Opinione scritta da mariac
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QUELLA VITA CHE CI MANCA
VALENTINA D’URBANO riparte da dove aveva lasciato Alfredo con “il rumore dei tuoi passi”, ossia in quel sobborgo dove non esistono illusioni, dove spesso manca perfino l’elettricità, dove c’è un solo bar, una sola piazza, un solo punto di ritrovo chiamato “Anfiteatro” e tanta tanta miseria.
Il quartiere è un reticolo di case da cui non puoi assentarti troppo perché hai paura che ti si fiondino dentro, da cui non puoi assentarti perché, in fondo, non hai un altro posto dove rifugiarti.
La famiglia Smeraldo è una delle tante squattrinate famiglie che vive alla “Fortezza”, occupando un appartamento freddo e inospitale, sfasciato dalla rabbia di Alan che, quando non sa come sfogare le sue frustrazioni, se la prende con i pochi mobili rimasti. La famiglia Smeraldo è una famiglia che ha smesso di sperare di meritare una vita migliore, che può contare solo su se stessa, che fa quel che può per tirare avanti ma è una di quelle famiglie che, nonostante tutto, si può definire unita. I fratelli Smeraldo si sentono persi, credono di avere il germe della Fortezza, non tentano più nemmeno di uscire dal vortice dell’autodistruzione.
Eppure Valentino qualche volta pensa a chi dalla fortezza ne è uscito, sì, ricorda quella ragazza un pò troppo aggressiva per i suoi gusti, si chiamava Beatrice. Lei ha deciso di chiudere con quel postaccio e cercare una vita migliore, pulita, legale. Certo anche lei si è portata dietro il suo bagaglio di dolore ma ha trovato la stimolo per fuggire.
Valentino pensa che anche lui potrebbe farcela, potrebbe così salvare Mamma, Anna e Vadim dalla miseria, potrebbe salvare se stesso dalle porte del carcere che tanto spesso gli sono sembrate così vicine e aperte. Potrebbe convincere Alan a seguirlo, a tentare di vivere in modo più pulito, di liberarsi della sua rabbia, del suo dolore, dei suoi abbandoni. Potrebbe ancora farcela a nascondere a Delia chi è realmente ed essere l’uomo che lei pensa di avere al suo fianco.
La D’urbano dopo “il rumore dei tuoi passi”, scrive un’altra storia fortissima. Concentrandosi, questa volta sui legami di sangue, conferisce la forza di una saga a una storia familiare in cui tutti i personaggi hanno una maturità e una solidità tale da poter vivere in modo autonomo all’interno del racconto, si fanno da subito amare perché sono dei disgraziati che creano dipendenza, apprensione e dolore. Sono simpatici, sono autoironici e sono spietati. Non riesci a giudicarli, gli sei vicino fino alla fine, vorresti condurli sulla strada giusta ma alla fine li giustifichi, li accetti.
Lo stile è semplice, scorrevole, tipico di chi vuole arrivare al cuore di tutti ed in particolar modo dei più giovani, credo sia proprio uno di quei romanzi da consigliare a chi ancora deve affacciarsi alle finestre del mondo per averne un’immagine cruda e realistica.
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QUATTRO ETTI D'AMORE, GRAZIE
Due universi femminili a confronto e “due” rimane solo un riferimento numerico perché potendolo moltiplicare per un numero imprecisato di donne avremmo un altrettanto numero imprecisato di pianeti.
In ogni donna c’è un complesso miscuglio di pensieri, emozioni, sogni, compromessi e delusioni.
Chiara Gamberale è stata bravissima nel mettere in scena due donne apparentemente felici e invidiabili agli occhi l’una dell’altra ma con dentro tanto dolore, confusione, tanto senso di annullamento. Sono innamorate al punto di mettere in discussione se stesse, al punto di provocarsi l’infelicità.
L’immagine che si ha delle donne in questo libro non è certo vincente ma si attraversa con le due protagonista un confuso percorso di introspezione.
La scelta della scrittura è singolare e l’ambientazione ancora di più, la ripetitività di molte scene di vita è smorzata da continui flash back. Il libro prende ritmo solo alla fine ed è anche il punto in cui capiamo perfettamente cosa smuove il mondo delle protagoniste.
