già appassite, son più care a Mrs March di quei fiori freschi. È inteso: non perché regalate dalla figlia, ma poiché vizze, perdenti rispetto all’omaggio di Mr. Laurence.
Va da sé che su uno sfondo pallido e malaticcio i colori staccano meglio, i contrasti vivono se l’humus è un’agonia. Quindi la spontanea esuberanza della fanciullezza avvalora i disastri politici di un tracollo imputabile soltanto agli adulti: i genitori che fanno la guerra, per esempio... Immessa senza colpa in contesti menomati, in spenti focolari bellici, la fanciullezza col suo portato dovrebbe riscattarli, anzi, transvalutarli – per rendere accettabile la miseria, la si elegge a valore massimo, la si rende desiderabile. Così l’arte d’arrangiarsi, l’inventiva di camuffare una toppa, l’illusionismo degli imbrogli per decoro, coi guanti invertiti e la strategia dello stare al muro per nascondere la bruciatura in Jo, o il ballare in scarpe troppo strette fino a slogarsi una caviglia in Meg: questo martirio della felicità a denti stretti, questo partir volontari al fronte della partecipazione sociale sarebbe il divertimento che le grandi dame, così vincenti, si perdono...
Qui c’è già, oltre all’incentivo evangelico degli ultimi che saranno i primi, una retorica della sopportazione, esercizio femminile al dolore, allenamento, apprendistato d’una sofferenza costitutiva che Alcott rappresenta col piglio agguerrito e civico di chi erige il monumento alla donna: ma assecondando quel tipico maschilismo allestito da madri, nonne, vecchie zie: la gendarmeria della grazia asservita ai maschi giudici, ma vessata (anche) dai tribunali femminili della concorrenza; l’imperativo categorico dell’acchiappo che sopporta lacerazioni e piaghe in tributo a una buona riuscita, a un’apprezzabilità di fondo, e che dia per riscontro una proposta di matrimonio vantaggiosa, un buon partito insomma...
È interessantissimo, tanto più nei preparativi di Jo e Meg, quando si esplicita un lavorio paradossale che mira alla naturalezza; un elaborato acqua & sapone che non tramonterà mai, fermo restando il presupposto idealistico per cui una moglie la si sceglierà col metro della purezza dimessa, di una semplicità plagiabile e controllabile, mentre il sofisticato, il fashion, pertiene all’intrattenitrice sessuale.
Il moralismo ottocentesco quindi eleva nella donna tutti quei valori di passività e di bassezza canina che la rendono innocua, supina e/o prona a una volontà mascolina di mero dominio; e la disponibilità sessuale che anche Alcott teorizza è così ricambiata col sovvenzionamento matrimoniale, diventa moneta di scambio per trovar posto in società.
In questo senso, si profila ancora una retorica dell’attesa – i preparativi, il tempo necessario affinché il tempo... maturi. L’esempio della seta, che alle piccole donne è proibita dal gendarme, è molto indicativo: supponendo che il popeline loro concesso sia un tessuto più spesso, più resistente, si metaforizza l’imene e un processo d’avvicinamento alla deflorazione: la seta in tal senso è l’approdo, un esser pronte.
III.
Il vero nemico è sempre dentro, poiché fuori è il prossimo, da amare a tutti i costi. Il polimorfismo della colpa agisce quindi dall’interno e sanziona, impietoso, qualsiasi rivendicazione, speranza di miglioramento o desiderio. Da questa colpa gendarme che tarpa il volo prima ancora che spicchi, ognuno dei personaggi tenta di ribellarsi, anelando al movimento, di fatto però ritornando ogni volta alla staticità sociale cooperativa, e nazionale, su cui vigila la madre.
Il conflitto interiore pacifica un senso di contrarietà esterno, di ingiustizia, di sperequazione: inchioda il cittadino alla croce del quietismo collaborante, altruistico, patriottico. Meg, che raccoglie l’eredità civettuola della Alcott, è attratta dai lussi, rimpiange i tempi d’oro prima che suo padre, il cappellano matto, dilapidasse i risparmi d’una vita per tentare di salvare un amico... Questo senso di decadimento è il massimo dell’immoralità, poiché all’indecenza dell’atto desiderante in sé s’aggiunge quello sporco oggetto, quella meta (la ricchezza, il lusso) che distrugge la felicità.
