Opinione scritta da SuperBob
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“Pezzi di famiglia”
“Mi è arrivato un SMS di mio fratello: ‘Parlato con papà. Stasera vengo a casa tua alle 8’. Al diavolo i miei progetti per la serata ma non importa, io sono il maggiore e non posso dargli buca per una partita a calcetto. Mettiamola così, stasera si chiude il cerchio. Paolo gli avrà detto di no e ora il mio caro papà o inizia la dialisi e si mette in lista per un trapianto o presto morirà. E al punto di saturazione in cui mi trovo, francamente non me ne frega niente!”
Un testo conciso, ma vigoroso, dalle intonazioni cupe, tuttavia composto con estremo garbo. Sono queste le prime valutazioni che emergono leggendo il bel romanzo d’esordio di Cinzia Doti “Pezzi di ricambio”. Una prova notevole e coraggiosa, dato il tema da lei preso in esame: gli stretti legami familiari, i rapporti interpersonali e i “doveri” ad essi inerenti nei confronti di una scelta estrema, come il donare un proprio organo vitale ad un consanguineo. La giovane autrice affronta la questione narrando le vicissitudini di una famiglia divisa, composta da una madre costantemente depressa e da due giovani fratelli, che provano un forte risentimento nei confronti di un padre che li aveva abbandonati quando erano bambini. Quest’ultimo si ripresenta ai figli, vent’anni dopo, gravemente ammalato e con la pretesa che uno di loro gli doni un rene.
Cinzia Doti accenna inoltre, quasi in sordina, a due altre tematiche connesse strettamente al romanzo, quella del traffico illegale degli organi e dello spaccio ed uso di stupefacenti.
Un testo che, pur trattando tematiche sociali, etiche ed esistenziali assai rilevanti, è stato concepito con grande sensibilità dalla neoscrittrice. La quale, pur essendo alla sua prima prova letteraria, non cade nel tranello di eccedere nei toni e nel linguaggio verso una deriva truculenta. L’autrice fa invece uso di una scrittura essenziale, a volte assai penetrante e cruda, per narrare sotto forma di diario il travaglio emotivo, e per certi versi anche sociale, di Pier - il fratello maggiore, protagonista principale del racconto - e dei suoi famigliari di fronte al dilemma: favorire un padre ed un marito da sempre assente, puttaniere incallito, dispotico e pieno di sé o abbandonarlo al proprio destino? Un aut aut che se da un lato intensifica i rapporti fra i due fratelli e la madre, dall’altro ne evidenzia le differenze caratteriali.
Un libro non molto voluminoso per numero di pagine, ma sostanzioso per le questioni affrontate dalla sua autrice tramite una scrittura fluida e mai banale. Un romanzo scorrevole nella sua lettura, che scava però in profondità nelle coscienze dei suoi lettori.
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“Giovani guerrieri”
“Gli special team entrarono in collisione, corpi intercambiabili che sciamavano e cozzavano, piccole guerre che scoppiavano un po’ ovunque, esaltazioni e primi spargimenti di sangue, caschi luccicanti che rimbalzavano sull’erba splendente, l’impatto spasmodico di due masse distruttive, uno spettacolo bello da guardare.”
Uno strano romanzo “End zone” di Don DeLillo, pubblicato negli U.S.A. nel 1972. Sì, singolare, poiché appare un coacervo di contraddizioni, almeno ad una prima superficiale lettura. Il linguaggio, in tutte le sue accezioni e sfumature, ne è l’assoluto protagonista, razionale, geometricamente equidistante fino all’ossessione, se non fosse per la trama costantemente in bilico fra il metafisico ed il surreale e per i suoi innumerevoli quanto stravaganti interpreti. Ad iniziare dal suo personaggio principale, Gary Harkness, running back in una sperduta università di provincia, il “Logos College”. Un ventenne totalmente disilluso e apatico, il cui unico scopo è quello di giocare a football, che del tutto inaspettatamente si trova ad avere un interesse mirato, quello per gli armamenti nucleari, le svariate strategie di annientamento globale e l’apocalisse, un coinvolgimento totale che rasenta l’ossessione. Una paranoia, resa ancor più vivida dal paesaggio che la attornia: una landa desolata e desertica del profondo sud texano. E’ in tale contesto che si svolgono le vicende intessute da DeLillo. Storie intrecciate fra di loro in un susseguirsi di eventi, nei quali è l’umorismo ad emergere il più delle volte dalle varie situazioni in cui si trovano coinvolti i suoi interpreti. Circostanze che vanno dagli irrazionali allenamenti alle azioni di gioco, fino alle più raffinate simulazioni di guerra atomica, dalle sconclusionate lezioni universitarie ai suoi ancor più assurdi corsi, passando per l’alquanto stravagante vita quotidiana degli studenti all’interno del college e ai comportamenti ancor più strampalati del suo personale. Il tutto accade nelle cadenze ipnotiche di una quotidianità esasperata da una ciclicità di eventi sempre uguali e nella ripetitività indolente e quasi ossessiva dei gesti dei suoi protagonisti. Un solo interesse li unisce e li sollecita ad uscire da questa abulia generalizzata, il football.
Alla fine però l’indiscusso interprete principale del romanzo rimane il linguaggio del quale è intessuto. Un espressionismo verbale dai mille aspetti semantici, un vocabolario così corposo che rischia a volte di fagocitare se stesso. Si va dal ricco e sfrenato slang giovanile al più complesso dialogo intriso di termini assai sofisticati, dallo studente che usa un linguaggio alquanto desueto a quello che, al contrario, usa un lessico intessuto di neologismi. Questo per quanto riguarda i dialoghi creati dallo scrittore statunitense. Sono però le elucubrazioni fatte in prima persona da Gary Harkness ed ancor di più le accurate descrizioni dei compagni di squadra e degli allenatori a donare al romanzo il suo spessore. Rappresentazioni minuziose dell’aspetto, non solo esteriore, e dei comportamenti a volte alquanto bizzarri dei suoi amici e professori, ma ancor più degli spazi che lo attorniano, dal lunare e monotono paesaggio texano agli interni del college. il tutto descritto accuratamente, in special modo le stanze in cui il protagonista alloggia assieme ai suoi compagni, con una precisione geometrica che rasenta il parossismo. Una narrazione che raggiunge il puro lirismo verbale quando Gary descrive un incontro di football, anzi l’incontro per eccellenza. Una esposizione composta perlopiù da un linguaggio esoterico quando delinea gli schemi di gioco, i suoi segnali, le indicazioni degli allenatori, la gestualità degli atleti fuori e dentro il rettangolo di gioco, le loro grida e il loro gergo, per finire con la frenetica descrizione delle azioni. Qui DeLillo rasenta davvero la più pura visionarietà letteraria nel narrare le gesta delle due formazioni in campo, fino a trasfigurarsi nell’immaginario del lettore in due eserciti che si affrontano all’ultimo sangue. Se non fosse per l’ironia con cui Gary Harkness affronta lo scontro, anzi, la partita.
