Opinione scritta da Jane Marple
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Zia Antonia sapeva di…
Può una casa di riposo di un anonimo paese d’Italia diventare luogo del mistero?
Può un’insospettabile vecchietta essere la chiave del giallo?
Ce lo racconta Vitali con il romanzo Zia Antonia sapeva di menta, mettendosi, con fiuto da segugio, sulla scia d’aglio lasciata nella stanza dell’arzilla signora. Un odore così forte da non passare inosservato all’olfatto del nipote Ernesto, abituato all’inconfondibile profumo di mentina che quotidianamente riaffiora sulle labbra della zia, e ai vigili sensori di Suor Speranza che cura, a cucchiaiate di minestrone, l’alimentazione dei suoi ospiti.
La zia però pare non collaborare e chiusa in un ostinato quanto inspiegabile sciopero della fame, reclama il furto del suo estratto conto bancario. Ma chi può averle sottratto un pezzo di carta senza valore?
Bellano diventa teatro di eventi inusuali che mettono in crisi l’idillica quotidianità di provincia e trasforma alcuni dei suoi più comuni abitanti in abili investigatori. Scanditi dal rintocco delle campane e dal chiacchiericcio di piazza si susseguono flash narrativi che, di volta in volta, inquadrano situazioni, personaggi, conversazioni e, con repentini cambi di inquadrature, intessono la rete delle circostanze. Un giallo all’italiana che nei toni e nei ritmi ricorda le atmosfere della fiction per famiglia, dai personaggi stereotipati e dai dialoghi prevedibili, nei quali si intravede fin troppo palesemente il tentativo di insaporire con un pizzico di humour l’assenza di una fabula ben costruita. Non si discosta da quest’impasse neppure lo stile che, più che essere essenziale, finisce per rasentare la banalità. Tutta colpa del titolo che, da abile specchietto per le allodole, fa intravedere qualche cosa che non c’è. E così tra l’intenso odore dell’aglio e il delicato profumo di menta, al lettore non resta che la sgradevole percezione del nulla.
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Tutti per uno, uno come tutti
Tutti.
Un unico pronome rosso in segno di commiato.
Berlinguer muore, l’Italia è in piazza, un pugno si alza in una stanza. Qualcuno desidera essere lì, ma è altrove che si svolge il suo appuntamento con la Storia.
Come al tempo del colera che aveva falciato Napoli, come per il sisma in Irpinia o per i continui terremoti di Palazzo Chigi: quell’orizzonte lontano, in fondo, non è poi così distante e, a guardarlo bene, sembra sfiorare anche il cielo di Caserta.
È la televisione che rende tutto più vicino, ma non troppo e fa affiorare il desiderio di essere come tutti per il solo difetto di essere come i prossimi, come coloro che preferiscono arrivare secondi per potersi schierare dalla parte dei giudici, come quei puri che puntano il dito perché loro sì che sono incorruttibili, sicuri di avere la ragione in pugno e il futuro a portata di mano, tanto da preferire la lettura di quelle “sacre scritture” a un peluche in carta rosa il 14 febbraio. Perché la politica non fa festa, neppure a San Valentino!
Ma il desiderio di essere come tutti è guardare lontano, oltre il prossimo, sino all’opposto e scoprire che anche lì c’è qualcosa di buono, qualche viso pulito con cui pranzare ad una convention domenicale, quella leggerezza di chi sa temperare il peso della vita con un «Chesaramai», la forza di colui che a tennis preferisce un set point a un servizio perdente e di chi, nonostante tutto, quel giorno in piazza salutava un’epoca che non sarebbe tornata.
In tutti c’è il sorriso di una madre che insegna ad essere forti, l’incomprensione che vela la fierezza di un padre, la dolce vaporosità di una moglie che rende tutto più semplice, anche un’imperdonabile elezione del ’94.
Come la bellezza di Diana svelata agli occhi di Atteone e poi al bambino furtivo che ruba di sera una coca cola alla Reggia, allo stesso modo il romanzo di Francesco Piccolo schiude dinanzi agli occhi del lettore la bellezza del tempo che passa con il suo carico di personaggi, di eventi e di sentimenti, con le sue stagioni che alternano castighi a ricchi doni, nel suo avvicendare la vita pura (Berlinguer) a quella dell’impurità (Berlusconi), con la saggezza di chi è riuscito, insieme a qualche anno in più, a raggiungere la consapevolezza dei propri errori.
