Opinione scritta da pierpaolo valfrè
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Occhi negli occhi
L'identità di cui ci parla Milan Kundera, in questo breve romanzo scritto nell'autunno del 1996 e che ho voluto rileggere, è quella che può vacillare quando in una coppia uno dei due inizia a vedere l'altro in modo nuovo, o comunque diverso da come fino a quel momento l'ha visto.
Ciò può capitare per disattenzione, per malinteso, per troppa concentrazione su di sé, o semplicemente perché non ci si è curati abbastanza delle molteplici sfaccettature, siano esse continue, o cangianti, che compongono l'identità dell'amato e che esigerebbero uno sguardo instancabilmente premuroso, ben oltre l'umana capacità di attenzione e comprensione. "Non staccherò più gli occhi da te. Ti guarderò continuamente".
Ma il gioco di sguardi, in generale e più ancora in una coppia, è gioco di specchi. Osservo e rivelo allo stesso tempo. Se improvvisamente l'identità dell'amato vacilla ai miei occhi, anche la mia identità vacilla. Se non so più chi è l'amato, allora non so bene nemmeno chi sono io: l'opacità e la nebbia che avvolge la sua identità mi appartiene e mi coinvolge.
Il mio sguardo sorpreso e la mia identità improvvisamente fuori fuoco inevitabilmente innescheranno a loro volta stupore, dubbio e smarrimento nell'amato, in una spirale di reazioni e riflessi dall'uno all'altro che si perde in un labirinto sospeso tra sogno e realtà, immaginazione e ricordi, paura e speranza, fantasia e fisicità, fino al parossismo e al risveglio dall'incubo.
"Lascerò la lampada accesa tutta la notte. Tutte le notti".
Solita grande capacità di Kundera di catturare frammenti di quotidianità e di trasferirli nel mondo dell'astrazione e delle idee. E solita mia difficoltà a stargli dietro quando si lancia al galoppo nella dimensione onirica.. Dimensione che nelle sue opere è tanto fondamentale quanto (a volte) sovrabbondante per il mio gusto.
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Una gradevole superficie
Incuriosito da diversi commenti trovati via “social” e dalle recensioni che ricordavo in questo sito, mi sono finalmente deciso ad arrampicarmi fino allo scaffale più alto della mia libreria per recuperare dalla polvere una raccolta di racconti di Dürrenmatt, “colpevolmente” (è il caso di dirlo) abbandonata da oltre vent’anni, come incontrovertibilmente attestato dal prezzo ancora espresso in lire.
Il racconto che chiude la raccolta è “La panne. Una storia ancora possibile”. Appena 38 pagine nell’edizione scritta fitta dell’Universale Economica Feltrinelli. Un gioiello.
Prima lo scrigno: due pagine un po’ ostiche in cui l’autore si chiede se al giorno d’oggi (1956) esistano ancora, nella noiosa normalità e nel magma quotidiano di fatti, statistiche e immagini in cui siamo immersi, delle storie ancora possibili, “degne di uno scrittore”.
E poi eccola la storia: piccola e scintillante, avvolta da ombre inquietanti e minacciose, ci tiene meravigliati e sospesi dalla prima all’ultima riga e poi colpisce il bersaglio con lucida perfidia.
Un’allegra compagnia di vegliardi, dal fisico corrotto e decrepito eppur sinistramente imponente, dall’abbigliamento trasandato, vestigio di antica opulenza ed agiatezza, processa un uomo nel pieno delle sue energie vitali, che nella sua automobile costosa, finita improvvisamente in panne, vede il simbolo del suo successo, della sua ascesa, della sua lotta trionfale per la vita. Il capo di imputazione? Irrilevante, perché qualcosa da sottoporre a processo lo si trova sempre, tanto nei grandi personaggi storici (Socrate, Gesù, Giovanna D’Arco, Dreyfus, Federico il Grande) quanto nelle persone anonime e comuni.
Siamo tutti colpevoli quindi? La giustizia è una lotteria dalla quale ci si salva per fortuna anziché per merito? No, perché tutti colpevoli significa nessun colpevole e invece la colpa e la responsabilità restituiscono grandezza ed autenticità all’uomo. L’assenza di giudizio, di condanna e di pena appiattisce tutto nella normalità, nel grigiore, nell’assolutorio magma quotidiano dove non ci sono più storie, non ci sono più uomini, non c’è più verità. Invece l’accettazione della condanna è “il risultato di una morale indefettibile che perfeziona conseguenzialmente la vita come opera d’arte, svela l’umana tragedia, l’illumina, le fa assumere una forma impeccabile, la esalta”.
Il lauto banchetto, le abbondanti libagioni coccolano e accompagnano l’inesorabile affluire della coscienza, tanto più spontaneo quando i sensi sono appagati e i freni si allentano.
Quando la vista esteriore si offusca, si può guardare più in profondità dentro se stessi e riconoscere nitidamente l’ombra minacciosa della colpa stagliarsi nel chiaroscuro dello scherzo.
Non ci può essere che la pena per celebrare degnamente quest’accecante epifania di verità, per riscattarsi dalla mediocrità, dagli espedienti, dagli affanni, per concludere degnamente la serata più bella, “perché quella notte per la prima volta aveva capito cosa significa condurre una vita autentica…alla quale necessitano appunto concetti più elevati di giustizia, di colpa e di espiazione… e comunque l’espressione ‘rinascita’ gli appariva la più adeguata per definire la gioia che lo sconvolgeva, lo permeava, lo scuoteva come un turbine impetuoso”.
E’ a questo punto che diventa assolutamente necessario un sufficiente livello di distacco, di lucidità, verrebbe da dire di sobrietà. Quella mediocre vita quotidiana che tutto copre e tutto assolve è pur sempre una vita, mentre l’accecante bagliore della verità può confondere e annichilire un animo semplice. Fermiamoci quindi al gioco, alla finzione, evitiamo di trarne pericolose conclusioni.
Proprio a questo ci invita Dürrenmatt nell’offrici questa “storia possibile”: limitiamoci “a una gradevole superficie e ad essa soltanto”. Che perfido genio!
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Mostro di carta
Frankenstein è uno di quei libri che viene molto più citato di quanto sia letto e che soprattutto è entrato prepotentemente nella cultura popolare attraverso trasposizioni, riduzioni e imitazioni di ogni tipo. Il mostro innominato, la “cosa” orribile ha finito persino per usurpare il nome dello scienziato suo creatore per rappresentare nel linguaggio comune l’emblema di ogni artificioso assemblaggio meccanico e contro natura. Ci è persino capitato di sentir parlare di “governi Frankenstein”, o di alleanze politiche, o disposizioni di legge qualificate con lo stesso appellativo.
Stiamo parlando, infatti, di molto più che un libro. L’interesse per la sua lettura va ben oltre il valore letterario delle sue pagine.
Nell’estate del 1816 la diciannovenne Mary Godwin, in compagnia del suo “cavalier Folletto” Percy Shelley e della sorellastra Claire, si recò sul lago di Ginevra, a poca distanza da Villa Diodati, dove soggiornava Lord Byron accompagnato dal suo medico personale. A causa delle frequenti piogge, il gruppo ingannava il tempo leggendo romanzi gotici tedeschi. Fu Lord Byron a lanciare la sfida ad inventare ognuno una storia terrificante. Ma solo la giovane amante di Shelley la portò a termine.
Le conseguenze tragiche a cui può portare un domino violento della scienza sulla natura, il destino nefasto dell’ambizione e della sete di sapere, che diventa sete di potere, la paura del diverso e l’odio che ne può derivare, il diritto di ogni creatura ad essere accettata e amata per ciò che è, il veleno prodotto dall’abbandono, dall’amore negato o non ricambiato: questi sono i temi del romanzo che a distanza di due secoli riescono ancora a scuoterci e a turbarci.
Anche dal punto di vista culturale, l’opera di maggior successo di Mary Godwin Shelley contiene molti vistosi collegamenti. A parte la tradizione del romanzo gotico, che è all’origine dell’ispirazione, troviamo richiami alla mitologia e alla tragedia greca (Prometeo, Edipo) all’eterna lotta tra bene e male (Milton, il Paradiso perduto) e tra cuore e ragione (siamo in pieno Romanticismo). La Shelley poi flirta con il romanzo epistolare (espediente che le consente di rappresentare in soggettiva e in profondità le emozioni dei diversi personaggi), descrive ambienti e paesaggi degni della pittura di Friedrich e di Turner, fa da contrappunto al mito del buon selvaggio e infine crea un archetipo nel genere filosofico-avventuroso che la congiunge idealmente tanto a Meliville e alla sua Balena Bianca quanto a Philip D. Dick e ai suoi androidi.
Per non parlare della biografia dell’autrice. Figlia di William Godwin (utopista anarchico e romanziere) e di Mary Wollstonecraft (protofemminista, autrice di “A Vindication of the Rights of Woman”) non conobbe mai la mamma, che morì alla sua nascita per le conseguenze del parto (la mancanza di una madre e l’abbandono alla nascita sono uno dei tratti più toccanti del mostro descritto nel romanzo). Tutta la sua vita fu costellata da una incredibile serie di lutti, suicidi e sciagure che non risparmiarono nemmeno i suoi figli, uno solo dei quali sopravvisse fino all’età adulta. E poi la prematura morte del poeta, al largo di Lerici. E la vita sentimentale turbolenta e sfortunata, gli scandali, le mortificazioni, le ristrettezze economiche, i pregiudizi, le incomprensioni.
Sembra quasi che il mostro creato sulla carta da Mary Shelley in una notte buia e tempestosa, dopo aver perseguitato lo scienziato Victor Frankenstein (il suo creatore fantastico) abbia riversato la propria incolmabile furia vendicatrice sulla sua creatrice materiale, per poi sopravviverle e vagabondare come un implacabile e inconsolabile demonio nell’immaginario collettivo di ogni tempo.
E’ ancora una lettura interessante nel ventunesimo secolo? Non c’è dubbio che sui temi trattati sono stati scritti fiumi di parole e sono disponibili opere più fresche e moderne. Tuttavia, come Bansky non cancella Michelangelo, possiamo ancora continuare a godere di un capolavoro di duecento anni fa. E possiamo anche riconoscerne laicamente i limiti. A cominciare dallo stile acerbo, a tratti adolescenziale, dal tono eccessivamente didascalico, dal sentimentalismo profuso a piene mani e soprattutto da una ridicola, ingenua e futile esaltazione del valore della cultura (impagabili le pagine in cui il terrificante mostro, reietto e nascosto in un capanno, spia una famiglia all’apparenza contadina, in realtà di nobile lignaggio, e si istruisce niente meno che sulle opere di Milton, Goethe e Plutarco), appena appena riscattata dalla denuncia dei suoi pericoli (la conoscenza genera consapevolezza e quindi infelicità). Infine c’è il vizio di mettere troppa roba nel piatto, che a me risulta particolarmente fastidioso. Ad un certo punto, in ossequio al fascino esercitato in quegli anni dall’Oriente, compaiono persino un mercante turco con una bellissima figlia, per un’improbabile avventura che spazia da Costantinopoli a Parigi, l’Italia e le Alpi svizzere. Anche Jules Verne (penso ad esempio al Giro del mondo in 80 giorni) incorre spesso nel paradossale e nell’inverosimile: la differenza sta tutta nella presenza oppure nella totale assenza di ironia. Mary Shelley scrive il romanzo ancora molto giovane (e comprensibilmente eccitata dall’effervescenza intellettuale che la circonda fin dalla nascita) e si prende terribilmente troppo sul serio.