Se Jo non esita nella diagnosi (spiegando a Meg che «Tu sei frustrata e oggi per di più sei furiosa perché non puoi vivere nella bambagia. Povera cara! Aspetta che io faccia fortuna e poi vedrai che potrai spassartela tra carrozze, gelati, scarpine [...]») al contempo offre già alla sorella una soluzione, quel provvedere mafioso nella misura in cui i membri della famiglia non smettono mai d’esserlo, per diventar individui autosufficienti, e i problemi individuali restano per sempre collettivi, una Cosa Nostra...
Questa solidarietà è il primo anello della catena umanitaria, politica, che forgia il popolo nella sua unità monoteistica, confederata. In questa direzione la propaganda della Alcott non è nemmeno troppo... occulta – gli interventi diretti, di sottolineatura, sono irruzioni: «La povera Meg si lamentava di rado ma in certi momenti l’ingiustizia di tutto ciò la riempiva di un senso di amarezza e di rivolta contro il mondo intero, perché non aveva ancora capito quanto era ricca, ricca di quei valori che da soli bastano a rendere la vita felice.»
Lo stesso vale per Jo che, verificatosi il crack e richiesta in adozione dalla zia ricca, è trattenuta in seno all’unità di famiglia, ché «Ricchi o poveri resteremo uniti e insieme saremo felici». Quanto abbia fatto presa questo messaggio, di sanità e coesione famigliare, quali innegabili vantaggi comporti tutt’oggi, ma quanto intervenga anche nell’eziologia della cultura politica, anzitutto, è un’ovvietà.
Si deve però registrare il castigo puntualissimo quando si finisce al di fuori di quel seminato; i King, per esempio, colpevoli di esser ricchi, hanno i loro grattacapi e il figlio grande ne ha combinata una così grossa che suo padre lo caccia di casa, cioè dall’Eden, poiché «ha disonorato la famiglia»; Meg, che presta servizio da istitutrice, non se ne rallegra, ma certo impara da questo una lezione.
Lo stesso gendarme materno ne impartisce – ben attenta, la Alcott, a inoculare nel moralismo lo stesso germe che dia una parvenza di vaccino alla continuativa morale della favola: «Mami sei stata molto furba a rivolgere le nostre storie contro di noi e a propinarci una bella predica al posto di una favoletta» esclamò Meg.
IV.
C’è una didattica sottesa nella letteratura dell’Ottocento il cui obbiettivo precipuo è il conseguimento dell’obbedienza: restar costretti, lettori, nello status di figli anzitutto, in una monocromia di cittadinanza, nazionalità e fede; parametri dai quali ricavare un’identità oggettiva e commisurabile – e quindi collocabile in gerarchia.
Il processo inizia in famiglia, col genitore cerbero funzionario dello Stato e viceparroco che vien appunto consacrato dall’alto della politica, collusa in duumvirato col clero: un genitore da onorare secondo il noto quarto comandamento. Va notato che il patriarcato ottocentesco e il romanzo di propaganda diventano i principali vettori di ideali nazionalisti pesantissimi da cui germineranno tanto gli stati centrali d’impianto borghese, nella seconda metà dell’Ottocento, quanto i fascismi reazionari fallocratici d’inizio Novecento; tanto i ribellismi della boheme pidocchiosa e della scapigliatura quanto i pruriginosi sedicenti operai dell’università sessantottina: nasce tutto da un papà barbuto dalla voce tonante.
La Mrs March che osanna la patria vergognandosi di aver dato soltanto il proprio marito, a differenza di quel vecchio signore che, senza lamentarsi, aveva già offerto in olocausto quattro figli (due avendoli perduti, uno essendo rimasto prigioniero, l’ultimo ferito e «ricoverato in condizioni molto gravi all’ospedale di Washington»), è la medesima signora che potrebbe sostare in un ballatoio per riepilogare l’ultima orazione di Mussolini, il bel Duce.