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E L'ECO RISPOSE
E’ un complesso intreccio di vite disseminate per il mondo e tutte allo stesso tempo legate spiritualmente al villaggio afgano di Shadbagh. E’ da qui che nasce tutto. La vita, la crescita, e le vicende di tutti i protagonisti passa per questo luogo magico che l’autore dice di avere inventato ma che potrebbe verosimilmente esistere. E cosi mi piace pensare che ci sia davvero un luogo con il potere di forgiare dei caratteri fieri e vigorosi.
Il libro si modella dello stesso potere, sfiora le tragedie ma le inonda di speranze. Accenna alla guerra, al fondamentalismo, alla repressione, agli esodi e agli effetti inevitabilmente impressi ma allo stesso tempo tutti sembrano essere animati da un forse senso di sollecitudine. Vogliono guardarsi dentro e vogliono migliorarsi ma il processo è lungo, ha bisogno di tempo, di accettazione e di introspezione.
Husseini ha il dono di riuscire a mettere in un libro tanti personaggi forti e non peccare nonostante l’elevato numero di vite da raccontare, di cadere nell’eccesso di sintesi. Riesce ad esaurire la descrizione di ognuno in modo esaustivo lasciando che il senso di malinconia completi il resto.
La storia iniziale con cui apre il romanzo ha un finale piuttosto retorico, è intriso di saggezza popolare e sembra davvero una favola della buonanotte da raccontare ai bambini, per cullarli prima che si abbandonino al sonno ma è allo stesso tempo una favola che racchiude un dolore, a cui un genitore non dovrebbe mai attingere e che purtroppo molto spesso affronta, la metratura del romanzo dona il giusto spazio per capire quali sono le ragioni che spingono le persona a compiere delle scelte, a fare dei sacrifici ed equilibrare il dolori.
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La ragazza che hai lasciato
Un quadro, il ritratto di una donna dai capelli rossi, dal viso disteso e dallo sguardo compiaciuto, felice, quasi di sfida verso le brutture del mondo che di lì a poco dovrà affrontare, e due donne legate indissolubilmente alla stessa sorte. Rischiano di perderlo e con lui quello che rappresenta ossia la consapevolezza che la rivelata soddisfazione nel volto della donna può scaturire solo da un matrimonio esemplare. Sophie e Liv vivono la fascinazione per quel ritratto a quasi cento anni di distanza l’una dall’altra ma la determinazione e le affinità elettive sono le stesse. Entrambe lo elevano a rappresentazione pura dell’amore.
Benché le intenzioni di Jojo Moyes non siano quelle di creare un romanzo storico, riesce attraverso il racconto minuzioso delle sofferenti vicende di Sophie a evocare gli orrori e il dolore che solo la guerra può arrecare mentre sarà l’ostinazione di Liv, il suo attaccamento al quadro e alla ragazza che vi è ritratta a sottolinearne le assurdità. Liv ricostruisce la storia del quadro e quella di Sophie, rivive con lei le tragedie che l’hanno accompagnata e trae la forza necessaria per superare il suo dolore.
Jojo Moyes è tenerissima, il suo stile delicato e allo stesso tempo scrupoloso fa emergere con estrema chiarezza le emozioni dei personaggi. Miscela tutti gli elementi che ha a disposizione ed evade dal semplice romanzo rosa e ne fa qualcosa di molto prezioso.
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L'AMANTE
Fascinoso e brutale, di abbagliante lucidità, meno erotico del film e migliore nella parte introspettiva. Tenero e disarmante per la sincerità con cui la Duras mette in scena una storia d’amore tanto bella quanto impossibile. Impossibile perché i protagonisti sono discriminati, appartengono a due continenti lontani, li divide più di una generazione e la condizione sociale di lui consente ai tanti alle cui orecchie è arrivata la notizia di parlare di prostituzione.
La ragazza, con i suoi 15 anni, è una donna che cresce all’ombra di una madre con disturbi psichici, di natura depressiva lascia intendere e l’impotenza, davanti alla sua sofferenza, la rende estremamente triste, l’impossibilità di essere la figlia e per lei la famiglia che sua madre aveva vanamente sperato di creare le aprirà la strada per sprofondare nel cinismo. Arma di cui si servirà per rinnegare anche i suoi sentimenti.