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“Quei ragazzi terribili”
“E consentitemi di chiarire bene anche un’altra cosa: non sto parlando solo dei diritti dei feti. Sto parlando anche dei microscopici embrioni. Se in questo paese c’è un gruppo davvero ‘svantaggiato’, nel senso che è assolutamente privo di voce e rappresentanza nel nostro governo nazionale, non si tratta dei neri o dei portoricani o degli hippy o di chicchessia, tutta gente che ha i propri portavoce, ma di quelle creature infinitesimali laggiù nella placenta”.
Cinico, irriverente, sardonico, se non addirittura istrionico, ma allo stesso tempo duro e spietato nei confronti dell’entourage politico e dei mass media. Ecco come appare il romanzo-pamphlet di Philip Roth dall’irriguardoso titolo “La nostra gang”. Un titolo volutamente offensivo, quello creato dal celebre autore statunitense, che ben sintetizza la trama del suo racconto, liberamente ispirato alla figura del presidente Richard Nixon e a quella dei suoi principali collaboratori.
Uno scritto suggerito a Roth dal discorso tenuto da Nixon a San Clemente - che nel romanzo diventa San Dementia - nell’aprile del 1971, in cui si parla di aborto. Roth ne cita all’inizio un “inciso”: “L'aborto è una forma inaccettabile di controllo della popolazione.” Nixon mette poi in evidenza la santità della vita umana, il che implica la vita dei “non nati” e i loro diritti. Da questi concetti il romanziere trae l’occasione per creare una fotografia satirica, a tratti surreale, dell’allora agone politico. E sarà lo stesso Richard Nixon, sotto le spoglie di Tricky Dixon - Tricky è stato in effetti un appellativo affibbiato al Presidente americano -, il protagonista indiscusso di una manciata di capitoli, concepiti perlopiù sotto forma di dialoghi e monologhi. Capitoli che anticipano profeticamente - in particolar modo quello dedicato ad una sorta di “riunione di consiglio” tra gli intimi del Presidente - le intercettazioni rese note pochi anni dopo.
Roth parte quindi dai diritti dei “non nati” per far sviluppare a Dixon un discorso che lo porterà a concludere che anche i “non nati” hanno il diritto al voto in un’America davvero democratica - un voto che non dispiace affatto al protagonista del romanzo, visto che è a metà del suo primo mandato. Un comizio nel quale lo scrittore mette in mostra tutta la retorica di Dixon, la sua doppiezza, ma soprattutto la sua indiscussa capacità di dire tutto e il contrario di tutto, pur di trarne un profitto personale. Questa retorica fa da filo conduttore a tutto il libro, amplificandone il significato a livelli davvero parossistici, quando applicati a fini “criminali” dall’entourage presidenziale. Si assiste così ad un consiglio di Stato segreto, dagli aspetti davvero esilaranti e surreali - tenuto da Dixon in uno spogliatoio all’interno della Casa Bianca - in cui sia il Presidente che i suoi collaboratori indossano la divisa di una formazione di football americano per predisporre un piano contro i Boy Scout, rei di avere “diffamato” il Presidente, e finalizzato a creare un falso complotto contro di lui. Si assisterà poi alla preparazione e alla realizzazione, sempre da parte di Dixon e dei suoi accoliti, di un conflitto atomico contro la Danimarca, accusata di essere uno stato “pornografico”. Fino a giungere all’evento clou del romanzo: lo scombiccherato assassinio del Presidente e i “salti mortali” sostenuti dagli addetti della Casa Bianca per negarne la morte prima e per sostenerne in seguito il decesso per mano di un misterioso omicida, facendo di Dixon un eroe e un martire. Un eroe che, una volta giunto negli inferi, avrà ancora da ridire contro lo stesso Satana in un monologo che è la “summa” di tutta la retorica nixoniana. Non per niente Roth redige quest’ultimo lungo discorso “infernale” facendo buon uso di quello tenuto da Nixon nel famoso dibattito televisivo del 1960, che lo vedeva confrontarsi in diretta con John F. Kennedy.
Un libro degno di essere posto all’interno del filone satirico che comprende illustri precursori, quali Swift e Orwell. Uno scritto da leggere e rileggere più volte, tante sono le considerazioni che se ne possono trarre. Ad iniziare dall’ampollosità dei politici di ieri come di oggi e dalla loro capacità di ribaltare qualsiasi discorso e/o situazione a loro favore, facendo comunque credere alle masse di sacrificarsi sempre ed esclusivamente per loro.
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Un'avventura in Medio Oriente
“Massimo ha passato una notte insonne. L’adrenalina che gli circola in corpo ha vinto sulla stanchezza accumulata in quasi due settimane. Oggi, infatti, si avvererà il suo sogno: osservare da cronista uno degli scenari di guerra più caldi del mondo”.
Fantapolitica e avventura nelle terre contrastate del Medio Oriente sono gli ingredienti principali di “Operazione Gaugamela”, romanzo d’esordio di Alessandro Paolo Berionne. Una storia che si dipana nell’estate del 2025 tra Bologna, Roma e le principali città mediorientali. Un lungo racconto che prende l’avvio dalla partenza per Gerusalemme di un gruppo di preghiera di cui fanno parte due giovani cugini, Massimo e Sara. Ad essi capiterà un po’ di tutto, dal subire un terribile attentato fino a divenire consapevoli testimoni di un immane conflitto fra Israele e Iran. Tra questi due eventi vi è spazio per le indagini del Mossad sulla strage e sul rapimento del figlio del primo ministro israeliano da parte di un gruppo terroristico, per le azioni di alcuni agenti segreti internazionali, ma soprattutto per i conflitti interiori dei principali protagonisti. Questa, a grandi linee, la trama dell’avvincente epopea. Suggestiva senza alcun dubbio, tutto sommato ben congegnata, composta dal giovane autore in un buon italiano ma con alcuni, quanto inevitabili, limiti. Delle manchevolezze del tutto ovvie in un’opera prima: periodi non sempre scorrevoli, dialoghi il più delle volte poco fluenti, circostanze troppo fantasiose e/o ingenue. Il tutto intervallato da interminabili, a volte noiose divagazioni storico-politico-sociali sulla situazione mediorientale. Si aggiungano gli altrettanto lunghi monologhi interiori di Massimo sulle proprie idee politiche e religiose, che se da un lato possono convogliare il lettore nelle intricate vicende del romanzo, dall’altro lo appesantiscono notevolmente. Vi è poi un altro fattore che rende questo libro, seppure per certi versi gustoso da leggere, un po’ anacronistico: la troppa ingenuità, ancor più che fantasia, del suo autore nel narrare le vicissitudini in cui sono coinvolti i personaggi principali del libro, un’ingenuità a volte persino eccessiva. Un romanzo, “Operazione Gaugamela”, per molti versi autobiografico, come accade sovente per la prima opera, da cui emergono alcuni spunti degni di attenzione. Per concludere, Alessandro Paolo Berionne con un po’ più di “mestiere” potrà diventare un buon scrittore. A lui dimostrarlo.
