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Opinione scritta da Acherontia Atropos
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Storia sulla perdita (prima di innocenza e alla fi
Sulla quarta di copertina il commento di Giorgio Manganelli è illuminante per chiunque voglia sapere il contenuto di questo libro:
"Una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l'andatura di una marionetta omicida".
Forse una così bella e precisa recensione non avrebbe bisogno di ulteriori commenti, ma infatti la mia recensione è più una nota personale.
Il libro è composto da 3 parti, ognuna come un lungo racconto. La prosa, secondo me, di cui parla Manganelli riguarda essenzialmente la prima parte (Il grande quaderno).
Il libro inizia con una narrazione in seconda persona plurale svolta nel presente. Gli enunciati sono brevi, secchi, e di una crudeltà che, sebbene assurda è decisamente credibile. Ogni frase è un colpo di rasoio (tra l'altro un'arma che appare nella prima parte) e tutto il libro tratta di una cosa sola (secondo me): la separazione, o meglio, il dolore nella separazione, nel taglio (di sentimenti, rapporti, memoria). Una violenza 'necessaria' per vivere in tempo di guerra. La prosa della seconda e terza parte cambia decisamente (accade qualcosa alla fine della prima parte che si può dire essere 'il climax' della trilogia).
Un affresco bellissimo che personalmente ha rimandato a un altro grande capolavoro del genere 'Il Tamburo di Latta' (di Gunter Grass) dove Oskar Matzerath è interpretato da due gemelli fusi in una sola azione. Una seconda persona plurale che è un 'io' prebellico. E' la com-passione, la complicità, la fratellanza, la solidarietà.
'La Prova' e 'La terza menzogna' sono la miseria, la disperazione, la follia, lo smarrimento di un senso, di una realtà. Il lettore rimane sospeso, non sa quale sia la verità, non sa se la narrazione è un racconto di un sogno, ma è 'ora'. Il presente indicativo fa sprofondare il lettore in sabbie mobili di dubbi e domande. I colpi di rasoio sono finiti, ora è solo il sangue che sgorga. Un po' macabro forse, ma la mia impressione è stata questa. Un libro che ha avuto entusiasmi e moti di disgusto in egual misura presso coloro con cui ne ho parlato. Un libro che non lascia indifferenti.
Un omaggio secondo me a Kafka e alla sua letteratura è la lettera K. della città.
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Il miglior libro di saramago
Capolavoro della letteratura mondiale, il Vangelo di Saramago è un affresco storico (e morale) bellissimo. La distanza del narratore fa percepire il mondo, dall'inizio, come un luogo crudele e spietato nonostante le bellissime e poetiche metafore. In questo libro Gesù non è un eroe, è un burattino nelle mani di un Dio sanguinario che si annoia delle domande esistenziali degli uomini, la cui brama maggiore è estendere il proprio potere (ovvero culto) a tutto il mondo (invece che solo a un piccolo popolo). Un Dio quanto mai lontano dalla figura positiva che ne ha fatto la Chiesa, eppure mai come in questo libro tanto simile al potere temporale di questa. Il Diavolo è l'angelo che si presenta prima come l'angelo dell'annunciazione, poi come insegnante di Gesù e infine con il volto quasi identico a quello di Dio. Un mondo in cui la donna era (ed è) poco diversa da uno schiavo, in cui tra le prime preghiere del mattino vi sono ringraziamenti, da parte dell'uomo, a Dio per non averlo fatto donna. Un libro crudo, verosimile, storicamente accurato. Un libro bellissimo. Un libro per pochi. Un capolavoro.
Basato sui vangeli apocrifi, personalmente vi leggo il dolore di un uomo (Saramago) che leva i pugni al cielo e ci dice che i veri angeli siamo noi. Elenca, quasi fosse un omaggio, i tantissimi santi martiri e le loro atroci pene.
Putroppo le nuove edizioni hanno perso l'immagine di copertina che Saramago descrive in modo così poetico, proprio all'inizio del libro. Questa immagine la si può vedere qui
http://uploads1.wikipaintings.org/images/albrecht-durer/crucifixion-1498.jpg
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Quando la forma è (almeno) pari al contenuto
Lo stile in cui è scritto deriva dall'argot francese e il traduttore, Ferrero, fa un lavoro che secondo me, nella versione italiana, ha quasi gli stessi meriti dell'autore (non sapendo il francese non so quanto sia fedele allo stile originale ma l'impressione che se ne ha è comunque travolgente). E' un libro unico nel panorama mondiale di qualunque tempo. Cèline stesso si definisce uno "stilista" dove per un libro di 500 pagine (questo ne ha 570 e spiccioli) ne scrive 80000. Un maniaco della forma, un artista, un cesellatore della parola insomma. Il risultato è un miracolo. Sebbene la trama sia la sua vita vissuta (affatto banale) tutto viene illuminato dal suo stile, la sua poesia antilirica, il suo "buio" canceroso e rancoroso. Un romanzo che se dovesse essere paragonato a un piatto sarebbe senz'altro una bistecca grondante sangue, tanto, tanto, sangue. Ma proprio per questo succulenta. Giusto per dare un'idea è l'unico libro (letto finora) che nelle prime quindici pagine contenga circa tre bestemmie. Dopo avere allontanato i più deboli da questa recensione la continuo dicendo che penso sia un libro fondamentale. Un libro che mostra l'assurdità della guerra e, soprattutto, la miseria. Ecco, se qualcuno volesse sapere cosa sia -veramente- la miseria, dovrebbe leggere questo libro, tenerne in bocca le parole, girarsi nella lingua ogni singola lettera perché -veramente- l'effetto che se ne ha smarrisce e stordisce, certo, ma anche inebria.