Per rendere l’idea, i lati deteriori del romanzo mi ricordano moltissimo un successo letterario di qualche anno fa (L’eleganza del riccio), che spiccava soprattutto per artificiosità e oleografia e che non escludo abbia avuto proprio la Shelley tra le principali fonti di ispirazione.
Nonostante i suoi limiti “Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo” è un grande romanzo, patrimonio della nostra cultura. Il messaggio arriva e colpisce il bersaglio ancora oggi: merito del mostro di carta che ha ispirato ogni successiva forma di umanità disumanizzata e soprattutto merito della sua creatrice, mostro di bravura.
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Le radici degli Stati Uniti d'America
Terminate le 920 intense pagine (o 1.234, a seconda dell’edizione) di questa grande storia, avrei voluto leggerne di più.
Il premio Pulizer James A. Michener ci racconta quattro appassionanti secoli di vita del Chesapeake, la baia che si estende tra il Maryland e la Virginia, sulla costa orientale degli Stati Uniti d’America. I dettagli storici, naturalistici, socio-demografici e sugli aspetti di vita quotidiana degli abitanti di questa terra sono il frutto di una lunga e minuziosa ricerca e soprattutto di due anni di soggiorno sul posto, durante i quali l’autore ha conosciuto e collaborato con i maggiori esponenti della cultura locale.
Attraverso le vicende di alcune famiglie immaginarie ci sembra di cogliere un po’ l’anima di questo grande popolo, di riconoscerne le radici e di osservare le modalità con cui si è forgiato il carattere di una nazione. I cattolici Steed ne rappresentano l’aristocrazia colta e danarosa, dai nobili ideali, buone maniere e innato senso degli affari (il Maryland fu fondato dal cattolico Lord Baltimore, per concessione di re Carlo I d’Inghilterra e dunque, a differenza di altre colonie, fu inizialmente popolato da una forte componente cattolica). I quaccheri Paxmore ne interpretano invece la coscienza critica, la laboriosità, la frugalità e l’attitudine al rigore morale. Poi vengono i Turlock, che più di tutti incarnano l’uomo del Nuovo Mondo: l’origine è ai livelli sociali più bassi della vecchia Inghilterra, furfanti, ladruncoli, servi a contratto, miserabili che vengono scaricati oltre oceano per ripulire la madrepatria e diminuire le bocche da sfamare. Qui rimarranno sempre sostanzialmente “uomini delle paludi”: scaltri, rozzi, resistenti, dediti ad ogni tipo di promiscuità, privi di ogni morale, con una vitalità ed un istinto di sopravvivenza senza eguali, e soprattutto ferocemente determinati a difendere la propria libertà. Abbiamo poi gli irlandesi Caveny, fuggiti dalla fame, importati come manovalanza a basso costo e i cui connazionali sono in gran parte destinati a diventare maestri di scuola, poliziotti e funzionari pubblici. Last, but not least, vengono i neri Cater, che seguiamo dall’epoca dello schiavismo fino a quella dei ghetti, delle discriminazioni e delle successive ribellioni.
Il romanzo, scritto nel 1978, finisce negli anni immediatamente successivi al caso Watergate, e rappresenta un’occasione per sfogliare l’album di famiglia: dagli indiani che popolavano la baia prima dell’uomo bianco all’arrivo dei primi coloni, dalla guerra d’indipendenza alla guerra di secessione, dalle navi negriere alla lunga marcia dei neri d’America, dalla coltivazione del tabacco alle operazioni immobiliari. Alcuni ritratti sono davvero indimenticabili.
Ma come in tutte le foto ricordo, i luoghi sono altrettanto importanti. Bellissime pagine sono quindi dedicate all’aspetto naturalistico di questa baia scavata dal fiume Susquehanna, nella quale le acque dolci portate dai fiumi si mescolano con le acque salate dell’oceano, in un delicato equilibrio favorevole alle ostriche e ai gamberi. Il clima temperato della sua sponda orientale accoglie ogni autunno enormi stormi di oche provenienti dal Canada settentrionale. Le sue zone umide ospitano aironi, falchi pescatori, tartarughe e topi muschiati. Le sue dune argillose franano e risorgono dalle acque a distanza di migliaia di anni.
Da questa prospettiva, anche la grande battaglia che qui si svolse il 5 settembre 1781 tra la flotta inglese dell’ammiraglio Graves e quella francese guidata dal conte de Grasse, e che fu decisiva per la nascita dei futuri Stati Uniti d’America, sembra un semplice soffio di vento, un piccolo granello di sabbia, velocemente inghiottito da forze immensamente superiori.
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Prima che sia troppo tardi
Consiglio a tutti questo romanzo dolce e delicato, che con tatto, ironia e naturalezza tocca questioni come il decadimento fisico, la vecchiaia, la malattia e sfiora grandi temi come la convivenza pacifica di popoli diversi.
La natura, con tutta la bellezza e la crudeltà che la caratterizza, per gli anni del nostro tramonto spesso ci costringe a fermarci, a limitarci, ad affidarci alle cure degli altri, noi che negli anni migliori magari eravamo distratti, assorbiti solo a correre verso mete sempre nuove, senza mai tempo per ascoltare, mai tempo per vedere, per sostare, solo per fare.
La demenza senile, il “rimbambimento” come spregiativamente si potrebbe dire, è in effetti un po’ un tornare bambini, ritrovare il gusto dello stupore e della meraviglia, perdere quell’indipendenza che spesso ci illude di essere onnipotenti, ritrovare il limite e la necessità di doversi affidare agli altri.
E’ un deserto di umiliazione, imbarazzo e mortificazione da attraversare, nel quale fare nuove scoperte e vedere ogni cosa con occhi nuovi. E prima che sia troppo tardi e cali la notte, conviene attraversarlo questo deserto, senza rimpiangere il passato che ci vedeva dominatori, ma guardando avanti, verso l’alba che verrà dopo di noi.
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Ruggenti anni Venti
Più che una nuova recensione sul Grande Gatsby, ce ne sono già una cinquantina su questo sito, vorrei condividere la testimonianza di una “conversione”. Ho visto infatti che i pareri su quest’opera sono abbastanza discordanti anche se, a guardare la votazione media, prevalgono i giudizi positivi.
Da ragazzo, troppo presto, mi capitò di vedere il film del ’74, quello con Robert Redford, mi annoiai a morte e forse questo fu sufficiente per tenermi alla larga dal romanzo per tantissimo tempo. Ho visto poi anche il film con Di Caprio, del quale però ricordo solo la sua grande bravura di attore. Bravura che purtroppo ha condizionato anche la mia successiva lettura, non riuscendo a immaginarmi il protagonista in modo diverso.
La spinta decisiva me l’ha data Piero Dorfles. Nel suo elenco dei “Cento libri che rendono più ricca la nostra vita”, il capolavoro di Fitzgerald era una mie delle lacune più vistose. Ma, a riprova che ancora non ero del tutto convinto, invece di acquistare il libro, ho scelto di ascoltarlo in audiolibro, basato sulla traduzione di Roberto Serrai per Marsilio (2011). Sulla traduzione ritorno tra un attimo.
Prima voglio dire che questo romanzo mi è davvero entrato dentro. La prosa di Fitzgerald, certo, lo stile lodato anche dai lettori più critici, il linguaggio cinematografico, il ritmo tumultuoso. Eppure…
Eppure questo romanzo ha una poesia, qualcosa che ti colpisce nel profondo che sarà difficile da dimenticare. Trovo infatti che senza il legame con il contenuto, la prosa di Fitzgerald, bella ed efficace quanto si vuole, rischierebbe di risultare uno sterile esercizio di stile.
Commuove il fallimento esistenziale di un uomo con una vitalità così grande e disperata, un personaggio dal quale non potremmo sentirci più lontani, quando è all’apice del suo potere, e che tuttavia ci conquista nel momento in cui mette a nudo l’origine della sua “fame”, la condanna ad avere successo per poter coltivare l’illusione di inseguire i propri sogni e il bisogno di essere amato. Una grande penna, certamente, ma dietro la quale c’è anche il graffio dell’acuto osservatore sociale e la sensibilità del poeta.
Ora che Il grande Gatsby è uscito finalmente dalla mia wishlist, mi ripropongo di leggere altre opere di Francis Scott Fitzgerald, perché questa lettura mi ha fatto scoprire una personalità affascinante. Mi sono infatti appuntato anche il saggio di Pietro Citati “La morte della farfalla. Zelda e Francis Scott Fitzgerald”, che può aiutare a capire meglio l’universo dello scrittore.
Dicevo della traduzione. A testimonianza di quanto questo romanzo mi abbia conquistato, dopo averlo ascoltato in audiolibro, l’ho anche acquistato nell’edizione proposta dal Corriere della Sera nei “Classici” in uscita in queste settimane. La traduzione è quella storica di Fernanda Pivano.
Come ricorda Roberto Serrai nell’interessante intervista che conclude l’audiolibro da me ascoltato, c’è una sostanziale differenza di approccio tra il modo di tradurre più recente e quello in voga alcuni decenni fa. Secondo Serrai, ai tempi della Pivano c’era molta cura nel calare il romanzo nell’ambito culturale del lettore italiano, cercando di attutire la distanza culturale rispetto al linguaggio dell’opera originale. Al giorno d’oggi, invece, si ritiene che debba essere data la massima fedeltà al testo originario, anche quando questo possa comportare un maggiore “straniamento” per il lettore italiano. Se ho inteso bene, si tratta di un diverso modo di rispettare il lettore: allora in modo più “protettivo”, oggi in modo più “trasparente”.
E’ un tema, questo delle traduzioni, che mi sta appassionando. L’ho constatato anche recentemente con La peste di Camus, che ho letto in una traduzione recente (Yasmina Melaouah, per Bompiani, 2017) e parzialmente ascoltato su Rai Play Radio, in una lettura di Remo Girone che direi basata sulla versione di Beniamino Dal Fabbro del 1948.
Non sempre si ha il tempo, la voglia o la capacità di affrontare un testo in lingua originale. Trovo che il traduttore abbia una grande responsabilità ed un grande privilegio: quello di calarsi interamente nell’anima dell’autore, per offrirci la sua opera nel modo più limpido possibile.
Un bellissimo mestiere.
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Né santi, né eroi
Non è necessario essere santi, né eroi, ma non per questo ci si deve rassegnare al Male. Occorre invece combatterlo, curarlo, limitarne i danni, consapevoli che una vittoria definitiva non la potremo mai ottenere. Il medico non può impedire la morte, può semmai ritardarla, curare la malattia, conscio che si tratta sempre di successi provvisori.
Questo mi pare, in estrema sintesi, il messaggio di questo romanzo, che ho voluto leggere per la prima volta nel tempo dell’attuale pandemia.
Orano, un’anonima cittadina sulla costa algerina viene sconvolta negli anni Quaranta del secolo scorso da un’epidemia di peste. Stupore, incredulità, preoccupazione, panico, rassegnazione si susseguono velocemente tra i cittadini indifesi e le autorità impreparate a gestire la situazione. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista”.