Un racconto in prima persona in cui costume e politica si mescolano al ricordo autobiografico di un’Italia che, pur cambiando volto, forse è rimasta sempre la stessa; un premio Strega farcito di citazioni cinematografiche e letterarie che ha saputo convincere grazie allo sguardo imparziale e partecipativo, umoristico e poetico sulle debolezze umane, perché ognuno di noi, quando la Storia bussa, è lì. Come tutti.
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E se un giorno bussassero alla tua porta?
È un giorno qualunque, l’ennesimo alla ricerca della scusa da propinare al tuo editore per i ritardi sulle consegne e per avere l’alibi con te stesso sull’assenza d’ispirazione.
Alla porta bussa qualcuno. È il tuo amico Charlie. Non lo vedi da anni e ora è qui, davanti a te, concitato e ferito. Qualcuno lo sta inseguendo, lungo la rampa di scale che porta dritto a casa tua. Charlie ha fretta e non è il momento delle spiegazioni. E lui a chiederti qualcosa: un favore. Dalle sue mani scivola una busta di plastica. C’è una cassetta digitale e il tuo compito è quello di custodirla, costi quel che costi. Per precauzione ti lascia un numero, con un’unica avvertenza sull’uso: l’emergenza. Poi ti chiede di usare l’uscita di sicurezza – il balcone che dà sui tetti delle abitazioni vicine – e scompare con la stessa rapidità con cui è entrato nella tua vita.
È un giorno qualunque quando la polizia irrompe nella tua quotidianità e ti conduce in caserma come un comune malfattore. Tu sei soltanto un romanziere e i gialli neanche hai mai pensato di scriverli. Come puoi convincerli della tua innocenza? A stento riescono a battere la tua deposizione senza errori!
Non lo sai neanche tu, ma alla fine sei fuori. Nessuna prove è lì ad incastrarti, se non quella striscia di sangue che corre vicino alla ringhiera.
Torni a casa turbato, con il pensiero rivolto a quell’oggetto che hai ficcato nel primo nascondiglio sottomano: la pianta di oleandro. L’appartamento è completamente in disordine e un po’ sei sconcertato, sebbene non c’è da sorprendersi sulle maniere degli agenti. Decidi di rimandare le pulizia di casa e ti dirigi verso il balcone, lì dove, soltanto poche ore prima, hai salutato il tuo amico e hai raccolto la sua eredità.
La pianta è intatta. Ti avvicini e affondi le dita nel terreno, rovesciandolo in parte sul pavimento. Dovrebbe essere lì, oltretutto è l’unico posto in cui la polizia non ha rovistato!
È un attimo. Ti è sembrato di percepire qualcosa, un rumore, oltre la finestra che si affaccia nella tua cucina.
Qualcun altro è lì, in casa tua. Qualcuno che forse ti ha preceduto…
René Frégni, seguendo le orme di Jean-Claude Izzo, scrive un noir mediterraneo colorandolo di policrome sfumature che attingono ai cassetti dell’animo umano: ironia, liricità e passione. Al susseguirsi delle scene criminose e al pathos proprio dell’hard boiled, infatti, lo scrittore associa, spesso esagerandoli, gli espedienti cari anche ad altri generi letterari al fine di dipingere il ritratto di un uomo capace di adattarsi all’inspiegabile e all’irreversibile. Con uno sguardo attento, ricco di humor e poesia, il protagonista coinvolge il lettore nella sua surreale vicenda, donandogli parte dei suoi pensieri, commuovendolo al ricordo del suo primo bacio, colpendolo con la piega inaspettata che la sua vita ha preso ed emozionandolo con la sua profonda dichiarazione d’amore paterno. Frégni non risparmia sulle emozioni e il lettore, aspirato nel vortice della sua trama, non riesce a non affezionarsi al protagonista e a non staccare gli occhi dal libro. Purtroppo, però, a bilanciare quanto di bello vi è nel romanzo vi è, soprattutto nella seconda parte – quella che volge velocemente alla conclusione –, una riduzione dello smalto iniziale giacché la narrazione si fa alquanto ripetitiva e fin troppo debitrice – soprattutto per quel che concerne i dialoghi – verso il cinema pulp americano. A riscattare però il tutto un finale a sorpresa, dal forte sapore agrodolce.
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«Cosa succede poi, quando il romanzo finisce»
Il bordo delle cose: quell’esile striscia che divide chi vive ai margini e chi è fermo sull’orlo della voragine. Il limite è tutto in quella preposizione e determina la differenza, neanche troppo sottile, tra una vita e l’esistenza. È qui che la vertigine cede il passo all’inesorabile, ma soltanto ai più puri è dato di saltare.