L’obbedienza è un continuo sottostare al potere superiore – purché questo avvenga assecondando il cuore, quindi credendo nella propria inferiorità ancor prima che nella superiorità di chi è al comando. È fondamentale, per esempio, che le sorelle March non sentano nella madre l’autorità costrittiva e repressiva, ma al contrario l’autorevolezza liberale di un angelo che le guarda e saluta dalla finestra – obbedire non significa adeguarsi controvoglia, ma voler compiacere il superiore, il modello di riferimento; e magari dar grandi leccate di culo. Da qui ne consegue un generale abbassamento d’aspettative, un generico appiattimento degli impulsi, un volontario lasciarsi intruppare nella virtù, nello scanzonato platonismo dei soldati in trincea, indotti a morire col sorriso sulle labbra, felici dell’azzeramento individuale che lavora e crepa per gioco di squadra.
Questa miseria che si crogiola nello zero, ha bisogno di precisi cliché – coi ricchi che vanno incontro al disastro, e che immancabilmente son dei parvenu, e siccome anche gli americani lo erano rispetto agli inglesi, e rispetto a un’idea di nazionalità, si pareggiano i conti col puro innatismo della nobiltà d’animo: così Alcott, per mezzo di Meg, descrive i Moffat: «Percepì, senza sapere spiegarsi il perché, che non erano molto colti né molto intelligenti e che tutti gli ori di cui si circondavano non riuscivano che in parte a nascondere la loro innata rozzezza».
Lo sfarzo è dunque una volgare mascherata – nella misura in cui, tra piume e orpelli, snatura l’Io più autentico, le nude mura dell’anima, il viso candido di quella che dovrà restar più a lungo possibile una bambina, ché «le conviene». Il losco ricorso alla convenienza, nel genitore che si preoccupa del figlio, è già un campanello d’allarme: Mrs March ha paura, teme come nient’altro il mutamento, il crescere della piccola donna che poi corrisponde alla sua maturità sessuale, alla configurazione di una libido consapevole. Perciò si desessualizza in modo sistematico qualsiasi contesto di relazione che per sua natura è già sessuale; tanto la recita natalizia, col suo intreccio, quanto il primo pomeriggio tra Laurie e Jo, Alcott si precipita a definirli «innocenti» – e quanto a Jo, sarebbe una ragazza senza «strane fantasie», proprio la scrittrice delle magnifiche quattro, strana per eccellenza...
Certo se il baricentro identificativo è proprio in Jo, alter ego prediletto dell’autrice e amministratrice delegata dell’irruenza (è un Es messo a dieta, un impeto che sembra aver a disposizione una stanza da fracassare, ma soltanto quella: c’è già un regolamento, una disciplina); il super Io è il gendarme Mrs March, una specie di filosofa della ristrettezza che mortifica qualsiasi residuo di sano appetito filiale, cosicché ognuna delle ragazzine abbia garantito il proprio fardello di colpa, mentre l’unico obbiettivo da loro perseguito, giorno per giorno, è l’innocenza: oltre al danno, la beffa.
«Mrs March guardò Meg, più graziosa che mai nell’abito da giorno di percalle, con i riccioli che le ricadevano sulla fronte e l’aria molto femminile, mentre era intenta a cucire al suo tavolino da lavoro disseminato di spolette bianche disposte in bell’ordine; così, ben lontana dal pensiero che attraversava la mente della madre, procedeva cantando nel suo lavoro mentre le sue dita volavano e la sua mente si perdeva in fantasie infantili, innocenti e fresche come le violette che portava in vita, a quella vista Mrs March sorrise contenta.»
V.
Piccole Donne si conclude col trionfo dell’amore – l’affermarsi di questa malattia che infine si accetta per ineluttabilità. Si manifesta, non a caso, come una sindrome che il gendarme Mrs March osserva con «sguardo penetrante» nello smagrire e nell’emotivo esacerbarsi della figlia maggiore, Meg, oramai avviata al corrompersi di natura e alla scoperta del piffero, che subito bisogna dirottare al sacro talamo prima che imputtanisca in vagabondaggi sperimentali o prove d’orchestra.
Questa intimità privata, ma resa al pubblico di una radiologia famigliare che vede tutto o a cui nulla può sfuggire, nemmeno la più minuscola macchia sulla lastra funebre della sessualità puritana, è il sintomo di un incontrastato dominio genitoriale, il succube conformistico rimettersi alla volontà dei padri superiori: lo stesso Brooke, da uomo d’onore qual è, contatta i coniugi March, in quel di Washington, prima ancora di sondare il gradimento della signorina Meg: era l’uso, questo...
