Opinione scritta da Rollo Tommasi

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    27 Gennaio, 2022
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YES, WE COULD

La lunga biografia del periodo presidenziale di Barack Obama (circa 800 pagine) gli somiglia: è alta, generosa, attenta ai particolari, piena di scrupoli, decisionista quando serve… persino un po’ dinoccolata. In particolare, si potrebbe definire con due aggettivi: personale e istruttiva.
Personale per gli episodi che sceglie di raccontare (non è infatti “tutta la mia presidenza minuto per minuto”) e per il modo in cui li racconta.
Istruttiva perché riesce a chiarire come ci sia qualcosa che rende l’attività umana – anche quella delle persone più importanti, e forse in quel caso anche di più – slegata da banali, e talvolta interessati, cambi di prospettiva. Quel qualcosa è la contingenza, il momento, che nelle cose della vita significa tanto (se non tutto).
Puoi essere il Presidente degli Stati Uniti d’America, sulla carta l’uomo più potente del pianeta.
Puoi essere il primo Presidente Usa non di razza bianca, e già per questo simboleggiare una presenza storica. Puoi essere il Presidente Usa che da la “scossa”, che viaggia sin dal primo giorno del suo insediamento sulle ali di un enorme entusiasmo di massa (più o meno quello di un terzo degli abitanti del pianeta).
Ma poi devi misurarti con la contingenza, con il momento. Ed il momento dice che sei stato eletto mentre il mondo attraversa la più gravi crisi economica da quasi un secolo a questa parte, e sei tu l’uomo che deve porvi rimedio per il bene dell’economia globale.

Tra le pagine 357 e 359 del libro c’è un’improvvisa insenatura del racconto (come se il padrone di casa, nel bel mezzo di un ricevimento, lasci gli altri ai loro incontri e si chiuda in disparte in un angolo della casa, per guardarsi allo specchio), una sorta di confessione sospesa: “Sono passati più di dieci anni da quei difficili giorni all’inizio della mia presidenza (…) se nel giorno del mio giuramento avessi potuto prevedere che di lì a un anno il sistema finanziario degli Stati Uniti si sarebbe stabilizzato, quasi tutti gli esperti avrebbero messo in dubbio la mia sanità mentale (…) per molti pensosi critici, però, il problema sta precisamente nel fatto che avessi pianificato il ritorno a una normalità pre-crisi: avrei dunque sprecato un’occasione, o addirittura tradito le mie promesse (…) capisco tutte queste frustrazioni. Per molti aspetti le condivido anche (…) mi domando se in quei primi mesi non avrei dovuto osare di più, accettando maggiori sofferenze nel breve periodo in cambio di una profonda modifica che rendesse più equo l’ordine economico (…) Eppure, se anche avessi modo di tornare indietro nel tempo e sfruttare una seconda possibilità, non sono così sicuro che opterei per scelte differenti (…) I miei primi cento giorni in carica rivelarono un elemento fondamentale del mio carattere politico. Ero un riformatore, ma ero anche conservatore nel temperamento, se non nella visione. Non spetta a me dire se si trattava di una dimostrazione di saggezza o di debolezza.”

È il contesto a dire agli uomini chi sono, non il contrario.
Vale per chi va a votare, e cerca di mettere il proprio benessere nella mani di chi sembra in grado di tenerlo più saldamente. Vale per chi riceve quei voti e dovrà dirigere nel miglior modo il corso degli eventi.
La biografia di Barack si interroga su questo, sul dubbio, sulle notti di lavoro, sui preziosi collaboratori, sulla paura, sulla gente normale che incroci per un attimo nella vita... la gente che in quell’attimo accompagna l’occhiata che ti dedica, e che buca il muro dei bodyguard, con il silenzio significativo di chi, per puro istinto, ci crede.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    20 Gennaio, 2022
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Finché il passato ritorna

Gli elefanti del titolo, per immediata metafora, assumono le sembianze di chiunque possa rivelarsi prezioso laddove ci sia da risolvere un enigma di tempi lontani.
Quell’enigma è, con ogni probabilità, un omicidio-suicidio: in un nefasto pomeriggio, sulla scogliera, Lady Ravenscroft e suo marito Alistair si tolsero la vita con una delle pistole regolarmente detenute dall’uomo. Una coppia di persone in là con gli anni, resa completa da un amore reciproco e duraturo nel tempo. Eppure…
Molti anni dopo il ricordo della tragedia viene fuori all’improvviso, durante uno di quei convegni letterari che la giallista Ariadne Oliver non ama particolarmente, e che tuttavia non può “scansare”. Una signora dall’aspetto imponente, che si dice sua appassionata lettrice, riesce ad attirarla a sé e, di punto in bianco, inizia ad interrogarla su quella storia (con un fine preciso, si vedrà poi), catturandone la curiosità. Una curiosità che – Ariadne Oliver se ne rende conto più tardi – solo un suo caro amico potrebbe riuscire a soddisfare: l’investigatore belga Hercule Poirot.

“Gli elefanti hanno buona memoria” è un libro del 1972, uno degli ultimi che Agatha Christie dedica al suo personaggio.
E’ evidente lo sforzo di cercare un canovaccio nuovo rispetto a quanto già scritto in precedenza, e così l’autrice decide di porre “in differita” il celebre detective di fronte al delitto: la vicenda ha avuto il suo compimento decenni prima, e all’epoca la polizia non ha saputo ricostruirla se non come un omicidio-suicidio (probabilmente) compiuto dal generale Alistair Ravenscroft.
Oggi che Celia, figlia delle due vittime, sta per sposarsi, ha bisogno di sapere la verità. Ed è per il futuro di due giovani innamorati che Hercule Poirot accetta quella “caccia agli elefanti”, indispensabili per portare alla luce la sorte dell’altra coppia, vissuta tanti anni prima.

Non una delle migliori avventure del nostro (anzi, a volerla dire tutta, una storia abbastanza sotto tono rispetto alle sue indagini più note): come una sorta di lista di testimoni declinata al di fuori di qualunque aula di giustizia, si alternano di fronte a Hercule Poirot e ad Ariadne Oliver vari personaggi che possono ricordare qualcosa dei fatti dell’epoca.
Alla fine, il puzzle si ricompone in un dramma struggente, ma non in un’indagine avvincente.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    13 Gennaio, 2022
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IL VELENO E'... NELLA CODA

“Voleva condannarsi… perché si giudicava secondo misure di valore molto più severe di quelle che, ordinariamente, il genere umano è abituato ad applicare!”

Elinor Carlisle. Una di quelle donne che sembrano destinate ad una vita agiata, lontana da ogni difficoltà. Se non fosse che il destino non è addomesticabile: la morte della vecchia zia malata, unica titolare di un enorme patrimonio; l’acquisizione ereditaria da parte di Elinor, parente più prossimo della defunta, che non ha fatto in tempo a fare testamento; poi l’omicidio (per avvelenamento da morfina) di Mary Gerrard, la ragazza che aveva accudito la zia per l’intero periodo di malattia, e alla quale la stessa era affezionatissima. Tutto in pochi giorni.
Ed è per tale ultima morte – avvenuta durante uno spuntino a base di tartine – che Elinor si ritrova alla sbarra, unica imputata in quanto unica ad avere un movente: nella sua testa, la giovane e incantevole Mary le stava portando via non solo l’affetto della vecchia zia, ma anche Roderick… Roddy, l’amato Roddy...

Un giallo particolarmente robusto nella bibliografia della Christie, per merito di un intreccio molto semplice: la scrittrice britannica è bravissima a costruire una situazione essenziale, sin dalla scena stessa del delitto (dove sono presenti soltanto tre persone, compresa la vittima). E, come nei migliori romanzi della regina del giallo, il motore della narrazione è la psicologia dei personaggi nella situazione-limite rappresentata dal togliere volontariamente la vita ad un essere umano (un tema sviluppato al suo apice nel celeberrimo “Dieci piccoli indiani”).
Hercule Poirot interviene sulla scena solo nella seconda metà del romanzo, quando il processo ad Elinor Carlisle è già in corso. E – vera particolarità di questo libro – non sarà lui ad indicare l’assassino né come si sono svolti i fatti: aprirà invece la strada a chi difende l’imputata (l’intera risoluzione della vicenda sarà infatti svelata all’interno del processo, e in particolare nell’arringa finale dell’avvocato difensore).
Negli ultimi capitoli la dimostrazione della bravura (tecnica e giallistica) dell’autrice è nel riportare il lettore alla soluzione che inizialmente sarebbe stata la più ovvia, e che è stata invece abilmente occultata nel corso del romanzo, disseminando una serie di legittimi dubbi e sospetti sulle varie comparse della vicenda.
Sotto questo aspetto, l’abilità di Agatha Christie è davvero impareggiabile. Già solo come opera di genere, dunque, “La parola alla difesa” vale le ore che vorrete dedicare alla sua lettura.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    07 Gennaio, 2022
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L'orrore

“ (…) voi non sapete, non potete saperlo, cosa significhi avere occhi in un mondo di ciechi, non sono regina, no, sono soltanto colei che è nata per vedere l’orrore, voi lo sentite, io lo sento e lo vedo.”

L’orrore. L’orrore.
Quello di cui parlava il personaggio di una celebre pellicola di fine anni ‘70, fantasma onnipresente che prendeva sembianze e volto (quello di Marlon Brando) solo nei minuti finali del film. Pronunciando quella parola nella penombra, quasi nel buio, una sola parola per infiniti sottintesi: “l’orrore”.
Lì – nel film – l’orrore era la guerra, negazione di ogni residuo d’umanità.
Qui – nel romanzo di Saramago – l’orrore è il crollo dell’organizzazione sociale: vengono giù, insieme, le fondamenta materiali e morali della società. E l’istinto di sopravvivenza non serve a conservarla, ad affermarla, ma, capovolgendo il senso delle cose, ne diventa la negazione.
Tutto è scatenato da un’epidemia, un virus che si diffonde improvvisamente e rende cieca l’intera popolazione, “risparmiando” solo la moglie di un medico. Quando lui, tra i primi a perdere la vista, viene internato in una struttura di ricovero rimediata da un vecchio manicomio, lei finge di essere cieca per poterlo seguire. Quel luogo sprangato e pattugliato all’esterno da militari che hanno ordine di sparare a vista contro chiunque intenda lasciarlo, diventa subito terra di nessuno.

Recensioni molto meritorie, prima di questa, si sono soffermate sul significato metaforico della cecità immaginata da Saramago.
Tutto giusto: i millenni necessari a cementare il contratto sociale – il patto che ci tiene legati e collegati – evaporano nello spazio di 24 ore, nel tempo necessario a capire che nessuna umana organizzazione può ovviare alla generale perdita della vista. E la metafora diventa ancor più evidente nel raccogliere quella già espressa in un altro famoso film: il mondo degli uomini, ora che sono privati di vista, diventa un mondo di zombi… ciechi che si muovono in gruppo, con le mani protese in avanti, con cautela, disorientamento, sporchi, debilitati, si urtano, inciampano, cadono, anche su quelli già caduti, vanno spasmodicamente all’assalto dei supermercati, si contendono il cibo, le riserve alimentari.
Non sono zombie, tuttavia: quelli non avevano coscienza, gli uomini privi di vista sì. Frana la società, ma non frana l’uomo, che si muove ora su un campo d’azione totalmente mutato. E cosa è l’uomo denudato di ogni sovrastruttura?
E’ bene? (Pietà per se stesso e per gli altri, comprensione, sacrificio, dedizione).
O è male? (Ruberie, minacce, aggressioni, stupri, sopraffazioni).
Nel libro ci sono entrambi. La dicotomia della natura umana, analizzata da Saramago, si riduce a questo interrogativo: cosa ne è dell’umanità senza la società? I miasmi della regressione testimoniano che qualsiasi virus, qualunque pandemia può portare alla fine della società, se si verificano certe condizioni.
Ma il libro ha un diverso finale, ugualmente potente, per ora solo l’ammonimento di cosa sia l’estinzione…
Quando il sole sorgerà di nuovo come astro visibile, resteranno due cose: le macerie e le domande. E solo le prime potranno essere spostate e messe da parte.

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… e apprezzato Ballard (“Il condominio”) e Mc Carthy (“La strada”, che per certi versi potrebbe quasi sembrare un seguito ideale di Cecità), così come molte altre visioni d’autore sul futuro senza futuro.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    28 Ottobre, 2020
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L'odissea degli esuli

Irene torna a Praga. Dopo vent’anni, passati a Parigi. E dopo la chiusura del cerchio: la caduta del muro di Berlino vent’anni dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia.
Non sa se vuole davvero rivederla, Irene, la sua terra; nemmeno sa se quella è più la sua terra. Ma è il momento del “grande ritorno”, le dice la sua amica, come se in questa espressione ci sia per lei qualcosa di dovuto… e non si sa bene se dovuto a se stessa o alla Storia.
Anche Josef torna a Praga. Come parentesi di una vita ormai vissuta e da vivere in Danimarca. Tre o quattro giorni da passare in Boemia, giusto il tempo di rivedere suo fratello, vent’anni dopo che la fuga dalla Boemia e dalla solerzia della Polizia comunista ha reso necessario ricominciare altrove. Anche per Josef, dunque, è tempo del “grande ritorno”.

Se c’è un patrono degli esuli è senza dubbio Ulisse, l’uomo che ha peregrinato vent’anni lungo tutto il mondo allora conosciuto, prima di rivedere le rive della sua Itaca. E non è altro, Ulisse, che l’archetipo di tutte le donne e gli uomini in attesa di ritorno, donne e uomini accomunati dall’ignoranza.
“Ignoranza” – dal verbo spagnolo “anorar”, “enyorar” in catalano – è il sostantivo di chi prova nostalgia, a sua volta parola proveniente dal greco ed indicante la “sofferenza del ritorno”, il rimpianto del paese natio… la “saudade” portoghese, “homesickness” in inglese.
“L’ignoranza” di Kundera è – al pari dell’Odissea omerica abbondantemente citata e ripresa nel libro – un manifesto dedicato agli esuli, senza dimenticare il peso schiacciante che su di essi hanno il tempo che passa e la memoria.

“Non criticheremo mai abbastanza chi deforma il passato, lo riscrive, lo falsifica, chi enfatizza l’importanza di un avvenimento tacendone un altro; sono critiche giuste (non possono non esserlo) ma di scarso rilievo se non le precede una critica più elementare: la critica della memoria umana in quanto tale. Ben misero potere, il suo! Del passato non è in grado di ricordare che una insignificante minuscola particella senza che nessuno sappia perché proprio questa e non un’altra, giacché in ciascuno di noi tale scelta si opera in maniera misteriosa, indipendentemente dalla nostra volontà e dai nostri interessi. Non capiremo nulla della vita umana se continuiamo a eludere la prima di tutte le verità: una realtà così come era quando era non esiste più; restituirla è impossibile.”

Il “grande ritorno” è un concetto astratto, destinato a fare i conti molto più con la realtà del presente che non con quella del passato (come accade ad Irene nell’episodio in cui offre alle vecchie amiche ceche delle bottiglie di vino Bordeaux che ha portato da Parigi, introvabile a Praga). E’ evidente come la vita sia ciò che si è vissuto e non altro, non ciò che poteva essere e non è stato, non ciò che si è immaginato… e nemmeno ciò che si può recuperare, se non lo si recupera davvero.
Attraverso la sua capacità di intersecare la Storia con il mito (le peregrinazioni di Ulisse, le figure di Penelope e della ninfa Calipso, il significato del “grande ritorno” per l’eroe omerico) e con le singole storie personali, Milan Kundera traccia ancora una volta, nell’umanità dei suoi personaggi, la necessità incontrastabile di fare i conti con la realtà: arriva il momento per chiunque, dovunque abbia vissuto, di chiedersi se esista davvero per sé un “altrove”.

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Omero e altro di Kundera, ma anche a chi in generale è interessato alle storie di esuli e alla loro singolare “aspirazione alla patria”.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    21 Ottobre, 2020
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L'amore terribile

“L’amore può essere una cosa terribile!”
“Proprio per questo buona parte delle grandi storie d’amore sono tragedie.”

Linnet Ridgeway è giovane, di cervello fine, erede di un solido patrimonio familiare e, più d’ogni altra cosa, è una donna bellissima. In quell’angolo d’Egitto – crocevia degli itinerari turistici – Linnet potrebbe essere la dea-Sole (se solo quella divinità dell’antico Egitto fosse stata impersonata da una figura femminile, e non dal dio Ra).
Sul Karnak che ridiscende il fiume Nilo, Linnet è in luna di miele con Simon Doyle. Ma su quel battello, indesiderata, c’è anche Jacqueline de Bellefort, tempo fa la migliore amica di Linnet… tempo fa, appunto: fino all’infausto giorno in cui ha deciso di presentare all’amica il suo fidanzato, Simon Doyle, perché potesse trovare lavoro nell’impero finanziario della famiglia Ridgeway. Per l’infelicità di Jacqueline, le cose sono andate diversamente.
Tante altre, però, sono le persone che viaggiano sul Karnak, e non tutte sono ciò che sembrano: non è un caso che su quel battello viaggi anche il colonnello Race, in cerca di un uomo molto pericoloso sfuggito varie volte alle forze di polizia.
E’ un caso, invece, che sul Karnak ci sia anche un omino belga, il cui nome è Hercule Poirot: la sua intenzione sarebbe di godersi una vacanza… ma, senza scendere dal lussuoso battello, si troverà ben presto a nuotare in acque a lui familiari.

“Poirot sul Nilo” è uno dei libri più noti e “fotogenici” della Christie. Non a caso conta tre trasposizioni cinematografiche: l’ultima è di quest’anno, con Kenneth Branagh nel ruolo del celebre detective; nel 2004, quando Poirot è Albert Finney, Linnet Ridgeway è interpretata da Emily Blunt; nel 1978, con il simpatico Poirot di Peter Ustinov ci sono Mia Farrow, David Niven, Angela Lansbury e, addirittura, Bette Davis.
Il merito principale del libro è nella caratterizzazione delle protagoniste femminili, due donne accuratamente provviste di una forza eguale e contraria (non a caso, ad un certo punto del libro, vengono definite come il “sole” e la “luna”). Se è vero che una Christie quantomai incendiaria dispone la lunga prima parte del libro come una miccia, la successiva ambientazione nell’assolato Egitto finisce per esserne l’ultimo tratto, perfetto per la deflagrazione del “triangolo” (l’assassinio di una delle due rivali). E tuttavia, proprio da quel momento la vicenda diventa anche qualcosa d’altro: sotto traccia – deve allora osservare il lettore – l’autrice ha già alimentato la “sfida” predisponendo una diversa serie di piste, ciascuna delle quali potrebbe spiegare l’assassinio senza ricorrere all’insondabilità della gelosia (d’altronde non è stato l’ “Otello” già scritto?).
In definitiva non un giallo tecnicamente perfetto, ma una storia “magnetica”, dove la prevalenza del fascino sulla geometria è profondamente voluta.
Fino a che punto, chiedete? Per scansare lo spoiler basterà dire che non ci troviamo precisamente dalle parti di eros e thanatos, ma nemmeno ne siamo tanto lontani: come da citazione iniziale, amore e tragedia giocano la loro parte.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    14 Ottobre, 2020
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In soccorso di un innocente

Nella sua ventottesima avventura investigativa, Hercule Poirot non si ritrova – come spesso gli succede – sul luogo di un delitto, giacché nel piccolo paesino di Broadhinny tutto è già accaduto: dopo aver perso il lavoro e la possibilità di saldare il debito mensile con la sua pensionante, la signora McGinty, il giovane James Bentley l’ha uccisa in modo efferato, sottraendo dal nascondiglio sotto il pavimento le trenta sterline che la donna aveva messo da parte.
La solerte polizia di Kilchester, però, non gli ha permesso di godersele: con le prove scovate a suo carico, Bentley è stato arrestato e giudicato da una giuria che ha impiegato più o meno venti minuti per condannarlo alla pena capitale.
Un omicidio violento e deprimente.
A cui però non crede il sovrintendente Spence, lo stesso che ha raccolto le maggiori prove a carico di Bentley: è lui a contattare Poirot, manifestandogli tutte le sue perplessità sulla presunta capacità omicida del giovane; è lui a pregare il celebre investigatore dalla testa ad uovo di… fermare il boia!

Un giallo dalla costruzione originale rispetto alle classiche storie d’indagine che vedono protagonista Hercule Poirot. Agatha Christie lo trasporta nella piccola Broadhinny senza concedergli quasi alcun punto di partenza: ci vogliono svariati capitoli perché l’investigatore belga si imbatta finalmente nell’acquisto di una semplice boccetta d’inchiostro da parte dalla signora McGinty (pochi giorni prima di essere assassinata) e riesca a saldare quel labile indizio ad una vicenda accaduta molti anni prima, giungendo infine all’imprevedibile soluzione che, in un colpo solo, confermerà la sua abilità e darà ragione all’intuito del sovrintendente Spence.
Non mancano i classici elementi che rendono fascinose le storie della Christie: una sottile analisi della psicologia dei diversi personaggi sospettabili e la consueta distanza, presente in certi individui, tra ciò che si vuole apparire e ciò che si è realmente.
Forse, a voler trovare un neo a questo romanzo, quest’ultimo elemento si ripete per più personaggi, “riempiendo” il finale oltre il necessario. E tuttavia è questo il modo in cui la Christie crea false piste nel corso del racconto e rende la sfida al lettore un rompicapo di ardua spiegazione.
Difficile arrivare alla soluzione da soli: molto meglio, nei capitoli finali, sedersi nel salotto dove Poirot ama riunire tutti i protagonisti della storia e ascoltare quel che l’infallibile omino tutto metodo e cellule grigie ha da dirci. Buona lettura.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    07 Ottobre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

I sentimenti forti

Sul bianco del ghiaccio, il rosso del sangue si imprime ancor più negli occhi.
E’ quello di una donna ammazzata sulla pista di un palaghiaccio che lì a Z. – un paese non troppo distante da Barcellona – sembra una cattedrale nel deserto, una costruzione senza una ragione apparente.
Ma il senso di quell’edificio è dato da un sentimento: l’innamoramento del pingue Enric Rosquelles – braccio destro del sindaco – per Nuria, la campionessa mondiale di pattinaggio dal corpo che mozza il fiato. E’ Enric che in qualche modo sottrae il danaro pubblico a una più naturale destinazione, e che, all’insaputa dell’intero Municipio di Z., riesce a fare del decadente Palazzo Benvingut uno stupefacente e muto dono d’amore.
Ad essere affascinato da Nuria è anche Remo Moran, gestore del campeggio Stella Maris, frequentato dalla varia umanità, e nel quale lavora Gaspar Heredia, invece attratto dalla misteriosa Caridad, la donna che gira con un coltello sotto la maglietta.
Tutti questi personaggi, in un evolversi dei fatti concentrico e senza scampo, hanno qualcosa a che fare con quell’inaudito ritrovamento sulla pista ghiacciata.