Il bordo è la IE del liceo Orazio Flacco, i banchi di scuola, le ore di filosofia, l’adolescenza che è ferma su quella linea sottile che precede il volo. Tra i corridoi, durante le ore autogestite, si consumano passioni immaginarie, si inseguono sogni e ci si ritrova senza accorgersene ad aver superato la soglia.
Ai bordi vive Salvatore Scarrone, pluriripetente prima e pluricondannato poi, con la sua barba troppo lunga, con i suoi duri insegnamenti, con le sue scelte, i suoi propositi, le sue utopie di giustizia. Un ragazzino camuffato da adulto, con in testa la voglia di cambiare il mondo e in tasca la necessità di una vita migliore.
Sul bordo vive Enrico Vallesi, gracile e indifeso sognatore di buona famiglia e di una realtà della quale è un incapace attore e ancor più un inesperto astante. Un adolescente che non sa dosare i sottintesi e per il quale le omissioni acquistano significato soltanto quando, dismessi i silenzi, si sono travestite di parole.
Sotto l’egida del caso, nelle sale di una palestra di vita e con gli occhi perennemente rivolti alla strada per non mancare al richiamo della lotta armata, Enrico e Salvatore si scoprono amici ma fraintendono il loro essere “compagni”. Ed è lì, sul «bordo vertiginoso delle cose», che le strade si diramano e la giovinezza perde il suo candore.
Carofiglio tesse la trama dalla fine, da un Enrico quasi cinquantenne, ex bibliotecario, ex scrittore e ora insoddisfatto ghostwriter, che ritorna all’origine, alla sua Bari ormai trasformata dal tempo, al ricordo di un’infanzia vissuta e poi dimenticata e a quel ragazzo lasciato sul ciglio del burrone e ora ritrovato sul fondo di esso. Purtroppo alla suggestione del titolo non segue altrettanto pathos narrativo. Il racconto, infatti, sembra smarrirsi in lunghe e alquanto banali speculazioni pseudofilosofiche e neppure l’inserimento di analessi o l’alternarsi dei punto di vista (tra prima e seconda persona) riescono a riabilitarne le sorti.
Ciò che resta a questa lenta, retorica, noiosa storia è soltanto “il calo vertiginoso delle palpebre”.
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Gli sdraiati: figli o padri?
Abbiamo detto addio ai figli in piedi dietro gli striscioni, abbiamo salutato quelli seduti davanti alla TV a guardare telefilm americani, abbiamo congedato quelli semicoricati con i primi giochi arcade tascabili, per fare spazio agli ultimi discendenti della specie filiale: gli sdraiati. Occupanti abusivi fino a data da definirsi del divano di casa, gli sdraiati trascorrono la loro esistenza in posizione supina, incuranti del caos attorno, assorbiti dalle multiple attività virtuali e dai rari impulsi del mondo reale. Questi esseri, a metà strada tra l’umano e l’alieno, mutanti nell’aspetto come nell’indole, non dichiarano guerra ai padri – come i loro progenitori meno remoti – ma si trincerano dietro muri piastrellati di silenzio e carenti di meraviglia.
A guardarli da lontano, loro, l’esercito dei padri smarriti, schiacciati dalla negazione delle colpe e dal soddisfacimento di ogni richiesta di quel volto un tempo familiare e troppo presto diventato estraneo. Attendono intrepidi lo scontro generazionale, lo spargimento di lacrime, urla e punizioni, per poter finalmente andare incontro al loro bambino smarrito. Pur seguendo ogni traccia del nemico, disseminata tra la cucina e il bagno – piatti sporchi, cicche spente, asciugamani zuppi, led accesi, montagne di indumenti maleodoranti –, i padri non dichiarano alcuna guerra ma, ammutinatisi, depongono le armi insieme al loro ruolo di guida e si travestono da amici. È la sete di giustizia a muoverli, ma nel vendicarsi dei figli che furono finiscono per dimenticarsi dei padri che sono.