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Stati mentali alterati
“Cammino restando appena dietro di loro, se mi avvicino troppo i miei sensi percepiscono una rapida scossa di euforia, un frammento di beatitudine che dura il tempo del percorso fino al cervello, dove c’è un cartello di divieto, una porta chiusa, una combinazione indecifrabile.”
Stati di alterazione mentale, allucinazioni, fasi oniriche, momenti di abbandono e/o di sconforto, menti annebbiate da cocktail di droghe, avventure vissute ai limiti della realtà. In poche parole dei “piccoli momenti di buio”, come recita il sottotitolo della interessante raccolta di racconti dal titolo metaforico “Nicovid”, composti da Miky Marrocco. Intestazione davvero allegorica, poiché l’autore ha creato con essa un nuovo prodotto farmaceutico, al quale fare ricorso in caso di bisogno. O per lo meno è quanto accade al protagonista che fa da catalizzatore all’intero testo, uno psichiatra ormai giunto al limite della follia a causa dei suoi pazienti e come loro reso ormai schiavo delle sostanze che prescriveva. Costui, in condizioni di estremo disagio psichico, compone delle brevi storie “allucinogene”, dove alcuni personaggi fissi si alternano ad altri le cui vicende rasentano la pazzia, soprattutto quella così banalmente quotidiana. Racconti metropolitani, basati su monologhi interiori di individui fuori dal comune, a volte addirittura “borderline”, che riversano le loro angosce in brevi racconti, spesso composti da non più di una pagina. Nevrotici, schizofrenici, ma anche semplici personaggi sfortunati, che vagano alla deriva di una realtà senza alcuna prospettiva futura, dove ogni azione e/o situazione appare loro tanto possibile quanto irrealizzabile. Tutto questo accade nelle squallide periferie della provincia brianzola, coi suoi tetri locali, le serate trascorse fra drink e momenti di noia mortale. Banali circostanze, che improvvisamente si trasformano in situazioni oniriche se non da incubo, nelle quali ogni particolare dell’assurda vicenda sembra implodere all’interno dei racconti, tratteggiati con sagacia da Miky Marrocco grazie ad una scrittura secca, avulsa da qualsiasi fronzolo letterario. Ne risulta una narrazione moderna e fluente, che alterna l'io narrante con la più neutrale terza persona.
Una pregevole riprova stilistica per Miky Marrocco, musicista e scrittore alla sua terza produzione letteraria. Scaturito dal subconscio dell’autore e divenuto, a seguito di alcune riscritture una specie di “romanzo-non-romanzo” dagli aspetti sperimentali, “Nicovid. Piccoli momenti di buio” è così diventato il ritratto agghiacciante di un vissuto quotidiano, dove la nevrosi è ormai una norma e la follia un suo aspetto comune.
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La prima avventura del giovane Corto Maltese
“In pratica, esistono dei tesori che sono stati legati da una determinata magia e se le precise regole dell’incantesimo vengono rispettate, il tesoro può essere ritrovato, altrimenti questo si distruggerà e svanirà per sempre. Però la caratteristica di questi tesori, è che quando svaniscono si portano via anche i cercatori maldestri.”
Un giovane Corto Maltese è coinvolto assieme ad alcuni suoi amici in un'avventura per mare che dalla Scozia lo porterà in Sicilia, con un carico di ceramiche preziose, piatti e teiere Wedgewood. Da qui partirà di nuovo all'inseguimento di un tesoro, una magica trovatura siciliana, ricerca che lo porterà alla volta di una Venezia dai molti aspetti esoterici.
Normalmente un fumetto nasce da reminescenze letterarie, o assai più spesso da alcune situazioni e/o personaggi di un romanzo. Ne “Il corvo di pietra”, di Marco Steiner, capita invece proprio il suo opposto. E’ infatti da un protagonista delle cosiddette “nuvole parlanti” - e che personaggio - che si evolve la trama di un piacevolissimo libro di avventure, più precisamente dall’ormai leggendaria figura di Corto Maltese, nato dalla vivacissima fantasia di Hugo Pratt. Un lungo racconto, che inizia sulle coste della Scozia del primissimo Novecento per poi svilupparsi in Sicilia, ma non prima di essere approdati a Venezia. Non però in una Venezia qualsiasi, ma bensì in quella misteriosa, cabalistica, alchemica ed esoterica già cara alla mitologia prattiana. Il romanzo narra le gesta di un Corto Maltese non ancora quindicenne, un adolescente del 1902 - anno dal crollo del campanile di San Marco, evento preconizzato nel testo da un rabbino amico di Corto - ancora imberbe, anche sul versante avventuroso. Una storia che prende avvio da un inseguimento lungo le coste scozzesi, da parte della polizia britannica, di alcuni contrabbandieri di armi che riusciranno a fuggire a bordo di un veliero. Fra i componenti del suo equipaggio si trova Corto Maltese, assieme ad un ragazzo, originario dell’isola di Mann, di qualche anno più vecchio, figlio del comandante dell’imbarcazione. Una volta approdati ad un rifugio sicuro i due giovani e il capitano riceveranno istruzioni dal padre di Corto per salpare alla volta della Sicilia, dove dovranno ritirare un carico di preziose ceramiche Wedgewood da trasportare a Venezia. Sarà solo l’inizio di una serie di avventure che vedranno i tre protagonisti alle prese con una caccia al tesoro. Ma non un tesoro qualunque, bensì una fortuna legata al superamento di una prova che “dannerà chi vi tenta e non vi riesce”, una cosiddetta “trovatura” siciliana. Dei beni preziosi da recuperare per mezzo di tre ragazzi “provenienti da tre isole diverse”. Non si vuol aggiungere altro alla trama di “Il corvo di pietra”, se non accennare al fatto che a Venezia Corto e il suo amico conosceranno un soldato australiano, fuggito dalla carneficina del conflitto anglo-boero. Un personaggio, quest’ultimo, dai molti aspetti enigmatici.
