Opinione scritta da romantica82
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La sperequazione del capitalismo
Zola, si sa, è un grande osservatore della realtà sociale francese della seconda metà dell'Ottocento ed anche in questa opera non tanto conosciuta come l'Assomoir o come l'eroina noire Therese Raquin riesce, con un'acutezza sublime, ad affrescare la nuova realtà economica che il capitalismo ridisegna, caratterizzata dal profondo squilibrio tra chi detiene i mezzi di produzione e chi deve produrre merce, inesorabilmente, senza sosta alcuna, e produrre guadagni per poter vivere ai limiti della sussistenza.
Il Paradiso delle Signore è l'opificio in cui si concretizza questo dualismo economico: da un lato il proprietario, il ricco Mouret, che escogita qualunque mezzo pubblicitario e commerciale pur di massimizzare il profitto derivante dal commercio delle stoffe e di gingilli femminili, dall'altro le commesse, fanciulle proveniente dalle parti più svariate della Francia pur di migliorare la propria condizione economica e che vivono nel soffitto del Paradiso soffrendo fame e freddo e dedicando tutta la propria esistenza alla vendita.
Il Paradiso delle signore è il primo esempio di grande magazzino che nasce al centro di Parigi, prima come piccola realtà, per ampliarsi poi irreversibilmente travolgendo, con una furia distruttiva, le piccole attività artigianali che, con sacrificio, cercavano di contrastare questo tsunami di rinnovamento alla luce del profitto.
Con minuzia certosina l'autore descrive la trasformazione sociale e finanziaria che investe la capitale e ne ridisegna la geografia umana e territoriale penetrando, con il bisturi della scrittura, nelle viscere delle città, tastando gli umori di quel ceto cangiante, qual era il proletariato industriale-commerciale, che subisce il cambiamento, che vede il Paradiso imporsi con prepotenza nelle vite di ognuno e nella stessa morfologia dei luoghi, diventando l'unico ed incontrastato protagonista economico. Intorno a questo mostro pittoresco fatto di pizzi, sete, arazzi, guanti e biancherie di fattezza pregiata tutto è morte e distruzione: il vecchio Bourras, artigiano ombrellaio che è capace di far emergere qualsiasi figura mitologica da un semplice bastone, si aggrappa con le unghie e con i denti alla propria bottega ed inveisce contro il grande magazzino che espande i propri tentacoli strozzando i più indigenti o la famiglia Baudu, venditrice di stoffe, che vede scemare i propri clienti fino a scomparire del tutto.
In questo sfondo si staglia la figura della protagonista, Denise Baudu, giovane ventenne proveniente dalla provincia di Valognes che, per sfamare i due fratelli, entra nel Paradiso delle signore come addetta alla vendita e, dagli stenti iniziali, finisce per diventare punto di riferimento per tutte le commesse ed addirittura del bell'ombroso Mauret, imprenditore e proprietario del negozio, poi suo sposo.
Al di là dell'affascinante favola d'amore di cui Zola, con acume, traccia l'evoluzione cogliendo i sospiri ed i desideri dei due innamorati, la storia di Denise si identifica con la vicenda umana di quelle persone che, con la propria capacità, con lo studio ed anche, mi si consenta, con un pò di fortuna, riescono ad investire sulle proprie attitudini ed operano una scalata sociale formidabile.
Si tratta, dunque, di un vero classico: capace, soprattutto in un periodo come questo, fatto di sperequazione e marginalità, di cogliere i tratti di una società in cui il danaro la fa da padrone.
Il male assoluto
Nella prefazione alle seconda edizione di questo romanzo, Zola scriveva, indirizzando il suo messaggio alla critica che aveva accolto con parole nefaste il romanzo definendolo una “letteratura putrida”: “spero si cominci a capire che il mio scopo è stato innanzitutto uno scopo scientifico. Quando ho creato i miei due personaggi, Thérèse e Laurent, ho voluto sollevare e risollevare alcuni problemi: ho cercato di spiegare la strana unione che può prodursi tra due temperamenti diversi, ho mostrato i profondi disturbi che possono derivare dal contatto di una natura sanguigna con una nervosa”.
Dunque Teresa, figlia di una donna algerina aitante di cui ha conservato lo scatto felino e la passione accecante, è una creatura dalle caratteristiche nervose, mentre il suo compagno di alcova e di sventura, Laurent, è un uomo dalla natura sanguigna e dall’indifferenza tipica del buontempone più simile alle bestie che ad un essere pensante.
Zola si riferiva, poi, allo studio clinico dell’animo umano avvezzo al male, che non conosce i valori morali e positivi, e della sua progressiva perversione che lo conduce fino alla distruzione utilizzando una scrittura tersa, un eloquio semplice ed allo stesso tempo evocativo capace di cogliere ogni più piccola sfumatura del cuore, che viene scandagliato come fosse un oggetto di laboratorio. Questo, come è noto, ha introdotto l’autore tra i più importanti esponenti del Naturalismo francese che tanto avrebbe influenzato il Verismo verghiano.
Proprio perché molto si è detto, a ragion veduta, della capacità di descrivere ogni impercettibile movimento dell’interiorità umana anche avvalendosi di un linguaggio che spesso si colora di tinte fosche, a me piacerebbe più soffermarmi su similitudini ed elementi di novità che, a mio avviso, si possono cogliere da questa bellissima e sempre attuale “opera d’arte”.
Anzitutto strettissimo è il legame con i miserabili che qualche anno prima Hugo aveva immortalato descrivendo la cultura posto-napoleonica. Teresa e Laurent sono i degni figli dei Thenardier. Come loro sono uniti da una passione carnale e sanguigna, come loro architettano un crimine pur di soddisfare il proprio desiderio di stare insieme, come loro vivono nei sottoborghi parigini dove la luce del sole, che simboleggia la verità e la cultura, non riesce a filtrare, e, come loro, sono creature miserabili fuori e dentro perché non conoscono e non conosceranno mai l’amore. Ciò che differenzia la coppia descritta da Hugo da quella di Zola è il decorso della loro vicenda personale successivamente alla fusione fisica e di intenti: i Thenardier seguiteranno in un atteggiamento immorale fino alla fine della loro vita rimanendo insieme e godendo della loro reciproca attitudine al male. Teresa e Laurent, subito dopo l’omicidio del povero e malaticcio Camille, sono presi da una nevrosi che assume sempre più le forme del delirio, una malattia dell’animo che li allontana e li butta nella perversione e nella successiva autodistruzione. Essi, cioè, contrariamente alla prima coppia, sperimentano il significato del rimorso. Camille, con la sua faccia verdastra e gonfia dall’acqua e quell’espressione sinistra sul volto, li segue in quel talamo dove la passione bruciante aveva indotto i due ad architettare il suo omicidio e si insinua sotto le lenzuola, li acchiappa per i piedi, li stringe in una morsa umida e fredda, come l’acqua che ha divorato le sue membra che “puzzavano di bambino malato”.
L’elemento di grande novità è, a mio avviso, il linguaggio utilizzato: Zola non ha alcuna remora morale nel descrivere l’amore carnale, le fattezze intime di quegli uomini e quelle donne che alla Morgue venivano esposti nudi al pubblico ludibrio dopo la loro morte ed introduce, così, una letteratura non edulcorata da falsi moralismi, ma una narrativa nella quale il lettore è catapultato nella cruda e violenta vita dei reietti.
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L'esclusione del nuovo
Antonio Pentagora, duro uomo siciliano indurito nel volto e nello spirito, accoglie in casa il figlio Rocco, che, dolorante, afferma di essere entrato a far parte anche lui del circolo familiare degli uomini “con il marchio dei cervi” dal momento che sua moglie Marta lo ha tradito e porta in sé, nel proprio ventre, il ricordo di quel peccato, essendo rimasta incinta di un brillante avvocato.
Il padre lo fa sedere e reagisce con quegli stessi toni aspri che contraddistinguono la sua personalità sostenendo che sua moglie, nonché madre di Rocco, si sia comportata così esattamente come sua nonna ed ancora la sua trisavola.
“Così fan tutte”: una semplice frase che racchiude la disillusione, ed al tempo stesso, l’amara profezia per la quale qualunque esponente del genere femminile si fosse rapportato alla famiglia Pentagora della terra di Girgenti si sarebbe macchiata di sicuro di tradimento.
Marta diventa, così, l’esclusa, la malafemmina che non ha saputo comportarsi da moglie degna del rispetto che la morale di inizi Novecento, nella profonda ed impervia terra siciliana, impone.
