Opinione scritta da Massimo80
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Umanità e disumanizzazione
La Vita Agra è un libro precursore. No, non mi riferisco alla sporadica metafora calcistica sul marcamento a zona inteso come espediente per far carriera (io, che di pallone non capisco un granchè, ero convinto che prima di Sacchi non esistesse che il marcamento a uomo, per questo mi sono stupito nel sentir parlare di zona in un libro dei primi anni 60; qualche esperto magari mi faccia da federicobuffadeipoveri e chiarisca la questione nei commenti; fine digressione frivola). Con precursore intendo soprattutto che anticipa temi cari alla contestazione giovanile di fine anni 60 e costituisce quasi un presagio degli anni di piombo.
Che sia un romanzo eversivamente moderno lo si capisce già nelle prime pagine per via dello humour di cui è oggetto il clero, anche se poi alcune battute su invalidi, “negri”, “ebrei”, “meridionali”, “Pisani” e “segretariette” lo scagliano a tutta velocità ad un’epoca geologica che appare distantissima dalla nostra, così pregna di politically-correct d’importazione.
Dunque, uno scritto ambientato negli anni del boom economico, da cui traspare un’incredibile consapevolezza dei tempi che si stanno vivendo. Per giunta i temi trattati sono davvero numerosi: sfruttamento del lavoro, insurrezionalismo, anarchismo, vita di partitio, passaggio da società contadina ad industriale, crescita del settore terziario e nascita di nuove professioni, lavoro in proprio e lavoro dipendente, vita aziendale, indifferenza e solitudine nelle grandi città, alienazione, costante difficoltà ad arrivare a fine mese, evoluzione della famiglia, ruolo della donna, nascita della società dei consumi, rapporto tra pubblicità e sesso...
La scena è costituita dalla Milano imprenditoriale e pendolare del Miracolo, anzi più precisamente il quartiere fittizio Braida, che in realtà di fittizio ha solo il nome; si tratta infatti della zona di Brera, in cui Bianciardi ha lavorato e vissuto per diversi anni; chi ha famigliarità con Milano pare che tra le righe riesca a riconoscerne le vie (si possono scovare i luoghi precisi qui: www.rivistastudio.com/la-milano-da-leggere/).
Letto durante il lockdown da Coronavirus accresce la voglia di uscire a passeggiare o a prendere un caffè, specialmente nella rappresentazione di sonnolente domeniche d’altri tempi.
Con le sue osterie, i suoi bevitori, giocatori di carte, pittori e canzoni, non è certo il quartiere di oggi. Ma nonostante questo tocco bohémien, la città appare fondamentalmente grigia, al contrario dell’atmosfera del racconto, che è quasi sempre scanzonata.
È questa una Milano già “cosmopolita” relativamente alla società del tempo, diciamo così, con cittadini provenienti da diverse parti d’Italia.
L’ambientazione particolareggiata, i personaggi ispirati a persone reali e gli innumerevoli aneddoti tratti da esperienze di vita vissuta rendono questo romanzo in larghissima parte autobiografico.
La scrittura, caratterizzata da un tono scherzoso eppur amaro, ha un buon ritmo e procede abbastanza veloce. Oltre al voler puntare i riflettori su importanti tematiche presumibilmente ancora inedite, si percepisce come si prenda in giro uno spaccato di società per divertire e ci si riesce. Lo stile rimane ironico perfino nei riferimenti letterari, rendendo alcune divagazioni per nulla pompose anzi piacevoli.
Fa sorridere l’uso italianizzato di parole o nomi stranieri, come “fotoreportagio”, “Jaques Querouaques” (francesizzato in questo caso)...
In conclusione, un’opera probabilmente nata da disillusioni, ricco di spunti di riflessione, politico, destabilizzante, cinico, umoristico-esistenziale, scritto in piena coscienza e con una lucidità a tratti disarmante.
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Tu vuo' fa' l'Italiano
No, non dirò di quanto sia appassionante la trama basata sul conflitto tra religione e scienza, o di quanto sia stimolante ragionare sulla potenzialità (e potenza) dell'antimateria, o di quanto sia intrigante ed avvincente questa storia tutta azione basata su segreti secolari di sette e caste, da scoprire decifrando segni nascosti dagli stessi cospiratori nelle piú famose opere d'arte del barocco romano; di questo si é giá detto molto.