Il romanzo d’esordio di Roberto Bolano ha i tratti tipici della letteratura sudamericana: il racconto in prima persona – una triplice prima persona, considerato che i personaggi di Remo, Gaspar ed Enric ricevono voce in una perfetta alternanza di capitoli – si incentra sul rapporto tra gli individui, sui sentimenti di attrazione e repulsione che tra essi si sviluppano, lasciati scorrere non attraverso i fatti e gli intrecci del racconto, ma direttamente dalle parole, dai gesti, dalle sensazioni.
Capita tuttavia, con gli scrittori sudamericani, che la galleria di personaggi maggiori e minori si ponga a troppa “distanza” dalla storia, o che quest’ultima si appiattisca troppo sulle loro vicende, trasformandosi in qualcos’altro. In questo primo romanzo di Bolano sembra accadere qualcosa di simile: a volte la trama sembra troppo labile per mantenere unite le diverse storie. Non labile in sé, in ogni caso, ed è per questo che “La pista di ghiaccio” scivola sino alla fine, quando il tentativo di ritrovare l’unità del racconto riesce soprattutto nel personaggio di Enric Rosquelles (forse il più bello e dolente del libro).

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    01 Ottobre, 2020
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Due percorsi, due geni

Tra il 1850 ed il 1870, in Germania, nascono due individui destinati a rivoluzionare gli studi scientifici del loro tempo e dell’avvenire: il matematico e fisico Carl Wilhelm Gauss e l’esploratore e naturalista Alexander von Humboldt. Mentre il primo, genio precoce dotato di impressionante velocità di ragionamento, introduce concetti geometrici e matematici del tutto innovativi, il secondo, tenace e infinitamente metodico, effettua una lunga spedizione in Sudamerica nel corso della quale cataloga numerose piante e fenomeni naturali e crea una notevole serie di mappe geografiche (senza paura di mettere a repentaglio la propria vita e quella del suo accompagnatore francese, messier Bonpland).
Quando in tarda età i due si incontreranno – in una Germania postnapoleonica in gran fermento e disordine – non sarà solo una suggestione il fatto di aver rincorso, attraverso due percorsi molto diversi tra loro, un obiettivo simile.

L’idea di Daniel Kehlmann è originale: prendere a pretesto l’incontro tra due geni della scienza per mostrare come abbiano avuto in comune soprattutto la straordinaria capacità di razionalizzare il mondo attraverso l’abilità di “misurarlo” (rinnovandone i connotati a beneficio degli studi scientifici successivi).
“La misura del mondo” si mostra dunque come una sorta di biografia romanzata, che presenta al lettore due eminenti personalità anche attraverso le loro singolarità e fissazioni (Gauss, ad esempio, nella spiccata propensione verso l’universo femminile, von Humboldt nella sana rivalità con il fratello maggiore).
Se c’è un appunto da fare è che il libro finisce per sbilanciarsi maggiormente verso la figura di von Humboldt (quest’ultimo ha avuto, per ovvi motivi, un’esperienza di vita più avventurosa di Gauss, e dunque letterariamente più affascinante); uno squilibrio in parte sanato dall’episodio narrato “al presente”, ovvero quello nel quale i due scienziati si incontrano e che è in realtà dedicato ai rapporti tra l’anziano Gauss e suo figlio Eugen.
Tenendo conto, in ogni caso, che l’autore è un divertito sovvertitore dei punti di vista…

“ (…) mentre Humboldt superava la periferia di Berlino e si immaginava Gauss seduto al suo telescopio a osservare i corpi celesti, le cui orbite sapeva riassumere in formule semplici, per la prima volta non avrebbe più saputo dire chi dei due aveva girato mezzo mondo e chi era sempre rimasto a casa.”

Due indicazioni al lettore:
- come già intuibile, la lettura non è assolutamente ostica per chi non si intende di matematica, geografia, astronomia o botanica; semmai l’appassionato di una o più di queste materie troverà nella conoscenza approfondita dei due personaggi un valore aggiunto;
- la costruzione delle figure dei protagonisti è sorretta da un’analisi documentata delle loro biografie (basta ricercarle su Wikipedia, per capire come Daniel Kehlmann si sia interessato soprattutto alle storie personali e alle propensioni caratteriali di Humboldt e Gauss).

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    24 Settembre, 2020
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Le radici dello strazio

La vita è un mazziere. E’ seduta al tavolo prima di chiunque altro, e attende: sa bene che nessuno può esimersi – e si intende nessuno davvero –, che da lì dovranno passare tutti. Mischia le carte, senza bisogno né voglia di guardare in faccia chicchessia, e comincia a distribuirle a ciascuno, a caso. Ognuno deve giocarsela con quelle che toccano. E pazienza se a un certo punto c’è qualcuno che deve alzarsi ed andarsene. E poco importa se c’è chi già sta aspettando la mano successiva, che le carte siano mischiate e di nuovo distribuite, sperando in miglior fortuna. Può essere che sia migliore. Può essere che non lo sia. L’unica certezza è che il mazziere rifarà tutto a suo modo.

“Allora, tutto 'nzemmula, lei s'arricordò, l'arriconoscì. E Nino l'accapì non pirchì Minica aviva parlato o si era cataminata, ma pirchì i sò occhi, prima 'ntenti e 'nterrogativi, addivintarono di colpo dù lachi profonnissimi, anzi senza funno, di muto, dispirato, denso duluri.”

Anno 1942. Nino Zarcuto è addetto al casello nel tratto tra Vigata e Siculiana, dove passano i treni diretti a Castelvetrano, o da lì fanno ritorno. Vive nell’edificio del casello con sua moglie Minica, mingherlina e lavoratrice, il cui desiderio più grande è di ingrandire la famiglia.
Brav’uomo, Nino, diviso com’è tra i doveri di casellante e quelli di marito. Di giovedì arrotonda lo stipendio grazie al suo mandolino, improvvisando concertini nella barberia di don Vassallo, il migliore tra i negozi di Vigata.
La vita scorre, con la comparsa di soldati che vengono a riparare le linee ferroviarie dopo le scorribande degli aerei mitragliatori alleati, o con le visite degli addetti ai caselli vicini. E poi ci sono gli imprevisti, di due nature come le carte da gioco: quelli felici e quelli meno. Così Nino azzecca un terno che gli vale tremila lire, e quasi allo stesso tempo passa un brutto quarto d’ora per aver suonato adattamenti musicali non graditi al fascistissimo cavalier Ingargiola.
E’ allora che – in sua assenza – al casello capita un fatto brutto, davvero brutto, destinato a cambiare la vita di Nino e di Minica…

Allo stesso modo in cui dipinge l’attuale Vigata del commissario Montalbano, Andrea Camilleri fa con l’antica Vigata del periodo fascista: prendono vita e campo gli uomini dell’autorità, il barbiere, il mammasantissima di turno, i paesani che si ritrovano al caffè, ferrovieri e casellanti. E il personaggio di Minica, che ha confidato nella vita “normale”, nelle persone attorno, nel suo Nino, e un giorno ha avuto in sorte la carta sbagliata. Minica: bellissimo ritratto di una donna lacerata, che alla rassegnazione per ciò che non può accettare preferisce l’illusione di divenire… albero, generatore di frutti.
“Il casellante” non è solo una storia che svela al lettore un ambiente e un periodo – ciò in cui l’autore è davvero un maestro – ma anche il racconto di quanto i percorsi della vita siano tortuosi, e i suoi snodi (benedetti o maligni) si giochino sulle coincidenze e sull’imperscrutabilità.
In un attimo, quando confidavi nella speranza, essa ti viene tolta; e allo stesso modo, quando l’hai persa del tutto, accade di sentirla nel cuore farsi battito più forte che mai.
Il mazziere sta ridistribuendo le carte…

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    18 Settembre, 2020
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L'alfabeto del crimine

“Un assassino, come dicevamo, è sempre un giocatore… e, come molti giocatori, spesso non sa capire quando è venuto il momento di fermarsi. A ogni nuovo delitto la fiducia nelle proprie capacità aumenta mentre il senso delle proporzioni diminuisce. Perché il nostro assassino non dice mai: ‘Come sono stato intelligente e fortunato!’. No, dice soltanto: ‘Come sono stato intelligente’. Andando avanti di questo passo, l’alta opinione che ha sempre avuto della propria intelligenza aumenta ancor di più ed è proprio in quel momento, mes amis, che la pallina comincia a girare, la serie del nero finisce… Infatti la pallina si ferma su un nuovo numero, e il croupier annuncia: ‘Rouge!’.”

Un giallo anomalo nella serie dedicata da Agatha Christie all’investigatore belga Hercule Poirot. Poco prima della metà del romanzo, la regina del giallo consegna al lettore l’indicazione dell’assassino (quando il suo detective ancora ignora l’esistenza di tale persona).
Il movente? Per un criminale che sceglie i bersagli umani ed i posti dove agire nel meticoloso rispetto dell’ordine alfabetico (la prima vittima è Alice Ascher nel paesino di Andover), si può pensare solo alla pazzia o a tendenze maniacali. Confermate dal fatto che ogni omicidio è “firmato” dalla presenza, sul luogo del delitto, di un orario dei treni delle ferrovie inglesi (il famoso elenco “A.B.C.”).
E non è tutto! Il terribile guanto di sfida è lanciato allo stesso Poirot, che riceve in anticipo lettere che preannunciano dove e quando colpirà l’assassino (che si firma proprio A.B.C.). Come fermarlo, considerato che potrebbe trattarsi di chiunque?

Un giallo anomalo, si diceva: non “a camera chiusa”, dove la cerchia dei possibili colpevoli è delimitata fin dall’inizio; né legato – come di solito avviene con Poirot – ad una precisa progressione dell’indagine (se non abbondantemente dopo la metà del libro).
Qui la sfida di Agatha Christie è data dal mettere il lettore nelle stesse condizioni di Hercule Poirot, ovvero costringerlo a seguire lo sviluppo degli eventi per una buona metà del libro senza che, in apparenza, egli possa mettersi in cerca delle consuete tracce o indizi.
In definitiva una buona lettura, diminuita solo da una partenza “lenta” nei primissimi capitoli, dove dialoghi e descrizioni iniziali fanno del detective belga e del fedele amico Hastings quasi delle macchiette. Poi la storia e la suspence prendono quota, e, nel finale, non mancherà il capovolgimento di prospettiva tipico della Christie.

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altro della Christie ma anche "Gatto e cardellino" di Camilleri.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    13 Settembre, 2020
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Omicidio in fotocopia

Merlinville-sur-Mer, non lontano da Calais: è da lì che parte l’epistolare grido d’aiuto del signor Renauld, intenzionato ad assumere Hercule Poirot in vista di un incombente pericolo. Troppo tardi. Quando l’investigatore belga arriva nella località francese, il facoltoso cliente è già morto, pugnalato alla schiena.
Inizia così la seconda avventura del personaggio più celebre di Agatha Christie, il quale, dopo il bell’esordio in “Poirot a Styles Court”, viene ancor meglio definito nelle sue manie ed abilità: ordine, metodo, utilizzo delle “cellule grigie” e attenzione alla psicologia (degli indiziati) e alla logica (degli elementi indiziari).
A Villa Genevieve, Hercule Poirot non trova soltanto un cadavere ma, in un breve raggio di chilometri, tutta una serie di persone che hanno avuto a che fare con la vittima, anche in tempi meno recenti.

Sono tre le componenti che ravvivano questo giallo della Christie:
- come è proprio dei primi romanzi dedicati a monsieur Poirot, la narrazione è fatta in prima persona dall’amico Hastings, il capitano britannico che – volitivo quanto si vuole – fa però dell’ordinarietà la sua caratteristica principale: un escamotage che consente all’autrice di sottolineare per contrasto tutte le doti e le piccole manie del suo investigatore;
- in “Aiuto, Poirot!”, quest’aspetto è ancor più accentuato dalla presenza di un “concorrente” francese, l’ispettore Giraud, che – con un modo di procedere del tutto opposto a quello del protagonista – si diletta nel seguire maniacalmente le tracce ed esaminare in lungo e in largo i luoghi dei fatti. Quella tra Poirot e Giraud diventa una vera e propria sfida di metodi investigativi;
- infine, come capita a volte nelle avventure di Hercule Poirot, “l’amour”: un elemento che serve spesso ad arricchire la psicologie di taluni personaggi e che, in questo caso, moltiplica gli intrecci secondari della storia.
Tuttavia, specie verso gli ultimi capitoli, quest’ultimo elemento straborda, portando con sé una serie di colpi di scena fin troppo pirotecnici: il risultato è sì di ricavare più azione ma, forse, anche di rendere gli ultimi sviluppi della vicenda meno credibili.
Insomma, questa seconda avventura di Poirot è gialla come al solito ma anche un po’ rosa… Per gli appassionati della Christie, in ogni caso, un libro da non mancare.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    08 Settembre, 2020
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L'aria viziata della provincia americana

Curiosa la sorte di “Il buio oltre la siepe”.
E’ uno dei libri amati da Barack Obama, che ricorda di averlo letto alle figlie quando ancora erano piccole. Prima di essere senatore e Presidente degli Stati Uniti d’America, egli è stato un avvocato specializzato nella difesa dei diritti civili, proprio come Atticus Finch, uno dei protagonisti della storia, che accetta di difendere un bracciante nero dall’accusa di aver violentato una donna bianca nella casa di lei, alla periferia della città di Maycomb.
Ma a questo libro non sono mancati accaniti detrattori: c’è chi ha letto nell’approccio dell’autrice Harper Lee una vena inconciliabile con gli intenti antirazzisti, desumibile da passi specifici del romanzo (ad esempio, quello in cui l’acuta Miss Maudie individua la fazione “progressista” del paesino in “quei pochi che in questa città sostengono che l’onestà non è solo riservata ai bianchi; quei pochi che sostengono l’eguaglianza dei processi giudiziari, quei pochi che sanno essere umili dinanzi a un negro e pensare: sarei potuto nascere negro anch’io, non fosse stato per la bontà del Signore”). Per un (recente) periodo, il civilissimo Canada ha osteggiato la lettura di questo volume.
Di che opera letteraria stiamo parlando, allora?

Se il libro ha avuto tanto successo fin dalla sua pubblicazione (1960) è perché il punto di vista sugli avvenimenti di Maycomb – cittadina di provincia nel sud degli Stati Uniti, uguale a tante altre nel sostenere e praticare la supremazia razziale dei bianchi sui neri – è quello di due ragazzi, la piccola Scout Finch (protagonista narrante) e suo fratello Jem. Perfetto escamotage per affrontare con una certa dose di levità il duplice filo narrativo: da una parte le scorrerie giovanili tipiche dei primi assaggi di libertà, dall’altra l’osservazione dei rapporti sociali (in attesa delle tristi vicende che stanno per abbattersi su Maycomb).
La scuola, i compagni di diversa estrazione sociale, l’attesa per Dill (il ragazzino vivace che compare in paese solo nel periodo estivo), le signore di mezza età e i loro giudizi inappellabili, l’albero cavo e le sue sorprese, quel personaggio misterioso che è Boo Radley, le ramanzine di Calpurnia (domestica e “governante” di casa Finch), gli ubriachi perdigiorno, l’ammirazione sconfinata per papà Atticus, che non sarà appariscente ma di sicuro è l’equilibrio fatto persona e perciò in paese è stimato da tutti. Per questa ragione, quando egli assume la difesa del nero Tom Robinson, Jem e Scout non capiscono (né accettano) l’astio che molti iniziano ad indirizzare al loro genitore. Così i due ragazzi si imboscano nel tribunale di contea per assistere all’intero processo: quel che dovranno imparare – di fronte all’evidente innocenza di Tom, per cui Atticus si batte – a loro non piacerà…

La vicenda di Tom Robinson costituisce il corpo centrale del volume, ma non lo esaurisce: non è un caso che il racconto inizi molto prima della presunta violenza su Mayella Ewell e termini ben dopo il triste epilogo di quella vicenda.
Credere che “Il buio oltre la siepe” sia un romanzo antirazzista significa sottovalutare l’altro filo narrativo del libro, quello che conduce al personaggio di Boo Radley. I bianchi di Maycomb diffidano di Tom Robinson come la “combriccola” Finch di quell’invisibile ed emaciato paesano autosegregatosi in casa.
Il tema del libro è in realtà più ampio, e riguarda la discriminazione, o, meglio ancora, la diversità. Se fosse stato Arthur “Boo” Radley ad essere attirato in casa Ewell e ad essere accusato di violenza sessuale, sarebbe cambiato il movente dei giurati di provincia ma probabilmente non il loro verdetto… e, chissà, forse la parte dell’eroe sarebbe spettata a Tom Robinson.
E’ per questo che “Il buio oltre la siepe” (pur trasposto in pellicola) potrebbe avere il suo alter ego cinematografico in un altro film americano, durissimo, intitolato “La caccia”, dove un giovane Robert Redford viene perseguitato da chi non perdona i suoi precedenti penali (niente a che fare con il razzismo, dunque: omologo di Atticus è il personaggio impersonato da Marlon Brando – anche lui un difensore della legge, nei panni di uno sceriffo –, che tenterà vanamente di salvare il ragazzo da un provincialismo ottuso e spietato).
Senza nulla togliere alla centralità del tema della segregazione razziale nel volume in commento, sembra che Harper Lee voglia avere una parola in più: la diversità si scontra con l’arretratezza, ed ecco perché le persone più illuminate di Maycomb “appoggiano” la causa di Tom Robinson in un modo che oggi fa inorridire.
In un luogo come la provincia americana del dopoguerra, il progresso è un’entità che si muove molto lentamente.
Nel 1955 – cinque anni prima della pubblicazione de “Il buio oltre la siepe” – Rosa Parks rifiuterà di alzarsi dal suo posto sull’autobus pieno per cederlo ad un bianco.
Nel 2008 – quasi cinquant’anni dopo quella pubblicazione – Barack Obama sarà il primo Presidente nero degli Stati Uniti d’America.
Il cerchio si è chiuso… anche se qualcuno stenta ancora ad accorgersene.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    01 Settembre, 2020
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La mente è un luogo appartato

“Ho spesso pensato che il corpo di una donna somigli a una metropoli, a una metropoli di notte, traboccante di luci. Ogni volta che vado in America e ritorno di notte all’aeroporto di Haneda, anche questa brutta città di Tokyo, vista dal cielo notturno, mi sembra una donna malinconicamente distesa, con il corpo ricoperto di luccicanti gocce di sudore. La figura di Reiko distesa davanti ai miei occhi mi appariva proprio così, una metropoli notturna dove si nascondevano vizi e virtù. Gli uomini, uno a uno, tentavano di perlustrarla, ma non riuscivano mai a penetrare nei suoi angoli più remoti, dove si nascondeva il suo vero segreto.”

Lei è giovane, è delicata, è attraente, dispone di un fascino tutto suo, si accompagna a giovani belli e innamorati… ma, quando deve affrontare la sessualità, è totalmente e inspiegabilmente frigida.
Lei è Yumikawa Reiko, la paziente che il dottor Shiomi Kazunori ricorda tra migliaia di clienti del suo studio di psicanalista a Tokyo. Nella sala di terapia, la frigidità di Reiko si manifesta in una variante sorprendente: le impedisce di sentire la musica! Avverte i rumori attorno, ascolta le persone che le parlano, ma, quando partono le note, quel che la donna ode è soltanto silenzio.
Un fratello dileguatosi chissà dove dopo essersi scontrato con i genitori, un odioso promesso sposo che è stato scelto per lei dalla sua famiglia, un giovane collega di lavoro che piace a tutte ma a lei sembra non interessare: tutta una serie di storie aperte o in stand-by che, sul lettino della sala di terapia, emergono nelle loro sfaccettature più nascoste e tra le quali il dottor Kazunori ricerca la spiegazione di un mistero che appare mutilare la vita di una donna senza apparenti handicap.