Ma per esclusa si intende qualcosa di più rispetto all’isolamento materiale che la protagonista ha dovuto affrontare.
Con questo termine un uomo vissuto in teatro, che si è occupato di filologia tedesca ed ha respirato il pensiero d’oltralpe, qual è Luigi Pirandello, sembra ravvisare la condizione della donna per un canto, e delle lettere, per l’altro, in un’Italia che ancora non riesce ad imporsi come realtà politica unita ed in cui le divisioni politiche, culturali e sociali si fanno fortemente sentire a poco più di mezzo secolo dall’unificazione.
Terminati i proclami della propaganda risorgimentale, si può parlare di una cultura italiana omogenea? Ed ancora, quale può essere il ruolo delle donne all’interno di questa rinnovata sceneggiatura politica in cui le nuove famiglie borghesi, di cui gli stessi Pentagora sono esponenti, cercano animosamente un posto al sole?
Personalmente ritengo che l’opera di Pirandello vada letta proprio nell’alveo della circolazione delle idee nel primo ventennio del XX secolo. La figura di Marta personifica, a mio avviso, quella delle donne ed, ancor più in generale, dei nuovi fermenti culturali che tentano di farsi strada in una realtà politica ancorata, seppur nel Novecento, ad idee reazionarie legate ad una società per ordini, incardinata ed immobile, propria dell’Ancien Règime.
Significativa è anche la scelta del nome della protagonista vittima dell’ossessione della gelosia del marito: Marta, come la Marte del Vangelo di Luca cui Gesù dice: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. Come l’eroina biblica, la dolce Marta pirandelliana è una donna che si diletta a scrivere, cosa disdicevole per una donna del Sud, che, dunque, componendo lettere, si distoglie dal compiere “l’unica cosa di cui c’è bisogno”: fare la brava massaia. Accanto a questa donna, un’altra, Anna Veronica (anche qui, il nome tratto dalle Scritture Sacre è una peculiarità dell’autore), definita “cane giudeo”, che si avvicina a Marta perché colpita dalla sua stessa onta sociale.
Un libro che si legge con facilità e rapidità e nel quale convergono la capacità di Pirandello di costruire i personaggi avvalendosi di metafore prese dalla natura o da figure religiose e la sua chiarezza narrativa in grado di cogliere il punto focale di ogni questione senza dilungarsi in vagheggiamenti inutili e che distraggono il lettore.
Insomma: una lettura che consente tante interpretazioni: letterale, storica, femminista… e, proprio per questo, formidabile!
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Il genio letterario ed i suoi tormenti
“Quante volte, nell’insonnia, mentre il marito e maestro le dormiva placido accanto, ella non s’era veduta assaltare nel silenzio da uno strano terrore improvviso, che le mozzava il respiro e le faceva battere in tumulto il cuore! Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, sospesa nella notte e nel vuoto della sua anima, priva di senso, priva di scopo, le si squarciava per lasciarle intravedere in un attimo una realtà ben diversa, orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, in cui tutte le fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si scindevano e si disgregavano”. A vivere questa situazione angosciosa, fatta di risvegli notturni e di vere e proprie crisi d’identità è Silvia Roncella, ventiquattrenne tarantina dal passato segnato dalla prematura morte della pia madre ed intorno alla cui vicenda si dipana la storia di questo scritto, a metà tra romanzo e teatro.
Ella è una giovane donna che anela alla perfezione familiare: vorrebbe una casa fatta di calore del focolare e continuamente invasa dallo squisito profumo delle torte fatte dalle mani sante di un’altrettanto perfetta casalinga che aspetta suo marito, dedita, dunque, al proprio uomo, alla loro dimora e al timor di Dio, un po’ come tutte le sue amiche maritate. Tuttavia Silvia sa, in cuor suo, che, pur sforzandosi, non riuscirà mai ed emulare questi angeli in grembiule, perché in lei vive quello che lo zio romano definisce “il demonietto” che chiede sempre più attenzione.
Il demonietto, pur represso, si trasforma in “demoniaccio” ed ella, per non imbattere in quelle angosciose crisi esistenziali che la fanno piombare in una sofferenza prostrante, deve per forza farlo parlare e dargli spazio: esso è il fuoco dell’arte letteraria, nonché la necessità di far vivere il proprio universo immaginifico servendosi di un calamaio e di un foglio di carta.
Così, timorosa e titubante dapprima e successivamente immersa in questo delirio fatto di immagini e personaggi che diventano parti della sua mente, Silvia dà alla luce il suo primo figlio: il romanzo La casa dei nani, che è salutato dalla repubblica dei letterati con tale interesse dal salpare anche oltremare.
Il successo arriva nella vita della donna in modo inaspettato: ella, infatti, non aveva fatto altro che scrivere per sé, per dare pace a quello spirito ribelle che dimorava in lei sin dalla tenera età, ma qualcuno a lei vicina, il devoto marito Giustino Poggiolo, fiuta la possibilità di far soldi se trasforma l’arte nascosta della moglie in un’attività a tempo pieno.
Il Poggiolo è il suo marito cui Pirandello si riferisce nel primo titolo attribuito a questo romanzo pubblicato in prima battuta nel 1911 a Firenze: suo marito perché Giustino, piemontese di umili origini, non riesce a distaccarsi dalla figura di burocrate e bravo archivista che appare al lettore all’esordio dello scritto. In lui non compare mai un gesto d’amore, o semplicemente di tenerezza, nei confronti della moglie dolce e dimessa, ma si coglie solo un’incessante ed ossessiva bramosia di denaro. Una ricchezza che egli insegue diventando il suo manager, scimmiottando le movenze del regista teatrale quando viene messa in mostra la seconda creatura letteraria della sua dama, La nuova colonia. E mentre in scena la protagonista del dramma, Spera, abbraccia in un amplesso mortale il proprio figlio per non lasciarselo strappare, contemporaneamente a casa Silvia lotta per mettere al mondo il suo terzo figlio, frutto non del proprio intelletto, ma delle proprio viscere. Un bambino non nato dall’amore, una creatura quasi rinnegata dal padre, che definiva lo stato interessante della moglie come un incomodo, una malattia e non il preludio di una vita nuova e più completa.
E così dramma e realtà si uniscono indissolubilmente: in cosa si discostano Silvia, mamma che perde il proprio bambino poco dopo la sua nascita, e Spera, tragica eroina da lei creata approdata nelle coste ioniche per unirsi ad un uomo che prima dice di amarla e poi l’abbandona?
Pur assumendo la veste del romanzo, questo scritto si inscrive alla perfezione nel linguaggio pirandelliano che maschera la realtà e spariglia le carte facendo diventare, ad un tempo, reale dei personaggi immaginari ed insieme astrattizzando esseri umani veri.
La sua penna è brillante, capace di descrivere con grande effetto le caratteristiche di ciascuna figura utilizzando sapientemente metafore tratte dal mondo naturale: così la bramosia di successo di Giustino, suo marito per l’appunto, è paragonata ad un incendio che dapprima nasce come un fuocherello appena accennato, ma che successivamente, grazie ad un alito di vento ed alle foglie secche da esso trasportate, si trasforma in vivida fiamma.
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Fenomenologia del dolore
Cosa succede nel cuore dell’essere umano quando la sofferenza si appropria delle proprie viscere? Come reagisce una donna dopo una violenza sessuale di gruppo, dopo la perdita del proprio compagno e a seguito della morte di una figlia tanto desiderata?
Questo romanzo è l’inno del dolore in tutte le sue molteplici sfaccettature e prende avvio da una tragica vicenda autobiografica: la protagonista, Mary, perde per una meningite fulminante la sua bambina Stella di cinque anni improvvisamente, irrimediabilmente ed inconsapevolmente. I tre avverbi descrivono la prostrazione subita dalla donna a partire da una calda giornata di giugno, quando lo zainetto dell’asilo della piccola giaceva, immobile, sul bracciolo della seggiola e mai più sarebbe stato indossato.
Da quel momento nulla torna come prima: il cibo non ha più sapore, l’aria fresca non rinfresca con la sua brezza la pelle, la sessualità perde qualunque stimolo, ma l’unico desiderio della donna è rimanere a letto guardando il soffitto e sperando che lo stesso si distrugga per farla salire in cielo.
Eppure la vita dà sempre una seconda chance e, senza accorgersene, Mary si trova in un negozio di filati che odora di lana e di cannella dove l’anziana donna Alice, dagli occhi melanconici e dal fare spicciolo, la inizia al lavoro della maglia e la introduce in una nuova cornice sociale, fatta di confidenze reciproche frammiste a silenzi più eloquenti di mille parole.