Ciò che colpisce fin dalle prime pagine del romanzo non è tanto la narrazione accurata del pur ricco filone avventuroso, quanto l’analisi delle minuziose ambientazioni - anche, se non soprattutto, storiche - e le ancor più scrupolose descrizioni dei paesaggi e delle situazioni in cui si svolge l’azione in corso. Rappresentazioni e caratteristiche dei personaggi talmente meticolose che le semplici aggiunte di varie onomatopee donano al racconto ancor più la sensazione di non stare semplicemente leggendo un libro, ma di osservare con gli occhi le meravigliose tavole acquerellate con sagacia da un novello Hugo Pratt. Percezioni, queste, che raggiungono il culmine nelle ancora più accurate ricette di alcuni piatti siciliani, gustati dai protagonisti del racconto, ai cui ricchi ingredienti si aggiungono altrettante sfarzose descrizioni sulla loro origine e sull’alchimia dei loro gusti e sapori.
Un libro di avventure, quindi, ma soprattutto un “romanzo di formazione” per il suo giovane protagonista Corto Maltese. Non solo questo, però. Difatti il lungo racconto va interpretato su due livelli: quello dell’avventura “salgariana”, fine a se stessa e quello esistenziale, delle avventure dello spirito e della mente dei suoi giovani protagonisti, entrati per caso in uno scenario dove la realtà è avvolta da consistenti spire misteriosofiche. E dove una semplice caccia al tesoro si trasformerà in un viaggio ai confini della conoscenza, soprattutto interiore. Poiché, come afferma un personaggio del romanzo: “Il vero tesoro è la conoscenza. Non l’oro, l’argento o le pietre preziose.”
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Anni parigini
Due brevi saggi illustrano i rapporti esistenti, nella prima metà degli anni ’60, fra Mimmo Rotella e i coniugi Restany, titolari della celebre Galerie J, nella quale l’artista calabrese espose in più occasioni.
“Rotella conferisce alle affiches cinematografiche un valore quasi ossessivo, i personaggi perdono l’aura di divinità per diventare più reali del mito che rappresentano. La brillante patina di perfezione viene lacerata dall’artista per far emergere, attraverso la dinamicità dello strappo, una realtà d’immagini e di visioni che oltrepassa abitudini e convenzioni percettive ormai fissate.”
Un volume che vuol essere un atto d’ossequio dovuto ad un grande artista visivo ed un omaggio ad una piccola, ma assai rilevante galleria d’arte parigina e ai suoi due fondatori. Il saggio - pubblicato in italiano ed in francese - s’intitola Mimmo Rotella e la Galerie J, ed è stato redatto da Alice Berton e Raffaella Perna con un duplice scopo: da un lato ricostruire storicamente un’epoca vitale per la storia dell’arte contemporanea, il periodo che va dal 1961 (anno di nascita della Galleria J) al 1967 (quello della sua definitiva chiusura) e dall’altro rievocare un periodo rimarchevole per Mimmo Rotella (1918-2006), proprio grazie alle continue sollecitazioni intellettuali, ma anche tangibili, del critico d’arte Pierre Restany e della sua compagna Jeannine de Goldschmidt.
Il libro si compone pertanto di due brevi quanto interessanti saggi. Il primo, steso dalla Perna, affronta il tema Pierre Restany, Mimmo Rotella e la Galerie J, nel quale viene descritto il clima artistico/ideologico degli anni ’50 e ’60, mettendo a confronto le tematiche dell’Espressionismo astratto americano - affrontate con slancio dal suo più acuto interprete, Clement Grenberg, e condensate nella formula spirituale “autonomia, autodefinizione e purezza dell’arte” -, con quelle più materiali di numerosi gruppi che si confrontavano con la realtà quotidiana, impiegando prevalentemente oggetti di uso comune e di origine massmediatica, che vengono poi montati, assemblati e/o incollati su varie superfici, riallacciandosi così ai collage e ai cosiddetti Ready-made. Lo stesso tipo di ricerche affrontate allora da Rotella attraverso l’iniziale tecnica del décollage (1953-54), lo strappo cioè dai muri di alcuni cartelloni pubblicitari, che poi l’artista incolla su un diverso supporto, sperimentazioni estetiche messe in mostra principalmente a Roma, dove risiede, poi esposte negli anni successivi, nel continuo perfezionamento della propria tecnica, in numerose città europee. Fino al punto di destare l’interesse critico di Pierre Restany, il quale negli stessi anni mette assieme un gruppo ristretto di artisti internazionali, e che nel 1960 conierà la fortunata espressione Nouveau Réalisme nell’apposito manifesto, mantenendo così la tradizione delle prime avanguardie artistiche. Al fine di sostenere le sue idee, il critico parigino propaga il “verbo” del gruppo in Francia, ma soprattutto all’estero, ed in particolare in due città allora all’avanguardia: New York e Milano. Proprio nella metropoli meneghina, presso la Galleria Apollinaire di Guido Le Noci, Restany dà vita, nel maggio del 1960, alla prima collettiva dei Nouveaux Réalistes. Nella stessa Galleria, nel 1963 Rotella presenta la sua esposizione Dal décollage alla nuova immagine, a seguito della quale il critico francese elabora la prima monografia dell’artista. Rotella fa parte ormai da tempo del gruppo di Pierre Restany, che nel 1961, assieme alla moglie, fonda la Galleria J, in omaggio all’iniziale della sua compagna. Inaugura il nuovo spazio espositivo, il 17 maggio dello stesso anno, una “collettiva” intenzionalmente intitolata A 40° au dessus de Dada, a cui partecipa anche Rotella con le sue ultime opere. Questa mostra è importante poiché rappresenta la prima di una serie di “collettive” e “personali” di Rotella in questa Galleria, e con essa il teorico francese vuol di fatto superare il Dadaismo, e lo dichiara presentando il secondo manifesto del gruppo, proprio durante il Vernissage.