Sessualità e personalità “combattono” in questo romanzo di Yukio Mishima, semplicemente ma efficacemente intitolato “Musica”. L’editore Feltrinelli, sin dalla prefazione, mette in guardia – un po’ furbescamente – a proposito dell’argomento trattato, e delle motivazioni che lo hanno spinto a pubblicare l’edizione del romanzo (piuttosto che a non farlo) nonostante l’argomento così delicato e complesso.
Reiko siede sul lettino della sala terapia alternando la voglia di raccontarsi a quella di autoanalizzarsi o di “usare” il suo psicanalista per altri e più reconditi scopi: perciò alterna sincerità e ritrosia, confessione e falsificazione (a volte persino inconsapevole), tanto che la storia sembra inquadrarsi quasi come una sfida tra paziente e dottore. Yumikawa Reiko è un oggetto di analisi particolare quanto sfuggente. Tocca al dottor Kazunori scindere ciò che è importante da ciò che non lo è, cercare le persone che ruotano intorno al vissuto di Reiko o esserne cercato, sino a scovare il capo dell’ingarbugliatissima matassa, che lo porterà alle radici della frigidità di Reiko, generata da qualcosa che somiglia ad uno choc.
Jung, Freud, ma anche quel po’ di psicoanalisi all’americana in questo libro di Mishima. Si può scommettere sul fatto che non risulterà del tutto convincente a chi è un cultore della disciplina, ma va detto che il giudizio sul libro – in bilico sino all’ultimo, a mio parere – si consolida in positivo grazie ad un finale che colpisce, e lascia l’impressione di un’opera da leggere.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    26 Agosto, 2020
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E poi è accaduto

E’ difficile leggere “Il giardino dei Finzi Contini” e non convincersi che sia, in fondo, una storia di luoghi.
Ferrara raccontata dal maggiore scrittore ferrarese, elegante e malinconica, sfumata ma compassionevole, città a sua volta composizione di luoghi nascosti.
Il giardino di casa Finzi Contini è uno di questi: la tenuta della famiglia sorge lungo Corso Ercole d’Este (ritenuta dagli amanti dell’arte una delle più belle strade d’Europa, se non la più bella); il giardino – con i suoi percorsi verdeggianti, la rimessa e soprattutto il campo da tennis attorno al quale si incontrano e si frequentano gli studenti universitari della Ferrara bene – ne costeggia le mura.
Proprio per quegli incontri, per i confronti dialettici che vi si svolgono, per la vita assaporata mentre al di fuori di quel perimetro si stanno avviando le proscrizioni nei confronti degli ebrei italiani, il giardino di casa Finzi Contini diventa – nella penna di Giorgio Bassani – un luogo “distopico” (ben prima che questo aggettivo assuma il successo attuale): è un rifugio, una sorta di bunker a cielo aperto, un luogo dove, visto quel che sta accadendo fuori, il tempo si rifiuta di andare avanti e decide di arrestarsi… Così pare.
Ma il tempo, da quando è tempo, non ha alcuna intenzione di farlo. E la famiglia Finzi Contini, appartenente alla comunità ebraica, sarà dispersa… Ne resterà soltanto il racconto.

Chi sa vedere la Storia nelle piccole storie, riesce a raccontare l’una attraverso le altre. Giorgio Bassani ha la qualità letteraria per ricordare che gli anni più bui, le catastrofi disseminate sul percorso dell’umanità, sono nient’altro che la somma dolorosa della storia interrotta di singoli.
La casa dei Finzi Contini (dal suo illuminato capofamiglia, professore universitario, sino ai figli Alberto e Micol) in altri tempi sarebbe stata anzitutto un luogo di scambio culturale. A metà degli anni ‘30 del ‘900 – anche nell’inutile tentativo, del tutto umano, di negare l’evidenza di quel che si preannuncia – diventa un’oasi di accoglienza per quella gioventù che dovrebbe prendere sulle sue spalle il futuro.
Le persone stesse sono luoghi, si legge in Bassani, e, come i luoghi, si perdono. Accadrà prima ad Alberto, e poi – sulla strada delle deportazioni – all’intera famiglia, compresa Micol.
E’ per amore di Micol che lo stesso protagonista del romanzo – “ammesso” a quel giardino prima che tutto finisca, sopravvissuto e perciò destinato a parlare di quei giorni per come sono stati – racconterà di come si è visto morire.

“Nella vita se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare. Capire da vecchi è brutto…molto più brutto.”

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qualunque altra opera in grado di aprire le porte dell’anima alla malinconia.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    10 Marzo, 2020
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L'ordine delle cose

Nel giro di poche ore ha pugnalato sua moglie, il ragioniere che lo ha sostituito in ufficio e il dirigente che lo ha licenziato, uccidendoli tutti. La “belva umana” lo chiamano a Palermo, dove in reazione al gesto efferato ci si attende ora la giusta punizione.
Negli anni ‘30, dove si dorme “a porte aperte” (ma più lo si crede di quanto non lo si pratichi realmente), la giusta punizione non può essere che la pena di morte, reintrodotta dal regime fascista dopo quarant’anni di abolizione. E’ quel che tutti si aspettano, tenuto conto che uno degli accoltellati a morte è quel Giuseppe Bruno – avvocato, segretario del sindacato forense, presidente dell’unione provinciale fascista artisti e professionisti, e chi più ne ha più ne metta – che è figura particolarmente rappresentativa nel capoluogo siciliano.
Ed è quanto ricorda anche il procuratore generale al giudice che dovrà occuparsi di quel processo: d’altronde non è prima di tutto il Ministro della giustizia, 'Sua Eccellenza Rocco', ad aver indicato il fondamento giuridico della pena capitale? E non è forse il procuratore generale così prodigo di illustri riferimenti perché sa bene che quel "piccolo giudice" non è per nulla convinto che una tale pena abbia fondamento?

"Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità."

I principi di civiltà possono essere i più alti, ma con ciò nulla si è detto: il più è che sono applicati da uomini.
Lo spiega – ancora una volta – Leonardo Sciascia in questo romanzo breve, caratterizzato dal suo tipico incedere narrativo e dal consueto acume: di fronte ad un (triplice) fatto di sangue, il problema non è la colpevolezza, l’eventuale infermità di mente o l’esistenza di qualsivoglia attenuante, bensì come lo Stato – in quel momento lo Stato fascista – ritenga di "rendere giustizia". Protagonisti perciò non sono il reo, le vittime, i fatti posti in essere: lo diventano invece il giudice a latere, i giurati, il procuratore generale, l’opinione pubblica, il comune sentire di un’epoca storica, le esigenze politiche e la "filosofia" giuridica che ad esse si piega.
A sentenza resa, l’ultimo capitolo del libro si rivela densissimo (almeno quanto tutti i precedenti insieme), quello nel quale il procuratore generale e il "piccolo giudice" si ritrovano a cose fatte: è allora che si comincia davvero a discutere delle proprie convinzioni in tema di giustizia, del diritto o meno di un giudice a comminare la pena di morte quand’anche prevista dal sistema, del "beneficio" realmente reso alla persona giudicata e "risparmiata" laddove in ogni caso già pende il ricorso per il grado d’appello. E’ l’ultima motivazione opposta dal procuratore generale all’affermazione di qualsiasi alto principio da parte del giudice, mentre entrambi scoprono che ad accomunarli realmente, in un dato momento storico, è solo la paura.
E mentre si riconosce lo Sciascia acuminato di sempre.

"Aveva una brillante carriera da fare, se l’è rovinata rifiutando di condannare uno a morte."

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e già apprezzato Sciascia (in particolare "Il contesto"), ma anche altre autori che hanno scritto sulla "tortuosità" di una certa giustizia.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    01 Marzo, 2020
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L'inquieta attesa

Si dice George Orwell e si pensa a “1984”, o a “La fattoria degli animali”.
Produzione futuristica o grottesca a parte, invece, lo scrittore inglese vanta tutta una serie di romanzi di pari livello. Il libro in commento, ad esempio, è un gioiellino (non a caso lo stesso Orwell lo considerava una delle sue opere più riuscite).
In una sorta di incipit dal sapore vagamente pirandelliano, l’acquisto di una dentiera da parte del quarantacinquenne George Bowling – e dunque di una dentatura perfetta seppure finta – è l’occasione per iniziare una profonda riflessione sulla propria vita: chi l’avrebbe mai detto che il ragazzino di intelletto vivace, impegnato a escogitare il modo di pescare carpe giganti nello stagno, sarebbe diventato il grassoccio (e monotono) agente assicuratore di adesso?
Un uomo arrivato, George Bowling, e perciò imborghesito.
Consapevole di esserlo. Da ciò prende corpo il suo desiderio di “una boccata d’aria”: i molteplici ricordi di gioventù, dei caratteristici personaggi che animavano il posto in cui ha vissuto infanzia e adolescenza, dei luoghi normali o magici, del continuo aggirarsi della cricca di ragazzi alla ricerca di motivi d’interesse, risvegliano in lui la volontà di rivedere Lower Binfield, di ritornarvi, accantonando per qualche giorno ogni altro impegno familiare e professionale.
Per cogliervi cosa?

“Non so se conoscete quel romanzo di H.G. Wells in cui si racconta di un tale che si trovava in due posti contemporaneamente: era cioè in casa sua, ma soffriva di una specie di allucinazione, e credeva d’essere in fondo al mare. Girava per le stanze, ma al posto dei tavoli e delle sedie vedeva alghe, granchi enormi, e piovre che si tendevano ondeggiando verso di lui. Bé, era esattamente lo stesso. Camminavo in un mondo che non c’era .”

“Una boccata d’aria” è un inno rallentato alla nostalgia dei tempi passati, alla spensieratezza della nostra infanzia anche quando è povera (i bambini non sono mai poveri), alla speranza della nostra gioventù (ignara del proprio destino, e dunque proiettata verso tutti i destini possibili).
Ma non è un inno fine a se stesso: mentre George Bowling ritorna sui luoghi del suo passato, nel cielo d’Inghilterra il sole pallido, sfuggito alle nuvole, è ogni tanto oscurato dalla sagoma di un bombardiere, e nelle strade a volte compaiono file di ragazzini che, sotto la direzione di qualche arcigna signorina, improvvisano un’esercitazione antiaerea.
Il nucleo illuminante del romanzo è proprio qui: la ricerca delle cose passate è soltanto la reazione all’approssimarsi della paura.
E’ il 1938: il passato non esiste più, il futuro non è immaginabile. C’è solo un immediato presente, che, divisorio tra due inesistenze, è anch’esso illusorio.

“Tutte le cose che ci portiamo dentro, le cose di cui abbiamo terrore, le cose che ci illudiamo siano solo un incubo o possano accadere unicamente all’estero: le bombe, le code alimentari, i manganelli di gomma, il filo spinato, le camicie nere, le camicie brune, gli slogan, le facce enormi, i mitra che sparano dalle finestre delle camere da letto. Accadrà tutto. Io lo so – o comunque lo sapevo in quel momento. Non c’è scampo. Ribellatevi se così vi piace, o giratevi dall’altra parte fingendo di non vedere, o prendete anche voi una chiave inglese e precipitatevi a massacrare il prossimo in compagnia degli altri. Ma non c’è via di scampo. E’ una cosa che deve accadere, punto e basta.”

“1984” e “La fattoria degli animali” verranno dopo.
Ma Orwell è interamente già qui, nel piccolo capolavoro che è “Una boccata d’aria” (1939).

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    24 Febbraio, 2020
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L'etica del samurai

“Ho dato trentacinque anni di servizio a Lord Darlington; e per questa ragione non sarà ingiustificato affermare di aver 'fatto parte di una casata illustre', nel senso più vero del termine, per tutti quegli anni. E riandando con lo sguardo alla mia carriera sino ad oggi, la soddisfazione più grande che provo deriva da quanto sono riuscito a raggiungere nel corso di quegli anni, cosicché oggi non sono altro che orgoglioso e grato del fatto che mi sia stato concesso un simile privilegio”.

Giunge inaspettata a Stevens la notizia che, dopo anni e anni di servizio ininterrotto come maggiordomo, può approfittare di una settimana di pausa dal governo di Darlington Hall. Quasi non saprebbe che farsene, se non fosse per il suo nuovo datore, l’americano Mr. Farraday, che gli presta la sua preziosa Ford per viaggiare tra le campagne e conoscere meglio un pezzo d’Inghilterra.
E’ l’occasione, per l’irreprensibile e misurato Stevens, di rimettere mentalmente ordine negli eventi e negli insegnamenti di un’intera carriera trascorsa, nei suoi anni migliori, a servire Lord Darlington. Ma anche per incontrare nuovamente Mrs. Kenton, che, per sposarsi e metter su famiglia, ha lasciato definitivamente Darlington Hall anni prima.

Se inizialmente stupisce – e non poco – la scoperta che questo particolarissimo romanzo sia opera di un autore giapponese, Kazuo Ishiguro (premio Nobel per la letteratura 2017), nel corso della narrazione questo stupore muta nel suo esatto contrario: ci si rende conto che una tale paternità, per una storia del genere, è quanto di più naturale vi possa essere. Nella figura del perfetto maggiordomo britannico si cela, in controluce, la più alta personificazione del samurai. Il parallelo è illuminante quanto “necessario”: la vita di entrambi trova il significato più elevato nel servire in piena dignità un importante “padrone”, sino al punto in cui tale servizio assurge al rango di vera e propria arte.
Il “servire” come missione che dà luce alla persona: è la scoperta nella quale Ishiguro trascina il lettore attraverso un narrare minimalista e misuratissimo, fatto di piccoli segnali. Particolarmente godibile il confronto, che si dipana negli anni, tra la mentalità di Stevens e quella di Mrs. Kenton, giovane governante di Darlington Hall: un confronto che si consuma spesso nelle ore pomeridiane di riposo trascorse al tavolino di un salotto dove i due sorseggiano la cioccolata e organizzano il lavoro che verrà (quando la storia sarà trasposta al cinema da James Ivory, i personaggi di Stevens e Mrs. Kenton avranno i volti – azzecatissimi – di Anthony Hopkins ed Emma Thompson).

Il samurai anche governa, ed il maggiordomo anche combatte. Entrambi come “servitori”, nel senso più alto e dignitoso.
… E che non venga mai in mente, al preannunciarsi della sera, che ci si sarebbe potuti curare di un altro padrone: se stessi. Che non venga mai in mente!… Per poter continuare a servire, con la medesima scrupolosità e dignità di sempre, per “quel che resta del giorno”.

“Un 'grande' maggiordomo può essere di sicuro solamente colui il quale sia in grado di indicare tutti gli anni di lavoro e dire di aver messo i propri talenti al servizio di un grande gentiluomo – e attraverso costui, al servizio dell’umanità”.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    17 Febbraio, 2020
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La vita non aspetta

“Ci sforziamo di aderire all’idea che abbiamo di noi, a quella che chiamiamo 'la nostra identità'. Non sempre ci riusciamo. Anzi, quasi mai.”

Una stella “primaria”: Nicola Sceriman, giovane professore di una facoltà di scienze politiche che, con il suo unico romanzo, ha raccontato la voglia di ribellione delle nuove generazioni, spopolando anche tra gli studenti universitari.
Tali sono Agata, Zeno, Enrico, Guido, Herman: le cinque “stelle minori” nelle quali il professor Sceriman intravede le potenzialità necessarie ad avviare un nuovo progetto (attesissimo, giacché il docente, dopo l’enorme successo del suo romanzo, non ha più ritrovato l’ “urgenza” di scrivere).
Mentre sin dall’autunno 2008 i cinque ragazzi lavorano a “Boris Vian”, la rivista scientifica innovativa che dovrebbe vedere la prima stampa nella primavera del 2009, i rapporti tra alcuni di loro si fanno sempre più intensi, e le storie personali – di Agata e Zeno in particolare – iniziano a sovrapporsi agli obiettivi di studio e lavoro.
L’imprevisto è dietro l’angolo, e si materializza alla fine di marzo, quando la rivista sembra pronta per il suo primo numero: Sceriman muore in circostanze poco chiare, ed Agata e Zeno – in qualche modo responsabili – decidono di separarsi, al fine di evitare il peggio.
Dieci anni dopo, inaspettatamente, è Agata a rifarsi viva con Zeno.

Il racconto in parallelo di due periodi (2008-2009, quando accaddero i fatti, e 2018, quando se ne materializzano per intero le conseguenze), visto attraverso gli occhi di Zeno, che ammira il professor Sceriman come tanti altri allievi ed ama Agata senza comprenderla fino in fondo. Il suo “peccato” è l’inesperienza nei confronti del mondo, tipica di chi ha privilegiato gli interessi e si è disinteressato delle persone. Un’inesperienza che Zeno è destinato a pagare.
Sono questi i cardini della storia nella quale il lettore viene coinvolto da una scrittura molto semplice e scorrevole, senza particolari picchi, che permette di concentrarsi sul contenuto.
Le vicende si lasciano seguire con curiosità, sebbene i lettori più attenti possano intuire dove si andrà a parare: al netto di alcuni incastri non sempre verosimili, è la necessità di chiarire progressivamente le personalità dei protagonisti, compreso quella del defunto Nicola Sceriman, ad attrarre verso la conclusione della storia. Mettendo in conto, per la verità, che l’alternanza costante del racconto di due diversi periodi della vicenda non è sempre facile da seguire.
Nel complesso, comunque, un’opera “onesta”.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    11 Febbraio, 2020
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Nel laboratorio delle anime inquiete

“Prima di morire sognai di essere disegnato e che il mio disegno, dopo aver vissuto migliaia di anni, andava in Paradiso.”

Istanbul, 1591. Nella luce soffusa del laboratorio di Zio Effendi, quattro maestri miniaturisti ornano le pagine del libro segreto commissionato dal Grande Sultano, e a lui destinato. Sono Cicogna, Farfalla, Oliva e Raffinato (soprannomi attribuiti loro dallo stesso Zio Effendi), hanno ciascuno la propria abilità, e mani ed occhi allenati a disegnare secondo la tradizione miniaturista orientale. Un tradizione plurisecolare, messa in discussione negli ultimi tempi dai disegni arrivati d’oltreoceano, quelli dei grandi maestri veneziani, abituati a riprodurre i soggetti esattamente come si rivelano alla vista.
Nello stesso periodo fa ritorno da Tabriz il giovane Nero, nipote di Zio Effendi, per dodici anni lontano dalla città. Ha portato con sé il ricordo della bellissima Sekure, che spera segretamente di poter rivedere.
Il Sultano non può accettare che la squadra dei miniaturisti sia in qualunque modo distolta dal proprio lavoro: l’assassinio del povero Raffinato – il cui corpo martoriato è ritrovato all’interno di un pozzo – e quello successivo dello stesso Zio Effendi, a capo dei maestri, scatenano la ricerca dell’assassino e del movente.
Una ricerca nella quale a Nero – pur se non immune da sospetti per il secondo omicidio – viene affidato un ruolo ben preciso.

Lo scrittore turco Orhan Pamuk realizza un libro raffinato (proprio come uno dei suoi protagonisti più sfortunati), in grado di riportare il lettore nelle atmosfere rarefatte della Istanbul del diciassettesimo secolo, nelle convenzioni di una società patriarcale dove però le donne rivestono un ruolo fondamentale.
Lo fa in cinquantanove capitoli (a volte di minima lunghezza) nei quali l’io narrante cambia di continuo: il punto di vista, di volta in volta, è quello di Zio Effendi, dei maestri miniaturisti, di Nero, della bella Sekure o della sua serva Hayriye, della ruffiana Esther, del maestro Osman (“rivale” di Zio Effendi), di un cane o di una moneta disegnata, del colore che definiamo rosso, nonché della stessa Morte. Una tecnica di costruzione della vicenda che mantiene viva l’attenzione del lettore (a volte, senza svelare la propria identità, è lo stesso assassino a parlare, ad esternare opinioni, a svelare le sue motivazioni).
Si dipana la vicenda principale – quella degli omicidi tra miniaturisti, che (suggerisce l’autore) troverebbe un movente esterno al gruppo nello scontro tra tradizione e innovazione, o potrebbe invece averlo interno, nelle gelosie tra gli stessi artisti – mentre in realtà prende corpo l’affascinante ritratto della Turchia di un determinato periodo storico, con le sue contraddizioni, le sue contingenze (le guerre contro popoli nemici), il suo gioco dei ruoli (principalmente quello della donna rispetto all’uomo e viceversa).
A chi ha voglia di scoprire un diverso punto di vista letterario, “Il mio nome è rosso” si svela come il ricco ricamo di un narratore oggi ritenuto, se non il maggiore, tra i maggiori autori turchi.

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"Le mille e una notte" e ricerca la medesima "ispirazione" (più che la stessa narrazione).
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    04 Febbraio, 2020
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L'interrogatorio

“Conosce la leggenda di Teseo nel labirinto? Per la mia indagine non conta arrivare al Minotauro, ma risolvere i passaggi del percorso. Il Minotauro è alla fine una formalità.”

Da una parte del tavolo c’è un magistrato inquirente che sostiene l’accusa come elaborasse un teorema di geometria: la tesi è già assodata, c’è solo da dimostrarla. E la tesi è che la fatale caduta di un uomo dal passo della Cengia, in alta montagna, non sia un incidente ma un omicidio. Questo perché dall’altra parte del tavolo, ad essere sottoposto a interrogatorio, c’è un anziano signore che, quel giorno, era proprio su quel passo, a distanza di poco cammino dal morto.

“La pena serve a pagare il debito e pareggiare i conti con lo Stato, ma voi volete fare i creditori a vita. Irriducibili siete voi che continuate oltre le sbarre a esigere sconfessioni delle nostre vite.”

Il reato è evidente perché ottimo è il movente: morto e (presunto) assassino sono stati giovani insieme, hanno militato entrambi in un movimento rivoluzionario di sinistra, e, alla resa dei conti con lo Stato, il primo ha assunto il ruolo di delatore, mentre il secondo ha scontato la galera al pari di tutti gli altri compagni traditi.
La convinzione del magistrato è netta: come si può altrimenti spiegare che due nemici si trovino contemporaneamente nello stesso punto semidimenticato dal mondo e irto di pericoli? Semplice coincidenza? “Impossibile”.