E così ogni punto che passa da una ferro all’altro diventa una preghiera che la mamma indirizza alla figlia così come ogni magnifica creazione è un regalo che ella confeziona per la bambina e serba sul suo cuore.
Che la vicenda sia fortemente autobiografica si deduce dalla narrazione sostenuta, fatta di andirivieni della memoria che si muove repentinamente da vicende del passato legate alla quotidianità della bambina ritratta nelle naturali attività del colorare, del preparare dolce insieme o del farsi le coccole a vicende, ad un presente fatto di dolore e all’interno del quale il dolore si articola trasformandosi lentamente da sofferenza lancinante ad una nostalgica malinconia.
Lo stile è semplice, senza barocchismi, e, proprio la linearità dell’eloquio consente al lettore di addentrarsi nel profondo nella vita di Mary fino quasi ad identificarsi.
Ritengo che sia un libro molto bello, che ha la capacità di commuovere anche chi non ha avuto figli e che ha il merito di insegnare che, pur nella sofferenza più disperata, c’è sempre la possibilità di rinascere come un’araba fenice.
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Il Rosso e il Nero: Napoleone ed i Gesuiti.
Se qualche erudito degli anni Trenta dell’Ottocento avesse domandato ad Henry Beyle, vero nome di Stendhal, cosa avesse pensato di Julien Sorel, probabilmente egli avrebbe risposto: “sono io Julien Sorel”, proferendo le medesime parole esplicitamente enunciate da Flaubert in riferimento alla sua creatura Emma Bovary.
Che il Sorel sia la personificazione di Stendhal, o meglio, del suo modo di concepire l’esistenza di un individuo nella società della restaurazione, è chiaro, non solo e non tanto per le profonde similitudini di vita che uniscono l’autore al suo figlio di fantasia, ma soprattutto perché l’intero romanzo si snoda, anche quando racconta le vicende di altri personaggi più o meno legati al principale di essi, e si sviluppa originando dalla mente di Julien, dal cuore di Julien e dalla vita di Julien.
Voglio dire, cioè, che tutta la storia è narrata guardandola attraverso gli occhi del protagonista, che è onnipresente, quasi come una creatura divina, anche nei momenti in cui è assente. Non esiste momento, come nelle riunioni dei nobili di casa La Mole alle quali inizialmente egli non poteva prendere parte, il cui la sua presenza non sia sentita e dal cui giudizio il lettore non sia influenzato.
Questo, è a mio avviso, il vero senso del Rosso e Nero: un’endiadi complessa ed al tempo stesso semplice. Il rosso dei vessilli napoleonici, salutati dal giovane Beyle come il naturale evolversi del pensiero rivoluzionario foriero di democrazia ed uguaglianza, ed il nero della Restaurazione, della delusione per la fine di una parabola illusoria in cui i piccoli borghesi ed i ceti infimi avevano creduto invano. Il nero personifica, poi, il colore gesuitico della Chiesa, come unico mezzo di emancipazione sociale per chi, come Sorel, desidera elevarsi dalle sue umili origini e vuole ritagliarsi uno spazio nello scenario politico segnato dal fruscio delle vesti di seta e dal chiacchiericcio noioso degli aristocratici ebbri di vino e di pettegolezzi futili.
E così l’ambizione ossessiva del giovane per il successo si mescola al tedio dei nobili che, dapprima, guardano Julien con curiosità mista ad ilarità e di cui, successivamente, apprezzano la cultura e la rara intelligenza. Ma contemporaneamente Stendhal ci mostra, con pagine anche molto difficili perché si mescolano valutazioni squisitamente politiche ad apprezzamenti psicologici che entrano, a mio avviso, nell’intimo della sua personalità, il cuore e l’anima di questo ragazzo, che, non bisogna dimenticarlo, ha solo ventidue anni quando insegue vanamente i suo sogni di gloria.
Egli è così lontano dalla generale visione che si ha della fanciullezza perché è carico di risentimento e di angoscia per un’infanzia non semplice, e la sua voglia di superare i limiti posti da una nascita non illustre affondano le radici in questa congerie di sentimenti negativi, che trasportano il lettore in una scenografia tetra e nevrotica dalla quale si esce con un amaro in bocca.
L’amaro in bocca di chi, arrivato al capolinea, si rende conto di aver inseguito una chimera effimera e di aver perso di vista, dunque, il vero senso della vita.
Non sento di poter consigliare questa lettura a tutti, non tanto e non solo per il linguaggio ermetico, ma soprattutto perché lascia una sensazione di irrisolto dalla quale è difficile riaversi.
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Verso l'infinito - Ottavio Pattacini
Due mondi, due culture, due stili di vita, un’unica soluzione..
“Molti erano gli ologiornalisti che avevano definito quel periodo il peggiore della storia dopo l’epidemia di peste nera del 1348”. Steve, politico di professione e figlio di un noto astronomo, proferisce questa frase emblematica a suo padre in riferimento al periodo storico in cui i due vivono. Una congiuntura complicata, in cui la politica guarda alla dèbacle della Terra cercando nel progetto Galileo la soluzione alla crisi occupazionale che la attanaglia da secoli.
Un pianeta ormai esausto, distrutto dall’indisciplinata industrializzazione che ha ingabbiato il sistema climatico in una confusione perenne tra giorno e notte: il Mondo ha, dunque, dimenticato, come una forma di ribellione alla violenza subita dall’uomo, la scansione tra la luce ed il buio che cadenza lo scorrere del tempo, ma l’alternarsi del giorni è impercettibile perchè tutte le ore sono accompagnate da una luce verdastra e fioca.
Non si scorgono più le stelle, i bei tramonti e la vegetazione, ma il Pianeta è una discarica a cielo aperto.
Siamo nel terzo decennio del XXII secolo ed, in questa cornice politico-ambientale e sociale così complicata, che sembra quasi portare agli eccessi la recessione economica che oggi, nel XXI secolo, stiamo vivendo, l’unica soluzione prospettata, a causa della fortissima disoccupazione e dell’ inquinamento che avevano innalzato il tasso di mortalità ad un livello pari a quello del XIV secolo, è rappresentata dallo spostamento della macchina industriale umana su altri Pianeti in modo da arrestare la decadenza del sistema ecologico terrestre. Tali sono i punti programmatici del progetto Galileo che prima ho citato: forse l’ultimo tentativo di riparare a secoli di sfruttamento sfrenato ed immorale. L’umanità, negli ultimi tre secoli, si è comportata come un virus che ha distrutto tutte le risorse del Pianeta, su cui ha posato lo sguardo, portandolo a trasformarsi dall’Eden biblico a deserto contaminato e privo di vita.
Proprio in questo quadro apocalittico una nuova notizia sconvolge la vita dei protagonisti e confonde le idee di tutti: la presenza di una sonda che è entrata nel nostro sistema solare di origine sconosciuta. Un oggetto, dunque, che sembra essere la risposta definitiva ed inconfutabile ad un millenario quesito che si è posto l’umanità: siamo soli nell’universo? Pur nella sua straordinarietà, questa notizia è foriera di preoccupazioni in Steve, che rappresenta la politica, e, al contrario, di entusiasmo in Samuel, suo padre, che rappresenta la scienza.
Chi ha costruito la sonda e per quale fine? Sono dei semplici esploratori o hanno delle finalità belliche? Tali fantomatici costruttori, abitanti di Adrais, sono anch’essi alle prese con una situazione ai limiti dell’estinzione. Non l’inquinamento, non la disoccupazione, ma la lenta ed inesorabile disidratazione del loro Pianeta. Una crisi così violenta che ha portato ad una pace forzata, adornata da un’altrettanta forzata cooperazione, tra le due grandi Nazioni, che fino a quel momento erano state in guerra tra secoli, e che rappresentano la razza rettiloide evolutasi su Adrais.
Cosa accadrà quando rettiloidi e umani si incontreranno braccati dall’estinzione imminente e spinti dal desiderio di sopravvivenza?
Di certo non posso rilevare altro su una trama elaborata e che procede con suspence, altrimenti toglierei il gusto della lettura di questo romanzo di esordio di Ottavio Pattacini, ma vorrei aggiungere delle considerazioni riguardanti lo stile e l’iter narrativo.
Forti sono le influenze di Asimov quanto all’interazione dei personaggi ed alla descrizione di luoghi effettivamente mai visti, come la superficie di Marte o di Titano, che risultano accurate ed assolutamente verosimili.