L’amorfa collettività di Orano, senza caratteristiche particolari che la possano distinguere dall’Umanità tutta che vuole rappresentare, è il primo fondamentale personaggio del romanzo. Con i suoi bollettini sanitari, le ordinanze prefettizie, le inquietudini, le leggerezze, lo stato di perenne incertezza sulla durata dell’epidemia e dei provvedimenti, lo sfinimento dei medici e delle squadre volontarie di soccorso, i funerali negati, l’impaurita disciplina e l’altalenante emotività, è proprio questa la voce che noi lettori dei giorni del Coronavirus andiamo a cercare, raccogliendo analogie e discordanze.
Da questa moltitudine si distingue una manciata di personaggi che sostengono la trama e ne arricchiscono il significato allegorico.
Bernard Rieux è un giovane medico che con umanità, competenza, concretezza e testardaggine si batte senza sosta per salvare il salvabile. “L’essenziale era fare bene il proprio lavoro”. “Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile. E’ questa la cosa più urgente.”
Raymond Rambert è un energico e ambizioso giornalista, che si trova a Orano per lavoro allo scoppio dell’epidemia e, impossibilitato a ricongiungersi con i suoi affetti, è l’emblema degli esuli, delle persone e delle famiglie improvvisamente separate dal dilagare del male. “In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante”. Le numerose, appassionate pagine che Camus scrive su questa umanità divisa da una barriera ostile e impenetrabile ci fanno rabbrividire al ricordo di tutti i Muri, da Berlino in poi, che sarebbero stati costruiti, progettati o semplicemente vagheggiati nei decenni successivi.
L’onesto impiegato comunale Joseph Grand è un ometto triste, insospettabilmente romantico, alla perenne ricerca delle parole giuste, una persona rispettabile come ce ne saranno sempre, di quelle che il male non riesce proprio ad eliminare.
Il suo vicino di casa Cottard, al contrario, vive di espedienti, nel torbido prospera e lucra, teme il ritorno alla normalità, che lo rende scontroso e guardingo. Il disordine, invece, gli dona lucentezza e affabilità.
Il giudice Othon, algidamente disumano nella fanatica comprensione del suo ruolo, nella disgrazia più prevedibilmente trova un’occasione di redenzione.
Infine c’è il misterioso Jean Tarrou, il cui confronto con Rieux nel finale del romanzo ci fornisce la chiave per la sua interpretazione.
Intellettuale ed idealista ormai disilluso, Tarrou si trova in un vicolo cieco: la peste ce la portiamo dentro, è praticamente impossibile evitare di contagiare qualcuno (“allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare conto la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato”), nel combattere il male si rischia di generare altro male (“ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita”) e si può solo scegliere tra essere flagello o essere vittima. La terza categoria, quella dei veri medici, è la più rara, ed è la strada più difficile.
Un po’ più semplice, paradossalmente, è ambire alla santità, magari una santità senza Dio, fatta di pura compassione, ossia un immolarsi dalla parte delle vittime per giungere infine alla pace.
Il dottor Rieux, obietta: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.
Scrivendo nel 1947, sulle macerie provocate dal Male assoluto, in un periodo di grande tensione ideale e di scontro ideologico, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di costruire la società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato: è una speranza vana, fonte di ulteriori sofferenze e distruzioni, come la Storia ha ampiamente dimostrato. Tra l’intransigente purezza della santità e tutti i limiti di un’umanità imperfetta, meglio la seconda.
“Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.
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Prendersi cura
Romanzo delicato sul disagio giovanile visto da dentro, dalla parte dei protagonisti, mentre al di là del vetro, a guardarli, ci siamo noi, “le persone di buon cuore”, quelle che vedono solo la punta dell’iceberg e si preoccupano delle cose in fondo meno importanti, provocando anche qualche danno nel tentativo di fare del bene e ferendo sensibilità tramite la pietà e la compassione.
Il disagio in questi romanzo ci appare meno crudo eppure più profondo perché non è rappresentato nelle difficoltà pratiche e materiali (per quelle ci sono le persone di buon cuore), ma soprattutto nei sentimenti. E’ un romanzo tutto sul prendersi cura e sull’abbandono. Quanto amore c’è nel prendersi cura e anche quanto ce ne può essere nel non riuscirci , e persino quanto se ne può nascondere nell’abbandono, nella fuga dagli affetti e dalle proprie responsabilità.
L’amore può prendere strade strane, contorte, perché si mescola alle nostre paure, debolezze, insicurezze, inadeguatezze. La differenza è data dalla forza (che la Forza sia con te!), e dunque distinguiamo chi riesce a vincere le proprie paure e a respingere i mostri al di là del muro e chi non ci riesce, non sempre almeno, e dunque fugge, o si rifugia in vizi e dolori che rinchiudono il proprio amore in spazi angusti di solitudine e smarrimento.
Fabio Geda, che prima di fare lo scrittore ha lavorato nei servizi sociali occupandosi di disagio giovanile, ci descrive adolescenti e persino preadolescenti che le necessità della vita fanno maturare prima del tempo, tanto da diventare più forti dei loro smarriti genitori: adulti prigionieri delle proprie debolezze, della difficoltà di comunicare, incapaci di incanalare il loro amore dentro argini sicuri e protettivi. Dimenticano purtroppo che di questo amore, anche se fragile, inespresso, o espresso malamente, seppellito o soffocato dalle abitudini e dalle tonnellate di orpelli che gravano sulla vita adulta, i figli hanno un disperato bisogno, lo richiedono più e prima di ogni altra cosa, tanto da farsi loro stessi argine contro le avversità, pur di ristabilire un contatto autentico con chi li ha messi al mondo.
La forza deriva frequentemente dal coraggio e in Anime Scalze conosciamo due ragazzi davvero coraggiosi, ognuno a suo modo. Il modo paziente e silenzioso di Asia, che a dodici anni si trova a supplire il ruolo di una mamma improvvisamente scomparsa, e il modo più appariscente di Ercole, che già nel nome contiene un destino di gesti ed imprese sopra le righe.
Nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza c’è un altro elemento imprescindibile: la ricerca della verità. Quando papà e mamma cessano di essere due maghi onnipotenti e onniscienti, si ha bisogno di vederli nella loro autentica umanità. Questo turba, preoccupa, impaurisce: eppure non c’è limite, difetto, colpa o delitto che possa frenare l’amore dei figli quanto invece può allontanarli la menzogna o l’occultamento della verità.
Gli adolescenti di Anime Scalze hanno tanto da insegnare agli adulti. Più che insegnare, riescono a disseppellire quelle qualità che gli adulti hanno ormai dimenticato, distratti da tante incombenze in fondo così poco importanti. E’ semplice, in fondo: alla base di tutto c’è il coraggio, che dà forza, e conduce alla verità. Coraggio, forza e verità creano quello stato di fiducia così importante per affrontare con serenità tutto il corso della vita.
“Sapevo di avere Viola alle spalle, le sentivo il fiato e intravedevo gli spruzzi del remo nell’acqua. E sapevo che non mi sarei dovuto voltare a cercarla. Procedevamo allo stesso ritmo, negli occhi la partenza, che quella la si conosce sempre, e nel respiro una quieta fiducia, come quella di certe anime scalze mentre risalgono i fiumi in cerca della sorgente”.
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Agnello sacrificale
La chimera, premio Strega 1990, è un romanzo storico bello e interessante, ambientato nei due decenni a cavallo tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600 a Novara e nella campagna che da questa città si spinge a occidente fino al fiume Sesia, cioè nelle zone dove Sebastiano Vassalli, nato a Genova da padre lombardo e madre toscana, trascorse gran parte della sua vita.
A differenza di tanti romanzi storici capaci di scalare le classifiche di vendita grazie a colpi di scena e atmosfere da thriller, La chimera non cerca di impressionare il lettore con la spettacolarizzazione della Storia e mantiene costantemente uno stile distaccato e un linguaggio in cui ogni parola sembra essere accuratamente studiata e soppesata.
E’ evidente, palpabile, il minuzioso e accurato lavoro di ricerca che lo scrittore ha condotto e la passione con la quale ha riportato indietro di quattro secoli il paesaggio, l’ambiente e la società di un territorio oggi attraversato dalla linea ferroviaria dell’Alta Velocità e dalle tratte autostradali che uniscono Milano, Torino e Genova e che ai contemporanei sembra così grigio, piatto e anonimo da non riuscire ad immaginare che potesse aver avuto, in un tempo nemmeno troppo distante, una vita animata e degna di essere raccontata.
In questo romanzo ho trovato decisamente più interessante il contesto e la ricostruzione storica che la trama, in sé molto scarna: il processo per stregoneria a una giovane ragazza “esposta” (cioè abbandonata alla nascita e presa in carico da un convento) e adottata da una coppia di contadini di Zardino, un villaggio che, come dichiarò l’autore, è esistito realmente, tra gli attuali comuni di Recetto e Vicolungo (dove oggi sorge un famoso centro commerciale) e che poi scomparve, forse travolto da un’alluvione del Sesia.
Mi ha molto interessato la descrizione della società dell’epoca, con una inevitabile eco del capolavoro manzoniano, cui più volte l’autore sembra richiamarsi in una sorta di contrappunto. Ritroviamo quindi la dominazione spagnola con le sue grida inutili, emesse tanto per mostrar di far qualcosa, i signorotti locali e le loro angherie compiute sul contado, i bravi, i criminali che trovano asilo e protezione nei conventi (e che però, non toccati dalla divina provvidenza, non si redimono).
Nel romanzo di Vassalli vediamo anche il lato oscuro della Chiesa e del potere ecclesiastico, fatto di intrighi, strategie e cinica consapevolezza che il male che alberga nel cuore di ogni uomo può essere accarezzato, manipolato e utilizzato in nome di qualche santa finalità, senza troppo curarsi né delle vittime, né degli occasionali vantaggi materiali e terreni che questa spregiudicatezza può portare a un buon numero di peccatori, uomini di Chiesa inclusi, né dei vizi o delle nefandezze private alimentati in nome della difesa di qualche pubblica e sacra virtù.
Si tratta della Chiesa che manda le streghe e gli eretici al rogo senza sporcarsi le mani, infatti la condanna e l’esecuzione della pena sono compiuti dalle autorità civili, limitandosi la Santa Inquisizione a cercare con ogni mezzo (proprio con ogni mezzo) un segno di pentimento “sincero” e sufficientemente evidente da permettere di capire che l’anima e il corpo della sventurata o dello sventurato non siano ormai irrimediabilmente posseduti dal demonio.
Vassalli ci parla anche di altri protagonisti della Storia, meno noti, come i risaroli, sorta di braccianti che ogni anno scendevano dalle montagne per raccogliere il riso in condizioni di schiavitù, una piaga che stranamente, osserva, è passata sotto silenzio, o come i “camminanti”, vagabondi senza fissa dimora che rifiutavano il lavoro e vivevano di espedienti, o come i “quistoni” che nella zona di Novara era il termine usato per i falsi preti che giravano nei paesi per raccogliere elemosina, vendere indulgenze, prescrivere medicamenti e interessati consigli.
Antonia, la protagonista del romanzo, in fondo è un semplice pretesto per raccontare una delle tante vicende di oscurantismo che appartiene al nostro passato italiano, europeo, occidentale. Una storia in cui il fanatismo di pochi, l’ignoranza di molti, l’intreccio tra politica e religione e tanta corruzione a tutti i livelli della società potevano mandare a morire una ragazza innocente di vent’anni, bollandola come “la strega di Zardino”.