L’ultimo libro di Erri De Luca è incentrato su una sfida tra due uomini. La posizione iniziale è di parità: il privato cittadino subisce la perdita della libertà (la custodia cautelare lo costringe in cella); l’uomo dello Stato non può reperire le prove che dimostrano il delitto (il teatro dei fatti pare non consentirlo). Eppure, mentre l’uno sembra non soffrire l’isolamento, l’altro si dimostra sicuro di poter arrivare alla confessione dell’omicidio.
Un romanzo breve che potrebbe essere un soggetto teatrale, svolgendosi per intero in due ambienti chiusi: la stanza dove il magistrato interroga l’indagato e la cella dove quest’ultimo scrive alla donna che ama, raccontandole tra l’altro l’evoluzione della vicenda preprocessuale. Il quarto ed ultimo personaggio è l’avvocato d’ufficio che la procedura assegna al sospettato, e che lo stesso deliberatamente ignora o rinnega.
Una vicenda scarna, in fin dei conti, che dà modo al suo autore di fissare l’attenzione sulla contrapposizione tra due uomini e ciò che ciascuno di essi rappresenta, nonostante le ripetute divagazioni (che a volte appaiono troppo fini a se stesse).
Alla fine, non uno dei migliori lavori di Erri De Luca ma comunque un libro da leggere. Con una certa attenzione a taluni particolari, sì da scongiurare l’idea che il finale, per come scritto, non voglia dare soddisfazione sui fatti realmente accaduti su quel passo di montagna.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    28 Gennaio, 2020
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Cronache dall'inizio della fine

“Ma chi è davvero questa gente? Dov’erano rintanati fino a ieri? Non è possibile che sia stato lui a far nascere queste folle di pantofolai che all’improvviso impugnano il bastone. E nemmeno la guerra. A essere sinceri, nemmeno la guerra può essere il padre di tutte le cose. Il virus che dilaga lungo la via Emilia, contagiando migliaia d’impiegati postali pronti a incendiare Camere del lavoro, deve essere stato preincubato in tempo di pace. Non può essere altrimenti. Nella guerra non sono rinati, la guerra li ha soltanto restituiti a se stessi, li ha fatti diventare ciò che già erano. Il fascismo, forse, non è l’ospite di questo virus che si propaga ma l’ospitato.”

Si può fermare su carta la Storia, racconto dei tempi, delle situazioni socioeconomiche, racconto dei movimenti di popoli e masse o della loro inerzia (che è spesso ignavia). Si può narrare la Storia italiana di quasi sei anni – quelli tra il 1919 e l’inizio del 1925 – apparecchiandola nei suoi eventi maggiori: la costituzione dei fasci, l’impresa di Fiume, i primi scontri violenti tra fascisti e socialisti, la nascita del partito fascista, la marcia su Roma, la formazione del primo governo presieduto da un fascista, l’assassinio di Matteotti. Oppure.
Oppure si può tentare un diverso racconto, quello dei fatti storici… che sono anche altro, frutto a volte di assolute contingenze, di umori, occasioni, coincidenze, persino casualità. Allora, la storia smarrisce la lettera maiuscola, ma assume un’altra visuale, e forse anche un altro spessore: è l’incoscienza indomita di Italo Balbo come l’abulia di Gabriele D’Annunzio alla constatazione che una città si conquista con un tratto di penna e non con la più eroica delle scorribande; è l’ignaro incedere di don Giovanni Minzoni come il buio insidioso attorno al quale sono accese la sigaretta e la luce da lavoro di Spartaco Lavagnini; è la camera d’albergo nella quale Margherita Sarfatti attende il suo animalesco protetto così come l’amore pratico delle lettere di Velia Matteotti a suo marito Giacomo; è l’alcool che scende lungo la gola degli squadristi maldisposti a restar seduti in una taverna come le parole spuntate di un’opposizione parlamentare che sta perdendo capacità e coraggio del suo ruolo (e questo sarà il suo contributo al peggio in arrivo); è il prodotto, e “l’avanguardia”, di tutte queste cose: è M. – figlio di un fabbro emiliano e del secolo in corso –, che sta per Mussolini Benito.

L’avvento dell’era fascista raccontato senza trascurare i fatti minimi, ed anzi attraverso gli indizi, i sentori, le avvisaglie, la cornice.
Nelle citazioni dirette di comunicati istituzionali e articoli di giornale, lettere private e dispacci alle prefetture, è l’humus della catastrofe quello che Antonio Scurati riesce a fissare nelle oltre 800 pagine di “M. - Il figlio del secolo”.
Il ritratto del fascismo, parto di tempi contraddittori, lo mostra contraddittorio esso stesso: si affiancano amor di patria e costituzione di milizie private, volontà di riformare le istituzioni e persecuzione del dissenso, esaltazione del duello cavalleresco e spedizioni punitive nelle campagne proletarie. Ma una cosa è chiara, senza contraddizione alcuna: allora come oggi, il fascismo è celebrazione della violenza, e se vi fossero dubbi l’imprimatur viene dalla bocca dello stesso Mussolini quando, parlando della libertà, ricorda ai suoi che è mezzo e non fine.

“Lui, allora, issa il mento verso l’orizzonte, gonfia il petto, tira le somme. Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai.”

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Renzo De Felice, Arrigo Petacco, etc... e, a maggior ragione, a chi non li ha letti.
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Fantascienza
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    22 Gennaio, 2020
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Si stava meglio senza

Alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, quando si decide di premiare la migliore saga fantascientifica di sempre, “l’epoca d’oro” di questo genere sta declinando.
A vincere è la “Trilogia della Fondazione” di Isaac Asimov (con ogni probabilità, ancora oggi la miglior saga di science-fiction mai scritta): i tre suggestivi volumi che la compongono - “Cronache dalla galassia”, “Il crollo della galassia centrale”, “L’altra faccia della spirale” - delineano una storia assolutamente geniale, ispirata allo scrittore dalla lettura di un famoso libro sulla decadenza dell’antico impero romano.
La trama: quella umana è l’unica razza intelligente nell’intero universo, ormai sparsa su milioni di pianeti, colonizzati e resi abitabili nelle loro diverse peculiarità. La forma di governo che accomuna le centinaia di miliardi di uomini viventi è l’Impero, promanante dal pianeta centrale di nome Trantor, il pianeta-burocrazia interamente coperto di metallo. Ma l’Impero sta cedendo, e le prime crepe si intravedono già: ciò che ne può venire sono trentamila anni di interregno burrascoso, di violenta anarchia, in attesa che un nuovo impero nasca. A meno che Hari Seldon, il massimo interprete della psicostoriografia (la scienza che può prefigurare gli avvenimenti futuri grazie ad equazioni applicate al comportamento delle masse), riesca nel suo intento e riduca così la barbarie a soli 1000 anni.
Alla fine degli anni Sessanta, “La Trilogia della Fondazione” - con i libri e i racconti sui robot governati dalle tre leggi della robotica - innalza Asimov a miglior autore di fantascienza. Nonostante, la saga possa considerarsi, in realtà, non finita: i tre libri descrivono soltanto i primi 300 anni dei 1000 che dovranno necessariamente passare perché l’Impero si formi nuovamente, ancor più saldo e illuminato di quello che sta andando a morire.

Da qui si riparte, quasi trent’anni dopo (la “Trilogia” è scritta in realtà nella prima metà degli anni ‘50), quando lo scrittore decide di creare un quarto volume, intitolato “L’orlo della Fondazione”.
Non sempre si può mantenere lo stesso livello di scrittura, né – siamo d’accordo – è bene indulgere nel medesimo filo narrativo. Ma questo quarto capitolo della saga sembra – brutto a dirsi se si parla di Asimov – più un’operazione commerciale che un reale tentativo di proseguire in una fortunata intuizione.
Dal punto di vista formale, mentre la “Trilogia” si mostrava rapida nel delineare i singoli episodi che la componevano (raccontando una storia il cui massimo protagonista è il genere umano con le sue straordinarie capacità), “L’orlo della Fondazione” va ad “impantanarsi” nella storia dei suoi singoli personaggi, diluendo la narrazione in descrizioni di pensieri e dietrologie che annacquano il tutto.
Dal punto di vista materiale, Asimov vorrebbe rivitalizzare il racconto con qualche nuova idea, e così “L’orlo” prende una sua direzione autonoma, non costituisce la continuazione di quei primi 300 anni (di 1000 totali) narrati nella “Trilogia”… con il risultato di cambiare totalmente connotati e significati, sino a rinnegare l’innegabile fascino di quella storia dipanatasi nei tre volumi degli anni ‘50. Non che questo quarto capitolo non abbia un suo obiettivo: il problema è che non c’è paragone con ciò che l’ha preceduto.
A volte, per lasciare un buon ricordo delle cose, è forse meglio non toccarle (né tantomeno provare a muoverle dal posto che sono riuscite a ritagliarsi). Si rischia, semplicemente, di… romperle.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    15 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Cosa deciderà la sua sorte?

“ ‘l bun Culumban, ‘l bun Culumban a porta l’eigua dal mont al pian, ‘l bun Culumban, 'l bun Culumban a fura la peyra cun la sua man.”

Una storia minore, di quelle che sarebbero state bene sulle labbra dei cantastorie erranti di una volta, dei novelli Omero che giravano tra i paesini, tramandando le piccole tragedie popolari. Non a caso il libro si intitola “La canzone di Colombano”.
Lì al piano della Thullie, le impervie altezze sopra Chiomonte, giacciono in una casupola quattro corpi dalle budella rivoltate, tra il sangue e il vomito: Isoardo, sua moglie, la vecchia madre e la piccola Floretta, quindicenne… un’intera famiglia di pastori morta insieme alla gran parte dei propri capi di bestiame.
In quelle zone c’è un unico altro abitante: è quel Colombano Romean che di fronte alla piccola comunità si è assunto l’onere di completare il traforo della Thullie, perché l’intera valle possa godere di una quantità d'acqua finalmente sufficiente ai pascoli e alle altre attività. Ma Colombano ha il torto di essere l’unico sopravvissuto dell’altopiano.
Quando vanno a stanarlo fin lassù – per portarlo in paese e sottoporlo ad un processo sommario – il mastro minatore, pur con le mani legate davanti a sé, ha la prontezza di spirito di dare uno strappo e correre sino all’ “anello di salvezza”. Grondante sudore e cianotico per lo sforzo, ha guadagnato il pieno diritto ad un giudizio ecclesiastico, a quel processo che può celebrare solo il religioso Ippolito Berthe.
Ed è costui che, prima di iniziare, parte alla volta di Oulx, per sapere dal Prevosto in che modo questo processo dovrà essere celebrato, e quale esito è cosa buona che esso abbia.

“ ‘Culumban a l’a massà!’ siur giudise pende lo farà, ‘Con ‘l diau a l’a giugà!’ Culumban a l’è perzuné, ‘Con le masche a l’a dansà!’ siur giudise lo farà brusé.”

La bravura di Alessandro Perissinotto è nel tessere una trama ricca ma non più dei fili che essa richiede, nell’utilizzare uno stile ricercato ma non esagerato: in altre parole, nel saper mantenere l’equilibrio necessario al buon raccontare.
Prende le mosse da una canzone tramandata oralmente, e in parte perduta: si appassiona, e conduce il lettore ad appassionarsi alla complicata storia di Colombano. Storia macchiata da intrighi e presunte stregonerie, la cui spiegazione si nasconde invece in cose e vicende d’umana natura: un accordo, un archivio polveroso ma ben custodito, una serie di interessi che – come spesso capita – si intrecciano al corso naturale delle cose, e lo deviano.
Un libro dove i “contrari” si armonizzano perfettamente: il respiro smisurato dell’altopiano (funestato da avvenimenti di morte) e il chiuso dell’aula dove si processa il povero Colombano; l’ignoranza operosa dei montanari di una volta e le elaborate trame dei notabili di paese, la perenne opposizione tra convenienza e giustizia. Nell’attesa di cogliere il filo giusto, e seguirlo sino a quel finale che scombina le carte, tanto sui fatti che sui personaggi.

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... e già apprezzato Perissinotto, ma anche agli amanti del canto e della tradizione popolare (non solo del Nord Italia).
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Classici
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    09 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La sfida della logica scomposta

Chi è Jean Baptiste Clamence?
1 – APPROCCIO: a sentirlo avvicinare i clienti del bar “Mexico City” di Amsterdam, sembrerebbe soltanto un logorroico. E, come tutti i logorroici particolarmente dotati di eloquio, un amante del paradosso sino alla provocazione (nello stesso tempo in cui decanta lo zelo praticato a suo tempo dai “nostri fratelli hitleriani” nel ghetto, sa anche, in quanto vi abita, che esso è il “luogo d’uno dei maggiori delitti della storia”).
2 – PRESENTAZIONE: si descrive come un uomo appagato da se stesso (“La mia natura mi piaceva, e tutti sappiamo che la felicità è questa, anche se, per tranquillizzarci a vicenda, fingiamo a volte di condannare un tale piacere col nome di egoismo”). Ma questo appagamento è sovente il presupposto necessario per potersi dedicare agli altri con successo: l’uomo “non può amare senza amarsi”. Ecco il perché della spiccata generosità di Clamence nella vita e nel mestiere, e – come in una sorta di chiusura del cerchio – del suo ritenersi uomo eccellente. Al cospetto di cotanta autopresentazione di un io narcisista, però, qualsiasi interlocutore capirebbe di assistere ad altro, ad una preparazione: in quel che di iperbolico quest’uomo dice di sé, è presumibile un “ma”...
3 – CONFESSIONE: “Sono sempre stato pieno di vanità da scoppiare”. Alla fin fine l’eccellenza è una finzione, e la dimenticanza un modo per praticarla senza stancarsi di sé. A dispetto del gusto del paradosso e della provocazione – che attiene ad una singola natura d’uomo, e dunque sopravvive con essa nonostante tutto – le cose dell’esistenza impediscono di nascondersi a ciò che si è (“procedevo così alla superficie della vita, in certo modo nelle parole e mai nella realtà”). Così che, giunti al nocciolo della questione, si è costretti ad affrontare la “reductio ad unum” del proprio sentire: “può darsi che si tratti di vergogna, o di uno di quei sentimenti ridicoli che hanno a che fare con l’onore”. Ridicolo o meno, quel sentimento sfila la maschera: il compiacimento per la propria natura non esiste più.
4 – SCONFESSIONE: il“sospetto di non essere così ammirevole” è solo il principio della consapevolezza che, prima di ingannare gli altri, ci si è autoingannati (“Dopo lunghi studi su me stesso ho scoperto la duplicità profonda della creatura”). D’altronde, perché meravigliarsene? “Per finirla con l’ambiguità, bisogna semplicemente finir di vivere”. E’ il motivo – quasi l’alibi – per cui l’avvocato Clamence inizia a “praticare” una seconda natura: indifferenza o meditato disprezzo, rivolto anzitutto a chi una volta è stato oggetto del suo desiderio di rendersi meritorio.
5 – RIEDIFICAZIONE: resta, alla base, la necessità di vedersi ancora al centro della propria esistenza. Essa, come andava bene per ricercare la propria eccellenza nel giudizio degli altri, va ancor meglio ora che ogni spinta etica è stata accantonata, e la ricerca si è concentrata soltanto su se stessi (“La depravazione è liberatrice, perché non crea obblighi. Non vi si possiede altri che se stesso, dunque è l’occupazione prediletta dei grandi amatori della propria persona”). Non rimane che seguire una “felice dissipazione”, attraverso l’alcool e, anticipato dal disgusto per l’amore, l’uso della donna (in verità, ricambiato).
6 – APPRODO: “Adesso parlo con uno scopo: evidentemente, quello di far tacere le risate, di evitare personalmente il giudizio”. Uno scopo non raggiungibile attraverso la libertà (luogo elettivo per commedianti e ipocriti), ma con il suo contrario, la sottomissione. E’ necessario “incolpare se stessi per poter giudicare gli altri”: “più mi accuso e più ho il diritto di giudicare”, perché “il ritratto che mostro ai miei contemporanei diventa uno specchio”. Così “troneggio tra i miei angeli cattivi”. L’abisso infernale, come Dante insegna, può essere un luogo ghiacciato.

Il giudizio (che si dà e si riceve, sostanziando il “mestiere” del protagonista: giudice-penitente).
La risata (l’elemento irrisolto che, diluito nella dimenticanza di giorni o di anni, può tornare in qualsiasi luogo e momento, e frantumare un’identità – come insegna Dino Buzzati nei suoi migliori racconti).
Sono i due fattori attorno ai quali Albert Camus traccia – in sei mosse/capitoli – la parabola umana.
Una parabola asimmetrica, che termina in un’infinita “caduta”... qualcosa che non appare come un inabissarsi tangibile (né del protagonista, né della ragazza che, alle sue spalle, finisce nella Senna), ma ricorda piuttosto un volo archetipico (e inevitabile) verso le profondità: Clamence, come Lucifero, è estasiato dalla propria eccellenza; a Clamence, come a Lucifero, viene rivelato il proprio stato di colpevolezza; Clamence precipita dal regno di Dio (“Non era forse questo l’Eden: la vita in presa diretta? Così fu la mia”), rifugiandosi infine nell’unica cosa che glielo ricordi (“Non è forse la donna tutto quello che ci rimane del paradiso terrestre?”).
Lucifero, che volle sfidare Dio e, macchiandosi di superbia, fu precipitato nelle profondità infernali. O forse – secondo una tesi meno accreditata ma ugualmente affascinante – Lucifero, che, di fronte alla richiesta divina di qualcuno che impersonasse la colpa come elemento tra gli elementi, acconsentì ad assumerla su di sé, mentre ogni altro angelo taceva. Gesto di coraggio che è in realtà furbizia, aggiunge Clamence, avendo intimamente chiaro che nessuno è escluso dalla colpa, nemmeno quel figlio di Dio attraverso cui si potrà rinfacciarla (e respingerla) al Padre.
… “vorremmo nello stesso tempo non essere più colpevoli e non fare lo sforzo di purificarci. Non abbastanza cinismo e non abbastanza virtù. Non abbiamo energia né per il male né per il bene. Lei conosce Dante? Sul serio? Caspita! Dunque sa che Dante ammette l’esistenza di angeli neutri nella lotta fra Dio e Satana. E li colloca nel Limbo, una specie di vestibolo del suo inferno. Noi siamo nel vestibolo, amico mio.”

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Politica e attualità
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    03 Gennaio, 2020
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55 GIORNI

“Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura, c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto.”

Che il sequestro del presidente della DC Aldo Moro e il suo successivo assassinio ad opera delle Brigate Rosse – insieme il “grande avvenimento” – costituiscano psicologicamente uno choc per il Paese (politicamente uno spartiacque tra le vicende precedenti e quelle successive), è testimoniato da diversi elementi.
Uno, tra questi, è il fatto che Leonardo Sciascia senta il bisogno di pubblicare un’analisi sulla vicenda neanche quattro mesi dopo la sua tragica conclusione (a caldo, dunque; scegliendo volutamente di non riflettere sui fatti, e cercarvi riscontri, più di quanto sia sufficiente): “L’affaire Moro” è pubblicato nell’agosto 1978, e costituisce un’acutissima analisi di quanto accaduto, e principalmente delle lettere che ad Aldo Moro, prigioniero nel covo delle BR, è stato permesso di trasmettere all’esterno.
Tramite l’uomo Moro, il suo stile, il suo linguaggio, le parole usate e (quasi più) quelle non usate, Sciascia ricava un lucido quadro di quanto è andato dipanandosi quell’anno: improvvisa fermezza (che poco si confà alla “elasticità” italica), rediviva statolatria da parte dei politici, e, nel contempo, inefficiente conduzione delle indagini da parte delle Forze dell’ordine (forze maiuscole per un ordine minuscolo) e degli investigatori.
Lo scrittore siciliano è d’accordo con Moro su un punto in particolare, molto delicato: con la strategia della fermezza lo Stato italiano – in fermo contrasto con la maggiore conquista della Costituzione Italiana – ha reintrodotto la pena di morte. Moro, difatti, morirà; e sarà dalla famiglia celebrato con esequie private, per sua volontà in assenza di politici; e sarà ricordato in pubblica cerimonia da quel gruppone fatto dagli Andreotti, dai Taviani, dai Fanfani, dai Cossiga, dagli Zaccagnini, etc., etc., etc. etc., che poco e nulla hanno mosso di sostanziale nel corso della vicenda.
Al resoconto dell’avvenimento che ha cambiato la percezione dello Stato e della politica italiana, l’edizione Adelphi dell’opera di Sciascia aggiunge la relazione di minoranza del 1982, licenziata dallo stesso scrittore (all’epoca membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro).

L’impressione finale non è soltanto che Moro fosse un obiettivo reale e che sapesse molto sulla vita italiana, ma, del pari, il fatto che non abbia mai visto nelle Brigate Rosse un reale interlocutore per le cose che pure avrebbe potuto raccontare del sistema politico in quel momento imperante (di quel sistema e di quella DC che gli sopravviveranno per altri quindici anni soltanto, morendo nei tentativi di spiegazione posticcia di un Arnaldo Forlani in irrimediabile difficoltà davanti ai p.m. del pool milanese di “Mani Pulite”).

“Nulla è più difficile da capire, più indecifrabile, dell’ironia. E se si può impiccare un uomo muovendogli come accusa una sola sua frase avulsa da un contesto, a maggior ragione, più facilmente, lo si può impiccare muovendogli contro una sua frase ironica.”

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"La scomparsa di Majorana" ed altro di Sciascia su avvenimenti italiani del secolo scorso.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    28 Dicembre, 2019
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La risposta

“Gli uomini primitivi hanno impiegato milioni di anni per passare dalla scoperta del fuoco all’invenzione della ruota. Poi è bastato qualche migliaio d’anni per inventare la stampa. E poi duecento anni per costruire un telescopio. Nei secoli seguenti, a intervalli temporali sempre più brevi, siamo passati dalla macchina a vapore alle macchine a benzina, allo space shuttle! E poi, in soli due decenni abbiamo iniziato a modificare il nostro DNA!”