Con questa storica esposizione si apre l’importante saggio di Alice Berton, Mimmo Rotella e la Galerie J, che si occupa più specificamente dei rapporti che intercorrono tra Restany, Jeannine de Goldschmidt e Rotella, basati principalmente sulle rassegne di quest’ultimo presso la stessa Galleria. L’autrice, per ricreare il clima del rinomato spazio espositivo, si è basata principalmente sulla documentazione conservata presso l’archivio della “Fondazione Mimmo Rotella”, ed in particolare sulle fotografie relative alle singole opere esposte nelle varie mostre e contrassegnate dal timbro della galleria parigina, oltre che sui relativi cataloghi e articoli critici pubblicati su diverse riviste dell’epoca. La Berton riparte dalla fin troppo storicizzata quanto discussa esposizione A 40° au dessus de Dada, la prima a cui partecipa anche Rotella. Ma è l’anno successivo a catalizzare l’attenzione del pubblico e della critica nei confronti dell’artista italiano. Infatti tra il febbraio e il marzo del ’62 si inaugura la sua prima “personale” proprio presso questo spazio espositivo con la rassegna Cinecittà, un titolo emblematico che palesa l’interesse di Rotella per i cartelloni cinematografici che circolano in quegli anni a Roma. La mostra presenta una cernita dei manifesti selezionati e furtivamente strappati, che in seguito il maestro lacera e ricompone magistralmente per rivelarne il potenziale visivo. Nella Galleria, assieme a questi décollage, Rotella espone Petit monument à Rotella, una semplice lattina d’olio motore recante la scritta originaria “Rotella T Oil”, “collocata su un piccolo piedestallo e immessa nel sistema artistico secondo l’azione di ricontestualizzazione dell’oggetto comune del ready made duchampiano. Giocando con il proprio nome, l’artista ‘rotellizza’ gli objets trouvés, in un processo di autopromozione” e, oseremmo aggiungere, di autoironia, se non proprio di narcisismo. La mostra è un successo sia di critica che di pubblico. L’anno seguente Rotella inizia a studiare una nuova tipologia artistica basata sul riporto fotografico su tela emulsionata. Un lungo procedimento tecnico che consiste nella scelta delle immagini da fotografare, i cui negativi vengono poi proiettati su una tela resa sensibile all’impressione fotografica. Nel settembre del ’63 l’artista mostra al critico parigino questi primi risultati che battezza reportages, esposti in seguito in varie sedi l’anno successivo. In quel periodo Rotella riflette sull’allestimento della propria sala alla Biennale di Venezia del ’64, ma in seguito al suo improvviso arresto per possesso di droga e di materiale pornografico, deve affidare tale progetto a Restany e ai galleristi Plinio de Martiis e Gian Tomaso Liverani. Mentre il critico francese vorrebbe fargli esporre i suoi ultimi reportages, i due curatori italiani gli consigliano di presentare più prudentemente una serie di tredici décollages per non creare antagonismi con le serigrafie di Andy Warhol, da poco in mostra a Parigi. Pierre Restany e Jeannine de Goldschmidt si dimostrano invece assai interessati a questa nuova tecnica, che viene presentata nell’aprile del ’65 alla Galerie J, in occasione della personale di Rotella intitolata Vatican IV. L’artefice espone immagini relative a soggetti religiosi e particolare attenzione è rivolta al Concilio Vaticano II. Numerose sono le riproduzioni su tela emulsionata relative ai funerali di Giovanni XXIII e al suo successore Paolo VI. Vatican IV sanziona di fatto il passaggio dal cartellone (mai abbandonato totalmente) alla fotografia, dalla selezione del soggetto, ripreso soprattutto da varie riviste, fino alla sua definitiva impressione.
Questa esposizione non ottiene il successo ricercato presso il pubblico, che non riesce a comprendere la nuova tecnica. Al contrario, è molto apprezzata dai critici, schiudendo di fatto il successivo affermarsi della Mec Art. Nel maggio del ’65 la Galerie J ospita una piccola selezione delle opere di Rotella esposte alla Biennale, un doveroso riconoscimento all’artista che non ha potuto parteciparvi di persona. L’ottobre del ’65 vede per l’ultima volta Rotella in una “collettiva” denominata Hommage à Nicéphore Niépce, curata ancora da Restany, che stila per l’occasione il Manifesto della Mec Art, a cui aderiscono numerosi artisti, tra i quali Gianni Bertini. Rotella ricopre per l’occasione un ruolo di rilievo grazie ai suoi ultimi reportage, che vedono riprodotte sulle tele emulsionate alcune immagini relative all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. E’ questo il canto del cigno dell’artista, per lo meno per quanto riguarda la sua collaborazione con la Galerie J, la quale per mancanza di fondi è costretta a chiudere temporaneamente i battenti.
Un saggio, quello composto e ideato da Alice Berton e Raffaella Perna, breve nel numero di pagine, ma ricco di informazioni e di documentazioni sullo stretto connubio che ha legato le esistenze di Restany e della sua compagna Jeannine a Mimmo Rotella, soprattutto in rapporto con la Galerie J, vera fucina d’avanguardia degli anni ’60.
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Una vita difficile
Un romanzo autobiografico sui generis, scritto dall’autrice in forma di un’autoanalisi riferita a voce, dove attraverso continui flashback senza nessuna coordinata temporale, la Jatosti rievoca la sua vita divisa fra politica, scrittura, viaggi e l’amore per lo scrittore Luciano Bianciardi, mai nominato direttamente.
“Ecco, 28 gennaio 1973, Maria Jatosti, dilettante della penna, anzi della macchina da scrivere, da oggi è a spasso. Disoccupata. Non provo né preoccupazione né pena né sollievo. Sono soltanto davanti a un problema da affrontare, l’eterno problema: ridurre al minimo le spese, andare a vivere in una camera di pensione a trentamila massimo, vestirmi alla fiera di Senigallia, non comprare libri, giornali, dischi, cosmetici e mettermi a lavorare per conto mio.”