Il sacrificio di Antonia è stato l’esito imprescindibile di un fitto intreccio di convenienze e casualità. Le rivalità da cortile e le maldicenze messe in circolo nelle chiacchiere tra comari sono state solo la scintilla che è poi divampata in incendio per una triste combinazione di casualità e interessi personali, politici, curiali. Un ingranaggio implacabile che, una volta azionato, non ha più potuto essere fermato.
Il libro si chiude con un proclama di ateismo e con l’amara constatazione che dopo tanto affannarsi esiste solo il nulla, che inghiotte tutto e tutti, colpevoli e innocenti, vincitori e vinti. Ma questi sono altri discorsi, altre temi per infiniti altri libri.
In conclusione, il Seicento di Sebastiano Vassalli, mai rischiarato dalla luce della fede e mai coperto dal velo della pietà, è più crudo, cupo e disperato del Seicento del Manzoni e si percepisce come molto più realistico. Di Vassalli ho apprezzato moltissimo anche lo sforzo di far parlare la terra, con le sue tradizioni, le sue espressioni, i suoi umori, il suo clima, il suo paesaggio. Detto questo, non me la sento proprio di accostare le due opere. Appartengo ad una generazione per la quale quella manciata di mostri sacri che ci hanno tanto afflitto sui banchi di scuola continuano a metterci soggezione e ci obbligano a classificarli “fuori concorso” in qualsiasi successivo giudizio letterario! :-)
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Sottomessi
“Sono corso verso il Nilo” è un bel romanzo di uno scrittore molto interessante che ho scoperto grazie alle recensioni di questo sito.
E’ un romanzo che nasce dall’impegno civile di ‘Ala al-Awani, dentista, scrittore e attivista del movimento egiziano per la democrazia Kifaya nel quale ha partecipato alla rivoluzione egiziana del 2011.
Indipendentemente dalla tensione morale e dai principi etici che ne stanno alla base, il romanzo mi ha positivamente impressionato per la capacità di tratteggiare un quadro molto ampio della società egiziana in molti dei suoi ceti, da quelli più popolari a quelli appartenenti all’oligarchia al potere. Da questo punto di vista, l’autore riesce ad illustrare in modo più leggero e ad un pubblico più ampio ciò che saggi politici o sociologici o inchieste giornalistiche cercano più faticosamente di raccontare, raggiungendo inevitabilmente un pubblico più ristretto. Inoltre si tratta di un libro letterariamente molto valido, con una storia avvincente nella sua drammaticità, uno stile fresco e godibile, personaggi interessanti e credibili. Non c’è un vero e proprio protagonista, ci sono una decina di personaggi, una decina di storie ugualmente importanti che si intrecciano e si alternano nella narrazione, contribuendo a rendere l’opera corale e avvolgente, ci si sente davvero immersi in un’atmosfera elettrizzante di cambiamento (su cui incombe la cupa consapevolezza di come andrà a finire), arrivando però a cogliere anche le ragioni di chi difende il regime e soprattutto dei moltissimi indifferenti, rappresentati nella loro quotidiana normalità, nella difficile arte di farsi strada nella vita senza mai ribellarsi e rimanendo costantemente vigili e pronti ad approfittare di ogni occasione di progresso per sé e soprattutto per i propri figli.
Ovviamente il tema religioso emerge ad ogni pagina, quasi ad ogni riga, ma in modo naturale, senza le forzature e le semplificazioni che in occidente ci siamo abituati a fare dall’inizio del XXI secolo. L’Islam di per sé non spiega né il regime oppressivo, né la corruzione, né le violenze o le discriminazioni: in nome della fede religiosa si può scendere in piazza per chiedere il cambiamento, oppure stare dall’altra parte della barricata e difendere il potere costituito, oppure tenersi fuori da tutto questo e continuare a fare la stessa vita di sempre. Ciò che l’autore rimprovera al suo popolo è di essere sottomessi non a Dio (in arabo muslim significa “sottomesso a Dio”), ma a chiunque eserciti il potere e di farsi manipolare da chi usa la religione, la corruzione e la polizia segreta per difendere i privilegi dell’oligarchia al comando, che detiene le redini del potere indipendentemente dal leader politico occasionalmente al governo.
Dal romanzo emerge poi anche il volto del fascismo, sempre uguale in tutte le latitudini e in tutte le culture: la repressione violenta e la tortura hanno l’obiettivo di annientare la persona nella sua dignità, di farla sentire una nullità, di mutilarla nello spirito ancora più che nel fisico, perché il fascismo di ogni epoca e paese pretende che non esistano individui, persone, ma soltanto masse indistinte, manipolabili e plasmabili con la propaganda.
In conclusione, un romanzo consigliabile a tutti per la sua qualità letteraria, per l’incisiva rappresentazione di un’importante realtà sociale contemporanea e per l’elevato valore morale che la ispira.
“Questa è la verità, Mazen. Io sono davvero una nullità, tu sei una nullità, tutti i ragazzi della rivoluzione sono una nullità. Ci hanno fatto, e continueranno a farci, tutto quel che vogliono. Ci ammazzeranno, ci violenteranno, ci faranno perdere un occhio con un proiettile di gomma, e nessuno sarà mai giudicato, nessuno mai pagherà. E sai perché? Perché siamo una nullità; perché abbiamo fatto una rivoluzione di cui nessuno aveva bisogno e che nessuno voleva. Lo so che tu credi ancora nel popolo. Io, invece, non ci credo più. Questo popolo, per la cui libertà e dignità sono morti i migliori di noi, non sa che farsene di libertà e dignità. Ti chiedevi il perché di tutto l’odio che abbiamo visto negli occhi degli ufficiali che ci ammazzavano. E’ perché loro detestano quello che noi rappresentiamo. E’ perché noi chiediamo di essere cittadini e non schiavi. Il popolo per cui abbiamo fatto la rivoluzione, Mazen, odia noi e odia la rivoluzione”.
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Monumento all’umana caducità
Sono tornato alle pagine del Gattopardo dopo tanti anni, trovando la conferma, una volta di più, di quanto sia bello e necessario continuare a leggere e rileggere i classici.
Questa volta ho scelto la versione in audiolibro, splendidamente interpretata da Toni Servillo. Una versione che esalta la parabola esistenziale del Principe di Salina, quel suo rimirar le stelle a fronte della pochezza delle vicende umane.
L’arcinota denuncia del cinismo e dell’opportunismo che caratterizzano ogni epoca di veloce trasformazione (quel “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” ormai diventato proverbiale, tanto che ha finito per rinchiudere le bellissime pagine di questo romanzo in un recinto troppo angusto) si trasforma, in questa mia nuova “lettura”, nel disincanto di chi capisce tutti i limiti del vecchio come del nuovo ordine e li osserva con malinconico distacco.
Memorabili i dialoghi nei quali vediamo all’opera il Gattopardo nei suoi rapporti con i Borboni (l’udienza con re Ferdinando) , con i piemontesi (la visita del prefetto Chevalley, in cui rifiuta il seggio senatoriale), e con i suoi dipendenti (“questi liberalucoli di campagna”) tanto indolenti quanto calcolatori, avidi e rapaci, che rappresentano il ceto emergente, lesto a cogliere l’occasione per saltare sul carro del vincitore (“le rondini avrebbero preso il volo più presto”), miseri “sciacalletti e iene”, destinati a rimpiazzare i gattopardi e a costituire la futura classe dirigente soprattutto in forza dei loro limiti e della loro inconsapevolezza.
Don Fabrizio si trova più a proprio agio con uomini schietti e sinceri, “snob” ante litteram, come l’organista don Ciccio Tumeo, che sdegnati dal conformismo truffaldino dei tempi nuovi preferiscono aderire tardivamente alla fazione sconfitta (“ero un fedele suddito, sono diventato un borbonico schifoso”) e trova intellettualmente e spiritualmente più stimolante il rapporto con esponenti di un potere eterno e carico di storia come il gesuita padre Pirrone. Solo per dovere sociale subisce la frequentazione, in tempi diversi, tanto della decrepita aristocrazia in disarmo, quanto dei rozzi e incolti uomini nuovi, come quel don Pietro Sedara che con rassegnato senso di ineluttabilità accoglie persino nella propria famiglia.
A plasmare il romanzo, più che i fatti e gli avvenimenti, sono soprattutto i pensieri del Principe, l’indulgenza verso la debolezza umana (“non era lecito odiare altro che l’eternità”), il continuo richiamo della sensualità (“pecco per non peccare più”) e le numerose riflessioni sulla Sicilia (“questo è il paese degli accomodamenti”), sulla sua storia (“sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate”) e sui siciliani (“in Sicilia non importa far male o far bene, il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”).
All’ombra del Principe, a movimentare, contestualizzare ed intervallare il flusso principale della narrazione, si consumano anche vicende minori, come lo struggimento dickinsoniano della figlia Concetta, infelicemente innamorata del cugino Tancredi, o come il dramma privato di padre Pirrone, chiamato a risolvere nel più tradizionale dei modi una vicenda d’onore che coinvolge la sua famiglia.
In conclusione, un romanzo che pare un monumento alla caducità umana, che si apre nel mese di maggio 1860 tra gli eccessi di un giardino dagli odori fin troppo prepotenti e nauseabondi e si chiude esattamente cinquant’anni dopo nello stesso mese, tra ossa, carcasse imbalsamate e polvere da gettare nell’immondizia.
Non stupisce che alla sua uscita, negli anni ’50 della ricostruzione post bellica, non abbia incontrato lo spirito del tempo, né che molti addetti ai lavori abbiano criticato l’argomento passatista, l’orientamento antistorico, lo stile decadente e poco innovativo. A noi che leggiamo per puro diletto, Tomasi di Lampedusa regala invece una prorompente sensazione di bellezza e immortalità, tuttora in grado di affascinarci, anche per via del continuo filo di ironia, che non viene mai meno. “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto un totale di due, tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare, tutto il resto: settant’anni”.
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Sei anni e cammina come un uomo
Paola Mastrocola è una scrittrice che mi piace molto perché scrive storie sempre un po’ vestite di elementi surreali per parlare meglio di argomenti concreti e contemporanei, piuttosto ben radicati nella nostra esperienza di vita quotidiana.
Questa volta ci parla con il consueto garbo e gentilezza di infanzia, di mura domestiche che custodiscono i nostri affetti e che impediscono di conoscerli fino in fondo, di periferie metropolitane che una volta erano state paesi a sé, e che poi hanno lasciato inghiottire i propri abitanti in una folla di solitudini e desideri, confondendoli in un groviglio di frettolosa modernità e di antiche vicinanze.
Una di queste periferie è il Bussolo, dove vive Katia, una giovane mamma con una vita di corsa, un lavoro al supermercato, al suo fianco un ometto di sei anni e nessun altro.
E poi c’è quella cosa strana e sconveniente che stupisce, disorienta, crea imbarazzo, irritazione, derisione e incredulità e che è la preghiera.
La veloce trasformazione del Bussolo, la sua urbanizzazione gonfia di vetrine, merci, orari, impegni e consumi aveva fatto mettere un po’ a tutti in soffitta la vecchia mercanzia delle nonne, i pomeriggi a giocare sul pavimento, le favole del coniglio Niglio, i materassi di lana, gli agnolotti a Natale e tutto quel tempo da riempire con le parole, i gesti, l’ascolto e le preghiere. Soprattutto le preghiere erano finite nel fondo del baule, dimenticate e sepolte da mille altri oggetti, ricordi e cimeli.