Il controllo poliziesco, la sorveglianza che tanto ricorda, seppur oltreoceano, la marcatura stretta del Sud, assume pieghe ridicole: la povera Jo che col fidanzamento perde l’amata sorella, scivola nella delazione, nello spionaggio puro: “Salita di corsa al piano di sopra per raggiungere i familiari, fece trasalire i due convalescenti esclamando con aria tragica: «Presto, scendete giù! John Brooke si comporta in modo sconveniente e Meg lo lascia fare!»
Mr e Mrs March lasciarono in gran fretta la stanza […]”
Il senso di colpa troneggia anche qui, poiché sposarsi (nella storica, tremenda identificazione col primo rapporto sessuale) significa abbandonare i propri vecchi al loro destino – è un «fardello» anche questo. Ogni minima turbativa dell’equilibrio su cui hanno operato i genitori in anni e anni di sacrifici, ogni minimo spostamento dai tracciati filiali subordinati, è traumatico, violento.
La stessa prigione in cui si ritrova il giovane Laurence rispetto allo zio – è Jo che avvisa l’amico: «Come tu stesso hai detto, non c’è nessun altro che gli stia vicino con amore e, se tu te ne andassi senza il suo permesso, per tutta la vita avresti il rimorso di averlo abbandonato. Non scoraggiarti e se farai il tuo dovere senza mordere il freno avrai la tua ricompensa […]».
Lo stereotipo ribelle di un Laurie è alimentato proprio da questa retorica che ha in sé già il vaccino: nel romanzo si parla spessissimo, in termini d’insofferenza, di prediche – Alcott pretende così di scongiurare la verità di un meccanismo, di una pedagogia martellante, ma affidandolo all’esempio immediato del castigo, di una punizione che non tarda a cader sulla testa dei negligenti... Addirittura, quando le sorelle avanti-March!, dopo la settimana trascorsa a sgobbare in assenza del gendarme (volata al capezzale del cappellano), pensano a rilassarsi, fottendosene degli Hummel, ai quali avevano già devoluto la colazione di Natale, subito si paga dazio. La piccola Beth, pur sollecitando l’intervento delle sorelle maggiori («Meg vorrei che andassi a vedere gli Hummel, sai che la mamma ci ha raccomandato di non dimenticarli»), alla fine, già contagiata dalla scarlattina, marca visita e l’assenza delle March comporta per direttissima la morte del piccolo tedesco infetto e il calvario della stessa Beth, la più promessa, d’altronde, alla morte.
Disadattata – perfino Alcott ne definisce «patologica» la timidezza – la sua virtù incondizionata e cristologica, il suo aver scelto i deboli, tanto col cottolengo di bambole storpie quanto col povero Frank, il ragazzo zoppo, è un racket di sentimentalismo degli umili. Rassegnata, felice per il sol fatto di respirare e poter raccattare rifiuti da salvare al tristo destino della pattumiera, Beth ricorda agli altri, ai vivi, quant’è sozzo vivere e desiderar qualcosa per sé stessi. Nella sua rassegnazione c’è già un candidarsi alla prematura scomparsa, come sulla tetra scia della nipotina di Mr Laurence, pianista defunta il cui pianoforte mausoleo suona come un’investitura.
Perciò in termini narratologici se morte vi sarà in Piccole Donne crescono, sarà Beth a uscire di scena: in punta di piedi, certo...
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Il Supermaschio (con Spoiler)
Capitoli diseguali, alcuni troppo... insistenti. Colpacci di genio sparsi riscattano gli intoppi di maniacalità descrittiva... Predomina, nella mania, il gusto della meccanica, l’entusiasmo fin de siecle per l’ingranaggio e per la velocità: un’atmosfera d’ininterrotto superamento.
«L’amore è un atto senza importanza perché lo si può fare all’infinito». Questo l’incipit in cui si profila la sex-machine André Marcueil, che vorrà confrontarsi coi grandi copulatori mitologici, Ercole in testa; è la storia contro il mito, la spacconata contro il Reale.
«La conformità all’ambiente, il mimetismo, è una legge della conservazione della vita. [...] Non sono i più forti a sopravvivere, perché sono soli. Quella di modellare la propria anima su quella della propria portinaia è una grande scienza.»
Il titano André, sebbene straordinario nell’assemblare in sé a scopo mimetico ogni qualità ordinaria, non sfugge all’intuito femminino. La sua Ellen lo vorrà provare. Esperire il calibro dell’attrezzo sessuale e l’infinita “ripetibilità” dell’atto. Di quel fottere fino a morirne. Non a caso: se una fine c’è all’Amore, è la Fine della Donna...