Senza alcun dubbio è uno strano romanzo Tutto d’un fiato di Maria Jatosti. Non esiste una trama, mancano totalmente i dialoghi, l’ordine temporale è sconvolto da continui salti in avanti e all’indietro. Eppure basta leggerne alcune pagine e vi si ritrova tutta la struttura di una classica opera narrativa, ma con quel qualcosa in più che la rende unica: il suo solido impianto autobiografico che fa di questo scritto un romanzo a tutto tondo. Un’autobiografia sui generis, però, quella composta dalla Jatosti, poiché essa è il risultato di una complessa autoanalisi del proprio vissuto, successivamente riadattata per mezzo di una elaborata scrittura, che dona al testo la sensazione di una intensa narrazione orale, fuoriuscita “tutta d’un fiato”. La vissuta, quanto a volte sofferta, cronaca di un ventennio della propria esistenza che la scrittrice indirizza, e dedica, a Marcello, il suo unico figlio fortemente voluto. Due decenni - quelli a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’70 - trascorsi fra estenuanti dibattiti, lotte politiche e intellettuali, fra mortificazioni ed esaltazioni - soprattutto economiche -, fra a soggiorni all’estero che, seppur prolungati, sembravano durare un attimo, e lunghe giornate senza fine trascorse all’ombra della “Madonnina” a Milano. La cronaca di un ventennio di una giovane intellettuale comunista trascorso, ed in parte condiviso, con Luciano Bianciardi, di cui Maria Jatosti è stata la fedele compagna. Un lungo periodo temporale, quello riportato dall’autrice, nel quale il grande scrittore, pur essendo a volte il protagonista delle vicende narrate, è nominato solo tramite il pronome “lui”, quasi a proteggerne l’immane personalità. Un rapporto, il loro, piuttosto tormentato, ma intenso sia dal punto di vista intellettuale sia, soprattutto, da quello sentimentale. “Lui” e Maria lavoravano assieme a lunghe e sofferte traduzioni letterarie. Lei, quando “lui” batteva freneticamente sui tasti della macchina da scrivere, sapeva ritirarsi in disparte conoscendo la sua sofferenza nel comporre un testo. Lei si alzava presto la mattina per andare a lavorare in qualità di semplice impiegata, mentre “lui” dormiva per ritemprare il corpo e lo spirito dalle proprie fatiche creative. Ma questo è solo un aspetto della Jatosti, quello, oseremmo dire, più intimistico, poiché la sua esistenza in quel ventennio fu fortemente quanto duramente vissuta in un continuo connubio politico-intellettuale. Avvenimenti da lei a volte narrati a fil di voce, altre volte gridati a squarciagola a seconda delle vicende in cui si ritrovò protagonista fin da ragazza nella sua città natale, Roma. Una Roma periferica, quella del quartiere Garbatella, una delle zone più “rosse” dell’Urbe. Borgata popolare, nella quale trascorse la sua infanzia prima e il suo apprendistato politico poi, col nome di battaglia di “Maria della Garbatella”. Agli inizi furono solo volantinaggi e vendita porta a porta dell’Unità, poi vennero le prime riunioni di “cellule” cui Maria doveva sovrintendere. In seguito fu la volta della sua fase sindacale alla CGIL con Di Vittorio, intercalata con le sue passioni: la letteratura, la scrittura, il cinema, l’incontro fatale con “lui”, i loro primi appuntamenti clandestini. Poi la Jatosti decise, a metà degli anni ’50, di tentare la fortuna a Milano. Tutto ciò, ed altro ancora, è da lei raccontato per mezzo di una scrittura diretta e coinvolgente, in un concatenarsi di rievocazioni che a volte si accavallano con altri eventi, presentati dalla scrittrice senza un’apparente continuità, come se fossero da lei narrati Tutto d’un fiato.
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Detective per caso
Invitato per passare il fine settimana in una tranquilla villa di campagna, un eterogeneo gruppo di ospiti è coinvolto nel singolare presunto suicidio del loro anfitrione, avvenuto in una biblioteca ermeticamente chiusa. Una morte più che sospetta per Roger Sheringham, un tranquillo scrittore che, per vederci chiaro, si trasformerà in detective, prendendoci anche gusto.
“Roger stava ancora brancolando nel buio. L’azzardata ipotesi che la morte di Stanworth fosse in realtà un delitto, avanzata con assoluta convinzione, gli era tuttavia apparsa un po’ tirata per i capelli; e il fatto di averla prospettata era stato dettato più dal desiderio di sorprendere lo stolido Alec e di scuoterlo dal suo torpore, che da un intimo convincimento”.
All’inizio fu solamente un romanzo composto appositamente per far piacere al padre, appassionato cultore di letteratura poliziesca. Ben presto si trasformò in “Una boccata di aria fresca”. Così infatti un eminente critico letterario definì l’apparizione del neodetective dilettante Roger Sheringham, uscito dalla penna dello scrittore britannico Anthony Berkeley, nell’interessante romanzo poliziesco intitolato Uno sparo in biblioteca. Ed effettivamente la comparsa di questo eccentrico investigatore diede nuovo slancio al mystery di stampo britannico, poiché le indagini da lui condotte apparivano molto più vicine alla realtà di quelle dei suoi più esimi “colleghi” dell’epoca (1925). Razionale per natura fino a rasentare l’ossessione, Sheringham non sempre però sa interpretare correttamente gli indizi da lui trovati, cadendo a volte nel ridicolo. Perlomeno è ciò che gli accade nell’opera d’esordio, quando si troverà suo malgrado, ma con sommo diletto, a svolgere delle investigazioni su un caso apparentemente semplice. Tutto ha inizio quando Roger viene invitato, assieme ad un suo giovane amico, nella lussuosa villa di campagna di Victor Stanworth, un uomo d’affari di basse origini che ama circondarsi di eminenti membri dell’alta società. Da ospite perfetto, Stanworth riesce a mettere a loro agio i suoi convitati finché, una soleggiata mattina, viene ritrovato cadavere con una rivoltella in mano all’interno della sua biblioteca, ermeticamente chiusa. Si pensa subito al suicidio, anche se la cosa appare assurda a tutti, poiché lui emanava da ogni poro la gioia di vivere. Questo aspetto del suo carattere, unito ad alcune stranezze nella posizione del cadavere, inducono immediatamente Sheringham a non credere che il suo ospite si sia tolto la vita. Messo al corrente l’amico dei suoi dubbi, lo convince a fargli da spalla nel corso delle indagini che ha rapidamente deciso d’iniziare, nonostante le sue uniche esperienze investigative siano il frutto di letture di genere poliziesco. Ed è proprio a questo punto del romanzo che prorompe tutto lo slancio innovativo di Anthony Berkeley: il suo novello detective infatti - che di mestiere fa lo scrittore - cerca di portare nella realtà oggettiva i metodi investigativi di Sherlock Holmes. Le opinioni attorno al crimine iniziano ad abbondare nella vulcanica mente di Sheringham che, grazie alle proprie deduzioni su alcuni indizi ritrovati e ad un misto di arguzia e di fantasia, dà subito sfogo ad azzardate teorie sull’omicidio, sul quale non nutre dubbi, come dice più volte al suo scettico amico. Supposizioni che in alcune circostanze porteranno il protagonista ad un passo dalla soluzione dell’enigma, mentre in altre lo condurranno su false piste, guidandolo verso situazioni - in almeno un caso - davvero esilaranti, fra gli sberleffi del suo giovane confidente. Proprio in questo affastellarsi di conclusioni ben ponderate dall’improvvisato detective, di tracce da lui ricercate con ostinatezza, di percorsi investigativi apparentemente razionali, di ricostruzioni dei fatti attinenti le circostanze della morte di Stanworth, ma soprattutto sui moventi che avrebbero indotto il presunto assassino ad agire, sta la vera originalità del romanzo e del suo protagonista. Un intellettuale dal carattere impulsivo, capace di gesti raffinati come di comportamenti assai bruschi pur di ottenere i suoi scopi, ma anche obiettivo nei suoi giudizi, insomma un essere umano come tanti. Ecco in estrema sintesi come appare Roger Sheringham ai lettori di questo brillante mystery, dove bastano pochi tratti di penna al suo creatore, Anthony Berkeley, per descrivere in maniera adeguata personaggi ed ambientazione. Giustamente il narratore dà maggiore spazio ai dialoghi, davvero brillanti, di questo libro, nel quale sa sapientemente seminare qua e là alcuni indizi che potrebbero portare anche l’attento lettore alla risoluzione di una vicenda davvero insidiosa. Soprattutto per il simpatico detective, quanto a volte davvero pasticcione Roger Sheringham.