Ma qualche volta succede che i bauli si riaprono, le parole riaffiorano, la nebbia si dirada e la memoria ritorna. Bisogna però che ci sia uno scossone, qualcosa che ci spinga ad andare in soffitta. Come vedere un bambino che prega, con sincerità e spontaneità, ovunque gli capiti. Prega per essere meno solo su questa terra e per sentirsi unito a chi ama, che è forse il senso vero della preghiera in ogni tempo e in ogni luogo.
Vedere la preghiera uscire dai rassicuranti recinti delle chiese e dei monasteri, dal buio delle camerette o dal chiuso delle nostre menti per invadere il mondo libera e impudica, senza nemmeno il velo del bigottismo a ricoprila, è qualcosa di urticante e disturbante. I più impauriti, possono reagire con rabbia e aggressività. Eppure, manifestare i propri sentimenti più profondi è una via che infallibilmente conduce a molte sorprese.
Idea e soggetto molto belli e interessanti, il rischio di didascalismo aleggia un po’ dappertutto e rende lo stile meno brillante e tonico del solito, a partire da circa metà del romanzo.
Il tocco lieve, la capacità di trovare la bellezza nella normalità delle piccole cose, un pizzico di magia e qualche valido spunto di riflessione valgono la lettura.
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Ricordati di me
Dopo aver apprezzato la scrittura di Paolo Cognetti in storie di uomini e montagne (Il ragazzo selvatico, Le otto montagne) ho voluto leggere questa sua opera precedente (pubblicata nel 2012) dove parla soprattutto di donne e di città.
In dieci frammenti che possono essere letti anche come racconti indipendenti, Cognetti compie una sorta di viaggio-inchiesta su Sofia, una ragazza dal mondo interiore complesso, puntando a lungo i riflettori anche sulla sua famiglia e sulle persone che più hanno contato nei suoi primi trent’anni di vita.
La conosciamo bambina sensibile tra sogni di pirati e marinai, immersa in una fratellanza con i maschi per non seguire le orme e il destino di una mamma prigioniera della depressione. E’ in quella stagione che si fondano tutte le paure e le ansie successive. La vediamo poi adolescente ribelle in guerra con il proprio corpo e in fuga da se stessa, e infine la ritroviamo trasformata in giovane donna con addosso l’aria di essere sopravvissuta ad un naufragio.
Ad un naufragio in effetti si assiste, ed è quello della famiglia tradizionale, fatta di una mamma, un papà, una figlia e di un secondo figlio che non arriverà mail, la carriera e una casetta appena fuori città per fuggire i rumori esterni e i litigi domestici e per cercare una nuova pace, una vita ordinata da regole, preghiere, legami, rispetto delle forme e senso di responsabilità. Da tutto questo fugge Sofia, buttandosi in ogni sua nuova avventura con slancio, senza crederci e senza pensarci troppo.
Nei dieci racconti leggiamo anche altre storie di fuga dalla realtà, come quella di Roberto, il papà di Sofia, ingegnere all’Alfa Romeo, che affoga la propria inquietudine prima nel lavoro, poi in una relazione extra-coniugale che lui trasforma con ingegneristica maniacalità in una sorta di matrimonio parallelo e infine nel distacco e nella tolleranza zen. O come la storia di Rossana, la mamma dalle aspirazioni artistiche interrotte dal matrimonio riparatore e in perenne e inconcludente ricerca di una stanza tutta per sé. O infine come Marta, la sorella di Roberto, una passato da giovane rivoluzionaria per approdare alla mitezza, all’indipendenza e al buonsenso pratico di una vecchia zia. In fondo, anche se in qualche occasione Sofia ci suscita la tentazione di assestarle “quattro sberle benedette”, giusto per rimanere nel campo della finzione letteraria, dobbiamo convenire che il suo modo di indirizzare la propria irrequietezza non è peggiore di tanti altri, solo un po’ più visibile, più aperto e più sincero. Glielo aveva predetto la giovane infermiera, anche lei in fuga da un passato contadino e opprimente, che assistette al suo parto prematuro e che vegliò sulle sue prime notti: “Sofia, sai cos’è la nascita? E’ una nave che parte per la guerra”.
La sequenza dei racconti non rispetta sempre l’ordine cronologico, tra l’uno e l’altro ci sono diversi buchi temporali e le storie, che si sviluppano a Milano, Roma e New York, si fondono e si completano l’una con l’altra attraverso flashback e anticipazioni, diventando un unico romanzo.
La circolarità dell’opera è accentuata dalla scelta di far comparire l’io narrante (Pietro, alter ego di Cognetti e aspirante scrittore) soltanto nell’ultimo racconto, nel quale Pietro incontra Sofia a New York e ne viene tanto colpito da ricevere l’ispirazione per superare il blocco in cui si era arenato e decidere di scriverne la storia, che infatti inizia con la forma del narratore onnisciente.
Ricordati di me, sembra voler dire Sofia a Pietro l’ultima volta che si vedono sul terrazzo di Columbia Street. Sarà difficile dimenticarla.
Che parli di montagna o di città, di uomini o di donne, Cognetti riesce a rendere sempre interessanti i suoi personaggi e gradevole il tempo passato in loro compagnia. L’autore scava con delicatezza e leggerezza nell’emotività delle sue creature e ne estrae piccole gemme che impreziosiscono vicende tutto sommato comuni, riuscendo a superare con naturalezza anche gli snodi più drammatici come la malattia, la morte, l’abbandono, il tentato suicidio.
Il tratto stilistico è intimista e riflessivo, ma colpisce anche l’ambientazione spazio-temporale curata e credibile. Pur non potendone avere esperienza diretta, per ragioni anagrafiche, l’autore riesce a tratteggiare con buona padronanza la Milano degli anni settanta, l’Alfa Romeo, il declino della grande industria manifatturiera, l’estremismo politico, la costruzione dei quartieri residenziali suburbani.
Il racconto finale, Brooklyn Sailor Blues, è molto affascinante proprio dal punto di vista dell’ambientazione. E’ il punto in cui l’autore, che di New York ha scritto anche una guida, si scopre di più e nel quale cerca di dare un senso e un indirizzo a tutti gli altri: un finale che è anche una cornice.
In definitiva, uno scrittore interessante, da seguire nei suoi prossimi lavori.
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Il cineromanzo
Questo romanzo di Donato Carrisi, dal quale egli stesso ha ricavato un film con un cast notevole, ha finora ottenuto valutazioni e giudizi molto buoni su questo sito. Li condivido solo in parte.
Si tratta di un poliziesco in cui c’entra poco la nebbia (se non in senso metaforico) e abbastanza poco anche la ragazza, anche se il carico emotivo della storia si gioca tutto sulla scomparsa di una sedicenne tutta casa, scuola e parrocchia in un paesino di montagna la cui vocazione turistica è stata bruscamente interrotta dall’arrivo di una multinazionale dell’industria mineraria, con tutte le immaginabili conseguenze ambientali, economiche e sociali del caso.
L’essenzialità della trama nasconde in realtà doppie o triple verità, in un gioco di apparenze, specchi e manipolazioni che si fondano sull’uso mediatico dei casi giudiziari, un’arena spietata nella quale tutti combattono contro tutti per conquistare il consenso del pubblico assetato di sangue e salvarsi la pelle sopprimendo l’antagonista più esposto.
Avevo visto il film l’anno scorso e ne ho rivisto una parte (il finale) in un recente passaggio in TV. Poi, abbastanza casualmente, mi sono ritrovato in un pomeriggio a leggere anche il romanzo. Personalmente trovo che il binomio romanzo + film funzioni bene. Il romanzo da solo è piuttosto freddo e artificioso, ma anche chiaro, veloce e scorrevole che di più non si può. Il film guadagna parecchio in atmosfera ma è un po’ confuso e lascia con una sensazione di smarrimento (se non si ha letto il libro). Insieme si sorreggono e compensano egregiamente i reciproci difetti. Nessuno dei due però riesce ad evitare lo sciagurato svolazzo finale (le ultime tre pagine del romanzo, l’ultima scena del film) che produce l’effetto di uno stucco rococò piantato in mezzo ad un arredamento high tech.
Parliamo del romanzo. I personaggi principali sono stilizzati con pochi tratti e avrebbero potuto acquistare ben altro spessore se solo la penna, senza perdere in velocità, avesse saputo incidere un po’ di più (Simenon, abbi compassione e illumina i tuoi poveri discepoli). I personaggi di seconda fila sono prevalentemente dei cliché abbastanza grossolani: la mamma bigottissima, la giornalista iena, il vicino di casa arricchito, la teen-ager scentrata, siamo più vicini al fumetto che al romanzo. Lo stile non è affatto brutto e la tensione narrativa non viene mai meno. Ciò che si offre è intrattenimento “intelligente”, ovvero un giallo che ci parla di aspetti inquietanti della nostra contemporaneità. In questo l’obiettivo è pienamente raggiunto. Con l’aggiunta del film, anche meglio. Lo scrittore-regista è molto bravo.
Toni Servillo è geniale nel dare un’anima all’incompiuto ispettore Vogel. Il talento di Alessio Boni è indispensabile per circondare di un alone di ambiguità un professor Martini altrimenti poco credibile e totalmente asservito alle esigenze della trama. Infine l’esperienza e il carisma di Jean Reno ci fanno dimenticare quanto sia fondamentalmente posticcio il personaggio dello psichiatra.
Potrebbe essere l’inizio di un nuovo prodotto, il pacchetto film più romanzo, paghi uno e prendi due. Idea molto interessante, ne possono nascere cose.
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Il codice del mondo
Di questo grandioso poema posso solo dare qualche fuggevole e parziale impressione: ho troppo pudore e soggezione per dire di più.
Innanzi tutto preciso che l’ho ascoltato nella bellissima versione in audiolibro letta da Piero Baldini, un’interpretazione davvero coinvolgente.
Ho trovato e riconosciuto tutti i temi anticipati dai manuali di letteratura: la lotta dell’uomo per il dominio sulla natura, il senso del limite e la febbrile ambizione di sfidarlo e superarlo, l’ossessione puritana per il Male che perversamente attrae l’uomo e lo spinge a combatterlo, i demoni che abitano e sconvolgono la psiche umana, la catastrofe annunciata in ogni proposito di vendetta, la vitalità e la furia distruttrice dell’odio.
Mi ha impressionato soprattutto il carattere “enciclopedico” dell’opera, quasi che l’Autore (che per otto anni fu marinaio e baleniere) intendesse rappresentare il senso della vita dal punto di vista di un cacciatore di balene: si scandagliano scienze, storia, filosofia, religione, sociologia, economia e antropologia per comporre una sorta di codice del mondo attraverso le balene, i mari, le navi baleniere e i loro equipaggi.
La difficoltà, o il piacere, della lettura riguardano proprio questo aspetto. Lo stile e la scelta narrativa sono poco compatibili con il mondo contemporaneo, che scivola veloce e iperconnesso sulla superficie di ogni cosa. Non è solo questione di età dell’opera o di appartenenza all’Olimpo dei classici. Probabilmente questo romanzo risultava un po’ troppo ambizioso e pretenzioso persino per l’epoca in cui fu scritto.