Non c'è mai scampo. Mai. C'è sempre un disagio ad andare avanti eppure lo stile trascina e diverte di un humor nero. Un libro che è un continuo contrasto tra il bianco e il nero o meglio, tra il grigio e il nero. Da tutto ciò si evince che non sia affatto un libro da tenere sotto l'ombrellone oppure un libro da leggere "per stare bene", tutto l'opposto, direi però che è un libro da leggere per capire e arricchirsi umanamente.
E' un libro fondamentale anche per un altro aspetto: il suo autore è un autore su cui tutti hanno da dire qualcosa ma quasi nessuno (detrattori o meno) conosce la sua opera.
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Un vero viaggio nel tempo
Giudicato da alcuni come uno dei più grandi scrittori italiani viventi, Pardini scrive un libro ambientato a fine '800 ed ha come protagonista un vetturino (o meglio un "procaccia") e il suo cavallo ("Balio" come il nome del cavallo di Achille).
La cosa che molto mi ha colpito è lo stile di scrittura: il linguaggio è prezioso e molto ricercato per immergere (riuscendovi, nel mio caso) il lettore nel detto periodo storico. Linguaggio specialistico si intreccia con il linguaggio desueto (quindi doppiamente prezioso) spaziando dalle "martinicche" alla "brusca" per poi arrivare a "rampare" e "frangere" (seppure questo verbo, in luogo di "mangiare" riferito al cavallo, diventi a volte decisamente abusato). Tutto questo per riutilizzare termini ottocenteschi (presenti sia in Pascoli che Carducci) che creano la parte migliore del libro; quella traslazione temporale che avvicina all'onirico.
Per quel che riguarda le cose che meno mi sono piaciute ho avvertito talvolta, nello stile, un compiacimento abbastanza marcato tanto che il linguaggio, a volte, stucca. La descrizione dei luoghi della valle del Serchio (luogo in cui l'autore vive da tutta la vita) sono molto belli, un po' lirici a volte (per me se non sei Proust o Flaubert, puoi abbandonare il lirismo), ma comunque belli e, soprattutto, si sente l'amore profondo per ogni strada e scorcio; ogni monte, ogni fiume e strada ha in sé un carattere, una storia.
Le apparizioni dei Personaggi storici realmente esistiti sono, a mio parere, inutili e, invece di apparire come tocchi di colore, a me sono parsi come sbavature. La parte della guerra è parte a sé. L'invettiva di fondo antifuturista (e, ovviamente, antifascista) prende il sopravvento sulla storia di Liberio e Balio e, seppure giustificata da un contrasto antico/moderno-padre/figlio (tra l'altro molto bello), devìa dal soggetto, a mio giudizio più originale e interessante, del contesto storico ottocentesco e dalle sue antiche figure (il postale, ad esempio). La peggiore nota negativa di questo libro sta nello spessore di alcuni personaggi; benché Amilcare, Liberio e Balio siano sufficientemente ben realizzati, il personaggio di Altea (su tutti) è a dir poco grottesco. I suoi "poteri" non convincono nessuno e il suo carattere rasenta il ridicolo. In tutto il libro poi, l'alone di mistero convince assai poco.
Ciò detto ne consiglio assolutamente la lettura.
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Don Chisciotte e l'uomo buono
Se c'è una cosa veramente eccezionale del libro è la caratterizzazione dei personaggi. Don Chisciotte è uno dei pochissimi personaggi che adombrino il nome dell'autore; attualmente solo un altro nome, a mio parere, ha questa forza: Sherlock Holmes (e, detto per inciso, la dualità Sherlock/Watson è assai simile a Chisciotte/Sancho).