L’iter narrativo è alternato tra momenti di pathos fortemente emotivi e pagine in cui l’autore sembra voler dare al lettore il tempo necessario per riprendere fiato.
Essendo un romanzo d’esordio, mostra quei fisiologici limiti propri di uno stile ancora da limare, ma, nel complesso, il romanzo è adeguato a trascorrere ore immersi in un nuovo mondo che affonda nella nostra epoca attuale i semi della sua esistenza.
La grafica stampata sulla copertina, tuttavia, è più adeguata ad un testo universitario di astrofisica che ad un libro di narrativa senza profonde pretese scientifiche ed indirizzato ad un pubblico che vuole solo leggere una storia. Sarebbe stato meglio aggiungere qualche particolare, riguardante la vicenda raccontata, così da rendere più stuzzicante l’immagine di copertina.
La monaca che ama, ma non pecca
“Se sapessi, Marianna, se sapessi… il peccataccio che ho fatto!”
Maria, la giovane protagonista di questo accorato epistolario, scrive queste parole alla sua amica più fortunata, a cui la famiglia, e più ancora Dio, ha concesso di poter vivere al di fuori della vita claustrale con il proprio amore.
Maria, una piccola anima predestinata alla clausura, confessa di aver commesso un peccato abominevole: aver danzato con Nino, quel ragazzo che sposerà la sorella capricciosa ed a cui tutto è concesso, ma che, mentre appoggiava la sua mano delicatamente sulla sua schiena per sostenerla durante il ballo, ha trasformato la sua pelle diafana, intonsa ed innocente in una congerie di sentimenti mai provati. La vita, con le sue emozioni primarie fatte di desiderio, appagamento o semplicemente di voglia di affetto, si è prepotentemente appropriata del cuore di questa dolce fanciulla.
E questo passaggio dalla clausura, non tanto fisica quanto di emozioni, alla libertà del cuore, che si anima di emozioni forti che vanno dal riso, alla felicità al pianto disperato, è sapientemente utilizzato da Verga anche nel linguaggio, per cui, dalle prime lettere lineari e serene in cui si indugia a descrivere i pittoreschi luoghi siculi che la protagonisti dopo anni rivede, si passa gradualmente ad uno stile accorato, a delle parole incalzanti che trasudano angoscia in un climax ascendente, indicativo del suo parossismo emotivo, che si traduce in una serie di parole, e poi di fonemi senza senso compiuto, aggrovigliate e dal significato turpe.
La vicenda è nota: questo libricino che si legge nell’arco di un pomeriggio riprende il topos classico della monacatura forzatura: basti pensare al famosissimo esempio della Gertrude manzionana, ma Verga, con vena realistica, ribalta il punto di vista del lettore nei confronti della suora.
Se, infatti, Gertrude da vittima si trasforma in carnefice rinnegando il voto di castità fino a spingersi all’odioso crimine dell’omicidio pur di conservare la propria infedeltà a Dio, Maria nasce, cresce e muore da vittima. In questo senso il proemio di questa operetta che si apre con la figura metaforica della capinera è indicativo dell’obiettivo perseguito dall’autore: mettere a confronto la realtà del vincente nella storia dell’uomo, personificato nell’amica Marianna che ascolta da lontano il pianto disperato della poveretta richiusa, e quella del vinto, che è evidentemente Maria.
Non si può provare indifferenza per questa creatura, che ha conosciuto l’amore, ma non l’ha potuto vivere!
Lo consiglio a tutti.
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La forza delle donne
Nel gennaio 1848 la rivista Westminster Review definiva questo libro “il più bel romanzo dell’anno” tanto che in pochi mesi raggiunse una popolarità incredibile.
Il suo successo era forse dovuto alla capacità dell’autrice, che ancora si firmava al maschile, di intessere una trama ricca di colpi di scena, di caratterizzazione dei personaggi principali e non con una sapienza pari agli scrittori del realismo francese consumato, ma, a mio modesto parere, l’amore che subito ha infuso negli animi dei lettori questa innocente, eppur grintosa ragazza dall’infanzia ffortunata, è dovuta al suo desiderio di emancipazione.
Attraverso il suo personaggio principale Charlotte Bronte descrive una donna che lavora per mantenersi, che pone, secondo la critica attuale, i suoi desideri al di sopra delle aspettative degli altri e, che, soprattutto, non si piega alla logica conformista per i cui dettami il sesso fragile debba sottostare ai desideri degli uomini, veri e soli padroni di casa.
Tutto questo sembra scontrarsi con la fisicità della protagonista ed i suoi modi di fare: esile, arrendevole ed attenta a misurare le parole appena arriva nella bella tenuta di casa Rochester, cui successivamente si contrappone la sicurezza ed una sana autostima quando ha conquistato il cuore dei bambini a cui fa da governante e, in ultima battuta, nel momento in cui sente ricambiato il proprio amore dal padre dei fanciulli.
A primo sguardo ci sarebbero tutti i presupposti per un lieto fine: la ragazza abbandonata in un orfanotrofio che trova l’appagamento dei sensi in un uomo più grande di lei, ma affascinante e colto, una bellissima residenza di campagna in cui crescere i figli di lui che, grazie all’amore ed alle cure quotidiane, sono diventati anche figli suoi e la possibilità di scardinarsi da un passato gelido e senza affetto. Se così fosse, non si distinguerebbe dai romanzi rosa di tutte le epoche, anche attuali, che celebrano il “vissero tutti felici e contenti”.
Ma proprio quando tutto sembra accomodarsi per il meglio, la sinistra follia appare, inquietante, nella vita gioiosa della giovane governante sparigliano gli equilibri che, con tanta difficoltà, erano stato creati da lei e dal bellissimo Rochester.
L’inganno di lui fa retrocedere lei dal desiderio ingenuo di sposarlo, la sofferenza per un amore perduto si fa così prepotente che la ragazza scappa via, dorme all’addiaccio per tre giorni e poi viene salvata e curata dal vicario River che vorrebbe potersi far strada nel suo cuore in un matrimonio-prigione. In altre parole in questo romanzo si assiste a tutti i moti dell’animo di una ragazza intelligente, volitiva, pur se nell’aspetto esteriore un po’ fragile, ma che riesce con convinzione ad essere padrona della sua vita.
La vicenda si snoda in una cornice ambientale meravigliosa, dove la natura campestre è cangiante in base agli stati del cuore di lei: è accogliente e rigogliosa quando vive felice nella tenuta Rochester, mentre appare inospitale e fredda quando si sente nuovamente scacciata via, proprio come quando era solo una bambina.
Lo consiglio a tutti i tipi di lettori: ho letto questo libro per la prima volta durante l’adolescenza e me ne sono innamorata con un sentimento che mi prende anche ora, quando l'età della fanciullezza si allontana irrimediabilmente!
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Un re senza trono
Il fagottino rossiccio e stropicciato che Maria Luisa d’Austria mette al mondo, dopo un parto difficilissimo, il 20 marzo 1811 viene salutato dalla corte francese e dalle più grandi potenze d’Europa come il futuro imperatore. Il bambino, cui è dato il nome di Napoleone Carlo Francesco Giuseppe è il figlio di Napoleone Bonaparte che aveva aspettato con ansia la nascita di un erede, che sarebbe diventato il re di Roma.
Questo è l’incipit della storia di una delle figure meno note nella storia del Vecchio Continente: il figlio del grande condottiero, predestinato, sin dalla culla, alla purpurea posizione di imperatore cui, però, il Fato riserva un destino di marginalità e di sogni di gloria perduti, che lo condurranno alla morte prematura per tisi a poco più di 20 anni.
Alessandra Necci traccia il ritratto di questo principe franco-austriaco, essendo la madre Maria Luisa la figlia dell’imperatore d’Austria, con un pathos vibrante e con uno spirito di immedesimazione nella psicologia dell’infante e, poi, del ragazzo alla ricerca di suo padre, che appassionano il lettore ed elevano il racconto da una fredda impostazione saggistica ad una storia drammatica a metà tra la narrazione di un’anima inquieta e le strategie politico-relazionali che si intessono intorno alla sua persona.