Eppure, se solo si ha la pazienza di fermarsi, di lasciarsi sprofondare nel fascino dell’immensità degli oceani, che aprono spazi infiniti per pensare, ascoltare, assaporare ogni più piccolo dettaglio che riempie e colora il tempo di una lunghissima navigazione, ecco se si affrontano le ampie, meticolose (e qualche volta pedanti) divagazioni dell’Autore con questo spirito, la trama e la meta non diventano così importanti quanto il viaggio, i personaggi e le mille storie con cui si inganna l’attesa della caccia alla balena bianca. Insomma, non si tratta di “salgarismo”, è un caso molto diverso rispetto alle lezioni di botanica che ci venivano inflitte ogni volta che il Corsaro Nero e i suoi compari inciampavano in una radice di baobab nel cuore della foresta. In Moby Dick le divagazioni non interrompono l’azione, ma sono esse stese sostanza ed essenza dell’opera. E’ questo l’aspetto che ritengo utile sottolineare prima di consigliarne o sconsigliarne la lettura.
Si tratta di attendere semplicemente il momento adatto.
“Come può il carcerato evadere se non forza il muro? Per me la Balena Bianca è quel muro, che mi è stato spinto accanto. Qualche volta penso che al di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Mi mette alla prova, mi sovraccarica: io vedo in lei una forza oltraggiosa innervata da una malizia imperscrutabile. Quella cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena Bianca l’agente o sia il mandante, io le rovescerò addosso questo mio odio…”
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Attrazione fatale
Ho letto, o meglio, ascoltato in audiolibro (prima esperienza che faccio di questo tipo) Le otto montagne di Paolo Cognetti e mi è piaciuto molto.
L’attrazione fatale a cui mi riferisco nel titolo è ovviamente per la montagna, dominatrice fredda, eterna e assoluta del romanzo, rispetto alla quale tutte le vicende umane sono insignificanti e passeggere.
E di umane vicende si occupa molto Cognetti nella sua storia, soffermandosi in particolare su due temi che ricorrono abbastanza frequentemente nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le latitudini: il rapporto padri e figli (con la scoperta tardiva del padre) e l’amicizia fraterna, il sodalizio spirituale di una vita.
Cognetti ha uno stile semplice e lineare eppure, complice anche la bella lettura che ho ascoltato, in diversi punti mi ha davvero emozionato. Lo avevo già conosciuto con “Il ragazzo selvatico”, ma quest’opera successiva, vincitrice del Premio Strega 2017 è indubbiamente più completa e matura.
Nel suo blog Cognetti racconta che la storia gli è cresciuta tra le mani in modo spontaneo e naturale, ma a me sembra che la forza, la spinta propulsiva, il magnetismo che cattura il lettore fino alla fine senza cedimenti anche nei passaggi un po’ più “costruiti”, sia tutto nella prima parte, che ho trovato davvero magica.
Consiglio questo libro soprattutto a chi storce il naso al solo sentire nominare la montagna, associandola all’idea di noia e monotonia. Io credo che non vi annoierete affatto e se i ghiacciai, i laghi, i torrenti, “l’odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna” non fossero sufficienti a smuovere alcunché nel vostro animo cittadino, potrete sempre intrattenervi con riflessioni da perfetto “flâneur”, del tipo: davvero , o ancora, esistono persone che non possono sottrarsi al destino che hanno ricevuto con il sangue, l’educazione, la terra che hanno calpestato da bambini? C’è qualcosa per cui siamo nati e da cui dobbiamo farci guidare non tanto per essere felici, ma semplicemente per essere noi stessi? Se il mondo fosse fatto di otto montagne che circondano un monte altissimo, lo si conosce e capisce meglio salendo in cima alla vetta più alta o facendo il giro delle altre otto? E dal punto in cui ti trovi, in un torrente, il futuro è a valle, verso cui scorre l’acqua, o a monte, alle tue spalle?
Vi lascio il piacere di cercare le vostre personali risposte, ma sull’ultima domanda vi anticipo la risposta dell’autore:
“Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro è a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.”
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Credersi agnelli e scoprirsi lupi
Un polpettone di 650 pagine che si svolge nell’arco di 60 anni (da metà del ventesimo secolo ai giorni nostri) in tre diverse parti del globo (Stati Uniti, Germania Est, Bolivia).
Un groviglio di storie (ognuna delle quali discretamente interessante di per sé) per le quali inizialmente si è erroneamente indotti a pensare che le coincidenze siano un po’ troppe, ma un po’ alla volta scopri che non si tratta affatto di coincidenze e che niente è per caso.
Quattro personaggi centrali, nessuno dei quali è pienamente il protagonista (sono infatti quattro destini, quattro vite che si incrociano, si contaminano e corrompono reciprocamente).
Purity, ovvero dell’irrealizzabilità dell’ideale di purezza. Non basta ovviamente chiamarsi Purity, come la simpatica e squattrinata ragazza che dà il titolo al romanzo (più che una protagonista, un fil rouge che lega le diverse storie) e non basta essere un bravo e coscienzioso giornalista americano (i segreti, gli scheletri che pietosamente hai contribuito a nascondere, prima o poi torneranno a perseguitarti). Ovviamente per essere puri non è sufficiente allontanarsi dalla propria famiglia miliardaria e vivere in povertà, se il prezzo è affliggere il prossimo con le proprie nevrosi e ossessioni. E infine, la strada di chi vuole “rendere il mondo un posto migliore” è fin dall’inizio piena di insidie, perché il potere che ne deriva si rivela tossico per le menti disturbate che hanno bisogno di pensare di poter redimere il mondo.
Si parla molto di internet, dei suoi effetti invasivi sulle nostre vite, di quanto può essere pericolosa la concentrazione delle informazioni nelle mani di pochi, soprattutto se si realizza con mezzi illegali (i riferimenti ai casi Wikileaks e Snowden sono così insistenti che finiranno per annoiarvi) tanto che il romanzo alla sua uscita in Germania e Spagna nel 2015 venne presentato come un libro su internet, costringendo l’autore a smentire.
Ho letto un’intervista a Franzen nella quale dichiara che lui non scriverebbe mai un romanzo per formulare una critica sociale o promuovere le proprie idee, dunque è sbagliato cercarle nelle sue pagine.
Purity, al di là delle suggestioni e riflessioni che può innescare su tanti temi, è in effetti un romanzo di “puro” intrattenimento, scritto con grande abilità e mestiere, soprattutto nei dialoghi, e congegnato fin troppo bene, dove il “troppo” sta nelle diverse forzature che si rendono necessarie per sincronizzare tutti i meccanismi che reggono l’intreccio: alla fine ogni personaggio perde un po’ della propria credibilità, ma la storia complessivamente funziona.
Più di una volta ho avuto la tentazione di abbandonare la lettura: mi sembrava un libro così pieno di roba eppure così vuoto. L’ho letto subito dopo aver finito un romanzo denso e robusto come Pastorale Americana e tra le due opere c’è un abisso incolmabile: uno scivola come l’acqua, l’altro chiede di essere centellinato come un vino invecchiato. Capisco però che possa piacere, tanto quanto capisco che si possa essere astemi.
La parte che tutto sommato mi ha interessato di più è quella ambientata nella Germania comunista, prima del crollo del Muro. Milan Kundera ha descritto molto meglio l’osmosi che si crea tra anime candide e anime nere in quei regimi totalitari dove l’unica cosa davvero efficiente è la polizia segreta. Franzen si appoggia un po’ a questo clima per costruire il suo personaggio più tragico e interessante e conferire drammaticità al suo romanzo, che altrimenti si ridurrebbe alla rappresentazione di una sequela di nevrosi in una particolare e ben delimitata fetta della società contemporanea.
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- sì
- no
Il diritto negato all'innocenza
La mia prima esperienza di lettura del Roth americano si è indirizzata a questo romanzo complesso, abbastanza faticoso ma piacevole da leggere. La struttura fitta e circolare dell’opera incentiva un secondo giro o almeno la rilettura di alcune parti, per rivedere i personaggi sotto una nuova luce e per riassaporare con maggiore consapevolezza i minuziosi dettagli e le numerose digressioni che inizialmente possono spazientire o rallentare il ritmo.
Introdotti dalla quarantacinquesima riunione degli ex allievi di un liceo (con l’inevitabile bilancio di vite finite, sprecate, realizzate ed elenchi di acciacchi, malattie, successi, fallimenti, vicissitudini, mogli, figli e nipoti) percorriamo cinquant’anni di storia americana, dagli anni quaranta agli anni novanta del ventesimo secolo in compagnia principalmente di Seymour Levov, un ebreo dai tratti somatici così poco corrispondenti alla sua origine da guadagnarsi il soprannome di “Svedese”.
Suo nonno “era arrivato a Newark dalla madrepatria dopo il 1890 e aveva trovato lavoro come scarnatore di pelli di montone…un ebreo solitario mescolato ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani”. Il padre dello Svedese, Lou Levov, era “un padre per il quale ogni cosa è un incrollabile dovere, per il quale c’è la ragione e il torto e, in mezzo, nulla” ed era di quel tipo di uomini “limitati provvisti di un’energia illimitata…uomini per i quali la cosa più seria della vita è andare avanti malgrado tutto”.
Lui, lo Svedese, immigrato ebreo di terza generazione, in grado di eccellere in ogni disciplina sportiva, aveva “il talento di essere se stesso, la capacità di essere quella strana forza che t’inghiottiva e di avere, tuttavia, una voce e un sorriso non offuscato dal minimo barlume di superiorità: la naturale modestia di chi non conosceva ostacoli e sembrava non dover mai lottare per crearsi uno spazio tutto suo”.
Dopo i successi sportivi e una breve esperienza nei marines, Seymour sposa una Miss New Jersey, una cattolica irlandese la cui personalità non è inferiore alla sua bellezza, e dirige l’azienda di famiglia. Ci sono quindi tutti i presupposti per vivere un bellissimo “sogno americano”. Ma proprio qui si nasconde il dramma.
Il “sogno americano” è infatti un utile, tonificante e rinfrescante miraggio per chi vuole progredire, salire ancora di qualche piano sull’ascensore sociale, non fermarsi mai, combattere per farsi largo nella vita con la stessa durezza di cui furono capaci i padri e i nonni. Guai invece a fermarsi, a illudersi di essere arrivati, ad accontentarsi di una bella famiglia, un lavoro gratificante, una casa in pietra nella quiete bucolica della campagna. Dopo la cacciata dal paradiso terrestre, nessun uomo ha più diritto all’innocenza.
Levov lo Svedese, pur avendo tutte le caratteristiche di chi è predestinato al successo, di chi è kalòs kai agathòs, bello e moralmente retto, giusto, generoso, abile e valoroso, commette il peccato di ritenere di vivere nel migliore dei mondi possibili, come un novello Candide, o come Giovannino Semedimela, il personaggio di una favola che sparge i suoi semi nel bosco per far crescere gli alberi.
“Nessuno attraversa la vita senza restare segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità”. E infatti il destino colpisce lo Svedese nel momento in cui è più appagato dalla sua vita, mollemente adagiato sotto le fronde dei suoi possenti aceri, come il pastore Titiro delle bucoliche virgiliane.