Michele Serra con “Gli Sdraiati” attua un inatteso ribaltamento di prospettiva perché ad essere posti sotto esame non sono, come potrebbe ingannevolmente suggerire il titolo, quella folta schiera di nuove leve in formato orizzontale, bensì la vecchia guardia, ritta in piedi, che oggi, nella conservazione dell’eterna giovinezza, sembra aver perso spessore. Lo sguardo spietato sulla famiglia moderna si fa ironico sino ad auspicare l’avvento de «La Grande Guerra Finale» e con essa la metaforica ascesa al Colle della Nasca come risarcimento di quanto è stato ingiustamente sottratto a coloro che, nati in ritardo, hanno ereditato il già visto, il già detto, il già vissuto. La fluidità della narrazione – bellissimi sono gli espedienti in climax crescente con i quali il narratore in prima persona cerca di convincere il figlio a compiere insieme l’escursione in montagna – e le divertenti descrizioni dei momenti di vita familiare – come l’incontro con i professori a scuola, la coda al centro commerciale per l’acquisto della felpa di ultimo grido o il dialogo con il tatuatore – forniscono al lettore momenti di riflessione non privi di leggerezza.
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«Tutto era già accaduto, molto tempo prima»
CONTIENE SPOILER
Splendore è il tempo dell’amore senza categoria. Senza età, sesso o classe sociale, ciò che resta dell’individuo è solo la necessità di condividere quel che si è scoperti di essere.
Guido e Costantino vivono agli antipodi, ai poli di una scala che separa senza mai farsi ponte.
Guido è il figlio della borghesia, della solitudine e dell’assenza. Rinchiuso nella sua prigione dorata, all’ombra di una famiglia sfatta ma scagionata dal mito, Guido si aggrappa ai sensi per fiutare la vita: ascolta le voci che dall’androne salgono fino alla sua porta, si avventa sul cortile lanciando un mosaico dalla finestra, annusa di nascosto quel calore domestico che esala dalla guardiola.
Lì, oltre le grate, vive il figlio del portiere: Costantino. È un bambino robusto, educato al cattolicesimo e alla reverenza, schiavo di un’esistenza segnata e in attesa di un riscatto sociale.
Guido e Costantino sono agli antipodi, eppure mai così vicini nel rifuggire il riflesso della propria innocenza violata. Una fuga che arriva sino agli smarrimenti dell’adolescenza quando, al pari dell’ultimo anno di scuola, questa è in procinto di volgere al termine. A riempire i giorni della giovinezza un viavai di volti con i quali prendere tempo, rinnovando indelebili ricordi e attendendo incontri ormai prossimi.
Sulle soglie della maturità, senza più viltà e senza più coraggio, Guido e Costantino si scoprono finalmente vivi, liberi, amanti.
Come le onde, però, anche le vite sono flussi in movimento, facili prede delle correnti e in balia delle maree. Nel rifiuto di sé è semplice perdersi così come è naturale ritrovarsi seguendo l’eco di un richiamo senza nome né scampo. Qui, nel vortice delle apparenze e dei sotterfugi, tra illusioni e rinnegamenti, si compiono le stagioni di una felicità a fasi alterne che non riesce a sopravvivere alla prevedibilità delle convenzioni, alla meschinità della violenza, all’ipocrisia del ravvedimento.
Il ritorno agli antipodi è talvolta l’unica direzione possibile, anche quando la consapevolezza di aver perduto la parte più autentica di sé si fa certezza, in un viaggio a ritroso, verso l’infanzia e lungo tutta una vita che non ha mai smesso di cercare se stessa nell’eterno splendore dell’innamoramento.
A distanza di dodici anni da Non ti muovere, Margaret Mazzantini riscrive l’amore controverso che non segue logiche né calcoli, ma si abbandona all’istinto più puro e irragionevole. Fulcro dell’intero romanzo è il mare che segna le tappe cruciali della vita del protagonista per diventare metafora dell’esistenza stessa. Seguendo uno schema circolare, la vita sentimentale e sessuale di Guido si apre tra le onde e qui vi ritorna sul finale del romanzo, attraverso il ricordo di un moto perpetuo che ora è posto al di fuori di sé, nella contemplazione di un altro innocente stregato dalla stessa corrente.
La complessità dei personaggi e la difficoltà dei temi purtroppo non preservano l’autrice dalla banalità e così il lettore incorre continuamente in immagini stereotipate, in luoghi comuni e in una fabula fin troppo scontata. A farne le spese è soprattutto Costantino e il finale della sua storia, laddove il matrimonio di facciata, il figlio malato, il pestaggio e la redenzione nella comunità ecclesiale lo riducono a semplice manichino senza qualità. La focalizzazione interna, invece, salva Guido e solleva gli astanti che gli ruotano intorno – dalla moglie Izumi alla figlia adottiva Leni – a cammei di gran lunga più suggestivi.
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