Jarry tesse il suo elogio dell’etero senza imbarazzo alcuno. Divinizza il sesso-debole sottintendendo una reciprocità nella subordinazione; e istituisce un’eroina che vuol farsi-fare finché, abbattuto ogni record in materia, compaia il «piacere».
Umanizzare la macchina nell’al di là della serie riprodotta, “dopo” l’innumerabile copulare della Prova. Lei ne morrà?
È morta, pensa André... Invece era solamente svenuta.
Proprio qui, il capitolo LA SCOPERTA DELLA DONNA: uno dei più “lirici” benché ravvoltolato nello stile refrattario di Jarry, poeta nella prosa più che nei versi.
«E dal profondo dell’essere di quest’uomo tanto anormale che aveva potuto scaldare il suo cuore soltanto al ghiaccio di un cadavere, salì come una certezza una confessione strappata da una forza misteriosa:
Io l’adoro»
Questo è il Sentimento, rovesciato, posto da Jarry alla Fine dell’iter, più che all’inizio. Ma è l’inizio che segna il concludersi della love story, poiché André, sospettato di non poter amare, verrà sottoposto all’azione di una macchina elettrodinamica, costruita apposta: un’elettrificazione che gli ispiri l’amore; una dinamo di undicimila volt, come le verghe di Apollinaire. E poiché «Tutti sanno che quando due macchine elettrodinamiche entrano in contatto, è quella di potenziale più elevato che carica l’altra», LA MACCHINA S’INNAMORÒ DELL’UOMO, che morì.
Nostalgie maschili
Romanzo della nostalgia: tra donne perdute e/o che partono; altre che ritornano alla memoria dopo esser state dimenticate; donne che appaiono sulla scena, di passaggio, in visita. Ciascuna di loro mette in rapporto il narratore, Emilio, coi suoi limiti – e ognuna (donne incontrate, amate, ingannate, traditrici e tradite) gli presenta il conto.
Il carattere “testamentario” dell’opera, di fatto, è una sorta di rendiconto dei sospesi (o debiti); leitmotiv della scrittura di Tomizza, che vi si attiene dall’inizio alla fine.
Indiscusso il suo coinvolgimento personale, insieme col mestiere e la piattezza stilistica (agognata, coltivata) tipica dell’artigianato narrativo; c’è la miseria dell’onestà tipica dell’intimismo “retrospettivo” – il pianto che «intorbida» l’occhio e i «posdomani»; i dialoghi imbalsamati; una cataratta di verbi attaccati a pronomi o viceversa, in omaggio all’agilità dei periodi.
Sintomatologia – inadeguatezza ai doveri dello “stallone”: frustrati dalla senilità, li si ritrova, comunque pensosi, negli anni giovanili di Emilio – sempre in termini di vagante disinteresse o tiepidità nei riguardi della femmina che gli tocca di fronteggiare...
Non gli piace, all’inizio, la visitatrice (non è il suo «tipo» di donna). Non gli piaceva quarant’anni prima l’infermiera, madre della visitatrice, la quale madre non piaceva neppure all’altro personaggio maschile, il partigiano carismatico-donnaiolo (e semi-cuckold) Bardocchia, il quale scaricherà su Emilio la paternità della (futura) visitatrice...
Lo stesso Bardocchia non apprezza sua moglie Brigida (non frigida, no), la quale diventerà l’amante di Emilio, che in costei – forse – qualcosa gradisce, sebbene il loro legame concerna l’affetto piuttosto che il desiderio. Infine, a Emilio non piace neppure la principessa cinese nell’ultimo sogno, sognato accanto alla visitatrice non-figlia che lo accudisce e lo veglia, in quell’ultima notte, proprio come un’infermiera...
Metafora intorno alla difficoltà uomo-donna, e metafora di quel luogo interiore, irraggiungibile, che rende la “fusione” impossibile.
Ma poi, ambientata in prossimità di Trieste, e sullo sfondo della questione istriana, la vicenda riverbera d’una tristezza che è, in primis, storica e geografica.
Non poteva essere altrimenti.
Malato, Tomizza muore cinque anni dopo, il 21 maggio 1999.
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