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Con la musica nel cuore
“Improvvisamente, un attimo prima che nel giardino del museo esploda una granata, il grido di uno dei visitatori interrompe Ernest Bolsi. «Tutti giù!». Le pareti e il pavimento della sala tremano. Una nuvola di polvere entra dalle finestre senza vetri. Ernest Bolsi si copre la testa con le mani.”
Note orientate alla trama: Un romanzo composto da più storie, quella di due violoncellisti, quella di una pianista e quella di un liutaio, destinate ad incrociarsi per mezzo della musica. Vicende che a loro volta si compenetrano con quella della gente comune, in una città assediata e sotto continui bombardamenti. Storie di amori perduti, di coraggio, di viltà, di difficoltà quotidiane, ma soprattutto di speranza.
Commovente, dilaniante, umorale, claustrofobico, desolante, ma soprattutto profondamente poetico. Questi sono solo alcuni degli aggettivi che servono a delineare i vari impulsi emotivi evocati dal romanzo Il silenzio degli alberi, composto dallo scrittore catalano Eduard Márquez. Un titolo che è anche una metafora sulla solitudine umana, in primis interiore, in un mondo dilaniato da guerre sempre più disumane. Conflitti bellici, come quello che sta al centro delle vicende narrate in questo interessante racconto. In una città - che ricorda molto da vicino Sarajevo - assediata dall’alto delle sue colline e continuamente dilaniata da lanci di granate e da intensi bombardamenti, fa il suo ritorno il violoncellista Andreas Hymer. Il suo intento è quello di tenere un concerto nel locale Conservatorio semidistrutto, ma il rientro è stato altresì invogliato da una intrigante lettera, speditagli dal liutaio Ernest Bolsi, nella quale accenna al fatto che deve assolutamente consegnargli un prezioso violino. Hymer, che non conosce Ernest Bolsi, non ha la minima idea della provenienza dello strumento e del perché debba riceverlo. Oltre a questi due obiettivi dichiarati ve ne è però un altro, assai più personale: il concertista vuole a tutti i costi ritrovare una sua ex amante, la pianista Amela Jensen, con la quale desidererebbe suonare ancora una volta. Lei, invece, non ha nessuna intenzione di rivederlo, come gli spiega il direttore del Conservatorio. A fare però da vero collante al romanzo è un’altra donna, Sophie Kesner, anch’essa violinista di fama nonché madre defunta di Hymer. E’ lei, infatti, la vera protagonista del libro e la causa involontaria di un bizzarro triangolo composto da lei stessa, da suo figlio e dal liutaio Bolsi. Quest’ultimo, avendo poco lavoro, si è auto assunto il ruolo di guida del Museo della musica, anch’esso ridotto ormai ad un vuoto e semidistrutto contenitore. Un compito ispirato dall’incontro nel Museo con una bambina, che vi si era rifugiata perché sconvolta da un terrificante lancio di granate. Bolsi, dopo averla stretta a sé per rassicurarla, si mette a raccontarle una storia su “Il flauto magico”, allo scopo di distrarla da cupi pensieri. Da allora ogni giorno Ernest Bolsi organizza le sue visite guidate, facendo risuonare le sale vuote di storie curiose e ricche di fascino, intrattenendo in questo modo un eterogeneo gruppo di visitatori, che per qualche ora si possono scordare gli orrori del conflitto e le afflizioni quotidiane. Tra gli episodi narrati dal liutaio vi è anche la propria storia, quella di un amore vissuto accanto ad una famosa violinista. Così, grazie ai continui flashback di Bolsi, intervallati da quelli Andreas Hymer, si verrà man mano a conoscere il motivo della consegna del prezioso violino. Questa, in sintesi, la trama del breve quanto intenso romanzo, ma è solo una sua parte, poiché il vero racconto è quello basato sulle narrazioni insite nelle innumerevoli lettere composte dai visitatori del Museo. In esse vengono rivelate ad amici e parenti le difficoltà quotidiane, il grande sconforto psichico, ma soprattutto le speranze per un futuro di pace. Missive che intervallano, a cadenze regolari, i vari capitoli del romanzo principale. Lettere che Hymer, dopo un trionfante concerto eseguito con il famoso violino tra i ruderi del Museo, si prenderà cura di custodire gelosamente, anche sull’aereo che lo porterà lontano dalla metropoli assediata, allo scopo di spedirle da un luogo più sicuro. Un romanzo collettivo, dunque, un concerto di voci soliste, che - pur narrando ognuna una propria storia - crea alla fine una sola unica narrazione epica in un condensato di drammi personali, di amori vissuti, di viltà e di coraggio, da dove emerge un concentrato di umanità contro le barbarie, di qualsiasi genere. Un racconto - composto dal suo autore tramite una scrittura essenziale, dura e lirica al contempo - che vuol essere soprattutto un’allegoria sul valore della musica, specialmente quando erompe direttamente dal cuore.
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Interventi d’alta finanza
Note orientate alla trama: In un famoso hotel della costa britannica viene rinvenuto su di una poltrona collocata in un salotto appartato il corpo di James Norton - un importante uomo d’affari nonché padrone dello stesso albergo -, con la gola recisa. Ai suoi piedi viene rinvenuto un rasoio insanguinato. Ad un anno esatto dalla sua morte, considerata fino ad allora un suicidio, un altro cadavere viene ritrovato sulla stessa poltrona di Norton, anche lui con la gola squarciata da un rasoio posto ai suoi piedi. La vittima era un socio di Norton, Gabriel Parret, il quale stava indagando pubblicamente sullo strano suicidio del collega, a causa di fattori inerenti alcune assicurazioni sulla sua morte. Un mystery d’autore in cui è l’alta finanza a farla da padrone.