La madre che ha un ruolo fondamentale per la crescita di quella figlia le lascerà passare comportamenti disdicevoli a parere di molti ma soprattutto le lascerà credere che quel suo modo di essere presente per quell’uomo sia l’unica forma possibile di amore che potrà donargli. Le consentirà di credere che di quell’uomo le interesseranno solo i suoi soldi.
Lui, figlio di un uomo ricco e stimato che preferirebbe vederlo morire piuttosto che dare consenso al matrimonio con una prostituta, lui figlio scapestrato, costretto a tornare a casa perché poco incline allo studio e arrendevole ai vizi e alle donne. Lui che non si opporrà mai ad un destino messo nelle mani di un orco e di una ragazzina. Lo vedremo debole e rassegnato, follemente perso in quell’amore da cui non otterrà altro che disperazione.
La Duras ci fa assistere alla inesorabile disgregazione di un dramma alimentato dalla bramosia di vita. La ragazzina cercherà conforto nella scrittura, sa già che diventerà una scrittrice, ne sente la necessità e consegnerà al cuore dei lettori i suoi drammi, quelli provocati dalla madre, dalla povertà, dal luogo in cui è cresciuta e dalle sciagure che la porteranno inevitabilmente a crescere.
Lui accetterà l’abbandono e comincerà a considerarlo un bene perché sa che lei fuggirebbe da ogni matrimonio, percepisce nella sua natura l’impossibilità di essere una moglie e si piega invece ad un altro matrimonio, quello che per lui era previsto almeno dieci anni prima con una donna che nemmeno aveva mai conosciuto.
E’ un libro che mi ha lasciato grande amarezza, ho provato dispiacere e angoscia oltre che una tangibile difficoltà nel portare a termine una lettura tanto forte quanto candida. Sembra una confessione, una liberazione, quasi una giustificazione davanti ad una rinuncia.
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Lettura consigliata
Beatrice e Alfredo crescono loro malgrado, insieme, in un luogo in cui regna l’abbandono e il degrado, dove le istituzioni non entrano e anzi sono osteggiate, invitate a stare fuori dagli schemi precostituiti. L’ambientazione è la periferia, quella in cui lussureggiano piccoli crimini, tanta omertà ma anche quella in cui è impossibile non trovare l’umanità più pura, l’indiscutibile solidarietà che accomuna i disperati. La periferia da cui la speranza non è mai stata accarezzata. Per le descrizioni, per la cupezza delle immagini evocate, per la fiacchezza degli animi da cui è imperversato, il romanzo mi ha ricordato “ACCIAIO” di Silvia Avallone e almeno per tutta la prima parte del libro ho avuto un atteggiamento scettico al riguardo. Due scrittrici emergenti quasi coetanee che collocano una storia tragica in un sobborgo, che focalizzano l’attenzione su una storia di amicizia dalle multiformi acrobazie e che provano a dare vita ad un racconto dal ritmo incessante, hanno la colpa senz’altro di provocare un raffronto. Se Silvia Avallone mi ha fatto stare male, mi ha angosciata fino alla fine con la storia di Anna e Francesca, Valentina D’Urbano parte con un finale già scritto. Sappiamo cosa succede ad Alfredo dalle prime pagine e ci costringe a volergli bene da subito, a capire immediatamente che è un ragazzo contro cui non è possibile avanzare alcun giudizio, che ha sofferto dalla sua prima infanzia.
E’ cosi che prende vita autonoma “ il rumore dei tuoi passi”. Beatrice e Alfredo si appartengono e avranno sempre un filo conduttore che li legherà nella vita. Beatrice a Alfredo si ameranno e si odieranno fino alla fine dei giorni di Alfredo, e dopo e percorreranno un viaggio assurdo e doloroso e cresceranno in fretta senza punti di riferimento degni di ispirazione eppure resteranno aggrappati alla vita il più possibile. Prenderanno consapevolezza di quello che rappresentano l’uno per l’altro ma non conosceranno mai la maniera per dirselo con delicatezza, come un sentimento cosi puro meriterebbe, non sapranno non farsi del male.