E non accenneró neppure alle imprecisioni storiche e scientifiche, a quanto siano stereotipati e prevedibili i personaggi, né all'inverosimiglianza tutta hollywoodiana di certi avvenimenti e fortuite coincidenze.
Oggi me la voglio prendere con l'italiano di Dan Brown! Sì, perché questo libro l'ho letto in versione originale inglese, ma dato che é ambientato a Roma, in bocca ai personaggi son state messe brevi frasi o esclamazioni cosí come verrebbero, secondo l'autore, effettivamente pronunciate nella nostra lingua. Oppure, senza ragione plausibile altra dal mero gusto di fare il figo, viene buttata qua e lá qualche parola in italiano a caso. E che italiano! Un esempio? Il tubo erogatore dell'aria per generare bolle immerso in una fontana (fontana italiana, sia chiaro, nientepopodimeno che la Fontana Dei Quattro Fiumi del Bernini, da qui forse il riguardo che l'ha portato a riferirsi al tubo in italiano) l'ha chiamato "spumante"! D'accordo, insieme alle bolle fa la schiuma, avrá sicuramente fatto un'attenta ricerca su come si dice schiuma in italiano e poi, logicamente, ció che fa spuma é spumante. Voilá! "Spumante"! E che ci vuole a parlare italiano?! Anzi, permettetemi "ualá", cosí come lo pronuncio, non c'é bisogno di fare tanto i fini.
Eggiá, perché pure l'ortografia l'ha cannata di brutto: "secondario" al plurare fa "secondarii"; e poi "no ho potuto", "Mille... centi... uno, duo, tre...", "per suggerimento del artista", "Sono occupato, cosa voi?"... sono solo alcuni degli strafalcioni.
Ma il bello viene quando, evidentemente a corto di budget per pagare un traduttore o un editor, si mette d'impegno con vocabolario inglese-italiano/italiano-inglese alla mano (eh sì, perché Google Translate a fine anni novanta non era ancora stato lanciato; chissá se il modernissimo sito oggi é in grado di fare di meglio...): "Basta di parlare!", "Continua cercando!" (giustamente, in inglese é "keep searching"), "Trobasti il museo?" (questa é una vera chicca: quello che voleva rendere non é "Hai trovato il museo?", bensí "Hai provato al museo?"), "Ufficio di Papa", "Direttore intermediario" (qui voleva dire "di transizione", ma vabbeh, questa era difficile), "Sacrifici vergini nell'altare di scienza", "situazione senza soluzione" (poverino, é incappato in una parola trabocchetto: l'inglese "situation" si traduce con "problema"), "Para!" (questa é una perla!! Pensate che qui voleva rendere "Alt!"; avrá cercato la traduzione di "stop!" e avrá trovato "parare" nel dizionario calcistico Panini), "Non sportarti!" (un mistero! Voleva rendere l'ordine di non muoversi), "Buco Diavolo" (e mettila qualche preposizione articolata ogni tanto!), "Fungito" (questa se l'é inventata di sana pianta! La parola che stava cercando era "finito"), "Non si puó entrare, é chiusa temprano" (giusto, quando una cosa é chiusa temprano si sta fuori), "Hanno conosciuto l'uomo?" (Una finezza! Occhio perché qui parlo sul serio, ho messo da parte il sarcasmo; il personaggio si rivolge a due signore e dá loro del "loro", proprio come il galateo imporrebbe, anche se nessuno lo usa; peccato solo che il verbo giusto in quel contesto sarebbe "riconoscere" e non "conoscere"), "Straniero crudo" (Ho letto bene?? Straniero crudo??), "Bar-árabo" (Si, come no, kebab... Ma dai! "Barbaro" si scrive! Era tanto facile questa!!! Cosa cavolo é andato pure a ficcarci trattino e accento!! A volte se le complica da solo), "Il prigione", ecc...
Per finire, c'é lei! La Perla delle perle! La volete sentire? Solo una tra le tante frasi di questo calibro presente nei dialoghi tra guardie svizzere; non ne riveleró quello che penso sia, nelle intenzioni dell'autore, il vero significato; lascio a voi le congetture.
E poi, é troppo perfetta cosí: "Spazzare di cappella".
Amen!
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Non solo romanzo storico, purtroppo
Chi vuole leggere una rarissima opinione maschile su questo romanzo?
Allora, non era propriamente quello che mi aspettavo, ma io, volpone quale sono, me ne sono accorto solo nella seconda parte, che obiettivamente si perde troppo in inutili e particolareggiati incontri amorosi (inutili ai fini della trama, ci mancherebbe) per la gioia delle spiaggiatissime lettrici di Harmony.