Rilassante come la poltrona di casa, al contempo penetrante come un rasoio ben affilato. In questa contraddizione di termini sta l’essenza dell’interessante mystery intitolato, appunto, La poltrona e il rasoio, dello scrittore australiano Paul McGuire. Un romanzo davvero appassionante, che tratta, tra l’altro, un argomento mai come oggi all’ordine del giorno: il condizionamento del mercato azionario per mezzo di attività al limite della legge. La sua trama ne è la riprova. Jimmy Norton, un importante uomo d’affari londinese, trovandosi in brutte acque a causa della “Grande Depressione” dei primi anni Trenta, ha deciso di ritirarsi a riflettere al Mount Lelland Hotel, un lussuoso albergo di sua proprietà. La sera stessa del suo arrivo viene rinvenuto cadavere su una poltrona di un salottino appartato, con la gola squarciata. A terra viene rinvenuto dalla polizia un rasoio a lui appartenente con tanto di sue impronte. Dopo approfondite indagini - condotte sia dagli investigatori di Scotland Yard sia da quelli del Ministero degli Interni, a causa delle importanti ripercussioni finanziarie - la conclusione dell’inchiesta appare evidente: suicidio della vittima a causa di una crisi depressiva. Esattamente un anno dopo, a soli pochi giorni dalla tragica ricorrenza, Michael Seavington, un conoscente di Norton, va a soggiornare al Mount Lelland e quasi subito viene avvicinato da Gabriel Parrett, un uomo alquanto bizzarro dai mille interessi finanziari. Questi, che sostiene con vigore di vantare notevoli crediti da Norton, confessa a Seavington che ha l’intenzione di dimostrarne la barbara uccisione, di modo che i suoi premi assicurativi sulla vita possano essere indennizzati ai creditori. Parrett, che non fa mistero delle proprie indagini, non riuscirà però nel suo scopo poiché finirà anche lui per essere ritrovato, con la gola squarciata, sulla stessa poltrona di Norton, con ai suoi piedi un altro rasoio insanguinato. Seavington si ritroverà così, suo malgrado, al centro di un’intricata ragnatela - tesa da alcuni clienti e dirigenti del lussuoso albergo, che hanno diversi segreti da tutelare e che faranno di lui il loro confidente, ognuno con uno scopo ben preciso. Ed è proprio questo vasto campionario di personaggi, composto dalle più svariate individualità, a dare brio a questo mystery - pubblicato nel 1933, e finora inedito in Italia - dal ritmo narrativo alquanto sonnacchioso, proprio come la vita che conducono in questo hotel. Una monotonia rotta, però - e qui sta la vera forza del racconto -, da una fin troppo arzilla vecchietta, miss Polden, un personaggio davvero indimenticabile e dalle mille risorse, come si rileverà procedendo nella lettura di questo classico giallo di stampo britannico.
Un mystery ben congegnato, composto con stile - anche grazie ad un’armoniosa scrittura - da Paul McGuire, che ha soprattutto il merito di aver descritto con piglio deciso una vicenda basata sull’alta finanza e sulle sue raffinatissime truffe.
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L’uomo dei cedri
Note orientate alla trama: Un giovane ufficiale del Mossad si finge aspirante romanziere per entrare nelle grazie di una famosa scrittrice israeliana. Suo scopo è conoscere un suo intimo amico palestinese, nonché celebre poeta, il cui figlio è un noto terrorista al fine di eliminare quest’ultimo. Ma la continua frequentazione dei due intellettuali ed alcuni incresciosi episodi faranno vacillare i suoi solidi ideali.
Un complesso conflitto fra diversi sentimenti sta alla base del bel romanzo Il poeta di Gaza, composto dallo scrittore israeliano Yishai Sarid. In esso infatti l’amore fa rima con l’odio sistematico, l’intelletto viene avversato dalla violenza tanto fisica quanto morale, l’amicizia e il rispetto per l’altro sono contrastati dall’acredine e dal disprezzo, l’ubbidienza assoluta deve fare i conti con i più profondi sentimenti umani. E’ ciò che accade al protagonista di questo intenso, quanto cupo e malinconico racconto. Un giovane ufficiale del Mossad, il cui compito abituale consiste nell’interrogatorio dei prigionieri palestinesi, viene incaricato di ottenere, sotto copertura, la fiducia e l’amicizia di una famosa scrittrice israeliana, Daphna, amica intima di Hani, un intellettuale palestinese allo stato terminale, il cui figlio è un noto terrorista. Lo scopo è naturalmente quello di fare uscire allo scoperto ed eliminare l’eversore. Per fare ciò l’ufficiale finge di essere un aspirante romanziere che necessita di alcune lezioni di scrittura creativa. Ma il continuo contatto con l’affascinante donna, che gli si rivela infelice a causa del figlio cocainomane legato alla malavita locale, che lo ricerca, fanno riemergere in lui alcuni tratti del suo carattere che riteneva ormai scomparsi a causa della sua professione. Lavoro che, nonostante il suo ambiguo incarico, continua a svolgere con senso del dovere in un clima sempre più drammatico. Accade infatti che, stremato dalla fatica e dai continui problemi familiari - la moglie ha deciso di partire, per motivi di lavoro, per Boston portandosi appresso il figlio di quattro anni -, durante un duro interrogatorio da lui condotto un palestinese muore soffocato dal suo stesso vomito. Quest’ultimo episodio porterà l’ufficiale a un profondo esame interiore: fino a che punto si può giungere per contrastare la violenza altrui? Oppresso dalla propria coscienza, l’ufficiale si legherà sempre più a Daphna e ad Hani, dal quale è affascinato per la sua grande umanità e saggezza, e al contempo tenterà di salvare il figlio della scrittrice dalle grinfie della mala israeliana. Sempre più coinvolto nelle vicende dei due intellettuali, l’ufficiale, senza più le granitiche certezze di un tempo, dovrà scegliere tra il proprio dovere e la sua onestà morale ritrovata.
Composto da Yishai Sarid in un linguaggio crudo, Il Poeta di Gaza fa emergere la raggelante realtà di Israele, dominata da una società rigida e corrotta, popolata da anime complesse e infelici, profondamente contaminate dall´aria politica che avviluppa quotidianamente questo stato e il Medio Oriente. Un libro da leggere con estremo interesse non tanto per la sua trama quanto per i vari sostrati che ne emergono, ad iniziare dai conflitti all’interno del Mossad per finire con quelli quotidiani dell’intera società israeliana.
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