La caratterizzazione di Don Chisciotte e Sancho Panza è talmente ben costruita che davvero i personaggi sono tridimensionali. Si pensi solo che è forse l'unico personaggio letterario di cui vi sia una ricorrenza festeggiata in Spagna. Un uomo che ha passati i cinquanta anni, mai sposato e, forse, come dice Vladimir Nabokov nelle sue lezioni, vergine, parte per il mondo del seicento, irriso da tutti. E' l'uomo buono fatto persona(ggio), il genitore di quel principe Myskin che Dostoevskij narrerà ne 'L'Idiota'. L'esperimento è mettere un uomo buono e un uomo ignorante nel mondo del primo seicento barocco, epoca di grandi invenzioni e scoperte (la vittoria della razionalità sul mito).
Il libro è percorso da i più svariati eventi (non c'è solo l'episodio dei mulini) ma alla lunga fiaccano parecchio la lettura. I nostri eroi si trasformano sotto i nostri occhi, Don Chisciotte è sempre più ab-battuto, sempre più saggio e rassegnato (seppure sia pur sempre un cavaliere errante!), Sancho sempre più intelligente e furbacchione ma sempre più innamorato del suo 'padrone'.
A una lettura attenta il libro diventa un vero caos, sembra che l'autore non l'abbia mai riletto se non quando si accinge a scrivere la seconda parte (nella quale tenta di giustificare le grossolane omissioni): cavalli che scompaiono per poi riapparire senza spiegazioni sotto il sedere di Sancho; soldi (tanti soldi) trovati ma di cui non si farà più menzione; Dulcinea il cui nome è spesso mutevole nella prima parte e che Sancho riconosce come una contadina del suo paese (Aldonza Lorenzo) per poi, nel momento di cercarla, non sapere dove cercarla perché, dice, non l'ha mai veduta ecc... Come romanzo, quindi, seppure il primo romanzo moderno, è assai confuso e a tratti ripetitivo, eppure ci sono, dentro, idee geniali, come il finto Don Chisciotte scritto da un plagiatore (mai veramente scoperto: forse Alonso Fernández de Avellaneda) che, viene il dubbio, abbia dato origine alla seconda parte del romanzo solo perché Cervantes potesse riappropriarsi dell'opera, e che appare indirettamente nella narrazione della seconda parte (purtroppo mai in carne e ossa, che occasione mancata!) e con Don Chisciotte che dice chiaramente che sa di essere scritto (!!!).
Insomma, un libro che è un viaggio in quella che ancora adesso si chiama letteratura, che ha l'aspetto di una favoletta ma racchiude tutte le narrazioni dei tempi a venire. Un libro da studiare e un personaggio che tutti, in fondo, teniamo chiuso da qualche parte dentro di noi.
Ma è anche un libro su un periodo storico, il 1600 (El Siglo De Oro) in cui la Spagna vive il suo Rinascimento, la sua modernità, e in cui la visione si fa materialistica, disincantata, e ogni 'magia' si risolve in imbroglio. Non esistono maghi, né eroi, ma solo furfanti pronti a divertirsi alle spalle degli sprovveduti, dei sempliciotti, dei creduloni. E' l'epoca degli adulti contro l'epoca (passata) dei bambini e questo, Don Chisciotte, lo sa benissimo. In fondo la sua ricerca tende verso la morte, verso un'Arcadia impossibile.
E' molto curioso che all'inizio del libro il suo nome sia incerto; è descritto come personaggio patetico, grigio, anziano, "forse si chiamava Quesada". E' solo alla fine, dopo un febbrone da cavallo e, soprattutto, dopo aver percorso chilometri e chilometri si polvere amara, che sappiamo il suo vero nome:
"- Signori - disse Don Chisciotte -, andiamo piano, perché ormai nei nidi di ieri oggi non c'é più passeri. Io fui pazzo e or son savio: fui Don Chisciotte della Mancia, e ormai, come ho detto, son Alonso Quijano il Buono."
La cosa, per me, molto buffa è che nella fine NON si dice che Don Chisciotte sia guarito. Lo deducono il curato e le persone attorno per i ragionamenti che fa. Ragionamenti che ora sì sono di persona 'sana' (che ironia!). Sembra quasi che il personaggio in realtà DEBBA morire, in qualche modo Cervantes non riesce a sbarazzarsi di lui se non facendolo ammalare di punto in bianco, senza nessuna avvisaglia, senza nessun preavviso. Come Arthur Conan Doyle, che non riesce a liberarsi del suo personaggio che infatti farà 'morire' presso le cascate del Reichenbach per poi, tre anni dopo, resuscitarlo, così Don Chisciotte sopravvive nonostante il volere del suo autore. Ma era 'necessario' che Don Chisciotte morisse, altrimenti altri plagiatori si sarebbero impadroniti del personaggio (si ricorda qui che la data di morte di Cervantes e di Shakespeare è stata designata dall'UNESCO come il giorno del libro e, non a caso, del diritto d'autore).
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