Sono probabilmente la diagnosi di un cancro e soprattutto la morte del padre, spentosi serenamente a novantasei anni, a dare allo Svedese l’occasione per un bilancio e per un confronto tra esistenze e tempre completamente diverse. Prende contatti con uno scrittore affinché scriva della lunga e “bellissima vita” di Lou Levov. Ma è piuttosto di sé che vorrebbe parlare, non riuscendoci: “continuavo ad aspettare che dicesse qualcosa di più di queste ineccepibili banalità, ma tutte quelle che venivano a galla erano altre superficialità. Al posto dell’anima, pensavo, ha l’affabilità: quest’uomo la irradia da ogni poro. Per se stesso ha ideato un incognito, e l’incognito è diventato lui”.
Cosa gli è successo? Cosa ha inghiottito l’uomo, lasciandone unicamente la maschera? Cosa è andato storto nella sua vita?
Attorno ai Levov si muovono molti altri personaggi che nell’insieme forniscono un quadro interessante delle tensioni che attraversano la società americana, delle profonde differenze sociali, religiose, etniche e culturali e del disagio, del senso di inadeguatezza e del disperato bisogno di integrazione di chiunque non appartenga alla classe wasp, la classe di chi è lì da sempre.
La Festa del Ringraziamento, autentica pastorale americana, per sole ventiquattr’ore crea l’illusione di sopire le diffidenze reciproche e la voglia di rivalsa di ognuno.
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Londra-Shanghai, un secolo fa
Quando i fantasmi dell’infanzia danno il senso e la missione di una un’intera vita: li insegui ossessivamente per liberartene, salvo poi sentirti improvvisamente stanco, svuotato, leggero, inutile, solo e spaesato.
Questo mi sembra ci voglia dire Kazuo Ishiguro tramite la storia di Christopher Banks, figlio di inglesi trasferitisi a Shanghai all’inizio del ‘900, divenuto detective di professione per poter indagare un giorno sulla loro misteriosa scomparsa.
Christopher trascorre un’infanzia felice a Shanghai, completa ottimi studi a Londra e costruisce una carriera di successo che gli apre le porte dei ricevimenti più esclusivi e gli regala fama in tutta l’Inghilterra; eppure rimane prigioniero di un’ombra che si porta dentro, che lo rende irrequieto e insoddisfatto fino a quando non riuscirà a fare piena luce sul passato.
Dovrà guardare in fondo all’abisso, tornare nella Shanghai martoriata dalla guerra tra Chang Kai-shek e i comunisti, attaccata e occupata dai giapponesi, violentata dai signori della guerra, sfibrata dal traffico di oppio, tradita, sfruttata e venduta dagli opulenti occidentali, lasciata alla mercé di ogni più turpe malaffare.
Ishiguro segue uno schema già sperimentato con “Quel che resta del giorno”: il protagonista ricorda e racconta avvenimenti appena trascorsi e partendo da questi apre ampie finestre su un passato più remoto. In questo modo ogni avvenimento trova un suo ordine naturale e ogni emozione viene filtrata, rivista e modellata dalla memoria. E’ una tecnica che consente di ottenere un gradevole equilibrio tra emozione e riflessione, che mi sembra la cifra stilistica dell’ultimo premio Nobel per la letteratura.
Le prime pagine hanno un andamento lento, l’ambientazione è la società stanca, appesantita e avviata al tramonto dopo la Grande Guerra, società che costituisce il terreno fertile nel quale gli spiriti animali di Christopher e di altri giovanotti emergenti affondano unghie e denti e conquistano il loro spazio vitale.
Le pagine finali, nella Shanghai degli anni trenta, di grande interesse anche per il contesto storico, sono concitate e affannose come un incubo, un’allucinazione al termine dalla quale ci si sente spossati, svuotati e attoniti. Le ombre si diradano, il male emerge nitido e nauseabondo e colpisce con ferocia.
Dopo, ogni cosa, ogni attimo di vita sarà un trascurabile dettaglio privo di importanza. Si potrà vivere da sopravvissuti, più o meno serenamente fino alla fine dei propri giorni.
La netta frattura tra i primi due terzi del romanzo, con pagine morbide, eleganti e precise come un prato inglese, e le ultime concitate, allucinate, inverosimili cento pagine lascia in prima battuta piuttosto perplessi. Il sapore arriva subito e non dispiace, ma il senso?
Il senso e l’unità dell’opera arrivano dopo, almeno per me è stato cosi, e qui ho cercato di spiegare il messaggio che ho colto.
Non so se queste siano state le vere intenzioni dell’autore e mi interesserebbe molto conoscere le opinioni di altri lettori.
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Voglia di tenerezza
Ho letto questo libro, regalo di una persona cara, durante le scorse vacanze di Natale e sono rimasto molto colpito. Conoscevo già Elisabeth Strout per “I ragazzi Burgess” e, anche attraverso questo sito, mi sono fatto l’idea di una scrittrice che merita di essere seguita.
“Tutto è possibile” è un romanzo di grande sensibilità, ogni capitolo è una storia a sé, ma collegata alle altre da personaggi che appartengono ad un un’unica comunità e rete di relazioni.
In ogni storia sono disseminati dettagli che aggiungono informazioni e completano le storie parallele. Una via di mezzo tra un romanzo corale e una raccolta di racconti, ognuno dei quali si conclude con un momento topico, miracolosamente capace di rappresentare con grande naturalezza e spontaneità la poesia dell’anima del protagonista di turno.
La Strout riesce a catturare questi bagliori, queste schegge di poesia nella vita quotidiana e a riprodurli giocando con la luce, come un fotografo che vede ciò che tutti hanno sotto gli occhi ma non si soffermano a cogliere.
Ho scritto poesia, ma forse è più appropriato parlare di tenerezza, che ha infiniti modi di presentarsi e di commuovere e prevalentemente si nasconde sotto forme semplici, frequenta la sconfitta e il dolore, accompagna il ritorno alla realtà dopo le illusioni, rende dolce un boccone amaro, predilige gli occhi bassi e poi li illumina di nuova luce.
Terapeutico.
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Sapore di sale
Questo è il primo libro di Erri De Luca che ho letto. Mi è piaciuto.
Per accordarmi con lo stile parco di parole e abbondante di pause, di ricordi e di malinconie del suo autore, potrei chiuderla qui.
Ma ciò non sarebbe invece coerente con lo stile di questo sito e oltre tutto sono anche stimolato a dire qualcosa di più dalla varietà di giudizi e commenti lasciati da coloro che mi hanno receduto nella sua recensione. Se mi baso su questo piccolo campionario, sembra che Erri De Luca divida parecchio i lettori.
Ho letto questo breve romanzo al mare, non in poche ore, come si potrebbe benissimo fare (cento paginette veloci) ma abbandonandomi ad un ritmo sonnacchioso, poche righe alla volta lasciate cullare dalle onde, con la sabbia, l’umidità e la salsedine a invadere le pagine e gli scogli a sgualcirle, macchiarle e scollarle.
Così mi devono essere sfuggiti gran parte dei limiti e ho invece pigramente assaporato le qualità di questo amarcord in cui lo scrittore sessantenne si volta a guardare il se stesso di cinquant’anni prima (“a dieci anni si sta dentro un involucro che contiene ogni forma futura”), si compiace e si assolve per tutto ciò che è seguito (“la vita aggiunta dopo, lontano da quel posto, è stata una divagazione”).
“L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni”, ma le scoperte non hanno ancora smesso di suscitare stupore, come l’amore e i baci (“ancora oggi so che sono il più alto traguardo raggiunto dai corpi. Da lassù, dalla cima dei baci si può scendere poi nelle mosse convulse dell’amore”).
Dalla particolare prospettiva di un decenne reinterpretato dall’adulto in cui si è trasformato, De Luca vede tutta la traiettoria della sua vita (“oggi so che quell’amore pulcino conteneva tutti gli addii seguenti”). Le esperienze, i pensieri, gli incontri successivi saranno lo sviluppo di ciò che era già contenuto in quell’età di confine: “quel poco di estate di cinquant’anni fa, fissato dalla focale della distanza, s’ingrandisce. Non solo da una cima di montagna, anche in un microscopio si scorgono orizzonti”.
Il bambino sensibile e solitario, i bambini bulli, il mare, la ragazza, i pescatori, il papà lontano, la mamma napoletana: la storia, ridotta all’osso, è questa.
Ma Erri De Luca a mio avviso la racconta con poesia e buona consistenza: le rughe e le ferite del sessantenne dalla ricca biografia regalano grandezza e maturità al protagonista bambino. E Napoli innegabilmente dà diversi metri di vantaggio a qualsiasi narratore.
Lo stile non mi è dispiaciuto, anche se ho trovato un po’ troppa insistenza nel cercare frasi ad effetto, non sempre felici (“una dissenteria degli occhi mi faceva scappare in gabinetto”). Qualche passaggio è sul filo dell’oleografia, ma De Luca asciuga quanto basta per non scivolarci dentro. Molte le frasi estrapolabili a mo’ di aforisma, ma sempre ben inserite nel contesto e dunque servono a rendere più saporita la lettura, senza per questo appesantirla.
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Quarto potere
Con il consueto garbo ed equilibrio e con l’onestà intellettuale dimostrata in tanti anni di conduzione di prestigiose testate giornalistiche (Corriere della Sera e Sole 24 Ore) Ferruccio de Bortoli racconta oltre quarant’anni di professione e di frequentazione della classe dirigente del Paese. Poteri "quasi" forti perché secondo De Bortoli in Italia di veri poteri forti non ce ne sono, magari ci fossero: in realtà il potere politico ed economico da decenni è condizionato dalle scorribande dei "raiders" del momento e da qualche residuo di oligarchia arroccato a difesa della propria sopravvivenza.
Non ci sono clamorose rivelazioni o sorprese (al contrario di quanto annunciato nel risvolto di copertina): le tre righe dedicate quasi incidentalmente all’interessamento di Maria Elena Boschi per una possibile cessione di Banca Etruria, con le quali il libro si fece pubblicità al momento del suo lancio, sono forse la punta massima di corrosività di tutte le trecento pagine del volume.
L’intento dunque non è quello di togliersi sassolini dalle scarpe, ma piuttosto di rivendicare con orgoglio le proprie scelte di indipendenza, di riconoscere i propri errori e di esprimere gratitudine a maestri, colleghi e collaboratori che sono stati a fianco dell’autore in tutti questi anni.
Le pagine con le quali mi sono trovato maggiormente in sintonia sono quelle dedicate all’importanza, ancora oggi, di un giornalismo di qualità, capace di analizzare i fatti, documentarsi, cercare le prove e dubitare sempre. Quanto più sui social network e su tutto il web pullulano informazioni e dati di qualsiasi tipo, senza filtri e controlli (garanzia di libertà) tanto più abbiamo bisogno della professionalità (accuracy and fairness) di chi ci può orientare in questa giungla di informazioni vere o fake news, dati scientifici o manipolati, fatti storici o leggende metropolitane.
A proposito delle specificità che caratterizzano il vasto mondo editoriale, ho trovato interessante questa riflessione: “ L’illusione che ha condannato gli editori al fallimento nella diversificazione televisiva è spiegata con una semplice legge di mercato. Mai credere che una migliore tecnologia nella diffusione dei contenuti rappresenti la naturale evoluzione del proprio business. Non è l’estensione del giardino di casa. E’ un altro mondo. Qualcosa di analogo sta avvenendo oggi con l’informazione digitale. Gli errori si ripetono.”