Nel corso di una serata che avrebbe dovuto cambiare la storia dell’umanità, Edmond Kirsch crolla a terra in mondovisione da Bilbao, colpito in piena fronte: qualunque fosse la sua soluzione a due delle domande ataviche che il genere umano si pone – da dove veniamo? Dove andiamo? –, qualcuno ha ritenuto che sia troppo destabilizzante per essere rivelata al mondo.
Mentre il corpo di Kirsch giace a terra tra le urla di sgomento del pubblico, e gli uomini della sicurezza tentano di mettere le mani sull’esecutore materiale di quello spericolato omicidio, due persone si rendono conto che la loro sorte è in pericolo: la bellissima Ambra Vidal, direttrice del museo Guggenheim di Bilbao dove Kirsch ha organizzato lo straordinario evento, oltre che – particolare non trascurabile – sposa designata del futuro re di Spagna; e Robert Langdon, professore di simbologia e iconografia religiosa all’università di Harvard, presente alla serata su diretto invito di Kirsch, suo amico personale.
Langdon e Vidal capiscono che devono scappare da lì al più presto, e che, per farlo, devono unire le forze nella corsa contro il tempo verso un’unica possibilità di salvezza: fare in modo che le risposte di Kirsch siano comunque rivelate al mondo, prima che (per loro) sia tardi.

Edmond Kirsch – il personaggio posto da Dan Brown al centro del suo ultimo bestseller – è una versione temeraria ed esasperatamente “tecno-atea” di Steve Jobs o Bill Gates: un geniale futurologo che, pur costruendo un impero economico con la sua sola visionarietà, non ha mai abbandonato l’obiettivo di dimostrare la supremazia della razionalità scientifica sulla fede religiosa.
Squadra che vince non si cambia, però. Così, quando Kirsch esce drammaticamente di scena, a conquistarne il centro è il personaggio più famoso di Brown: quel Robert Langdon già protagonista dei suoi precedenti successi letterari.
Dan Brown non perde il suo “marchio di fabbrica”: i suoi libri sono fatti per nove decimi di azione, mescolata a tutta una serie di richiami e riferimenti alle cose del mondo (qui si va dalla visione architettonica, e futuristica, di Gaudì a quella delle maggiori confessioni religiose, dalle vicende della monarchia spagnola alle ultime creazioni dell’intelligenza artificiale, e via dicendo). Per alcuni, questo potrebbe bastare. Per altri è il “copia e incolla” di quanto già visto nei libri precedenti, con poche varianti.
Ma in “Origin” ciò che tiene realmente inchiodati è proprio il tema centrale: quale è la scoperta di Edmond Kirsch che – dopo i vani tentativi di filosofi, uomini di religione, scienziati, studiosi vari – può indicare la via all’umanità? Doppia scoperta, anzi: da pag.462 a 502 (sicuramente le migliori del libro), il futurologo dà la sua risposta ad entrambe le domande sull’origine e il destino dell’uomo. E sono risposte che, per quanto teoriche, affascinano, precedute da un percorso esplicativo anche più affascinante (per la verità, è la risposta alla domanda “da dove veniamo?” ad apparire come la più dirompente, sebbene il libro tenti di sostenere il contrario).
Dan Brown non può essere annoverato tra i massimi scrittori; l’azione presente nei suoi libri è spesso ridondante (sia perché infarcita di piste secondarie che potrebbero anche essere eliminate senza sottrarre alla storia, sia perché spettacolarizzata all’inverosimile). Ma ha una innegabile abilità: sa pescare in tematiche interessantissime, componendole e scomponendole a suo modo. In questo solco, “Origin” possiede un nucleo potenzialmente infinito in termini di riflessioni sulla condizione culturale ed organica dell’umanità: a chi è interessato a questi temi, letto “Origin”, verrà da pensare e ripensare...

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saggi recenti sull'intelligenza artificiale ma è disposto ad un'incursione "romanzata" sul tema.
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Scienze umane
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    22 Dicembre, 2019
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NICE CHE DICE?

In questo saggio snello e piacevole, Alain de Botton riporta gli studi filosofici ad una concezione che, almeno in determinati periodi storici, ha avuto abbondante fortuna: quella della filosofia come medicamento dell’anima.
Sei umane insoddisfazioni piuttosto comuni – l’impopolarità, la mancanza di beni materiali, il senso di frustrazione, quello di inadeguatezza, le pene amorose, la fatica di vivere – vengono analizzate e neutralizzate attraverso il pensiero di sei filosofi.
Così:
- il fatto di non sentirsi compresi è esaminato attraverso la somma coerenza di Socrate (il filosofo greco che interrogava e s’interrogava su ogni cosa, non fermandosi nemmeno di fronte alle accuse degli ateniesi di traviare, in questo modo, le future generazioni): la giustezza di un’idea, di un comportamento non è una questione che può essere valutata o apprezzata da un punto di vista numerico, e perciò la pretesa di una maggioranza non sarà mai una garanzia;
- il possesso di oggetti (magari lussuosi) non aiuta alcun progetto di felicità, come insegna Epicuro: la sua ricerca convinta del piacere, contrariamente a quanto si ricorda, non si appagava nella ricerca di beni puramente materiali;
- il mondo non si oppone ai nostri desideri per farci dispetto: le frustrazioni sono parte della realtà che l’uomo deve affrontare e a cui deve reagire, senza esasperarle. Seneca si scontrò con la realtà in tutta la sua vita, e perfino nella morte (quando l’imperatore Nerone, di cui era stato amato precettore, gli ordinò il suicidio, ritenendolo coinvolto in una congiura ai suoi danni). Non ha senso l’ira (che il filosofo ritiene generata da immotivate aspettative), né la paura di traumi o l’ansia; non ha alcun fondamento la sensazione di essere presi in giro, né la credenza che le cose debbano andare, a questo mondo, secondo una suprema giustizia;
- se la vita è accompagnata da un senso di inadeguatezza, è perché non si è compresa la nostra intima essenza. Montaigne ha i mezzi per smontare ogni dannosa convinzione di inadeguatezza fisica (e sessuale), di inadeguatezza culturale, di inadeguatezza intellettuale;
- probabile che nessuna insoddisfazione possa superare, per intensità, le pene d’amore. A meno che, ci dice Schopenhauer, non si sia disposti ad adottare un atteggiamento più clemente nei confronti di questo dolore, a capire che in esso c’è una “normalità”: bisogna comprendere, in altre parole, che l’amore ha basi biologiche molto più che romantiche, e la domanda “perché lei/lui?” si spiega molto di più con la voglia di vivere e perpetuarsi che non con la ricerca del piacere intellettuale e fisico;
- troppo difficile vivere? Accontentati allora di gioire e soffrire in tono minore. Troppo difficile accontentarsi? Vai dunque incontro al tuo destino di uomo superiore, con la consapevolezza che il massimo piacere e la massima sofferenza sono inestricabilmente legati, che solo dalla fatica e dai fallimenti può nascere la felicità. Nietschze, disprezzando chi intenderebbe “aggirare” le difficoltà legate alla vita, ricorda che l’aria migliore si respira alla fine delle grandi salite: “Non tutto ciò che ci fa sentire meglio è realmente un bene per noi. Non tutto ciò che ci fa soffrire deve per forza essere un male”.
Di tutte le possibili consolazioni, di certo la meno consolante. Come a Nietschze si addice.

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filosofia senza resistere alla tentazione di abbandonarla a mezzo...
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Libri per ragazzi
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    05 Ottobre, 2019
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Contro ogni razzismo

“Noi guardiamo al Gran Padre. E nessuno di noi lascerebbe morire il fratello di fame, quando avesse una sola radice da poter dividere con lui. Nessuno lo scaccerebbe. Se c’è un posto, uno solo, libero, il fratello chiama il fratello. L’uomo bianco non fa più così. Egli ha perso la sua anima. Al suo posto ha messo le pietre che luccicano ed i fucili che uccidono. E con le pietre paga i suoi fratelli per farne degli schiavi e con i fucili uccide coloro che non vogliono farsi pagare. L’uomo bianco dovrebbe andare da noi e noi andare da loro. Solo così, forse, potremmo migliorarci entrambi.”

La presunta “logica” del razzismo, della xenofobia, finisce presto: finisce dove, per disprezzare una razza, devi appartenere tu stesso ad una razza. E dunque non sei immune, nessuno è immune: lo stesso motivo che oggi ti porta ad essere oppressore, domani potrebbe vederti oppresso. E se ciò non accade non è per la superiorità di una razza su un’altra (concetto che dopo secoli, tragedie, genocidi, è ancora assolutamente indimostrato), ma solo per la contingenza dell’avere dalla tua parte la capacità di imporre la forza bruta. Ciò che domani potrebbe cambiare.

Orzowei ha la pelle bianca. E’ bantù, è boscimano, ed è olandese delle colonie. Dunque non è bantù, né boscimano, né olandese delle colonie.
Orzowei è stato trovato, neonato, dai bantù, ed è stato allevato dalla vecchia Amebais. Ha aspirato a dimostrare di essere un degno guerriero, si è sottoposto alla grande prova, e l’ha superata. Ma, proprio dopo che questo è accaduto, si è accorto di come il rifiuto degli altri giovani bantù sia insuperabile.
Orzowei, in fin di vita, è stato salvato da Pao, il piccolo boscimano dal grande cuore e dalla sapienza regale. Da lui Orzowei ha imparato a “sentire” la foresta, ad esserne parte, a migliorare la sua capacità di cacciare, di guerreggiare, di dosare il coraggio, la prudenza, la forza. Orzowei si è sentito boscimano tra i boscimani. Ma la considerazione di Orzowei per Pao l’ha infine indotto ad ascoltare l’insegnamento più grande di Pao: guardare le cose come sono, capire realmente chi si è. E Orzowei è un uomo bianco.
Orzowei è accolto dal biondo Paul, “Fior di Granturco”. E, se nemmeno i boeri lo amano, tuttavia lo rispettano, perché rispettano il volere di Paul. Tocca a Orzowei capire e farsi capire.

Orzowei è il neonato abbandonato nella foresta dai genitori morenti.
E’ il ragazzo combattuto tra tre razze, dalle quali è insieme attratto e respinto.
E’ il guerriero che diventa uomo quando il giudizio altrui, ai suoi occhi, perde rilevanza. E questo accadrà al drammatico crocevia della storia, al momento in cui la diverse razze – per sete di territorio e di potere – arriveranno allo scontro.

Orzowei è la storia di una crescita.
E la dimostrazione che, se sei razzista, non sei cresciuto… non sei mai cresciuto.

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Politica e attualità
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    23 Mag, 2019
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c'era un paese che aveva bisogno di eroi. c'è anco

“Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale.”

Nel 1991, quando Giovanni Falcone scrive questo libro in collaborazione con la giornalista francese Marcelle Padovani, il suo nome è ben conosciuto agli addetti ai lavori, ma non abbastanza presso la società civile (perlomeno, non come lo sarà dopo i tragici fatti del 1992).
Eppure il giudice Falcone all’epoca è già un “gigante” della lotta alla mafia:
- ha istruito – insieme ai colleghi del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto – il maxi-processo del 1986 contro Cosa nostra,
- ha dato impulso al meccanismo che – permettendo la rotazione tra le varie sezioni della Cassazione – ha impedito allo stesso processo di “fermarsi” contro la sentenza assolutoria di qualche infedele servitore dello Stato (ce ne sono nella magistratura come in tutti gli altri settori pubblici),
- ha ottenuto che le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta costituiscano la base per l’indubitabile affermazione dell’esistenza della mafia e per la condanna all’ergastolo dei suoi più “illustri” capi.

“Il maggior risultato raggiunto dalle indagini condotte a Palermo negli ultimi dieci anni consiste proprio in questo: avere privato la mafia della sua aura di impunità e di invincibilità.”

Tutto l’impegno, tutto il lavoro di Giovanni Falcone si condensano in qualcosa che molti altri suoi colleghi non hanno raggiunto (anche per la sua intrinseca difficoltà): la conoscenza e l’esatta percezione del fenomeno mafioso.
“Cose di Cosa nostra” è ancora oggi – dopo più di venticinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino, dopo numerosissime pubblicazioni sulla mafia – una miniera: è illuminante scoprire come, dietro frasi e considerazioni molto semplici, si celi una conoscenza così precisa del fenomeno e del “tipo” mafioso; una conoscenza che continua a valere per le mafie di oggi, nonostante lo sguardo si sposti verso i cosiddetti “colletti bianchi” (ma è poi vero che le dinamiche dell’economia e del potere mafioso non contemplavano questa categoria già ai tempi del giudice Falcone?).

“E’ la mafia a imporre le sue condizioni ai politici, e non viceversa. Essa infatti non prova, per definizione, alcuna sensibilità per un tipo di attività, quella politica, che è finalizzata alla cura di interessi generali. Ciò che importa a Cosa Nostra è la propria sopravvivenza e niente altro. Essa non ha mai pensato di prendere o di gestire il potere. Non è il suo mestiere.”

La profonda conoscenza che Giovanni Falcone aveva del fenomeno mafioso è stata alla base del successo del suo lavoro così come della sua fine. Alla conferma in Cassazione dell’esito del maxiprocesso (fine 1991), Totò Riina ha incluso nella sua lista di deliranti obiettivi due tipologie di persone: quelli che riteneva “traditori” (come Salvo Lima, ucciso nel marzo 1992), e i “nemici” (come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino).
E’ una certezza, processualmente acclarata, così come lo è il fatto che il giudice Falcone – in virtù della sua capacità di leggere il fenomeno – ne fosse pienamente consapevole.

“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

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Fantascienza
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    15 Mag, 2019
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Se questo è l'uomo

“Rick rimase a fissare per parecchio tempo la civetta che sonnecchiava sul trespolo. Gli vennero in mente mille pensieri, pensieri sulla guerra, sui giorni in cui le civette erano come piovute dal cielo; si ricordò di quando durante la sua infanzia si era scoperto che una specie dopo l’altra era scomparsa e di come i giornali ne parlassero ogni giorno – le volpi un mattino, i tassi il seguente, finché la gente aveva smesso di leggere questi perpetui annunci mortuari degli animali.”

In un mondo dove la sete della terra è placata da continue piogge di polveri radioattive, gli animali sono stati i primi ad “andarsene”, una specie dopo l’altra.
Quelli che rimangono sono quasi tutte copie, più o meno credibili, più o meno in grado di simulare il comportamento dell’animale corrispondente: copie commissionate dai proprietari e pagate secondo il prezzario del listino Sydney. Perché un animale elettrico in casa è lo status-symbol per eccellenza. Ma anche l’illusione di tornare a tempi andati, in cui la vita non era ancora ridotta a mera sopravvivenza, temperata dai modulatori d’umore Penfield e dal Mercerianesimo, il credo religioso di molti.
I lavori più duri sono stati delegati ad androidi, i replicanti creati dalle industrie Rosen e perfezionati sino al modello Nexus 6, praticamente indistinguibile da un normale essere umano se non per l’assenza di empatia. Per questo, la loro circolazione è permessa soltanto sulle colonie. I “cacciatori di taglie” hanno l’incarico di procedere al “ritiro” (un eufemismo che sta per eliminazione) nel momento in cui un androide viola la regola.
Rick Deckard entra in gioco quando un gruppo di otto replicanti scappa sulla Terra. Tre sono stati già ritirati dal collega Dave Holden, ma uno dei restanti cinque lo ha ridotto in condizioni critiche. Del resto, che altro modo hanno gli umanoidi di rivendicare il proprio diritto ad una “vita”? E, d’altra parte, che scelta ha Deckard se vuole mantenere il menage familiare con sua moglie Iran (e magari sostituire la loro pecora elettrica con una vera capra nubiana)?
La caccia ai replicanti ha inizio.

“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è scritto da Philip K. Dick nel 1968, e – pur nutrendosi dell’inconfondibile visionarietà dell’autore – manifesta un rigore e una conseguenzialità di eventi non sempre presente nei suoi romanzi. Una “robustezza” necessaria alle tematiche trattate, che viene percepita in pieno dal regista statunitense Ridley Scott. Quando, nel 1982, egli trasforma il romanzo in film e porta sullo schermo “Blade runner”, non immagina che la visione sua e di Dick diverrà quella maggiormente rappresentativa del futuro dell’umanità nell’immaginario collettivo occidentale.
Sfrondato dagli aspetti religiosi e da eccessivi riferimenti all’ “androidismo” degli animali, recupera forza il tema della sopravvivenza umana, del rispetto della vita in ogni sua forma, esplodendo, oltre ogni esplicita intenzione di Dick, nella volontà di ribellione a Dio e alle sue leggi (impersonata dall’androide Roy Batty). La resa dei conti dell’uomo con se stesso, con la propria natura, si compie sotto la pioggia sporca che bagna il tetto di un anonimo edificio, sublimandosi nelle celeberrime “lacrime nella pioggia” e nel volo improvviso di una colomba (vera o elettrica?) verso il cielo. Diverso dal finale descritto nel libro, che per il resto è ritenuto più distante dal film di quanto lo sia realmente.
Ergendosi sulle spalle di un “talento divergente” come quello di Philip K. Dick (“un visionario tra i ciarlatani” lo definiva il collega Stanislaw Lem), Ridley Scott riesce in qualcosa di pressoché irraggiungibile: fondere filosofia, disperazione e poesia in un’unica visione, materializzando uno dei pochi capolavori universali sulla condizione umana. Qualcosa che è, insieme, bellezza e monito.

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i capolavori di Dick (Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, etc.) e a chi non smette mai di guardare e riguardare Blade Runner...
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    05 Mag, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Sotto la torre di Babele

Il signor Baldini cerca affannosamente, e invano, di uscire dalla sua personale prigione: il morbo di Alzheimer. Ha girato il mondo, ha imparato lingue, ha collezionato oggetti di tutti i tipi e moltissimi libri. Ma ora, nell’istituto dove è accudito, tutto sta implodendo: un corpo vecchio che diventa un pozzo senza un fondo, un buco nero.
Giovanna Baldini cerca la chiave nascosta dietro le parole sconnesse che il fratello continua a pronunciare: espressioni sensate, a volte in lingue straniere, ma che sembrano incastrate male. Lei pensa vengano da un libro, e le piacerebbe sapere quale, per poterlo leggere un’ultima volta al fratello.
Vince Corso, partendo dalle parole del vecchio, cerca quel libro. E’ un biblioterapeuta: ascolta i patemi e i bisogni degli altri, per poi consigliare una data lettura come cura. Accoglie i suoi clienti come farebbe Philip Marlowe, o forse Dylan Dog… con simile disillusione, e simile incredulità quando si accorge che, in fondo, quel mestiere funziona.
Dunque, al centro di “Ogni coincidenza ha un’anima” c’è la ricerca: ogni personaggio è per qualche motivo un cercatore. Ma non è detto che cerchino tutti quel che dichiarano di voler trovare.

“ (…) io ho spesso avuto l’impressione che, insieme a me, fossero cambiati pure i personaggi di cui rileggevo la storia, e persino i segni sulla carta, o almeno il loro senso. È come se, nel tempo in cui un libro resta chiuso, la vita continui ad accadere anche al suo interno, e lo faccia ancora più velocemente appena lo riapriamo. Come quando entra la luce in un sarcofago, e tutto rischia di incenerirsi al contatto con l’ossigeno. Ho fantasticato a lungo che, per quella misteriosa relazione che lega ogni libro a ciascun lettore, i personaggi invecchiano con noi e, a seconda della nostra età, reagiscano in maniera differente alle avventure che sono costretti a rivivere.”

Al centro di “Ogni coincidenza ha un’anima”, attraverso l’invenzione di un mestiere, Fabio Stassi mette il linguaggio, ed il contenitore della sua forma più alta, il libro. Fanno capolino Mann, Bufalino, John Fante, Svevo, Bukowski, Kafka e le sue “Metamorfosi”, Soriano, Tolstoj, Borges e altri. Attraverso di loro si distende nel racconto il tema dell’importanza della letteratura, che forse è davvero una cura, una sorta di vaccino contro virus impensabili, persino sconosciuti (non a caso, alla fine del libro l’autore mette una bibliografia di tutti i libri menzionati nel volume – cosa consueta per la saggistica, meno per la narrativa –, e non sono pochi).
“Virus” tristemente conosciuto e attuale è quello del razzismo, che Stassi inserisce nel libro come una sorta di pista secondaria: Vince Corso, nel suo girovagare per Roma in cerca di soluzioni al dilemma Baldini, assiste a varie manifestazioni di intolleranza, finché – nella sua casa/studio di via Merulana – non riceve egli stesso una visita sgradita, condita di “avvertimenti” sulle controindicazioni di una eccessiva disponibilità all’accoglienza nei confronti degli stranieri. E’ una pista che nel corpo del romanzo non convince molto: trattare un tema così complesso sullo sfondo di una vicenda diversa non sarebbe cosa semplice per qualsiasi scrittore.
“Ogni coincidenza ha un’anima” resta in ogni caso una storia piacevolmente impegnativa.

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Romanzi
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    21 Ottobre, 2018
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Le piccole mani

“Dove sono andato, Noemi?” - una vocetta nei sogni - “Vuoi veramente saperlo? Preparati che sto per dirti una cosa bella: è successo una mattina, sentivo le ali forti forti, così ho provato ad alzarmi in volo. E ho volato, io volavo! E sono volato su, più su, nel cielo dove riuscivo a vedere il giardino, il tetto, la strada, le cave. E dall’alto, io vi guardo sempre dall’alto Noemi, continuo a guardarvi, non dimenticarlo, quella mattina io vedevo voi, piccoli, che mi cercavate.”