Valentina D’Urbano sceglie di buttarsi e percorrere tramite i due protagonisti la strada della tossicodipendenza e l’altalena tra speranza e sconforto che la stessa comporta. Persevera con la verità fino alla fine e non da alcuna speranza di lottare per la salvezza. Perché come lei, credo che dalla dipendenza non ne esci, non ne esci mai anche quando lo scorrere del tempo ti fa pensare al contrario. Ed è coraggioso, scrivere una storia come questa quando le convenzioni, la società ti impone di negare l’evidenza, di credere che il modo per uscirne c’è. Esiste quando vuoi salvarti, non quando credi che esiste solo la morte ad accompagnarti.
Ecco cosa la scrittrice scrive al riguardo: “Non lo so, forse era l’ambiente che ci aveva prodotti. Forse ce l’avevamo nel sangue. Forse era la gente che frequentavamo, la noia, la mancanza di obiettivi.
La consapevolezza di non poter essere mai niente di diverso, la presa di coscienza che saremmo stati così per tutta la vita”.
Percorre con il lettore passo dopo passo la vita di molte madri, sorelle , mogli e fidanzate che si convincono di poter salvare qualcuno o qualcosa ma dentro di loro cresce il razionale sconforto di chi avvicina alla sconfitta eppure lotta con tutta la dignità di chi ha bisogno di mettersi in gioco e provare. Si lasciano trascinare nell’abisso delle terapie, delle medicine, degli sbalzi di umore e dei crolli psicologici, delle fughe e dei furti. E poi si rassegnano, soprattutto si allenano al dolore che le aspetta, e vanno avanti fino a quando tutto diventa reale e scoprono che i loro sforzi non sono serviti a niente. E davanti alla realtà provano un dolore che non avevano mai nemmeno potuto immaginare e a fare male sarà soprattutto il senso di colpa, l’impotenza davanti al mostro dell’abbandono, della solitudine.
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Come Dio comanda
Forte, anzi fortissimo, di studiatissimo effetto. Se metti al centro della storia la vita un ragazzino disadattato costretto a vivere con un solo genitore, alcolizzato e violento e la allacci con la vita di un’altra ragazzina che tormenta le sue fantasie erotiche e magari ci fai ruotare intorno un paio di pseudo amici reietti e dediti all’ ozio, crei una situazione in cui il tormento è assicurato.
E Ammaniti è un maestro nel creare delle situazioni paradossali e arginare giusto in tempo il pericolo di cadere nel ridicolo. Inserisce in questo romanzo tutti gli elementi della tragedia, ci sono povertà, emarginazione, follia, alcolismo e violenza e non può che terminare con un messaggio immorale e licenzioso.
Ha il talento di descrivere in modo crudo la solitudine dei personaggi, causa ed effetto del disagio e un alibi per la violenza a cui si abbandonano di tanto in tanto creando forzatamente nel lettore lo spazio per la pietà e la comprensione, non rinuncia al sarcasmo, aggiunge particolari ironici e concede un margine di tempo relativamente piccolo per un sorriso.
Il tema dominante è l’amore, più che quello di un padre per un figlio che in qualche modo avrei ritenuto scontato, è il bene che il figlio prova per il padre ad esortare qualche riflessione, è un amore viscerale, incondizionato, deviato in qualche modo. Cristiano, il personaggio principale, suggella a modello di vita l’unico uomo che conosce realmente, pur con la consapevolezza che non è il miglior degli esempi non fa che attingere forza per forgiare un carattere altrettanto iracondo e collerico.
Se Ammaniti merita un plauso per il racconto avvincente e la minuziosità dei particolari non posso però non essere critica sulla concreta probabilità che un ragazzino di 14 anni possa arrivare a fare quello che si legge in questo libro per il bene del padre, rendendosi così complice di un crimine assurdo. Crimine a cui avrei voluto far susseguire dolore ma soprattutto condanne e sostituire proprio l’idea di una punizione ideale alla retorica dilagante.
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Seta
Seta, fino a quando non ho avuto una guida, era una bellissima storia a cui, però, mancava qualcosa anche solo un elemento che mi spingesse a rileggerlo. Un’ amica, poi, mi ha detto che ha trovato in questo libro la più bella storia d’amore che avesse mai letto e mi sono posta immediatamente una domanda. Cosa mi sono persa? Cosa non ho colto che invece ha colpito un’altra persona?