La prima metà al contrario è piacevole per via di una ben confezionata atmosfera di crescente tensione: quiete apparente, ma si sa che qualcosa di brutto sta per succedere.
I fatti legati all'assedio di Leningrado, che è poi il tema che mi ha spinto a leggere questo libro, sono rappresentati molto verosimilmente, con riferimenti puttosto precisi ad avvenimenti e luoghi reali e spunti tratti dall'esperienza diretta dei parenti dell'autrice stessa.
Ultima nota, i personaggi. I due protagonisti sono di quanto più banale e prevedibile si possa concepire: fragile, generosa ed amorevole lei, forte, irruente e coraggioso lui. L'insistere su queste caratterestiche tramite descrizioni ed aneddoti crea un certo disagio.
In sintesi, l'avrei apprezzato maggiormente se vi avessi trovato un po' più di conflitto tra Armata Rossa e Nazisti e meno petti villosi stretti a seni palpitanti.
Il Muro
Il primo racconto, che dá il titolo alla raccolta, é ambientato durante la guerra civile spagnola e vede come protagonista un anarchico condannato al plotone d'esecuzione. La descrizione dell'ultima notte in cella insieme ai compagni segnati dalla stessa sorte é il pretesto per una riflessione sul valore della vita, o meglio sul valore della vita di una persona rispetto a quella di un'altra. Ma é la morte la vera protagonista, che si insinua nella cella subito dopo la lettura della sentenza. E cosí i condannati sono magistralmente dipinti quali "corpi agonizzanti ancora vivi", grigi come cadaveri, vampiri dal corpo putrido, innaturali come innaturale sembra proprio la morte ed inutile una vita lasciata incompiuta.
Se ogni cosa, incluso l'amore, perde di senso di fronte a tale irreversibile esperienza, insensato sembra pure l'ironico epilogo carico di humour noir.
"La Camera" tratta il tema della pazzia, contrapponendo due visioni antitetiche: quella del padre, che vede nel genero ammalatosi qualcosa di inumano, di diverso, qualcosa di altro per cui non si puó che provare compassione, e quello della figlia, che non hai mai smesso di provare amore per il marito nonostante sia diventato mentalmente infermo, tanto da cercare di tendere verso di lui, di pensare come lui, di entrare nel suo mondo.
Un testo che, senza prendere una posizione, fa riflettere sull'esistenza di una scala di doveri e/o opportunitá e su quale gradino della scala si debba eventualmente stare in casi estremi come quello raccontato.
Si prosegue con un bellissimo racconto sull'alienazione il cui protagonista é un misantropo nel tentativo di compiere un gesto risolutivo che dovrebbe consegnarlo agli annali della storia. E' uno scritto sulla vanitá, sulla debolezza umana, sulla violenza che alimenta sé stessa e, ancora una volta, su contrapposizioni: in questo caso l'io e gli altri.
"Intimitá", ovvero quello che le donne non dicono, ma pensano. Questo il quarto racconto, che consiste principalmente nei flussi di coscienza di due donne, due amiche, entrambe alle prese con la separazione di una di esse dal marito. Amore, tradimento, sessualitá, fisicitá, gelosia, fermezza, indulgenza, egocentrismo, incostanza... emerge un po' di tutto questo dai pensieri delle protagoniste.
"Infanzia d'un capo", racconto di formazione, é certamente il piú politico tra i cinque.
La realtá si mischia al gioco che, visto con gli occhi del bambino, diventa esso stesso realtá. Grande spazio é dato all'interpretazione del comportamento degli adulti ed al rapporto con il proprio corpo, un tema questo che verrá ripreso dal protagonista ormai adolescente con la scoperta di Freud e della psicanalisi. Tra i personaggi che accompagnano la sua evoluzione ne emergono alcuni che, per un naturale ascendente o per carisma, ne segnano le varie fasi della crescita: dal complesso di Edipo in etá infantile all'esaltazione della giovinezza, "inquietudine" e negazione del proprio io in etá adoscenziale, fino all'episodio che sancirá l'avvenuta maturazione, vale a dire la definitiva trasformazione in un capo.
Lotta di classe, esplorazione dell'omosessualitá, antisemitismo, trasgressione, autoaffermazione, influenza delle avanguardie... sono solo alcuni dei temi trattati da questo piccolo capolavoro ricco di spunti filosofici.