Noemi, 9 anni, mani troppo piccole per stringerne altre ancor più piccole, mentre la calca aumenta, mentre mamma è più avanti, impegnata ad inseguire fotografi cui esibire il suo bambino. E’ così che Andrea perde la stretta della piccola sorella. O forse è Noemi a non essere capace di tenerlo a sé.
Passano i giorni, tra le ricerche della polizia, le domande dei giornalisti, i falsi avvistamenti, i gesti di solidarietà, le chiacchiere malevole, l’affievolirsi dell’interesse… Passano gli anni di Noemi, tra la fragilità di sua madre, l’adolescenza, la voglia di fuggire in città, la morte di suo padre, infarto fulminante, l’università, l’incontro con Davide.
Noemi è matura. Determinata a non subire alcun senso di colpa. E’ forte, a suo modo, Noemi. E così non dimentica, non rimuove: non si assopisce, in lei, il desiderio di sapere, e quello – diverso – di comprendere, attraverso i ricordi della bambina e le capacità della donna.
Comprendere, prima di ogni cosa, chi sono – realmente e senza finzioni – i familiari attorno ai quali si è dipanato l’infelice evento, e quel che è venuto dopo…

Ci sono romanzi nei quali il come (raccontare una vicenda) rappresenta, per l’autore, una sfida più affascinante rispetto al cosa, alla vicenda stessa.
“Matrigna”, di Teresa Ciabatti, gira secondo il moto di gravitazione di un pianeta sul proprio asse: in modo regolare, progressivo, immodificabile, alcune zone del racconto vengono alla luce, mentre altre tornano in ombra. Zone che corrispondono ad altrettanti personaggi. Sono, fino agli ultimi capitoli del libro, quasi esclusivamente personaggi femminili – Noemi, sua madre, sua zia –, mentre quelli maschili restano in disparte, esistenti più che altro nei ricordi (tristi), nelle preghiere, nelle invocazioni, nei rimpianti. Se ne distaccano Davide e Luca, figure in certo modo parallele: punti di riferimento, il primo per Noemi, il secondo per sua madre. Ma la ragazza, grata a Davide, non può esserlo a Luca, del quale comincia a diffidare: troppo giovane (rispetto alla madre), troppo sfuggente… E’ da qui, da qualcosa che succede molto tempo dopo la scomparsa del fratello, che imprevedibilmente nascono i presupposti per “risolvere” il mistero.
Non il racconto di un evento-limite dunque, ma qualcosa di più complesso: lo sguardo soggettivo su un evento-limite e sul modo in cui le vite scorrono attorno a (ed in memoria di) esso.

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Racconti
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    26 Settembre, 2018
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Tracce di romanzi minimi

"Hanno scoperto una cosa sull’amore. Una cosa scientifica. Hanno fatto degli studi per capire che cosa tiene unite le coppie. Sapete che cos’è? Non è l’andare d’accordo. Non sono i soldi, o i figli, o una visione condivisa della vita. E’ avere cura uno dell’altro. Le piccole gentilezze reciproche. Passarsi la marmellata a colazione. Oppure, durante un viaggio a New York, tenersi per mano un istante nell’ascensore della metropolitana. Chiedere: ‘Com’è andata la giornata?’ facendo finta che ti interessi. E’ questa la roba che funziona.”

Questa è una, solo una cosa sull’amore; nell’intero libro, l’unico riferimento espresso al titolo.
In realtà, la cosa sull’amore di cui parla Eugenides nei suoi dieci racconti sono quelle tante cose su cui ciascuno riversa se stesso, l’umana necessità di “sentire” amore (nel darlo e nel riceverlo).
Per Charlie quella cosa sull’amore è restare nascosto in una siepe a guardare attraverso la finestra di casa, immobile per non farsi scoprire mentre viola la distanza di cinquanta metri dalla sua famiglia stabilita dall’ordinanza restrittiva di un giudice (“Trova il cattivo”).
Per Mitchell è il paradiso che, nel pieno della notte del Bengala, riesce ad assaporare nel ritmo della terra, nel sale che si succhia dalla pelle, nel sangue che sente pulsare alla luce della luna, nonostante la malattia contratta in quei posti lontani da casa, nonostante la consapevolezza che le persone che lo amano, dopo il suo prosciugarsi, non capiranno (“Posta aerea”).
Per Tomasina, alle soglie dei quarant’anni (passati a rendere inattaccabile la sua posizione di manager aziendale, e quindi il suo tenore di vita), quella cosa sull’amore è la maternità – ora è l’ultima occasione, oltre sarà troppo tardi – da ottenere attraverso la selezione del miglior seme dei propri conoscenti (“Siringa per ungere la carne”).
Per Kendall, è la capacità che avevano i suoi genitori di rendere la casa ordinata e accogliente, ciò che lui, in condizioni di relativa povertà, non riesce a garantire ai propri figli, e che lo convince ad organizzare una truffa impossibile ai danni del suo datore di lavoro ("Great experiment").

C’è una letteratura americana contemporanea che sa guardare i propri personaggi nella quotidianità, sa descriverli intenti in quelle cose nelle quali la vita ha (o dovrebbe avere) davvero un senso. Jeffrey Eugenides, nato a Detroit da famiglia di origini greche, fa parte di questa tendenza a pieno titolo: i suoi racconti sono curati, eterogenei, venati di umanità. Sembrano tracce di romanzi che intendono ripiegarsi discretamente su se stessi, lasciando al lettore la possibilità di immaginare una storia che prosegua oltre la sua trama. Merito di personaggi ottimamente descritti e caratterizzati (anche in quei racconti che appaiono un po’ meno riusciti), cui non mancano sprazzi di intensa ironia, o di disillusione.
In definitiva, uno stile ed una sostanza da scrittore vero, capace di generare nei lettori la sana curiosità di seguire le storie, e consumarne le pagine.

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Romanzi
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    17 Settembre, 2018
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La varia, ordinaria umanità

Ventitré ritratti di altrettante persone comuni, che diventano individui irripetibili in virtù dei loro aspetti irrilevanti.
Credenze, convinzioni: “Pensa, con ostinazione, che il mondo vada avanti grazie a un tacito patto tra gli esseri umani consistente nel prendersi in giro reciprocamente, secondo le diverse professionalità. Dunque, ha concluso che la professionalità altro non è che un arte del raggiro”.
Ostentazioni singolari: “Non è mai entrata in menopausa, ma non l’ha mai detto a nessuno, per non apparire una cosina strana. Quando il suo ginecologo le ha chiesto: 'Secondo lei perché non è mai entrata in menopausa?' lei ha risposto soave: 'Perché non mi interessava' ”.
Abitudini, passioni: “Il mondo, d’altronde, lo conosce perlopiù attraverso le testimonianze dei tassisti, dal momento che non guarda la televisione, non legge i giornali, detesta i libri, non parla con nessuno se non di partite a carte, appartamenti disponibili per giocare a carte, errori imperdonabili dei giocatori, sigarette, posaceneri colmi che vanno svuotati con urgenza, marche di whisky e tradimenti estemporanei compiuti dagli amici, cioè i giocatori d’azzardo”.
Tic e manie, fobie: “Preferisce la piscina. Anche se l’affronta con una certa tensione perché ha creduto alle parole di un bambino che gli ha riferito che in questa piscina, ogni tanto, si trovano le meduse”.
Pensieri distorti, inadeguatezze: “L’altro ieri ha visto, vicino a un tombino, due topi che amoreggiavano. Non ha paura dei topi, dice, ma della vita borghese”.
Aspetti che possono mutare persino in caratteristiche strutturali: “Un ultimo aspetto irrilevante, ma non secondario: non morirà mai”.
Eccoli, gli aspetti irrilevanti: combustibile di un microcosmo vario e infinitamente popolato, al punto che tutti potrebbero trovarvi posto.

Si sa che Paolo Sorrentino (regista e premio Oscar per il film “La grande bellezza”) non disdegna incursioni nel mondo della narrativa, dove trasferisce il suo personale modo di raccontare l’essere umano. Il libro in commento si pone in questo solco. Ma il risultato non è omogeneo: sulla metà dei soggetti presentati pesa un approccio umoristico che li riduce a caricature, personaggi fantozziani, mal collocati tra ritratti di spessore.
Di questi ultimi, tre sono assolutamente imperdibili:
Elsina Marone, che ha fatto dell’impercettibile movimento d’anca il suo personale strumento di scalata sociale: da ragazza semplice del ferrarese a grande imprenditrice nel settore delle birre, sino alla cittadinanza del Principato di Monaco e all’amicizia, lei dice, con il Principe Ranieri. La vecchiaia impietosa non le impedisce di catturare, con sapienza accumulata negli anni, l’interesse di un giovane pilota di Formula Uno in convalescenza dopo un incidente;
Valerio Affabile, camorrista di manovalanza, specializzato nello strangolare a mani nude gli avversari del proprio clan. Ora che è condannato all’ergastolo, compone struggenti pezzi di musica napoletana, che però suonano soltanto nella sua testa: non ritiene dignitoso, per un affiliato di camorra, mettersi a cantare in cella (che tra l’altro divide giorno e notte con un brigatista pateticamente irriducibile). E’ sua, probabilmente, la battuta più bella del libro: quando un giovane carcerato osa domandargli come si fa a strangolare una persona a mani nude, Valerio Affabile lo guarda per qualche secondo, per poi rispondere “Con la perseveranza”;
infine Peppino Valletta, musicista e cantante di piano bar, che trascina le proprie estati in ambienti che non gli interessano; perché, alla fin fine, vede la sua mediocrità intonarsi benissimo con quella delle tristi figure che popolano i locali notturni. Il riscatto è nelle poche ore che condivide con suo figlio Antonio, disabile psichico, frutto di un occasionale rapporto consumato al termine di una notte di lavoro. In fondo, Peppino Valletta, nel suo ritratto struggente e malinconico, ha qualcosa di Tony Pisapia (il cantante “confidenziale” interpretato da Toni Servillo nel primo film di Sorrentino, “L’uomo in più”) e di tutte le analoghe figure partorite dal regista napoletano… come di quelle che l’autore potrebbe ancora partorire, dato che la sua vena ispiratrice – quando si tratta di delineare crooner dal futuro problematico e irrilevanti emuli di Fred Bongusto che lottano per la quotidiana sopravvivenza – sembra inesauribile.

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"Hanno tutti ragione", dello stesso autore, ma soprattutto si è divertito con0 i primi libri di Paolo Villaggio sul ragioniere Ugo Fantozzi.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    11 Settembre, 2018
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Il complotto è servito!

Con “La regina dei castelli di carta”, la trilogia di Millennium giunge al suo terzo ed ultimo capitolo.
Se “Uomini che odiano le donne” era incentrato sulle vicende del giornalista Mikael Blomkvist e “La ragazza che giocava con il fuoco” su quelle dell’efebica e “disagiata” Lisbeth Salander, il terzo episodio si presenta molto più corale: il personaggio attorno a cui ruota è sempre Lisbeth – costretta in un letto d’ospedale (dopo il “regolamento di conti” familiare che ha chiuso il volume precedente) e ancora in guerra con la metà delle istituzioni svedesi – ma la storia è incentrata sul gruppo, estremamente eterogeneo, di persone che tentano di scongiurare la sua segregazione in un istituto di cure psichiatriche.
Al centro della vicenda c’è la preparazione del processo a porte chiuse nel quale stabilire la sanità mentale della ragazza, e il suo pirotecnico svolgimento. Ma è il contesto storico-politico a giocare un ruolo ben preciso: gli eventi vanno a toccare gli anni della “guerra fredda” (con una penisola scandinava geograficamente sin troppo vicina all’Unione Sovietica), il ruolo e i metodi dei servizi segreti e, ancora una volta, la ragion di Stato.

Arrivati all’ultima parte della storia, è forse utile soffermarsi sul suo significato complessivo.
L’argomento forte della trilogia di Stieg Larsson è la violenza sulle donne, nei suoi aspetti sia psicologici che fisici (sino agli abusi sessuali più crudi e umilianti). Come lo stesso autore si prende la briga di dimostrare – soprattutto nel primo libro – le statistiche ci dicono che nella civilissima Svezia (al pari di tante altre nazioni del Vecchio Continente) episodi di violenza a danno del genere femminile si consumano con una certa frequenza.
Da un punto di vista letterario, la carta vincente di Larsson è l’inserimento di tale argomento all’interno di una trama precisa e ben costruita: al rigore del primo libro (che tende più verso il giallo), fa seguito nel secondo una decisa virata verso l’azione, sino al suggello del terzo volume, che apparecchia gli ingredienti classici della “teoria del complotto”. Il tutto con acume e una straordinaria capacità di appassionare senza stancare (per quanto riguarda l’ultimo volume, siamo a circa 850 pagine!)
E al termine Lisbeth Salander, minuta ma non indifesa, asociale nella realtà quanto protagonista nella rete virtuale, apparentemente anaffettiva ma in verità appassionata bisessuale, si ritaglia di prepotenza (in ogni senso) un posto nell’immaginario letterario della nostra epoca.
Tre libri da leggere (con una sicura preferenza per il primo della serie).

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gli altri due capitoli della trilogia: "Uomini che odiano le donne" e "La ragazza che giocava con il fuoco".
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    04 Settembre, 2018
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La mente quando crolla

“Stella ammise di non aver mai provato in tutta la sua vita un’attrazione di una tale intensità fisica ed emotiva per qualcuno; era una cosa che conosceva solo di riflesso, per averla percepita negli uomini che la provavano per lei.”

Stella è l’incantevole e volitiva moglie dello psichiatra Max Raphael. Nell’estate del 1959, insieme al figlioletto Charlie, i coniugi Raphael giungono in un ospedale psichiatrico inglese dove Max entra come vicedirettore. La nomina gli viene accordata dal direttore Jack Straffen, nonostante la blanda opposizione del collega Peter, l’anziano psichiatra da anni in quell’istituto.
L’ambiente medico è gradevole, e idoneo alle legittime aspirazioni di carriera di Max. Mentre il piccolo Charlie si diverte a scorrazzare negli spazi esterni alla residenza dei Raphael, Stella sembra a suo agio, giorno dopo giorno, nel ruolo di moglie del promettente dottore.
L’imprevisto è in agguato, e si materializza nella presenza di Edgar Stark, l’aitante operaio chiamato a dare una sistemata alla serra fatiscente che fa parte della residenza dei Raphael. In realtà Edgar è uno scultore, dotato perciò di una certa abilità manuale, ma anche un paziente dell’istituto: vi è stato rinchiuso dopo aver decapitato la moglie, ossessionato dalla presunta “scioltezza” che le imputava nel rapporto con altri uomini.
La prestanza di Edgar Stark, la calcolata disinvoltura, la sua fisicità risvegliano presto in Stella Raphael una certa frenesia ed un lato nascosto: quello “animale”. E’ l’inizio di un’inarrestabile discesa, destinata a trascinare con sé anche altri…

“Follia” è un libro confezionato per suscitare interesse: una storia “borderline” d’amore e di sesso, lo sguardo psicologico (e psichiatrico) attraverso cui narrarla, uno stile scorrevole. Non a caso, a molti è piaciuto, consacrando il “marchio” del suo autore (il libro “alla McGrath”).
In realtà ha dei difetti.
La scelta di fondo è di raccontare la storia in prima persona, attraverso lo psichiatra anziano Peter, amico della famiglia Raphael e, in particolare, molto attento a valutare ciò che Stella rappresenta come tipo psicologico. In questo modo, tutta la prima parte del libro – quella che presiede al rapporto intenso e segreto tra la donna ed Edgar Stark entro le mura dell’istituto – si veste smodatamente di psicoanalisi e non ha quella forza narrativa che proprio all’inizio la storia meriterebbe. Paradossalmente, la scelta di pura narrazione è più evidente in altre parti del volume, quando Peter perde le tracce di Stella, e la parte centrale si fa seguire meglio.
Si arriva così ad un finale nel quale McGrath inserisce vari colpi di scena: alcuni sono mirabilmente piazzati, ma uno di essi, che riguarda l’anziano narratore, risulta piuttosto sorprendente (per non dire difficile da digerire). La vera perdita di efficacia del racconto, però, non è legata tanto alla credibilità dei comportamenti psicologici adottati – in fondo si tratta di un romanzo, anche se lo stile utilizzato tende a farlo dimenticare – quanto al fatto che l’io narrante (sempre Peter) racconti particolari delle vicende di Stella che è inverosimile egli conosca. Nell’ultima parte del libro, infatti, l’atteggiamento della donna nei suoi confronti è di dissimulazione, non di comunicazione.
Quando si arriva alle ultime pagine – dove McGrath si divertirà a far capire al lettore il perché del titolo “Follia” – la piena soddisfazione di chi legge è già compromessa.

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Racconti
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    29 Agosto, 2018
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Troppo per un solo uomo... pur se scrittore.

Leggo Borges e mi viene da sorridere, memore di quella strana teoria secondo cui non sarebbe mai esistito alcun Jorge Luis Borges: una conoscenza e uno stile così erudito mal si concilierebbero con una persona sola, e dietro il nome si nasconderebbe un “collettivo” che ha inteso dare sfoggio di alta letteratura.

“Non conviene dare impulso al genere umano. C’è chi lo considera un organo della divinità, per prendere coscienza dell’universo, ma nessuno sa con certezza se tale divinità esista.”

Sì… viene da sorridere.
Due caratteri peculiari cuciono la maglia su cui poggiano i racconti di Borges, specie nei suoi ultimi libri: il NARRARE in se stesso, ed il MITO… Due caratteri spesso alternativi, ma che, a volte, in quei racconti si intrecciano.

Il MITO (intrecciato al NARRARE) è ne “Il Parlamento”, nell’idea di Don Alejandro Glencoe di creare un parlamento del mondo, per rappresentare tutti gli uomini di tutte le nazioni. E questi uomini decidono che un consesso del genere deve disporre di tutti i libri che possano servire… sino all’epilogo: “Il Parlamento del Mondo è cominciato nel primo istante del mondo e continuerà quando non saremo che polvere”…
il MITO è ne “Il disco”, dove un taglialegna incontra un re, che stringe tra le mani il suo stesso titolo, di cui l’altro intuisce solo un bagliore… E quel lampo è sufficiente, al taglialegna, per desiderare… “E’ il disco di Odino. Ha un solo lato. Sulla terra non c’è nient’altro che abbia un solo lato. Finché l’ho in mano sarò il re”…
il MITO è ne “Lo specchio e la maschera”, dove un altro re, il Grande Re, chiede al poeta di comporre quel poema che ne canti le gesta. E negli anni arriva il primo, e il giudizio del sovrano committente: “Se tutta la letteratura di Irlanda andasse perduta, con la tua ode classica si potrebbe ricostruirla senza una lacuna. Trenta scribi la copieranno dodici volte”. Poi il secondo poema: “Questo supera in tutto il precedente e lo annienta. Incanta, sorprende e abbaglia. Non lo meritano gli ignoranti, ma i dotti, i pochi. Un cofano d’avorio custodirà l’unico esemplare”. Infine, mentre ogni cosa invecchia, arriva il terzo: “Il poeta disse il poema. Era di un solo verso. Senza azzardarsi a ripeterlo a voce alta, il poeta e il suo Re l’assaporarono, come fosse una preghiera segreta o una bestemmia. Il Re non era meno meravigliato né meno scosso dell’altro. I due si guardarono, pallidissimi”…

Il NARRARE in se stesso è nei racconti che il lettore sa degni di essere tali... altrimenti perché lo stesso Borges annuncerebbe, sin dall’incipit, di tirarli fuori dal passato e predisporsi a raccontarli?
Il NARRARE in se stesso è in quell’unico giorno con “Ulrica” (“Per un uomo celibe già avanti negli anni, l’offerta dell’amore è un dono che ormai non ci si aspetta”), è nel mistero de “Il libro di sabbia” (“Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un libro infinito fosse altrettanto infinita e soffocasse il pianeta nel fumo”), è nell’incontro con “L’altro” (“Il mio sogno dura ormai da settant’anni. In fin dei conti, al risveglio, non c’è nessuno che non incontri se stesso. E’ quello che ci sta accadendo ora, solo che siamo in due. Non vuoi sapere qualcosa del mio passato, e cioè del futuro che ti attende?”)

In una raccolta di diciassette racconti, pochi fanno eccezione: “There are more things”, dove un edificio sconosciuto genera suggestioni angoscianti che prendono da Lovecraft; o “La corruzione”, dove due professori universitari – l’uno affermato, l’altro all’inizio di una promettente carriera – si scontrano, giocandosi la reputazione su un sottile dilemma morale. Poche eccezioni alla tentazione di cesellare ogni singola storia attraverso la leggenda e la magia stessa del narrare...

Raccontando il mito, raccontando il racconto, forse Borges ha inteso nascondervisi, e forse sparire… e fa sorridere, per l’appunto, pensare che qualcuno – con l’intento magari di un omaggio – abbia fatto circolare la teoria secondo cui nessun José Luis Borges sia mai esistito… Magari non ancora, proprio come qualche sperduto oggetto di qualche suo racconto...

“Nella mia scrivania di Calle México conservo la tela che qualcuno dipingerà, fra migliaia di anni, con materiali oggi dispersi sul pianeta.”

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"L'Aleph" e altre raccolte di racconti di Borges.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    23 Agosto, 2018
Top 50 Opinionisti  -  

Bande che odiano le donne

“Uomini che odiano le donne”, il primo volume della trilogia di Millennium, ha ottenuto un enorme successo di pubblico (e vendite). A queste condizioni, ai nostri tempi, il sequel s’impone.
A Stieg Larsson non manca l’intelligenza di puntare con decisione sul personaggio più originale e controverso del primo volume: il ruolo di protagonista passa dunque da Mikael Blomkvist (il giornalista responsabile della rivista Millennium, che ha risolto il mistero della famiglia Vanger) a Lisbeth Salander.
Ogni sfaccettatura di Lisbeth è particolare: l’aspetto è quello di una donna minuta che sembra un’adolescente, praticante del piercing, tatuata, che nel vestire e nel truccarsi tende al dark; la personalità è una miscela di forza e debolezza, di doti superiori e deficienze (dove le prime comunque prevalgono, a partire dal suo essere una hacker insuperabile); i comportamenti sono quelli di un “cane sciolto”, allenata a non rivelare le proprie debolezze, determinata e pronta ad usare la violenza (se occorre, o perché accecata dalla rabbia).
Ciò che manca nel primo volume della saga è il motivo: perché Lisbeth Salander è Lisbeth Salander?… Ciò che manca è la sua storia. E questo è, per l’appunto, “La ragazza che giocava con il fuoco”: la storia (o la gran parte della storia) di Lisbeth Salander, ciò che le è accaduto sin dall’infanzia e che, agli occhi del mondo, l’ha fatta diventare pericolosa, sociopatica, da confinare in uno spazio chiuso e controllato sin dall’età di dodici anni. Un evento drammatico per una ragazzina, che tuttavia, nel progredire del libro, si spiega sempre meglio quando ci si accorge che quella di Lisbeth Salander non è solo una drammatica storia personale, ma il crocevia di un intreccio che coinvolge piani diversi (non ultimo quello che comunemente definiremmo “ragion di Stato”).