Prigioniero degli Asburgo è, senza dubbio, il titolo più consono per descrivere il fanciullo: egli ha vissuto i primi tre anni di vita presso la corte di Francia, vezzeggiato da tutti per essere il figlio del grande imperatore che riusciva a far tremare la terra sotto i piedi ai grandi dominatori d’Europa, circondato dall’amore del padre che riusciva a fargli dimenticare l’indifferenza che nei suoi confronti nutriva la madre Maria Luisa. Ma improvvisamente una sentenza definitiva si abbatte sul capo del grande Napoleone, giudizio che cambierà irreversibilmente la sua sorte e quella dell’amato erede al trono: la tragica campagna di Russia, che segna la decadenza del sogno napoleonico.
Il condottiero è accerchiato tra Inghilterra, Russia e finanche dallo stesso suocero Francesco I d’Austria. Il bambino non è più al sicuro nelle preziose stanze parigine e la sua indifferente madre riceve l’ordine di andare via dalla Francia notte tempo e di trovare riparo presso la corte del padre a Vienna.
Francois viene così strappato alle braccia forti del padre che egli adora e, afferma la Necci, questo sarà il primo, profondo abbandono che segnerà la sua vita. Arrivato nell’impero austro-ungarico dovrà dimenticare con la forza la sua appartenenza francese, tanto che gli sarà imposto il nome di Franz, l’amore verso il padre, tanto che saranno fatte sparire tutte le epopee nazionalistiche che celebravano i fasti napoleonici, la presenza effimera della madre, che partirà alla volta del ducato di Parma e Piacenza dove costruirà una nuova famiglia, e, in ultimo, il sogno di diventare re.
Francois- Franz, un ragazzo che vive nella prigione d’oro di Schonbrunn sempre più isolato, dimenticato da tutti, che vede svolgersi dinanzi ai suoi occhi il congresso di Vienna e spera che quel consesso possa affidargli anche un piccolo trono, ma che poco dopo finisce per morire molto diversamente da come è arrivato al mondo: solo, incompreso e non pianto da nessuno.
Il senso di colpa del sopravvissuto
Decodificare questo libro, farne una sinossi e ripercorrerne il senso è difficile, soprattutto perché scritti e testimonianze su quella terribile parentesi nella storia dell’umanità che è stato il genocidio nazista nei campi di concentramento fortunatamente pullulano nelle librerie, ma questo testo, contrariamente alla maggior parte delle storie strazianti dei sopravvissuti, ha qualcosa di diverso, che definirei in una parola: spietatezza.
Termine, anche questo, abusato, in una trattatistica del genere, se si fa riferimento ai comportamenti disumani delle guardie, dei medici e responsabili di ciascun campo, ma questa volta questa parola può essere inusualmente incollata alle stesse vittime delle uccisioni ed, ancor di più, a coloro che si sono salvati.
Questa è, dunque, ciò che differenzia questo libro, dai toni forti e mai pietistici, rispetto a tutti gli altri, relativi a questo specifico argomento, nei quali mi sono imbattuta fino ad ora.
Pahor è un sopravvissuto e, dopo venti anni dalla fine della barbarie, ritorna nel campo di Natzweiller- Struthof dove ha trascorso tre anni della propria vita. Vi fa, dunque, ritorno volontariamente, contrariamente alla prima volta in cui ha superato quel cancello, ed in solitaria.
Apparentemente sembrerebbe un signore di mezza età che fa visita ad uno dei luoghi più rappresentativi della seconda guerra mondiale, ma nella realtà egli, con molta insofferenza, si stacca dal gruppo di turisti che incontra nel suo cammino ed intraprende questo viaggio della memoria.
Un viaggio catartico? Assolutamente no . Mentre ripercorre palmo a palmo quella che, per alcuni anni, è stata la sua casa del terrore, quanto più i ricordi salgono alla mente, tanto più la rabbia inonda il suo animo.
Si lascia andare ad una congerie di sentimenti negativi per la barbarie, le uccisioni di innocenti tacciati di essere colpevoli solo perché sloveni, ma soprattutto perché è sopravvissuto alla morte di amici del campo e di bambini nei confronti dei quali non ha fatto nulla di concreto.
Pahor non vuole descriversi come una vittima, non cerca la pietà del lettore rispetto alla propria storia, ma, con lo scritto, cerca di liberarsi di una tormenta interiore che, dal primo giorno della liberazione, lo accompagna.
Il fatto che avesse studiato e, per tale ragione, fosse stato destinato ad un lavoro infermieristico contrariamente a chi, invece, veniva portato nelle cave, lo ha preservato da quelle malattie che si contraggono per la mancanza di cibo e l’eccessiva spossatezza fisica, ed anche questo è vissuto da lui come foriero di sensi di colpa. Per questa ragione non dà importanza agli aiuti che, grazie alla sua posizione all’interno dello studio medico, ha dato a coloro che avevano più bisogno, ad esempio attraverso la somministrazione di glucosio a chi versava in condizioni di malnutrizione evidente, ma, pur raccontando questi episodi di pietas genuina, sembra volervi glissare perché non sono nulla rispetto al dolore che gli si parava davanti.
Così ha perso di vista il fatto che egli stesso fosse protagonista di una tragedia umana dalla quale è uscito vivo, contrariamente ai suoi cari che hanno perso la vita, ma dilaniato dentro.
Questo mondo interiore, cosparso di rabbia e spietatezza cui prima ho fatto cenno, si riversa nella scrittura che si tinge di tinte fosche, priva di raggi di speranza e spietata anch’essa.
Le descrizioni delle torture, dei corpi che si muovono, come delle anime in pena, privati della dignità umana, calvi e poco coperti, è minuziosa, quasi scientifica, e lascia al lettore un profondo senso di desolazione.
Necropoli, la città dei morti, dove la morte non è preludio della resurrezione dei giusti, ma è semplicemente la fine tragica di chi non c’è più e di chi, pur vivendo ancora, ha spento, nel proprio cuore, la luce della speranza.
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La perdizione e la rinascita di una ragazza
“E’ inconfondibile, non c’è nessuno che assomiglia al mio Popo, né nero, né bianco, nessuno è così elegante e teatrale, con la pipa e gli occhiali dorati e il cappello Borsalino. Poi iniziò la mia deriva di droghe ed alcool, rumore e ancora più rumore, andavo in giro con la mente offuscata e non lo rividi più”.
Ecco una frase tratta da questo romanzo, che altro non è che un diario di un’adolescente, Maya, dall’infanzia segnata dalla prematura separazione dei genitori, da una madre hostess attenta unicamente a se stessa e che non vede la figlia da anni, ma anche dall’attaccamento profondo, viscerale ed autentico con il nonno, il raffinato Popo descritto come un elegante uomo dalle braccia grandi capaci di dare conforto alla bambina, e dalla nonna Nini, una vivace latinoamericana che crede che spiriti superiori sorveglino la nostra vita.
Anche Maya ritiene che per un curioso caso, se riusciamo a tenere il cuore e la mente aperti ad accoglierli, i defunti ci mantengano la mano quando più ne abbiamo bisogno e con questa frase lascia intendere che, quando il nonno è morto creando in lei un vuoto incolmabile, lo aveva scorto in posti inaspettati, con il suo cappello scuro ed il profumo inconfondibile. E poi, quando ha iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti, lentamente Popo è scomparso e quanto più passavano i giorni senza la sua presenza, tanto più si faceva largo nel suo cuore una congerie di sentimenti che andavano dalla rabbia, al dolore al desiderio di scomparire. E Maya realmente ha fatto di tutto per scomparire: è scappata di casa, gettando nella disperazione suo padre e la povera nonna Nini, è entrata nei bassifondi di Las Vegas facendo la pusher ed ha addirittura smesso di mangiare.
Ma poi, dopo una serie rocambolesca di episodi e, soprattutto, dopo che Popo non ce l’ha fatta proprio più a vederla denudata della propria dignità di donna e di essere umano, Maya viene riportata finalmente a casa recando dietro di sé qualcosa che la polizia non deve scoprire. Così la nonna Nini escogita che, per farla scomparire dalla vista degli sbirri che la cercano e dalle tentazioni della droga, il posto migliore sia in una lontana isola: Chiloè, un posto naturale fatto di cielo e mare e lontano anni luce dalla tecnologia infernale- a detta di Nini.
In questo arcipelago ad attenderli vi è un bizzarro amico della nonna, Manuel, uomo taciturno e schivo, che mette a disposizione la propria casa e la sua vita frugale. Qui Maya scoprirà un mondo nuovo, l’amicizia, l’amore e, addirittura, un segreto inconfessabile che riguarda la propria famiglia.
Io amo molto Isabel Allende, trovo che sia una delle voci della letteratura contemporanea più imponenti, ma questo libro non mi ha particolarmente entusiasmata.