Nutro un certo pregiudizio per le raccolte di racconti ma penso che dovró ricredermi: questo libro presenta un perfetto equilibrio tra sostanza, tecnica e intrattenimento. Davvero bello.
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UN LIBRO STORTO, ANZI STORTISSIMO
Ci ho riprovato: ho dato una seconda possibilitá a Mauro Corona. Peccato, un’altra delusione.
L’autore in quest’opera ipotizza un’improvvisa ed inaspettata fine dei combustibili fossili e le conseguenze che si presenterebbero, raccontate al presente, in contrapposizione al modello sociale precedente dipendente dal petrolio, raccontato al passato. Si tratta di un pretesto per riflettere sulla mancanza di valori propria della nostra societá industriale rispetto alle virtú dell’antica societá contadina.
Un racconto dall’ambientazione post-apocalittica dunque. No, non immaginate una toccante narrazione tipo, per esempio, La Strada di McCarthy. In primo luogo perché, a parte la fame che fa fuori gran parte della popolazione mondiale e a cui si accenna freddamente per dover d’informazione, il cambio di corso é giudicato positivo, é appunto “la fine del mondo storto” e non é certo rappresentato con tono angoscioso e drammatico. In secondo luogo perché McCarthy, se voleva comunicare ad esemprio la sofferenza dei due protagonisti, li faceva parlare con un botta e risposta freddo, asciutto, telegrafico, da cui si doveva (e poteva) intuire il loro stato d’animo; faceva, insomma, della letteratura; Corona, per intenderci, se la sbrigherebbe piú facilmente scrivendo “la gente é triste”, che non chiamerei certo letteratura, bensí cronoca.
La Fine Del Mondo Storto é soprattutto una critica alla condizione e alla natura umana, scritta con l’occhio di chi guarda da una distanza temporale fittizia. Ma nessuno osi paragonarlo nemmeno a Il Signore Delle Mosche! Se quello di Golding era un romanzo allegorico, questo non é nemmeno un romanzo, a prescindere dallo scarto in simbolismo! Giá, perché non vi sono personaggi, non vi sono dialoghi, vi sono solo categorie sociali, o meglio ex-categorie alle prese con il nuovo assetto economico. Entrambe le opere hanno sí la stessa finalitá di comunicare un giudizio sul carattere dell’uomo e su come si organizza, ma l’opera di Golding, a differenza di questa, é artisticamente rilevante proprio perché passa il messaggio in maniera indiretta, con la geniale trovata di raccontare una storia avventurosa ed avvincente.
Qui di avventuroso ed avvincente non v’é proprio nulla, di minimamente interessante riconosco giusto qualche isolato ed impacciato tentativo di satira, come quando si rimproverano i vecchi politici, adattatisi a fare i contadini, di zappare un po’ di qua ed un po’ di lá, chiaro rimando ai cambi di partito per convenienza; ma pure Orwell é, fortunatamente, tutt’altra cosa.
A cosa somiglia? Somiglia a Superquark, o Ulisse, o qualunque sia il nome del recente programma di Piero e Alberto Angela. Esatto, ricorda proprio quei documentari in cui gli Angela si “calano” nell’antica Roma, piuttosto che su Marte o nel corpo umano e da lí ci descrivono, con linguaggio chiaro ed informativo, il luogo/tempo in cui si sono artificiosamente catapultati. Il paragone mi sembra azzeccato, da un lato perché qui la trama é inesistente, dall’altro perché lo stile é proprio quello: divulgativo.
Divulgativo si ma distaccato no; traspare infatti l’opinione personale dell’autore e si avverte quanto il tema gli stia a cuore, tanto da farsi scappare pure qualche parolaccia.
Come la pensa dunque Corona? Secondo Corona la montagna e la campagna ci salveranno e la fine dei combustibili fossili é piú che altro lo spunto per far di queste l’elogio, attraverso la descrizione di tecniche, usanze, tradizioni, mestieri tipici.
E’ la rivincita ahimé pretenziosa di contadini e pastori su industriali ed intellettuali, della manualitá sulla professionalitá, della pratica sullo studio. Peccato non riuscire a simpatizzare con i montanari ed i contadini di Corona, dipinti in questo libro come eroi senza macchia salvatori di coloro che furono ricchi, a cui insegnano il mestiere.