Il secondo capitolo della trilogia non sembra avere la stessa efficacia del primo. Larsson aggancia il filo più “redditizio” nell’economia della storia di partenza – quello relativo alla figura di Lisbeth, come detto – collegandolo al fenomeno del traffico della prostituzione (dando così continuità al tema portante del volume precedente, quello della violenza sulle donne, stavolta praticato da bande organizzate). L’effetto è ancora una volta di vibrante e motivata denuncia, accompagnato dallo stile scorrevole già sperimentato in “Uomini che odiano le donne”.
Ma le imprese di Lisbeth, ancor di più che nel primo libro, la fanno sembrare una supereroina, rompendo l’equilibrio della sua personalità così ben costruita in precedenza e rischiando di renderla inverosimile. Nel convulso finale, la ragazza sembra avere riserve infinite…
Anche se è un finale solo sulla carta: mentre “Uomini che odiano le donne” è un libro a sé, “La ragazza che giocava con il fuoco” rimanda già, dalle ultime pagine, a un terzo capitolo che arriverà di lì a poco (“La regina dei castelli di carta”). La cosa può piacere a chi ha la tendenza ad “affezionarsi” a determinati personaggi, ma suona di sicuro poco genuina a quei lettori che nella concatenazione di libri “studiata a tavolino” traggono l’impressione di un’operazione regolata da intenti commerciali prima ancora che letterari.

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"Uomini che odiano le donne" e smania di sapere come prosegue la storia.
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Fantascienza
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    18 Agosto, 2018
Top 50 Opinionisti  -  

Pungiglioni neri fritti

“Le ‘zaibatsu’, le multinazionali che plasmavano il corso della storia umana, avevano trasceso le antiche barriere. Dal punto di vista degli organismi, avevano raggiunto una specie di immortalità. Non si poteva uccidere una zaibatsu assassinando una dozzina di dirigenti che occupavano i posti chiave, ce n’erano altri che aspettavano di salire la scala, di occupare i posti rimasti liberi (...)”

Nel 1984 (anno evocativo per la letteratura fantastica), William Gibson scrive “Neuromante”, libro capostipite della letteratura cyberpunk e suo manifesto.
Protagonista: Case. Ventiquattrenne. Allucinato pirata del software. Ladro di dati punito con l’inoculazione di una microtossina che gli ha danneggiato il sistema nervoso… Condannato alla prigione della carne, lui, un talento delle fughe nell’incorporeo, un virtuoso della navigazione nel cyberspazio. Ora impaurito, frustrato, consumatore di droghe.
“Cowboy da console” lo definisce Armitage, il misterioso personaggio che gli offre un’altra possibilità: gli pagherà i necessari interventi di neurochirurgia purché Case si metta al suo servizio per un lavoro impegnativo. Dopo sarà più o meno libero.
A proteggere Case c’è Molly, una giovane combattente che ha nel fisico atletico e nella resistenza al dolore i suoi punti di forza. Anch’ella assoldata da Armitage.

La visionarietà di Gibson non è in discussione: anticipa di qualche decennio la potenza della rete e le esperienze virtuali, ispirando molte opere successive (“Matrix” su tutte). Evoca innesti corporei e potenziamenti mentali, multinazionali sulfuree e onnipresenti al tempo stesso, dolenti intelligenze artificiali, incubi e sogni che sgocciolano dai chip.
Pesca a sua volta da Philip K. Dick e ne costituisce, per certi versi, una prosecuzione.
Tutto questo, però, senza “offrirsi” al lettore: sin dalle prime battute, “Neuromante” parla un linguaggio proprio, fatto di termini che sembrano specialistici, ma in realtà sono codificati attraverso una chiave interpretativa nota solo a chi li usa. Si può dire che il libro è scritto in un gergo “pseudotecnico”.
Non è l’unica difficoltà: Gibson sceglie di astrarre i suoi personaggi dalla storia, e solo alla fine, quando il lettore ha abbandonato da parecchio l’idea di essere coinvolto in una trama, indica il capo del filo logico da tirare, perché la vicenda si sciolga e assuma una parvenza di senso.

Una lettura non facile, sconsigliatissima a chi non ama il genere. E non è detto che anche chi mastica science fantasy non la abbandoni comunque. A questi sia dato sapere che, al di là di una forma “ostica”, il contenuto non è poi così inconcludente: chi completerà la prima lettura sarà magari spronato ad una seconda, che permetta di riannodare il filo e ripercorrerlo quando in lontananza si vede già la maglia.

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Politica e attualità
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    13 Agosto, 2018
Top 50 Opinionisti  -  

Le relazioni letali

“Storia dell’Italia mafiosa” è un libro che parte da un interrogativo dirompente: si può davvero raccontare la storia politica italiana senza riferirsi alla storia delle mafie? Certo, sinora è stato così (anche per uno come Benedetto Croce). Il problema è se sia corretto.
Siamo abituati a volumi storici o cronachistici che, inquadrando il fenomeno mafioso dall’Unità d’Italia ad oggi, lo raccontano in disparte da ogni altro contesto: sanguinarie guerre di camorra, il feroce periodo corleonese, vicende di ‘ndrangheta più o meno recenti (la strage di Duisburg, l’omicidio Fortugno, etc.). Quando va bene. Altrimenti a raccontare la mafia sono serie tv e sceneggiati che propongono una storia spettacolarizzata di personaggi e contesti, spesso irrealistici, e che comunque non si pongono il problema di indagare sul nucleo del fenomeno mafioso (anche perché non è il loro obiettivo).
Ciò che ci rende assuefatti, tra l’altro, ad identificare la violenza quale unico peculiare connotato delle mafie.

Il sociologo napoletano Isaia Sales racconta qualcosa di molto diverso: “La storia delle mafie meridionali non è storia di semplici organizzazioni criminali, bensì storia dei rapporti che l’insieme della società (locale e nazionale) ha stabilito, nel tempo, con questi fenomeni criminali e viceversa, è storia di rapporti con il mondo esterno alla stessa criminalità. Senza queste relazioni, senza questi rapporti le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’intera nazione.”
Uno scontro in campo aperto tra due forze schierate, quella dello Stato e quella delle mafie, si concluderebbe in pochissimo tempo e senza alcuna speranza per i mafiosi. Ma essi non hanno alcuna intenzione di attaccare frontalmente lo Stato, e quando ciò è successo (con Totò Riina), hanno ottenuto una clamorosa disfatta e un ridimensionamento dell’intera criminalità siciliana, costretta a ripiegare dietro le quinte (con Matteo Messina Denaro) per non estinguersi.
Sales sa che la violenza è stata una caratteristica di molti fenomeni storici passati e recenti che si contrapponevano allo Stato: brigantaggio o terrorismo, ad esempio. Ma questi fenomeni sono stati debellati. Le mafie nazionali no: sopravvivono da due secoli (un’età che contendono soltanto alla Triade e alla Yakuza, mafie asiatiche).
E’ vero che l’uso della violenza e la capacità d’intimidazione sono una caratteristica fondante delle mafie. Non sono, però, la chiave del loro successo: lo sono, invece, le relazioni. Ciò che ha portato la ‘ndrangheta, in particolare, a non essere più soltanto un problema del Sud Italia, ma un potere condizionante anche al Nord, e fuori paese: imprenditori interessati a risparmiare sui costi d’impresa, politici disponibili a raccattare voti, funzionari pubblici pronti ad essere corrotti… e tutti disposti, nella migliore delle ipotesi, a chiudere uno o entrambi gli occhi, quando non a collaborare o a colludere.

Gli storici non accettano “il ruolo politico delle mafie, perché per essi la politica è solo portatrice di valori. Non accettano che la violenza privata sia stata un mezzo di regolazione di contrasti sociali e politici. Non accettano che degli assassini abbiano potuto condizionare la vita della nazione stando dietro le quinte e non sulla scena della storia”.
Se si vuole capire realmente da dove arrivi la mafia – e in cosa risieda oggi il suo reale potere – conviene accantonare ogni altro libro per un momento, e leggere la “Storia dell’Italia mafiosa” di Isaia Sales.

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in generale di mafie, e cerca una comprensione non distorta del fenomeno.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Stile 
 
4.0
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    08 Agosto, 2018
Top 50 Opinionisti  -  

Il marchio del male

Le imprese Vanger, pur in declino, restano uno dei gruppi societari svedesi più influenti. Merito di Henrik Vanger, amministratore delegato, che è riuscito nell’impresa di tenere unita il più possibile una famiglia allargata molto particolare: dei singoli membri Henrik conosce bene il potenziale e le tare caratteriali (cosa fondamentale per chi deve rispettare la regola voluta dai fondatori del gruppo imprenditoriale, cioè che le quote azionarie rimangano saldamente ancorate alla famiglia di sangue). E’ per questo che, al momento di lasciare la guida del gruppo per sopraggiunti limiti di età, ha individuato nel nipote Martin la persona adatta a sostituirlo.
Nessun problema, dunque, se non fosse per quel cruccio che assilla Henrik da 36 anni: la scomparsa della nipote Harriet, che egli vedeva come sua erede naturale per la guida delle società. Un evento accaduto in un momento di particolare confusione sull’isola di Hedeby (il “regno” della famiglia Vanger), dovuta all’incidente che coinvolse un’autocisterna e per mezza giornata tagliò fuori il luogo da ogni collegamento esterno. Eppure sull’isola, in quella convulsa giornata del 1966, qualcuno ha avuto la freddezza di pensare a togliere di mezzo Harriet e farne sparire le tracce. Presumibilmente la stessa persona che tormenta Henrik inviandogli, ogni anno al suo compleanno, un fiore incorniciato, proprio come usava fare la ragazza prima di scomparire nel nulla.
Anche per questo il vecchio Vanger non è riuscito a dimenticare, al contrario di altri membri della famiglia.

“Uomini che odiano le donne” è il primo volume di una trilogia, scritta dallo svedese Stieg Larsson e conosciuta universalmente come “trilogia di Millennium” (dal nome della rivista diretta da Mikael Blomkvist, il giornalista d’inchiesta che nella saga si reinventa investigatore).
La vicenda “gialla” riguardante i Vanger è ben costruita ma non originalissima. In più, sconta qualche “debolezza” (come nella parte che svela la chiave di lettura degli appunti di Harriet, non intuita nel corso dell’indagine ufficiale e invece indovinata da un personaggio secondario della storia).
Piuttosto, a rendere questo libro un’avvincente lettura sono:
- l’intelligenza dell’autore nell’utilizzare la trama per aprire uno squarcio su problematiche sociali diffuse: si parte dalla violenza sulle donne evocata nel titolo del libro (narrata nella civilissima Svezia, ma – come tristemente noto – attualissima in diverse realtà), per giungere all’economia malata, condizionata dalle multinazionali e dai poteri forti (interessante il passo del libro in cui Larsson – a sua volta giornalista ampiamente dedicatosi a temi finanziari – distingue tra le sorti dell’economia di un Paese e quelle dell’andamento del suo mercato borsistico);
- uno stile di scrittura scorrevole e molto attento ad illustrare al lettore i diversi concetti messi in campo, in modo da non lasciarlo mai indietro;
- infine – e qui Larsson è davvero bravissimo – la capacità di concepire un maxi-preambolo che funge da architettura di tutti gli snodi della storia: ci vogliono 130 pagine (un intero libro!) prima di iniziare a trattare il “mistero” dei Vanger, eppure nessuna sensazione di “pesantezza” ne risulta al lettore. Al contrario, si tratta di pagine che servono a caratterizzare con accuratezza i due (memorabili) protagonisti della storia: Mikael Blomkvist, che, nel peggior momento della sua carriera giornalistica, viene reclutato da Henrik Vanger come ultima carta utile a portare alla luce la sorte di Harriet; e Lisbeth Salander, ragazza problematica e singolare in ogni suo comportamento (per questo, sotto tutela), a sua volta reclutata da Blomqvist quando quest’ultimo prende coscienza di tutte le abilità informatiche che ella riesce ad utilizzare a fini investigativi.
L’accoppiata tra un cinquantenne aggrappato all’etica (nonostante tutto) e una ventiquattrenne abituata a lottare per ottenere ogni minima cosa (a partire dal rispetto di chi la circonda) funziona: le parti in cui i due personaggi vengono presentati e quelle – ben avanti nel libro – in cui interagiscono, sono tra le più godibili… a tacer del fatto che la contraddittoria figura di Lisbeth assomma in sé una serie di capacità sconosciute al miglior James Bond. Proprio per questo – nonostante l’autodefinizione di “freak” che compare nel corso del romanzo – è decisamente il personaggio destinato a catturare la scena (come testimoniano anche le successive trasposizioni cinematografiche della saga).

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    01 Agosto, 2018
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L'essere umano

“L’assassinio di Allende ha rapidamente cancellato il ricordo dell’invasione russa in Boemia, il sanguinoso massacro nel Bangladesh ha fatto dimenticare Allende, la guerra nel deserto del Sinai ha soffocato il pianto del Bangladesh, il massacro in Cambogia ha fatto dimenticare il Sinai, e così via e così via, fino al più completo oblio di tutto da parte di tutti.”

Un libro scritto benissimo, e difficilissimo da recensire.
Già dire che si tratta di una raccolta di sette racconti è un’affermazione opinabile: l’autore sostiene, al contrario, che “Il libro del riso e dell’oblio” sia un “romanzo in forma di variazioni”.
Potrebbero esser vere (o false) entrambe le cose: se si guarda alle storie narrate, si è di fronte a racconti indipendenti l’uno dall’altro (nonostante qualche personaggio ritorni in più storie); se si guarda ai temi affrontati, allora è difficile negare di essere in presenza di un filo comune che attraversa le singole vicende (e non è un caso se quattro di esse – a due a due – hanno lo stesso titolo).
Meglio partire dal dato storico-biografico: ricordare che proprio per “Il libro del riso e dell’oblio” (che precede di qualche anno “L’insostenibile leggerezza dell’essere”), Milan Kundera ha subito la perdita della cittadinanza cecoslovacca ed è stato costretto a riparare in Francia, dove tuttora vive e nelle cui università ha insegnato.
Non è un caso, allora, che il sottofondo dell’intero volume sia la condizione di un paese e di un popolo occupato (dieci anni prima, i carri armati russi avevano invaso la Boemia, bloccandone ogni “tentazione” anticomunista), le conseguenze politiche, la contrapposizione tra oppositori e collaborazionisti, la condizione dell’esule e, in definitiva, lo scontro con un potere che maggiormente afferma di lavorare per gli uomini quanto più opera contro di essi.

Cosa è allora il riso, per Kundera? E cosa l’oblio?
Quest’ultimo è senz’altro il contraltare della memoria, ciò verso cui il potere può spingere per il proprio interesse, quando ad esempio ristampa la versione ufficiale di una fotografia cancellando la presenza di un politico caduto in disgrazia, quando si muove nei “laboratori” dove intende riscrivere la Storia.
Ma è ricerca dell’oblio anche quella di uomini che, costretti a vivere sotto un regime, tentano di dimenticare? Che per questo sostituiscono alla partecipazione politica (in qualunque sua forma) la ricerca spasmodica dell’altro, con la presa d’atto delle inestricabili incomprensioni e il continuo richiamo delle pulsioni sessuali? E in fondo l’oblio non è qualcosa di ancora più semplice, cioè l’incapacità della mente umana di ricordare, a distanza di tempo, come sono realmente andati piccoli episodi quotidiani così come le vicende epocali?
E che c’entra il riso? Si tratta del risvolto sonoro della contestazione al potere, della mera dissacrazione? Oppure – atto proprio dei diavoli e non degli angeli, secondo Kundera – è ciò che crea il vero equilibrio del mondo, rimettendo in pari i piatti della bilancia che contengono rispettivamente la razionalità e la mancanza di senso delle cose?
Su queste basi, lo scrittore boemo riesce a costruire un libro che solo apparentemente si regge sulla politicità. Molti sono gli sguardi sulle relazioni umane, che si svelano nella fedeltà ma anche nel tradimento delle aspettative, spesso nel sesso (che può assumere un connotato finanche disturbante, come nella storia di Tamina, condensata nel quarto e nel sesto racconto).
Che allora il libro sia un compendio sulle relazioni di potere che animano tanto la sfera pubblica (vincitori e vinti; rivoluzionari e reazionari) quanto quella privata (donne e uomini; innamorati e lussuriosi)? Non è facile dirlo, ma così si spiegherebbe come faccia Kundera a raccontare in un unico libro di uno scrittore militante costretto a scrivere oroscopi sotto pseudonimo e di una “muta” di bambini che si dedicano scrupolosamente al corpo maturo di una donna, o di una cacciatrice di uomini ammessa senza difficoltà ad un triangolo amoroso e di una vecchia madre che vede i tank russi diventare piccole coccinelle che si posano sulle pere del suo giardino.

La vera sfida è trovare due opinioni su quest’opera che, nel migliore dei casi, facciano più che assomigliarsi. E forse è questo il vero successo ottenuto da Kundera: lasciare ai lettori disquisizioni e interpretazioni su ognuno dei significati, come accade sovente per il pensiero di un filosofo.
E’ evidente, allora, come il viaggio verso “l’insostenibile leggerezza dell’essere” sia già iniziato…

“Gli uomini gridano di voler creare un futuro migliore, ma non è vero.”

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altri libri del "primo" Kundera.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    25 Luglio, 2018
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Testa e croce

Due sorelle: Eri (21 anni) e Mari (19).
Come facce della stessa moneta, sembra che non si guardino mai: se l’una tocca terra, l’altra è rivolta verso l’alto. Destinate a non incontrarsi.
Haruki Murakami le racconta attraverso una sola notte.
La vicenda di Eri si svolge in un’unica stanza, tra il letto dove dorme e il televisore che la guarda (proprio così: non è lei a scrutare lo schermo ma il contrario!). E’ assopita, al minimo vitale, come prigioniera (anzitutto di se stessa, si scoprirà nel corso della lettura).
La storia di Mari inizia nel bar dove è solita “rifugiarsi” nella lettura (anche lei, in qualche modo, prova a scappare da sé). Ma poi, per una serie di circostanze fortuite, quella storia si sposta all’interno di un “love hotel” – il posto dove in Giappone si incontrano, nel modo più anonimo possibile, prostituta e cliente – e lambisce il vicino seminterrato di un altro edificio, dove una band prova i suoi pezzi.
Una notte che Eri trascorre dormendo, e Mari raccogliendo confessioni e aprendosi a sua volta. Ricordando, ad un certo punto, che c’è stato un momento (tempo fa) e un luogo (un ascensore) nel quale lei e la sorella si sono abbracciate sulla stessa faccia della stessa moneta.
Due sorelle per i due diversi Murakami.
Quello intimista racconta Mari, solitaria e riflessiva, e le storie che nel corso della notte si intrecciano con la sua… a partire dall’episodio di Takahashi, giovane suonatore di trombone, per arrivare ad un esperto informatico abituato a lavorare di notte e ad un minaccioso motociclista che potrebbe appartenere alla Yakuza.
Quello onirico si dedica ad Eri. Ma la vicenda di quest’ultima, a differenza di altre narrate dall’autore (in “1Q84”, ad esempio), resta saldamente agganciata e parallela alla storia della sorella, facendo sì che in questo romanzo prevalga la traccia del reale (o del verosimile) su quella fantastica.

Come “Norvegian wood”, anche “After dark” richiama un pezzo musicale: si tratta di un vecchio brano blues che si sposa bene con il ritmo rallentato della notte.
D’altronde i luoghi dei romanzi di Murakami sono spesso descritti dalla musica in sottofondo (in questo libro succede spesso); come può accadere che i personaggi siano descritti, più che per i tratti somatici, dalle marche delle auto che guidano o degli indumenti che indossano. Citazioni di marche e brani che – per quanto a volte infastidiscano – contribuiscono ad individuare Murakami come il più “occidentale” tra gli autori giapponesi oggi in voga.
Uno scrittore che è in grado di guardare per vie alternative tra le pieghe dell’animo umano, ma che a volte annoia il lettore con dialoghi stereotipati, restituendo l’impressione di personaggi che si relazionano tra loro in modo goffo. In “After dark” accade nei primi contatti tra Mari e Takahashi, non sempre all’altezza di un’opera a cui, tutto sommato, non mancano spunti interessanti.
Non il miglior Murakami, comunque.

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a chi ha apprezzato "Tutto in una notte", film del 1985 di John Landis.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    20 Luglio, 2018
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Lo Stato complice

Un singolo magistrato, una Procura della Repubblica, un intero organo giudiziario che – ciascuno per la propria competenza – indagano e rinviano a giudizio una persona in vista ma chiacchierata, un intoccabile a livello locale o nazionale (un notabile, un politico, un esponente dell'alta borghesia, etc.) compiono un servizio a favore della comunità? Istintivamente si potrebbe rispondere di sì. E se le indagini e il rinvio a giudizio riguardano piccole e veniali questioni, invece che ben altre vicende di cui pure la magistratura è a conoscenza? E se quei soggetti riescono a difendersi agevolmente per i trascurabili fatti contestati, legittimando la propria fama anche in virtù dell'uscire “immacolati” dai processi?