La narrazione è veloce, l’idea del diario scritto da Maya di proprio pugno è vincente, trattandosi della storia di un’adolescente, ma mi sembra una storia dal finale troppo scontato e, soprattutto, la scrittura non è briosa, ricca di simbolismi e di caratterizzazioni, tipica della Allende, ma piuttosto stanca. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole, dal punto di vista della vicenda narrata, ed una delusione quanto al racconto!
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Ritratto della mediocrità che aspira all’alto
Per poter descrivere un romanzo su cui tutto si è detto e tutto si è scritto da autorevoli critici letterari, vorrei utilizzare due definizioni pronunciate da due intellettuali del XIX secolo.
La prima è : “Madame Bovary sono io” ed è stata pronunciata dal padre virtuale di Emma, Gustave Flaubert, che descrive il suo primo ed imponente romanzo, che si staglierà prepotentemente nello scenario letterario della metà dell’Ottocento, come la traduzione al femminile di se stesso.
La seconda, meno laconica e più ricca di particolari della prima, è espressa da un altro grande nome della letteratura francese, Charles Baudelaire, il quale afferma che: “questa donna è veramente grande e soprattutto essa ispira pietà; nonostante la durezza sistematica dell’autore, che ha fatto di tutto per essere assente dalla sua opera limitandosi a tirare i fili come un burattinaio, tutte le donne intellettuali gli saranno grate di aver elevato la donna ad una potenza così alta, tanto lontana dall’animale e così vicina all’uomo ideale”.
Due descrizione che a primo acchitto sembrano due ossimori, ma che in realtà, a mio avviso, si configurano come due lati della stessa medaglia.
Baudelaire afferma che Flaubert si sia comportato come il burattinaio che gestisci i fili della vita di Emma e, di conseguenza, dei personaggi di cui lei si circonda, volendo indicare l’aspirazione naturalistica abbracciata dall’autore. Egli trae insegnamento dal grande Balzac, che aveva pubblicato ben venti anni prima, interpretando la letteratura alla stregua delle scienze naturali, cercando, cioè, di scandagliare l’animo umano, le sue inclinazioni ed il suo diverso approcciarsi alla vita come se fosse un fisico naturale, che, da lontano, osserva ed utilizza il metodo induttivo delle scienze. E questa cura minuziosa rispetto alla caratterizzazione dei personaggi, alla descrizione dei luoghi, allo scenario politico gretto e meschino rappresentato dalla provincia francese (ancora un rimando a Balzac!) sono parte fondamentale dell’opera.
Ma se la si riducesse solo a questo, il romanzo apparirebbe freddo, perché gelida sarebbe la mano di chi lo ha partorito.
E qui, a soccorrere il lettore, giunge miracolosamente la frase enfatica pronunciata da Flaubert: “Emma Bovary sono io!”. Pur volendo l’autore mostrarsi come un freddo spettatore della parabole discendente della sua eroina, essendo anch’egli un essere umano, prova pietà per lei fino a rendersi conto che quella tensione della donna che si spinge verso vette sempre più alte, quel suo desiderio di emancipazione, pur espresso in termini volgari utilizzando, cioè, l’arte amatoria e delle moine tipiche di una donna poco acculturata, finiscono con l’identificarsi con la sua aspirazione, con il suo mondo illusorio.
Per questo, pur nella sua oziosità e nei suoi modi frivoli, Emma Bovary finisce per essere simpatica al lettore, il quale, scorrendo, nelle pagine del romanzo, la meschinità della sua storia, prova una sincera pietà.
Ritengo che sia molto bello che un letterato di sesso maschile abbia scelto, per raffigurare vizi e virtù nei quali alla fine, suo malgrado, si identifica, una donna e questo elemento si arricchisce di maggior valore se lo si riconduce alla realtà sociale ottocentesca, nella quale l’essere uomo e l’avere a disposizione un certo reddito costituivano gli unici prerequisiti per entrare a far parte della “società che conta”.
E’ un bellissimo libro e lo consiglio vivamente soprattutto agli uomini!
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Il legame tra una madre e la figlia oltre la morte
Ogni 7 gennaio Isabel Allende si rifugia in una casetta, che lei considera la sua tana, accende una candela propiziatoria ed inizia a scrivere. E quel 7 gennaio del 2006 sa che deve cimentarsi nell’avventura più complessa ed intima che uno scrittore possa compiere: parlare della propria vita e di quella delle persone a lei care non come semplice autobiografia, ma come una virtuale, lunga e dolorosa lettera a qualcuno che da ben tredici anni l’ha lasciata, la propria figlia.
Scrivere a Paula non è una novità per questa fantastica autrice cilena, perché, sull’onda dell’emozione della malattia e della sua morte, le aveva già dedicato un bellissimo ed accorato libro, ma rifarlo dopo anni di silenzio e squarciare il velo di un dolore sopito, ma tenuto sempre in un angolo del suo cuore, è un’esperienza coraggiosa e ad un tempo terapeutica.
E proprio questo ho colto dalla lettura del libro: il coraggio di una mamma, che con sforzo si è rialzata dalla sofferenza della perdita della figlia e che cerca dopo tredici anni un contatto diretto con lei scrivendole apertamente dell’evoluzione della sua esistenza e di quella del proprio compagno, del figlio, nonché fratello di Paula e di amici a loro cari, e dall’altro lato uno scopo terapeutico. La Allende, cioè, inanellando gli episodi verficatisi negli ultimi tredici anni, senza una precisa scansione temporale, ma ponendo come parametro di valutazione le emozioni da essi suscitati, sembra voler buttare fuori tutto: il dolore della morte di Paula, il suo allontanamento temporaneo dalle gioie della vita e finanche dall’amato compagno ed il loro avvicinarsi culminato in un matrimonio un po’ bizzarro, la difficile vita sentimentale del figlio Nicholas e la nascita dei nipoti. E soprattutto dall’altro lato della poltrona non vi è un analista che ascolta imperturbabile le vicende di una donna che ha superato i sessant’anni e cerca di fare un bilancio della propria esistenza, ma immagina di trovare una figlia, che lei sente non essersi mai veramente allontanata.
Questo si traduce in un’avventura emozionante e carica di pathos.
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La forza di una donna di periferia
Scritto in piena fase di Restaurazione, quando chi era riuscito far parte dei gruppi politici vincenti vi aveva tratto degli enormi vantaggi politici e sociali, questo romanzo è ambientato in un piccolo borgo parigino, Saumur, caratterizzato “dal silenzio del chiostro, da lande desolate e dalla dolce pace delle case”.
E proprio in una di queste dimore, che spicca per la sua semplicità austera, vive la famiglia Grandet, composta da papa Grandet, bottaio che grazie agli eventi insurrezionali del trentennio precedente era riuscito ad arricchirsi, sua moglie, donna pia dall’aspetto emaciato e fortemente sottomessa al marito, e la giovane Eugenie, ragazza che, per vestiario ed atteggiamento, segue le orme della madre mantenendo un atteggiamento dimesso, quasi fosse destinata alla vita claustrale.
La loro vita, benchè il capostipite abbia a disposizione un capitale ingente che nasconde in una stanza nella quale nessuno ha accesso, è fatta di sacrifici, freddo pungente e continue preghiere all’Altissimo per la salvezza della propria anima.
Tuttavia l’arrivo inaspettato e mal voluto, dal taccagno papa Grandet, del nipote Charles trasforma la conduzione di vita della famiglia quale conseguenza del rivolgimento interiore che immediatamente, alla vista del giovane, rapisce il cuore dell’innocente Eugenie.
Charles, un dandy abituato alla vita mondana parigina, si acconcia i capelli con dei balsami profumati ed indossa degli abiti sontuosi che nessuno a Saumur ha mai neanche visto, ma è soprattutto il suo modo di fare, il suo modo di guardare Eugenie che trasportano la ragazza in una dimensione diversa da quella che fino a quel momento aveva conosciuto. Improvvisamente, afferma Balzac, Eugenie si trova di fronte alla riva del fiume delle sue illusioni giovanili.
E quel fiume Eugenie decide di attraversarlo senza remore: agghinda la casa acquistando di nascosto generi alimentari e suppellettili costosi cercando di sottrarli alla vista del padre, comincia a curare di più il suo aspetto e, soprattutto, cerca disperatamente Charles con il quale, nel giardino dimesso della casa, si scambia dolci confidenze ed il suo primo, romantico bacio d’amore.