Ho pazientemente riaperto le pagine del libro e ho ritrovato un uomo disposto ad attraversare il mondo e vederne la fine pur di incontrare degli occhi, non diversi da quelli che avrebbe potuto vedere nella sua terra ma da cui ha colto l’essenza della vita.
Attraverso quegli occhi ha imparato a fare l’amore e ha osservato la cupidigia della propria esistenza, l’inquietudine e ha cercato qualcosa che avrebbe potuto renderlo diverso dal tranquillo e solido uomo che tutti ritenevano fosse e che hanno inconsapevolmente infondato in lui la certezza che quella potesse essere l’unica vita vivibile.
E poi ho visto Helene e, con lei, le mogli che per anni aspettano la fine di un capriccio, il termine di un momento di stanchezza, l’affievolirsi di un fuoco e hanno imparato ad apprezzare la forza di un amore imperfetto.
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SPLENDORE
La Mazzantini, con questo romanzo, gioca con la tristezza e la malinconia offrendoci un racconto in cui la riflessione è d’obbligo. Lotta contro il pregiudizio sessista e ti costringe ad accompagnarla lungo questo cammino. Con l’intento di creare un forte legame tra il lettore e i personaggi, usa le armi della retorica convenzionale facendone, a mio parere, un uso intensivo. Pur collocando la vicenda in un periodo la cui individuazione ci è consentita solo attraverso riferimenti storici e culturali legati al nord Europa, il ricorso costante a luoghi comuni rischia di far sprofondare, almeno, la prima parte della storia nella banalità. Ed è proprio nella fase iniziale in cui si avverte fatica per la lettura. Non ho compreso perché la Mazzantini abbia sentito la necessità di dipingere la famiglia borghese come atea e anaffattiva e al contrario quella indigente come timorata di Dio e perché, inoltre, caricare sulle spalle di entrambe i personaggi il macigno di una violenza per aprire in loro stessi il dubbio dell’omosessualità.
I protagonisti come è comprensibilmente immaginabile crescono senza avere mai piena consapevolezza di se e senza mai trovare il coraggio di affrontare il necessario per trovarla. Si lasciano portare avanti dagli eventi, indossano la veste dell’arrendevolezza. Si cercheranno per anni senza mai veramente trovarsi, si accontenteranno di rubare l’amore anziché condurlo a qualcosa di più grande. E’ estremamente romantico e altrettanto fatalista mantenere una fedeltà di sentimenti nel tempo e loro lo fanno. Sapere che l’amore è possibile solo quando sono insieme. L’amore, che attraversa i decenni, è scandito dalle rivoluzioni culturali che interessano solo una parte del mondo e non certo l’Italia a cui sono inesorabilmente e solidamente ancorati e da cui subiranno il colpo finale e vedere cosi affossare l’agoniato progetto di vita su cui nessuno dei due ha mai creduto fino in fondo.
Il lettore spera fino all’ultima riga di sapere Guido e Costantino finalmente in pace con se stessi e anche in questo caso la Mazzantini sfrutta la docilità dei caratteri e la caparbietà del condizionamento del mondo esterno.
Se è possibile poter rimproverare all’autrice di aver lasciato una grande amarezza e senso di solitudine non posso smettere di pensare a quanto questa storia sia realistica e verosimilmente vissuta da quanti hanno condotto e ancora conducono una vita di apparenze, quanti cedono senza nemmeno lottare per la propria identità sessuale. Il mondo è discriminante, l’uomo lo è, è impaurito ed è appiattito dagli stereotipi. Sente il bisogno di specificare in una discussione che il collega, l’amico o il vicino di casa è omossessuale, ha necessità del coming out, ha bisogno di essere rassicurato prima di affezionarsi ad un cantante o ad un attore. Avverte a sua volta il pregiudizio per essersi schierato a favore o contro certe evoluzioni.
Ho trovato lo stile molto simile a “Nessuno si salva da solo”, il ritmo incalzante della narrazione, il ricorso ai flash back, l’introspezione e l’autocritica sono tratti comuni ma alla Mazzantini posso perdonare qualsiasi cosa. Scrive delle storie piene di dignitoso dolore, decoroso e annientato orgoglio, sempre singolari per l’uso della retorica e originali per la costruzione dei periodi.
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