Testo istruttivo, “Giudici” è uscito nel 1994.
Il suo autore, Giuseppe Di Lello, avrebbe potuto scrivere tutt'altro libro. E' stato egli stesso un magistrato. E' stato – con Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta – uno dei quattro giudici chiamati da Antonino Caponnetto, l'allora procuratore capo di Palermo, a formare l'originario pool antimafia. Una pagina coraggiosa, significativa, tenace, della nostra Repubblica, culminata nella sentenza di quel maxiprocesso che raggiunse due obiettivi storici: rendere innegabile l'esistenza della mafia – che qualcuno, spesso per utilità personale, ancora metteva in dubbio – e segnare l'inizio del declino di Cosa Nostra siciliana.
Ma, per capire davvero l'importanza di una seria lotta alla mafia, la scelta di Di Lello è più che indovinata: analizzare circa 50 anni di “atteggiamenti” della magistratura, ricordando che il lungo corso del potere giudiziario siciliano e romano – prima di essere storia di uomini con altissimo senso del dovere – è stata una deprimente vicenda di compenetrazione in un sistema di potere tipicamente italiano.
Così scorrono, l'uno dietro l'altro, fatti di sangue, omicidi, eccidi, cui la magistratura dà risposte parziali, o addirittura fuorvianti (quando non “addomesticate”). Portella delle Ginestre (la prima strage politica del dopoguerra), il sacco di Palermo, l'omicidio del procuratore Pietro Scaglione, la strategia “paraterroristica” del 1992. Episodi su cui il libro si sofferma uno ad uno, inserendoli nel loro preciso contesto (ciò che, secondo Di Lello, non è stato fatto da diversi tribunali e corti giudiziarie pronunciatesi sui fatti citati) e che possono essere riassunti in un passo contenuto nella prima parte del libro, il quale ben ne chiarisce la sostanza:
“A Palermo, cuore politico della Sicilia, sono stati trucidati in un breve volgere di anni, i nostri anni, il presidente della regione, il segretario regionale del più grande partito di opposizione, il prefetto, il procuratore della repubblica, il consigliere istruttore e schiere di uomini politici, poliziotti, magistrati, imprenditori, carabinieri, ma anche diverse centinaia di cittadini, anonimi o noti, mafiosi o 'normali', senza che ciò provocasse nessun reale mutamento di quel ceto politico insediato al governo del paese e ciò per un semplice motivo: il tassello di questa borghesia mafiosa è stato sempre indispensabile per la tenuta del complessivo mosaico del potere nazionale, e di conseguenza è stato accettato così com'è, con il suo carico di violenza e di sangue, dai reggitori democratici e occidentali della repubblica nata dalla resistenza. Ci vorranno più di quarant'anni perché qualche nipotino di questo sistema di potere cominci a storcere il naso, strappato al sonno della democrazia reale dalle bombe di via Pipitone Federico, di via D'Amelio o di Capaci; più di quarant'anni anche per noi, per capire che le vittime di questa violenza sono speculari alle storie di altri palazzi, quelli di giustizia compresi, che per decenni si sono schierati dalla parte sbagliata.”

Affermazioni che vengono ampiamente motivate nel volume, e che, riflettendoci, riportano alla cronaca odierna, alla sentenza di primo grado sulla trattativa tra Stato e mafia, ai ministri sofferenti di amnesie, ai comportamenti irrituali di reparti operativi speciali delle forze dell'ordine... mentre gli eroi di un Paese che ha (pur)troppo bisogno di eroi, morivano di tritolo.

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libri sulla storia italiana dal Dopoguerra ad oggi, soprattutto se tali letture hanno riguardato in particolare le istituzioni nazionali.
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Romanzi autobiografici
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    15 Luglio, 2018
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Raccontandosi

“Oggi so che i poteri con le loro accuse possono rendere il più grande onore a uno che scrive. Fare della scrittura un corpo di reato che disturba la loro disciplina. Ai poteri riesce, insultando, di aggiungere valore a uno che scrive.”

Sin da queste righe si intuisce come “Il più e il meno” sia un libro autobiografico. Non pura autobiografia, ma piuttosto una serie di frammenti di sé.
Erri De Luca racconta di come è stato, di volta in volta, bambino, ragazzo, lavoratore, appassionato, membro appieno di una gioventù contestatrice, sfruttato, dedito ad interessi, viaggiatore del mondo, innamorato, lettore, scrittore, e tanto altro ancora.
Un racconto che passa attraverso diversi episodi, e che inevitabilmente incrocia brandelli di storia: dagli ultimi anni di Giacomo Leopardi ai postsessantottini, dalla camminata in una Sarajevo distrutta all'incontro con il giornalista Giancarlo Siani (poi ammazzato dalla camorra). Particolarmente toccanti alcuni capitoli posti sul finire del libro, in cui l'autore accarezza la figura paterna e tratteggia l'eredità morale che il genitore gli ha lasciato.

La scrittura di Erri De Luca non rinuncia mai ad abbinare potenza ed evocazione: un effetto che si ottiene se si padroneggia la parola, sì da riuscire a dire tanto in poco. Può anche non piacere, De Luca, ma non si può disconoscere che ha uno stile unico, non duplicato, forse non duplicabile. E' un artista nel rendere immagini le parole.
Se si deve trovare un neo a questo libro, è nella divagazione: si va da un argomento all'altro, senza un filo conduttore che vada oltre la voglia di ricordare come si era, come si è stati e dunque come si è. Tra l'altro, la presentazione in quarta di copertina dell'edizione “Universale economica Feltrinelli” non aiuta, giacché induce ad inquadrare il volume come qualcosa di diverso da quel che si rivela alla lettura: “Il più e il meno sono segni della contabilità, della partita doppia del dare/avere. Qui riguardano lo scorrere del tempo. Il Più è già arrivato, era un vento di corsa alle spalle, spingendo innanzi, sparecchiando tavole, sfrattando inquilini, stringendo appigli e libri. Il Più è stato giovane e indurito come un callo. Il Meno governa il presente e mantiene quello che dice. Il Meno è sobrio, risoluto perché deve condurre fino in fondo”. Solo una brillantissima capacità d'intuizione può trarre da una tale sinossi la fondata opinione che si tratti di una biografia.
D'altronde, quante volte Erri De Luca si è raccontato in altri racconti? In storie apparentemente non sue? In fin dei conti, queste storie – di se stesso, attraverso altri – si fanno preferire a “Il più e il meno”.
Fermo restando che lo scrittore napoletano non riuscirebbe a deludere neanche volendo.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    10 Luglio, 2018
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I sottili risvolti di un'umiliazione

Un uomo è inginocchiato sulla neve, scalzo, in abbigliamento misero, “molto piangendo e impetrando l'aiuto e il conforto della misericordia”. Dalla finestra del castello sovrastante c'è chi lo osserva, senza cedere alle suppliche dei presenti, che vorrebbero riammesso quel penitente alla grazia divina.
Il primo uomo è Enrico IV, l'imperatore spogliatosi di tutte le insegne regali per compiere quell'atto di umiliazione. Il secondo è il monaco Ildebrando di Soana, che ha assunto il nome di Gregorio VII pochi mesi prima, dopo essere stato nominato papa di Santa Romana Chiesa.
E' il gelido gennaio dell'anno 1077.
Ai piedi del castello della marchesa Matilde di Tuscia (nobile religiosissima e amica di vari pontefici), il braccio di ferro tra i due uomini più importanti d'Europa raggiunge il suo punto più alto e drammatico. Solo dopo tre giorni, il cedimento di papa Gregorio VII e l'apertura del portone del castello di Canossa segnano la riconciliazione tra potere temporale e spirituale. Una riconciliazione destinata a durare poco.

In questo libro – che prende il titolo dalla località dell'odierna Emilia Romagna nella quale si svolse la vicenda – il medievalista tedesco Stefan Weinfurter racconta un evento che fa parte dell'immaginario collettivo: “andare a Canossa” ha assunto al giorno d'oggi un preciso significato, equivalente all'esternazione di un profondo e umiliante atto di pentimento.
Ottima la ricostruzione storico-politica del libro: in più capitoli è disegnata la vicenda dell'Impero e del Papato, con riferimento agli illustri predecessori e successori di Gregorio VII ed Enrico IV. In tal modo, si comprende da quali cause scaturisca l'episodio di Canossa e a quali conseguenze porterà.
In particolare, la vicenda si inquadra nell'ambito della “lotta per le investiture” tra papa e imperatore, per chi dovesse nominare i vescovi: al tempo, infatti, questi ultimi non si limitavano alla “amministrazione delle anime” nella propria diocesi, ma erano tra i più importanti feudatari, muniti di molte proprietà e beni. Ciò aveva portato ad un aspro scontro tra le due autorità, sino all'imprigionamento di papi in carica e alla nomina dei cosiddetti “antipapi” (graditi all'imperatore, nella migliore delle ipotesi). Il nodo della questione era se l'Impero fosse al servizio della Chiesa nel difendere la sua missione di diffusione del credo, o se piuttosto non fosse il potere spirituale al servizio di quello temporale nel consentire la conquista e il mantenimento delle terre conosciute.
Con Gregorio VII – papa particolarmente rigoroso e maldisposto al compromesso – si arriva alla scomunica di Enrico IV di Sassonia. I principi tedeschi non attendono altro per rifiutare l'obbedienza all'imperatore ed insinuare che il trono sia illegittimamente occupato. La portata sovvertitrice della scomunica papale è enorme: quando Enrico IV lo capisce, non può far altro che riunire un ingente numero di uomini fidati, cavalli e vettovaglie e partire da Spira (odierna Germania) poco prima del Natale del 1076, per richiedere in modo “spettacolare” il perdono a Gregorio VII.

“Canossa” è esemplare nel far capire come tale episodio non sarà quello conclusivo nella lotta tra Impero e Papato, ma di sicuro quello decisivo per i personaggi coinvolti, che saranno travolti dalle sue conseguenze: Enrico IV solo temporaneamente rinuncerà ai suoi propositi, e subirà più avanti una seconda scomunica e la defenestrazione da parte del figlio (destinato a salire al trono con il nome di Enrico V, poi a sua volta travolto dall' “onda lunga” degli eventi di Canossa); Gregorio VII, a causa della sua condotta sin troppo rigida, verrà più tardi abbandonato dallo stesso clero e messo in salvo dai normanni dopo una nuova discesa (stavolta minacciosa) dell'imperatore in Italia, perdendo il titolo di “pontifex romanus” e finendo i suoi giorni in esilio a Salerno.
Notevole, dunque, questo libro, che considera i più avanzati studi sulla vicenda storica in discorso, e suggerisce l'idea che neanche i diretti protagonisti potessero comprenderne la portata sui secoli a venire.

“ (…) il 28 gennaio 1077 il re poteva finalmente essere affrancato dalla scomunica. Gregorio VII fece aprire la porta interna del castello ed Enrico IV, insieme a quelli del suo seguito che avevano perseverato con lui, poté entrare nella fortezza. Il re e il papa, così ci viene narrato, si sarebbero salutati in lacrime, e anche questo era un elemento rituale tutt'altro che inconsueto nella cornice di un atto di riconciliazione. Nella cappella del castello seguirono la benedizione e il bacio della pace. Fu quindi celebrata la messa ed Enrico IV solennizzò la propria riammissione nella Chiesa comunicandosi. Infine si tenne anche una cena di riconciliazione. Il mangiare e il bere insieme dovevano comprovare l'intenzione di entrambi di superare le discordie e di trattarsi, da allora in poi, in maniera amichevole e pacifica.”

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e si interessa delle dispute di età medioevale tra Papato e Impero.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    04 Luglio, 2018
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Distillato di Camilleri

Una goccia è la piccolissima parte di un tutto... mare, acquazzone, rugiada...
Ma una goccia è anche un qualcosa di fatto e finito, con una sua forma precisa e una sua consistenza.
Le “Gocce di Sicilia” sono scampoli, flash, pennellate di una mano nota, che rievocano caratteri ed emozioni, congetture ed affetti.
A tal modo scivola su carta il racconto di un bambino attratto dai libri, che trova il coraggio di “violare” lo studio di zu' Arfredo pur di afferrare un libro di Conrad, e così conquista il diritto di entrarvi a suo piacimento e fermarsi a leggere sul pavimento quanti libri vi trovi. E a tal modo, come goccia che stilla, si ritrova seduto in un negozio d'orologiaio, a Roma, lo zu' Cola, che racconta un piccolo scampolo della sua storia a un commesso occasionale, spiegandogli perché il suo soggiorno obbligato a Conegliano Veneto non è altro che un incidente di percorso (in fondo è persona pulita 'u zu' Cola). Per continuare con tutte le teorie – scientifiche o meno – che pretendono di spiegare la misteriosa sparizione di Antonio Patò, ligio cassiere di una filiale bancaria, di cui si perdono le tracce nel bel mezzo di una rappresentazione paesana degli ultimi giorni di Gesù Cristo, laddove il buon Patò era stato scelto per impersonare Giuda.

“Gocce di Sicilia”, uscito in prima edizione nel 2009, riunisce sette “frammenti” rappresentativi del repertorio camilleriano. Si tratta, in alcuni casi, di bozze o estratti di altre opere dello scrittore siciliano: “Piace il vino a San Calò” è un episodio ripreso nel volume “Il corso delle cose” (il romanzo con cui Andrea Camilleri esordì nel 1978), così come “Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò” è l'abbozzo di un più lungo passaggio del successivo volume intitolato “La scomparsa di Patò”.
Camilleri, con o senza il suo Montalbano, è divenuto il marchio riconoscibile della letteratura italiana di questi ultimi anni, grazie al suo modo di narrare storie, e prima di tutto un luogo. E' questo il motivo per cui, in libreria, può capitare di trovare un volume che nulla fa più che raccogliere sprazzi di una produzione di scrittore, riuniti dall'intento di distillare e individuare il luogo “Sicilia” dettando poche e semplici coordinate.
Anche grazie ad alcuni passaggi che, nella migliore tradizione dello scrittore in questione, risultano assolutamente unici:
“La coppola (…) si fece di lato, si scoppolò rispettosamente”.
Solo Camilleri può immaginare il gesto ossequioso di togliersi il cappello guardandolo dalla parte del cappello... che nella vicenda è un simbolo prima ancora che un cappello. Ma, per capire di cosa si sta parlando – di come si scrive di un “duello” tra copricapo – è consigliabile leggere la pagina di cui è composto il brevissimo racconto.

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e apprezzato il Camilleri che fa a meno di Montalbano.
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    30 Giugno, 2018
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La verità, la verità sul mio conto

“Quando mia madre stava morendo all'ospedale, pensò, quando capì che si stava avvicinando la fine, non era me che guardava, ma qualcuno che stava dietro di me: sua madre, o il fantasma di sua madre. Per me lei era una donna, ma per sé era ancora una bambina, che chiamava la mamma, perché le tenesse la mano e l'aiutasse. E sua madre, nella vita segreta che non vediamo, era a sua volta una bambina. Vengo da una discendenza infinita di bambine.”

Michael K., giardiniere di terzo grado del Dipartimento Parchi e Giardini dei servizi municipali di Città del Capo: un impiego perfetto per essere invisibile, vivere al limitare del mondo e morire lasciando ai posteri il dubbio di non essere esistiti (semmai qualcuno abbia tempo e voglia di porsi un tale dubbio).
Un giorno, però, Michael K. realizza che la madre è giunta alla fine, e che la sua volontà è di andare a morire dove è nata. L'uomo fa domanda per procurarsi i permessi necessari, e, mentre passano i mesi, mette da parte quelle poche cose utili per il viaggio e costruisce un carrettino sul quale trasportare la donna per i chilometri che li separerebbero dalla meta. Il condizionale è d'obbligo, tenuto conto che i permessi richiesti non arriveranno mai, giacché di Michael K. non importa nulla a nessuno. Quando se ne rende conto, l'uomo sceglie comunque di perseguire il desiderio di quella madre ridotta a un'ombra. Si parte...

Gli ultimi. Nella bibliografia di ogni scrittore moderno, o quasi, c'è un libro, un racconto, un frammento che riguarda gli ultimi della Terra, c'è il desiderio di raccontare i diseredati del mondo; e magari quello di scolpire una figura memorabile da lasciare, immortale, ai lettori.
L'ultimo di John Maxwell Coetzee si chiama Michael K., un uomo identificato sin dalla nascita dalla pelle nera, dalla malformazione al viso chiamata labbro leporino, dalla mancanza di possibilità ad una vita che sia solo un po' più che dignitosa. Michael K.: un ultimo in una terra, il Sudafrica della guerra intestina e del coprifuoco, che sembra fatta apposta per essere una terra di ultimi.
I desideri degli ultimi hanno meno possibilità di avverarsi: ben presto Michael è costretto a portare sua madre a morire in un ospedale, a lasciarsi vagare in un paese dilaniato... ed è solo allora, forse, che comincia a chiedersi chi lui sia stato e sia.
L'ultimo terzo del libro, centrato su questo interrogativo, è il punto di snodo della vicenda, che alterna lo sguardo di Michael su se stesso con quello dell'uomo che si prende cura di lui. E forse la distanza tra i due uomini che raccontano Michael – il personaggio (il medico) e lo scrittore (Coetzee) – è davvero molto ridotta; entrambi cercano un motivo, un lampo a cui attaccare una speranza, per poter dire che si tratta solo di una semplificazione e di un alibi: gli ultimi non esistono.

“Quanta gente è rimasta che non è rinchiusa in un campo e nemmeno messa a far la guardia davanti ai cancelli? Sono fuggito dai campi di internamento, e forse, se rimango nascosto, sfuggirò anche alla carità.”

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    29 Gennaio, 2017
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L'ultima spiaggia

“C'era qualcosa di magico in un'isola: bastava quella parola a eccitare la fantasia. Si perdeva il contatto col resto del mondo, perché un'isola era un piccolo mondo a sé.”

Nigger Island non è poi tanto lontana dalla terraferma, raggiungibile con relativa facilità se le condizioni del tempo (e del mare) non sono avverse. Ha una caratteristica che la rende particolarmente invitante, per persone della più diversa estrazione sociale: si vocifera che l'intera isola e l'imponente villa, unica costruzione che vi sorge, siano state acquistate da un miliardario.
Un'insegnante di educazione fisica, un medico, un giudice e un generale entrambi in pensione, un aitante giovanotto amante dei motori, una vecchia zitella di salda fede religiosa, un avventuriero, un poliziotto in incognito, una coppia di coniugi reclutati in qualità di maggiordomo tuttofare e di cuoca. Dieci persone che ricevono un invito personalizzato, all'insaputa l'una dell'altra (fatta eccezione per i due della servitù, ovviamente), e destinate a riunirsi sull'isola in un determinato giorno. Dieci persone che sbarcano, si osservano l'un l'altra, combattute tra la curiosità per i tipi umani e il fastidio per una convivenza che si preannuncia coatta. Dieci persone che si studiano, come non abbiano nulla in comune.
E invece qualcosa che le accomuna c'è: la voce che si diffonde nella sala, subito dopo la prima cena del gruppo, accusa ciascuno di loro di una colpa precisa e incancellabile: l'essersi macchiati – in tempi, luoghi e modalità diverse – di omicidio.
La prospettiva del soggiorno cambia del tutto, e si trasforma in un incubo collettivo: come mai i padroni di casa, il signor e la signora Owen, non sono ancora arrivati? Che significano quelle dieci statuine nel bel mezzo della tavola da pranzo? E come mai in tutte le stanze degli invitati vi è una copia della filastrocca sui “dieci poveri negretti”, che insieme “se ne andar” e poi “nessuno ne restar”? Quale squilibrato inciderebbe quella serie di indimostrate accuse su un disco, per farla girare sul grammofono ad un dato momento della sera?... Esistono davvero un signor e una signora Owen?...

“Quel che c'è di buono nelle isole è che, quando vi si arriva, non si può andare oltre, si è giunti come a una conclusione...”

Quasi 80 anni fa, nel 1939, Agatha Christie scrive “Dieci piccoli indiani” (chi ritiene questo libro superato dovrebbe spiegare il perché delle sue numerose trasposizioni cinematografiche – l'ultima nel 2015, con Miranda Richardson e Sam Neill tra gli altri – ma soprattutto dovrebbe fare i conti col fatto che è il libro giallo più venduto d'ogni tempo).
Non dirò che è un libro perfetto: non lo è. Sostengo, però, che è un libro assolutamente geniale, non solo per la soluzione che offre, ma in quanto lo è dal primo all'ultimo capitolo.
La sua genialità sta principalmente in una ragione che trascende l'essenza di un giallo (e da ciò si potrebbe argomentare che è un capolavoro a prescindere dal genere a cui appartiene): è un'opera di enorme sottigliezza nell'analisi psicologica, che prende a pretesto una situazione-limite per scandagliare la parte più profonda e buia dell'animo umano, il suo atteggiamento ambivalente di fronte alla contrapposizione tra bene e male; lo fa nel corso di una vicenda in continua evoluzione, man mano che i “dieci poveri negretti” soccombono alla determinazione dell'inafferrabile Mr.Owen (rigorosamente uno per volta, rigorosamente nel modo indicato dalla filastrocca, puerile ma spietata).
Diffidenza nel prossimo e conflittualità, colpa e senso di giustizia, paura e rimorso: per far risaltare questi risvolti della natura umana – affinché il lettore quasi li tocchi – la scrittura della Christie risulta ancor più asciutta ed affilata del solito. E raggiunge uno dei suoi momenti più alti (“tecnicamente” il più alto in assoluto, sosteneva la regina del giallo), come più o meno accaduto in “Assassinio sull'Orient Express”, “L'assassinio di Roger Ackroyd”, “Sipario”... veri e propri capolavori d'ingegno, destinati a stupire il lettore.
Già... il lettore: procede di capitolo in capitolo e viene sorpreso da ogni nuovo snodo della storia, salvo pensare subito “ma certo! Era la cosa più logica”. Appunto: era la cosa più logica... però non ci aveva pensato. Una lettura fulminante, che è un'impresa abbandonare.
Un giallo che aspira alla perfezione sembra a suo modo un teorema di geometria. Agatha Christie, con questo libro, lo dimostra.

“Noi contiamo su quel battello perché ci porti via dall'isola... E questo è il punto: noi non dobbiamo lasciare l'isola... Nessuno partirà mai...”

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i libri di Agatha Christie menzionati nella recensione, ma, più in generale, altro della sua produzione letteraria.
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