Ma Charles è giunto a Saumur con uno scopo ben diverso dal prendere moglie e chiede ad Eugenie un aiuto economico per partire per le Indie, fare fortuna e poi sposarla. La ragazza dona tutto ciò che possiede, ma il corso degli eventi cambia tutto: Charles, da ragazzo senza scrupoli, si dà alla tratta di schiavi dimenticando la promessa fatta ad una giovane donna di periferia che ancora per molto tempo, dalla finestra della propria camera, si sorprende a guardare quel patio dove tutto ha avuto inizio.
Gli anni passano e con essi anche la freschezza di Eugenie e le sue fantasie, da sogni di una vita migliore, si trasformano in illusioni perdute.
La quasi introvabili versione deleddiana di questo bellissimo e triste romanzo si conferma, ancora una volta, come la ricerca dell’autore di scandagliare le sfumature dell’animo umano, in un periodo storico fatto di rancori per le sconfitte passate, di nuovi ricchi che hanno tratto guadagno dall’essere saliti sul carro dei vincitori e di una nuova generazione che non riesce ancora a trovare una sua precisa collocazione in un quadro socio-politico instabile.
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DUE AMICIZIE PROFONDE
Dopo la commovente storia della gabbanella, Sepulveda si conferma come narratore esemplare dei sentimenti universali, che non uniscono solo gli appartenenti al genere umano, ma anche gli animali, che l’autore descrive con le stesse caratteristiche interiori degli uomini.
E’ un romanzo breve che si legge in un pomeriggio, eppure, nonostante sia molto conciso, riesce sempre a riscaldare il cuore del lettore.
Mix è un bel gatto casalingo, che alterna la compagnia del suo “umano” Max, che conosce da quando era solo un bambino, alle uscite in solitaria di notte per i tetti della città.
Il suo amico umano, che cresce insieme al fido gatto, sa di questa sua necessità di allontanarsi di tanto in tanto dall’ambiente ovattato casalingo e gli lascia la finestra aperta perché tanto, prima o poi, il bel felino nero fa sempre ritorno a casa.
Gli anni passano e Mix, che segue Max nella sua nuova casa presa per gli studi universitari, diventa un po’acciaccato per l’età. La sua vista si è notevolmente abbassata e le uscite in solitaria, che egli tanto adora, diventano un’impresa titanica… ma qualcuno, che mai Mix avrebbe immaginato, gironzola per casa in cerca di cibo e, lentamente, quatto quatto, si fa strada nel cuore del vecchio gatto. E’ il topino Mex, che ascolterà le confidenze di Mix e lo aiuterà ad affrontare la sua terza età non rinunciando alle cose che a lui piaceva tanto fare, ma trovando una soluzione per affrontarle insieme, mano nella mano, opps, zampa nella zampa!
E’ un libercolo adatto ai bambini, che scoprono il magico mondo animale di cui Sepulveda è un vero cultore, ma anche degli adulti, che possono comprendere una volta di più come le difficoltà oggettive della vita, che a noi sembrano insormontabili, possono essere superate cercando aiuto in qualcuno che ci ama per quello che siamo.
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UN INNO ALL'AMORE ED ALLA PASSIONE ALL'IMPROVVISO
Donna aristocratica della San Pietroburgo ottocentesca sposata con Alexandrovich Karenin, dirigente ministeriale conosciuto negli ambienti ufficiali per lo zelo e la dedizione allo zar, Anna Arkad’evna è ammirata dagli uomini per la sua fulgida bellezza ed invidiata dalle donne per la posizione sociale che occupa e per l’eleganza innata nei modi e nell’eloquio.
Una vita, dunque, perfetta e resa ancor più preziosa dall’essere madre di un bambino, Seriogia, intelligente e vispo ed intimamente legato a lei, eppure- afferma Tolstoj- “Anna Arkad'evna leggeva e comprendeva, ma non le faceva piacere leggere, cioè seguire il riflesso della vita altrui. Aveva troppa voglia di vivere lei stessa”.
Seppure apparentemente serena, la vita di Anna non è completamente appagata e, sin dalle prime pagine del romanzo, ci appare come mancante di qualcosa che neppure lei sa spiegare esaurientemente.
Il romanzo comincia con la partenza della protagonista per Mosca per risolvere un problema coniugale tra suo fratello Stiva, uomo goliardico e troppo affascinato dalle grazie femminili, e l’arrendevole Dolly, sua cognata, che, di fronte all’ennesimo tradimento del marito, decide di cacciarlo di casa. Anna, amata e rispettata tanto da Stiva quanto da Dolly, decide di fare da paciere e di lasciare per qualche giorno suo marito ed il suo caro figliolo, in altre parole il tempo necessario per accomodare la situazione.
Ma quel primo treno, con il quale Anna crede di intraprendere un normale viaggio di famiglia, segnerà per lei l’inizio di una passione irrefrenabile che porterà alla distruzione del proprio matrimonio, alla perdita del piccolo Seriogia, ed alla struggente fine della sua vita che a tutti è nota.
Tolstoj utilizza delle meravigliose allegorie per spiegare la vita e gli animi delle persone: il treno, che costantemente ricorre nella vita di Anna, simboleggia la forza della passione che, al pari della freccia di Cupido, non lascia scampi e travolge ogni razionalità. E’ il treno che porta nella vita della donna Vronski, è il treno che la conduce lontana dagli affetti, ed, ahimè, è ancora il treno a segnare la fine della sua vita, tanto che ad un certo punto la stessa Anna potrebbe essere paragonata all’impeto del treno: la sua natura, contrariamente a quella della sua dolce ed ingenua cognata Dolly, è indomita, per certi versi irrazionale, tanto che, nei suoi soliloqui, ella ammetterà più volte di essere fatta per conoscere i sentimenti forti, nel bene e nel male, e non l’insulsa quotidianità che suo marito le ha fatto vivere per anni.
Ma a fronte di una vicenda dal tragico epilogo, Tolstoj, alla continua ricerca di una dimensione spirituale capace di placare il proprio animo tormentato, ci prospetta una storia parallela differente, che parte in sordina e termina con un matrimonio felice ed una vita fatta di calore domestico e di fede autentica in Dio: l’amore tra Constantino Levin e la piccola Kitty.
Kitty, delusa dal conte Vronski che ella anelava a sposare, in un primo momento rifiuta la corte appassionata del nobile di campagna Levin per poi pentirsene ed iniziare un percorso spirituale che la condurrà ad una crescita interiore notevole e alla comprensione del valore del vero amore.
In mezzo a queste due struggenti storie, così diverse tra loro, Tolstoj, da uomo del suo tempo, inserisce anche tramite personaggi secondari, come Sergei Ivanovich, fratello di Levin ed intellettuale raffinatissimo, delle importanti riflessioni politiche e sociali sulla Russia ottocentesca. Un Paese profondamente diviso dalla sperequazione sociale ed economica ragione per cui, attraverso i dibattiti accesi tra i due fratelli, Sergei e Lenin, l’autore dibatte sulla necessità di alfabetizzare le masse, di inserire strutture politiche più rappresentative del popolo soffermandosi sul difficile equilibrio tra istanze democratiche e principi conservatori.
E’, dunque, un libro che arricchisce moltissimo e che “si fa leggere” senza grossi problemi, perché lo stile narrativo è chiaro e ricco di bellissime descrizioni dei personaggi e dei luoghi.
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Un libro senza tempo
“Fu un momento delizioso, una di quelle rose d’amore e di tenerezza che fioriscono sul ciglio dei più aridi sentieri della miseria e qualche volta in fondo ai precipizi”: questa immagine del fiore, simbolo di bellezza e di purezza, che a volte fiorisce in mezzo ad un territorio brullo e desolato è, a mio avviso, la sintesi magistrale di questo libro.
Il fiore rappresenta proprio il tema delle illusioni ed il suo essere spuntato in un luogo così inospitale, fatto, cioè, di ipocrisie e di chiusura verso chi non è riconosciuto come autorevole agli occhi della società, impedisce a quel piccolo essere di crescere, germogliare e mettere radici costringendolo, così, a morire irrimediabilmente.
Se in Eugenie Grandet Balzac tratta il tema dei “sogni illusori” da un punto di vista prettamente femminile, in questo libro egli lo fa ponendo al centro dell’attenzione un ragazzo, accomunato da Eugenie per la sua provenienza provinciale, ma, differentemente dalla fanciulla dallo spirito arrendevole, egli è un ambizioso, un intellettuale che ama la scrittura ed, in particolar modo, la poesia. Questi è Luciano Chardon, figlio del farmacista del paese e di una donna proveniente dall’aristocratica famiglia de Rubempré che, a causa della prematura morte del marito, ha dovuto farsi carico del figlio sognatore e di una ragazza, Eva, che cerca, con il sudore della fronte, di aiutare il fratello a coronare il proprio sogno: andare a Parigi, la grande capitale, dove sicuramente sarebbe riuscito ad entrare nella respublica dei letterati.