A questi santi altruisti delle montagne e delle campagne si contrappongono appunto i ricchi delle cittá che incarnano il male (nella profezia di Corona sono questi i primi a praticare il cannibalismo), ma non solo: in pratica tutte le categorie sociali diverse da contadini, pastori e guide alpine sono umiliate. Proprio cosí, pare ci sia posto per redimere solo tre categorie sociali ed una é proprio la guida alpina, non si sa bene a che titolo! Non si salvano nemmeno gli artisti, tantomeno le opere d’arte, che vengono bruciate per scaldarsi.
Il sogno di Corona é un’economia mossa dal baratto ed una societá fondata sull’uguaglianza, di indubbio stampo socialistico e dove inverosimilmente tutti fanno i contadini; nonostante la vocazione personale di ognuno possa essere altra dall’agricolutra, tutti si scoprono felici.
Era davvero cosí idilliaca la societá contadina? Corona pare concentrarsi solo sugli aspetti del nuovo corso storico favorevoli alla sua tesi: a parte la seccatura della fame, dipinta non tanto negativamente perché miete vittime, quanto positivamente perché pare “avvicini gli uomini”, sembra che non si senta la mancanza di nulla di ció che fu proprio della cosiddetta modernitá.
Nonostante la fine del consumismo abbia condotto la societá alla perfezione propria dell’economia di sussistenza, il sogno si infrange nella pessimistica involuzione del finale, zeppo di sfiducia nell’uomo.
In breve, pochi discutibilissimi contenuti ripetuti e straripetuti all’inverosimile. Questa é forse l’unica analogia con l’altro libro di Corona che ho letto, Come Sasso nella Corrente, ovvero lo sforzo vano che si percepisce nel creare sostanza quando il tutto potrebbe esaurirsi in poche pagine.
Uno scritto prima utopico poi distopico, anarchico, pseudoecologista (qualcuno spieghi a Corona che non vi é da compiacersi nel ritornare a scaldarsi e cucinare bruciando legna anziché gas naturale, dato che la legna inquina decisamente piú del gas), farcito di banalitá, inesattezze, scenari poco plausibili e luoghi comuni.
Un’occasione persa, perché i valori positivi che vuole comunicare, come l’importanza delle doti manuali, del vivere a contatto con la natura e della rinuncia al superfluo, sono appannati da troppa arroganza e presunzione.
Brutto.
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Come un sasso nei... ma lasciamo stare
Come Sasso Nella Corrente é la prima opera di Corona che leggo ed ammetto di esserne rimasto deluso.
Ero alla ricerca di un libro sulla montagna e dopo la pessima esperienza con Le Mont Analogue di Daumal, consigliato da nientepopodimeno che Gianni Alemanno in un’intervista che sventuratamente mi capitó di leggere (ma che c***o mi sará poi saltato in mente?!! Un libro consigliato da Alemanno???!! “Metafisica dell’alpinismo” l’aveva definito... Ma non andiamo O.T...), pensavo di aver trovato in Corona l’autore cercato. Mi sbagliavo. Si tratta questo di un libro estremamente artificioso. Dalla prima all’ultima pagina si avverte un senso di mancanza di genuitá che al contrario si pretende da un autore cosí direttamente coinvolto nelle ambientazioni e nei temi trattati, che tanto lo caratterizzano.
Nonostante i periodi brevi, la prosa, priva di dialoghi, é ampollosa e ridondante per via di un’eccessiva farcitura di similitudini, che si susseguono e rincorrono una dopo l’altra per il solo bisogno di dover arrivare a quelle quasi duecento pagine necessarie a giustificarne il prezzo. Alcune figure efficaci, altre meno, pure qualcuna che si ripete.
Vi sono poi delle metafore dilatatissime, che un po’ mi fanno pensare a quei lunghi pezzi strumentali del progressive rock anni 70, di cui molti puramente riempitivi (almeno 45 minuti un disco deve ben durare, no?).
Ho poi altresí il sospetto che via sia un bisogno di appagamento personale dell’autore che si compiace della propria linguistica.
Oltre all’irritazione causata da tutta sta sovrabbondanza di figure retoriche fini a se stesse, lo stile non si sposa con quella che potrebbe presumibilmente essere la forma espressiva dell’io narrante, che é un personaggio della storia, dunque dovrebbe essere propriamente inserito nei luoghi e nel tempo della storia stessa. Sará che é un periodo che leggo molto Pavese e Fenoglio e mi sono assuefatto ad una forma narrativa cosí vicina ai personaggi, situazioni, luoghi e momenti descritti, da prendere da questi persino le cadenze e sfumature dialettali. Corona al contrario non riesce a coinvolgermi, né a convincermi, né a transportarmi. Permane sempre un senso di estraneitá, che mi sembra di percepire in un mancato coinvolgimento dell’autore stesso.