Eva, sua madre e Davide Sèchard, migliore amico di Luciano e poi marito di Eva, lavorano con impegno per consentire a Luciano di partire il prima possibile e fanno coincidere i loro sogni con la speranza di vedere pubblicati i lavori in prosa ed in versi del ragazzo.
Ma, recatosi a Parigi, irrimediabilmente egli si scontra con una realtà completamente diversa da quella che aveva immaginato nel paesello: i libri vengono trattati alla stregua di una merce qualsiasi, prodotti insieme dagli scrittori e da quel nuovo e misterioso meccanismo che si chiama industria culturale, e la letteratura, da disciplina alta che scandaglia l’animo umano, è supinamente subordinata alla legge della domande e dell’offerta. Questo metterà fortemente in crisi il giovane e bel Luciano, che intraprenderà una parabola discendente che lo porterà addirittura a mettere in crisi il proprio rapporto con le tre persone più importanti della sua vita: Eva, Davide e sua madre.
E il lieto fine? Come di consueto nelle opere di Balzac il finale rimane aperto e lascia a ciascuno di noi di metterci in relazione con le nostre illusioni, con i nostri sogni più reconditi e, solo alla luce di questa analisi interiore e soggettiva, ognuno può attribuire un finale differente, ed anch’esso personalissimo, alla vicenda narrata.
Consiglio vivamente la lettura di questo capolavoro, un libro senza tempo, per l’appunto, perché in qualsiasi periodo storico ed in qualunque città o paese si viva, ogni uomo o donna ha un proprio bagaglio di illusioni che, in misura più o meno grande, ha cercato di mettere in pratica nella propria vita e, dalla mancata realizzazione di tutte o di parti di esse, ciascuno trae un insegnamento ed elabora un particolare modo di concepire l’esistenza umana.
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Una Isabel Allende che non ti aspetti.
Per un’amante come me di Isabel Allende, scrittrice cilena che riesce nelle proprie opere ad addentrarsi nell’animo femminile scrutandone tutte le sfumature, anche le più intime, scorgere negli scaffali della libreria un libro, dallo sfondo scuro, abituata com’ero alle illustrazioni sgargianti delle sue opere precedenti, e dal titolo così enigmatico “il gioco di Ripper”, per l’appunto, si è rivelata una grande sorpresa.
Ancor più inaspettato è stato poi, lo scoprire, ripercorrendo la quarta di copertina, che si trattasse di giallo! Proprio lei, che ha trattato di temi tanto differenti, che andavano dalla saga familiare alle storie personali di uomini e di donne che vivevano in momenti storici sempre delicati e che alla fine, grazie anche all’amore trovato, riuscivano a trovare una propria dimensione, che si mette a scrivere di omicidi, relazioni della scientifica e via discorrendo.
Ma poi, riflettendoci un po’, ho capito che, come sempre fa questa magnifica autrice cilena, c’era qualcosa di autobiografico anche in questo nuovo romanzo, ossia il legame con l’uomo che ha sposato, Will Gordon, che a mio avviso personifica il nonno Blake Jackson della vicenda narrata, che, è, egli stesso, autore di libri gialli.
Ma non voglio divagare troppo… il gioco di Ripper è un romanzo gradevole, nel quale, contrariamente a quanto avvenga per molti gialli, gli omicidi seriali, tenuti insieme da una serie di tracce che l’adolescente Amanda e suo nonno Blake Jackson scopriranno gradualmente, sono accompagnati da una caratterizzazione dei personaggi principali che dà la sensazione al lettore di esservi quasi un conoscente.
Amanda, ragazzina di quattordici anni nata da una mamma giovanissima, Indiana, più che andare in discoteca o partecipare ai raves, preferisce dedicarsi, con altri ragazzi che conosce virtualmente in internet sparsi qua e là per il mondo, alla soluzione di uccisioni virtuali attraverso il cosiddetto gioco di Ripper. Gioco a cui partecipa anche suo nonno, che le fa da “sbirro personale”, il quale crede di poter trarre, dalle deduzioni dei giovani adolescenti, notizie utili per comporre quel libro che egli anela scrivere. Ma da attività ludica, il gioco si trasformerà in un impegno investigativo vera e propria quando a scomparire sarà la mamma di Amanda, Indiana, donna, che, a mio avviso, assomiglia molto ai personaggi classici della Allende, perché ha un aspetto latinizzante, è passionaria, ma soprattutto è legata al mondo invisibile del karma e delle influenze astrali facendo come professione la guaritrice.
Due anime diverse, dunque: quella della mamma, che ha per amica una famosissima astrologa Celeste Roko, la Cassandra che aveva vaticinato lo spargimento di sangue a San Francisco, ma mai realmente creduta, e che pratica la meditazione ed incensa la casa di profumi orientali, e quella della figlia, ragazzina pragmatica e poco incline ai voli pindarici della mente verso un’aldilà sconosciuto.
Ritengo che questo libro sia piacevole, la storia ben congegnata, sebbene, ahimè, io continui a rimpiangere la Isabel Allende appassionata de La casa degli spiriti e del Ritratto in seppia!
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Un’ illustre storia della Francia ed una toccante
Francia della Restaurazione, dove i legittimi sovrani, spodestati del loro trono dagli eventi rivoluzionari, con un colpo di spugna si illudono di poter cancellare i fermenti insurrezionali che sono stati solo soffocati, ma che ardono sotto la cenere dell’insoddisfazione e della mancata uguaglianza tanto desiderata.
Questo è lo sfondo politico-sociale sul quale si staglia questa monumentale opera di un Hugo maturo, che ha vissuto in prima persona la parabola discendente della gloriosa fase napoleonica fatta di fasti e conquiste e del successivo e forzato ritorno legittimista della Casa Regnante.
Di questa fase così delicata egli non farà solo menzione, ma si adopererà a farne una lunga trattazione e addirittura a ricavare dei personaggi, come gli eroici Prouvaire, Combeferre, il piccolo Gavroche e tutta quella sfera di piccoli “monelli” che, non riuscendo a trovare un propria sistemazione in una società che abbandona, per l’appunto, i miserabili, ingrossano le file dei repubblicani che ancora credono di poter realizzare un sistema basato sull’uguaglianza.
Miserabili sono, dunque, i non ascoltati dai potenti, i derelitti per i quali, in un sistema basato sulla casta, non ci dovrebbe essere posto perché il vivere dignitosamente è garantito solo a chi siede ai tavoli del potere o ha in qualche modo contatto con loro.
Una prospettiva desolante, quindi, ma l’autore accende una fiammella di speranza con il suo protagonista, l’ex forzato Jean Valjean che, nel corso degli anni e grazie all’indescrivibile amore per una bambina non sua, ma per la quale scoprirà di provare una devozione paterna, avrà una crescita morale e culturale, pur tra tantissime difficoltà, che, alla fine dell’opera, si mostrerà completamente differente rispetto alla descrizione che di lui si fa all’inizio del romanzo.
Intorno al trasformista Jean, che dovrà assumere vesti ed identità differenti per sfuggire all’ossessivo inseguimenti del fido Javert, ed alla ingenua e pura Cosette, si staglieranno figure positive che contribuiranno alla catarsi dell’ex forzato (come Monsignor Myriel ed il signor Fauchelevent), ma anche figure di “miserabili” abietti e malvagi (come gli atroci Thenardier), personaggi che, rispettivamente nella loro bontà e nella cattiveria spietata, arricchiranno l’opera dell’esame del poliedrico animo umano, che può essere contemporaneamente incline alla bassezza morale, ma anche a slanci d’amore assolutamente straordinari.
Ho letto questa voluminosa opera d’arte tutta d’un fiato perché non solo arricchisce il bagaglio culturale di ognuno, ma contribuisce a farci comprendere il senso della vita. L’instancabile pazienza di Valjean ed il suo cuore puro possono davvero essere d’insegnamento a ciascuno.
Lo stile linguistico è scorrevole, a volte aulico, ma mai pesante. Più volte mi sono ritrovata ad immaginare le scene che il grande Hugo descriveva minuziosamente e questa capacità, si sa, è prerogativa dei grandi scrittori.
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