La storia in sé é povera e banale, i personaggi sono scarsamente caratterizzati ed il pretesto del flash back e dei ricordi poco efficace, in quanto l’autore salta da un tempo all’altro e da un episodio all’altro in maniera disordinata e disorientante.
Peccato, perché Corona, visto anche recentemente da Santoro, mi é simpatico e mi sembra una persona autentica, tutto il contrario di questo romanzo troppo meditato ed intriso di vanitá.
Ma non é finita qui con Corona, mi butteró su un altro libro, sperando in qualcosa di piú spontaneo.
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"Heeeeeeeey Juuuuude..."
Solo un paio di considerazioni, dato che molto é giá stato detto da chi mi precede.
Benché Norwegian Wood sia il mio primo e, per ora, unico approccio a Murakami, so di non dovermi stupire dei tantissimi riferimenti alla musica e cultura occidentale in genere; é risaputo infatti che l’autore é ghiotto di letteratura e musica da America ed Europa, in cui ha anche vissuto. Eppure mi ha istintivamente portato a domandarmi quanto fosse verosimile che tra i pochi personaggi rappresentati, un campione tanto ristretto di popolazione giapponese, ce ne fossero almeno due (Toru e Reiko) cosí intrippati da Beatles, Bob Dylan, Stevie Wonder, Ray Charles ed altri mostri sacri della nostra [nostra occidentale, concedetemelo] tradizione. Niente paura gente, mi sono subito bacchettato da solo! Mi son risposto che l’intento dell’autore non deve necessariamente essere quello di dipingere uno spaccato di societá in termini realistici! E devo dire che non mi é dispiaciuto affatto trovare, seminati qua e lá, Beach Boys e Gershwin, Dionne Warwick e Bach... Per me, che sono sí di un’altra generazione ma amo proprio quella musica lí, é naturale riuscire a percepire il “bello” sparpagliato tra le pagine del romanzo.
Ho trovato decisamente piú “giapponese” invece il ritratto fatto della sessualitá, cosí priva di scrupoli di carattere religioso; in particolare la donna la si percepisce allo stesso tempo accomodante ma decisa, docile ma intraprendente, con un pizzico di subordinazione all’appagamento dell’uomo.
In due parole: da leggere, non solo perché é un bel libro, ma anche per scoprire il romanzo che ha segnato una generazione di lettori giappi.
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This is no "goddam phony" book!
'The Catcher in The Rye' me lo sono gustato in lingua originale ed i pareri negativi che ho letto qui non trovano assolutamente riscontro con quella che é la mia percezione dell'opera, forse perché molte delle critiche sono rivolte allo stile, evidentemente non cosí facile da rendere nella traduzione italiana.
La prima considerazione dopo aver letto le pagine iniziali é stata: "Questo libro deve aver avuto negli anni 50 lo stesso impatto che da noi ha avuto 'Jack Frusciante E' Uscito Dal Gruppo' negli anni 90", per poi scoprire che Brizzi aveva definito l'uscita di John Frusciante dai RHCP come qualcosa che faceva molto Salinger, prova che il giovane scrittore italiano ne era certamente stato influenzato. Ma basterebbe giá solo pensare all'analogia tra "old Phoebe" e "il vecchio Alex" per convincersene. In ogni caso indago ancora e ad ulteriore conferma leggo che la critica spganola definisce Brizzi il "Salinger italiano'.
Mi ha poi fatto pensare a Mark Twain, precisamente ad un Mark Twain del mondo adolescenziale, per via dell'umorismo che contraddistingue entrambi gli autori, sebbene alle prese con due etá cosí vicine e cosí diverse. Ebbene, smanetto ancora sul web e scopro che l'Holden é stato spesso associato all'Huck Finn da fior fior di critici, cosa che mi ha fatto sentire molto "orgoglione" perché, pur non essendo un lettore accanitissimo, ho giá un discreto bagaglio letterario per scovare i libri che si sono "parlati", come direbbe il grande Umberto Eco.
Per concludere, libro originalissimo e bellissimo. Da leggere!
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