Più che i fatti, i retroscena e le (tante) cene e colazioni, emergono dalle pagine le persone: non solo i tanti potenti, ma anche i giornalisti, gli intellettuali e i protagonisti dei fatti di cronaca incontrati nel corso di tanti anni. E, se una linea di demarcazione abbastanza netta si intravede nella narrazione, non è tanto tra chi ha avuto ragione o torto, tra chi era da una parte o dall’altra della barricata, tra chi è stato più amico o nemico del Direttore, ma piuttosto tra chi ha avuto stile e chi non l’ha avuto. Ci si può dividere sulle opinioni, sulle scelte e sulle decisioni, sembra volerci dire Ferruccio de Bortoli, ma non sui valori di base della società, sull’educazione, sul senso civico e di responsabilità.
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- no
Io penso positivo perché son vivo, perché son vivo
Cosa sono le “emozioni distruttive”? A cosa servono? Sono necessariamente un male? A quali conseguenze portano? In che modo si possono superare? Quanto dipendono da fattori ambientali e culturali? In che modo gli individui si differenziano nel provare e riconoscere le emozioni? Ci può essere un’educazione alla felicità?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui ha cercato di rispondere un gruppo formato da una dozzina di scienziati occidentali e di monaci tibetani, che si sono incontrati a Dharamsala, dove risiede il Dalai Lama, per cinque giorni di dibattito nel marzo del 2000.
Un filone tutto sommato abbastanza nuovo nel campo delle neuroscienze e delle terapie per i disturbi della personalità è quello che prende avvio dalla scoperta della “plasticità” del cervello umano. Risale solo al 1998 la dimostrazione che negli esseri umani nascono nuovi neuroni per tutto il corso dell’esistenza. Non solo: i nostri pensieri, le nostre emozioni sono in grado di modificare il cervello e dunque possono condizionare i pensieri e le emozioni successive. Allenarsi a pensare bene ci abitua a pensare meglio in futuro. Non lo dicono (solo) filosofi morali e religiosi, ma adesso (anche) medici e scienziati, e non in base a teorie o assiomi, ma a seguito di ricerche, esami di laboratorio e sofisticati esperimenti.
Anche sulla base di queste ricerche si sono affermate modalità di trattamento terapeutico che affiancano, e in alcuni casi sostituiscono, il trattamento farmacologico con una serie di tecniche che sfruttano proprio la capacità del nostro cervello di rinnovarsi costantemente.
Daniel Goleman, lo psicologo americano celebre per i suoi studi sull’”Intelligenza emotiva” ha riassunto dettagliatamente ogni giornata di discussione tra scienziati, filosofi e monaci tibetani in questo libro pubblicato per la prima volta nel 2003, e un altro libro molto simile è stato pubblicato nello stesso periodo da un altro partecipante piuttosto noto: Paul Ekman, forse il più grande esperto mondiale del riconoscimento delle emozioni sul viso delle persone (è stato anche consulente delle forze dell’ordine e dei servizi segreti americani).
Un altro scienziato di grande fama e valore che ha partecipato al convegno è Richard Davidson, pioniere della neuroscienza affettiva e uno dei principali studiosi della plasticità del cervello, che osserva con macchinari sofisticati ed esperimenti interessanti. Tra i presenti ai lavori di Dharamsala dell’anno 2000 segnalo anche Matthieu Ricard, monaco buddista, scienziato, figlio del filosofo francese Jean François Revel (insieme a lui scrisse il pamphlet “Il monaco e il filosofo”, dialogo su scienza e spiritualità) e Mark Greenberg psicologo specializzato in programmi di apprendimento sociale ed emotivo per bambini.
La cultura buddista, fondata sul concetto di meditazione e di compassione, è un ambito particolarmente fertile per studiare gli effetti che un adeguato allenamento emotivo è in grado di produrre sulle funzioni cerebrali e in definitiva sulla nostra salute.
La psicologia in Occidente nacque invece come osservazione e cura di stati patologici e per decenni si è concentrata sugli stati mentali insani, trascurando gli stati mentali che producono felicità e benessere. La ricerca del bene, o della felicità, in Occidente è stata lasciata ai filosofi morali e ai teologi. Solo in epoca relativamente recente, anche grazie ad aperture e dialoghi di questo tipo con la cultura orientale, è diventato terreno frequentato da medici e scienziati.
Dato l’argomento molto specifico, è meglio che mi fermi qui. Il mio scopo era quello di segnalare un libro di grande valore scientifico, ma fruibile anche da parte di chi, come me, non ha competenze in materia. A distanza di anni l’ho letto due volte e in entrambi i casi ho riempito molte pagine di annotazioni e appunti.
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L'ombelico del mondo
Di questo romanzo mi ha colpito innanzi tutto lo stile.
E’ un lunghissimo monologo nel quale i periodi, già piuttosto lunghi fino a circa metà del volume, man mano che ci si addentra nella psiche del protagonista-narratore diventano un fluire continuo, aumentano progressivamente di lunghezza e si può arrivare a leggere quasi cinquanta pagine prima di trovare un punto e tirare il fiato.
In qualche modo mi ha ricordato l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello con i pensieri di Molly, scritto completamente senza punteggiatura. Niente paura: Berto le virgole le mette, ma ugualmente ci fa fluttuare in una continua corrente di pensieri, parole, ripetizioni, ossessioni, che richiede grande padronanza di scrittura e soprattutto un’intensità di contenuti fuori dal comune.
E infatti la seconda cosa che mi ha molto impressionato è come si possano scrivere trecentocinquanta dense e fittissime pagine guardando continuamente il proprio ombelico, anzi descrivendo centimetro per centimetro il proprio intestino e allo stesso tempo raccontare lo smarrimento di un’intera generazione, di un ambiente sociale, per certi versi persino di una nazione.
“Anche narrando la propria vita uno può narrare la vita umana” dichiarò Berto in un’intervista all’uscita del romanzo, nel 1964.
Giuseppe Berto, classe 1914, era figlio di un carabiniere “nei secoli fedele” al Re, poi divenuto cappellaio nella provincia veneta ma con scarsissima attitudine al commercio, data la natura di uomo tutto d’un pezzo che l’esperienza militare, l’ambiente provinciale, le ristrettezze economiche e i valori imbevuti di retorica patriottica tardo risorgimentale non avevano contribuito ad ammorbidire.
L’inquietudine di Berto, la ribellione al clima soffocante familiare e provinciale (abbondantemente assimilato nei principi e nei valori, dunque la ribellione è un po’ contro una parte di se stesso) lo porta ad arruolarsi in Africa con le camicie nere, a spendere in guerra gli anni migliori, cercando anche la bella morte come estrema forma di gloria e liberazione, per poi tornare sfinito, vinto e disilluso in una società ormai trasformata, estranea e aliena, popolata da uomini nuovi dai quali si sente lontanissimo, ragion per cui coltiva la vocazione, e anche un po’ il gusto, di restare ai margini.
Non a caso, Berto ebbe tra i suoi primi estimatori Indro Montanelli (classe 1909) con il quale condivise alcune esperienze e stati d’animo: dalle frequenti crisi depressive all’Abissinia vissuta con giovanilistico anelito di fuga e avventura, alla ricorrente polemica contro la nuova cultura dominante affermatasi dopo la Liberazione.
I personaggi principali e le figure chiave di questo romanzo non hanno un nome e si riconoscono come “il padre”, “la sorella maggiore”, “la vedova”, “la ragazzetta”, “la moglie”, “il vecchietto”, “il luminare” etc.
Il male oscuro che lo ha così tanto tormentato, sembra volerci dire Berto, è comune a molti, ma pochi ne hanno parlato direttamente e senza finzione poetica.
Eppure, come recita Eschilo in una delle epigrafi scelte per il romanzo “il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Dunque Berto si racconta e lo fa talmente impudicamente che solo grazie ad un’arguta ed efficacissima ironia riesce a non farci distogliere lo sguardo, anzi a farsi seguire tra ospedali e lettini per terapia psicoanalitica neanche si trattasse della fuga del Corsaro Nero nella foresta di Maracaibo.
E poi, vuoi mettere che soddisfazione vincere il Campiello, a Venezia, lui nato a Mogliano Veneto da un carabiniere nei secoli fedele che gli profetizzava un futuro di galera e fallimenti…
“e così scavo nella mia solitudine e nel mio avvilimento pensando che un giorno gliela farò vedere a tutti questi veneziani chi sono io”.
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Per dare un senso a ciò che un senso non ce l'ha
L’insensatezza delle passioni che offusca la vista e fa precipitare verso il baratro. L’inconsapevole pulsione autodistruttiva che inspiegabilmente attrae e soggioga l’anima. La trappola dell’orgoglio, dell’onore, dei codici e delle convenzioni che impediscono di fermare la corsa verso la catastrofe, anche quando essa è sempre più evidente. La salvezza non è in noi ma negli altri e può arrivare solo se abbiamo la fortuna di guardare oltre e di cogliere lo sguardo d’amore posato su di noi.
“Il generale D’Hubert ebbe il secondo di tempo necessario per ricordare che egli aveva temuto lo spettro della morte non come uomo, ma come amante; non come un pericolo, ma come un rivale; non come un nemico della vita, ma come un ostacolo al suo matrimonio.”
Come in tutte le opere di Conrad, anche questo lungo racconto o romanzo breve (130 pagine) è pervaso dal mal di vivere. Pur mancando l’atmosfera dei mari esotici e delle terre lontane (siamo in Europa durante l’ascesa e caduta di Napoleone), ritroviamo la stessa febbre, la stessa corsa verso l’abisso, la stessa lotta contro lo spirito animale nascosto nelle nostre viscere e che vuole nutrirsi del nostro stesso sangue.
Non ingannino le differenze sociali, perché in modi diversi si tratta di una febbre che colpisce tutti, l’aristocratico, settentrionale e ben educato D’Hubert, come l’irruento, “terrone” e plebeo Feraud. Non conta chi ha provocato e chi non ha saputo resistere alle provocazioni: l’uno ha bisogno dell’altro per sentirsi vivo e... per dare un senso a ciò che un senso non ce l’ha.
Semmai il diverso ambiente e le diverse risorse economiche e culturali consentono una diversa gestione di queste pulsioni, conducendo infine a sbocchi diversi.
Leggere Conrad non è mai stato piacevole per me, e questo basta per non annoverarlo tra i miei preferiti, eppure sono attratto dalle sue opere con la stesso insensato gusto per il male che domina i protagonisti delle sue storie.
“I duellanti”, è ispirato ad un articolo pubblicato su un giornale, nel quale si ricordava la vicenda di due ufficiali napoleonici che nel corso di vent’anni si sfidarono a duello svariate volte per futili motivi, che rimasero avvolti nel mistero.
Nel 1977 Ridley Scott ci ha girato un film cupo e tenebroso, che tiene lo spettatore incollato alla sedia, interpretato da Harvey Keitel (Feraud) e Keith Carradine (D’Hubert) sostanzialmente fedele al romanzo ma tutto focalizzato sulla virile contrapposizione tra i due personaggi e sul parallelismo con la rapida ascesa e caduta del parvenu di Ajaccio, escludendo gli aspetti che, soprattutto nel finale, rendono l’opera di Conrad un po’ più ricca e poliedrica.
2017 -1977 (film) - 1907 ((romanzo): per chi sente il fascino degli anniversari, un'occasione perfetta per celebrare i 40 anni del film e i 110 del libro. Poi magari potete giudicare quale dei due è più in forma... :-)
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Se la vasca è di destra e la doccia di sinistra...
In questo suo ultimo saggio, Luca Ricolfi compie un’analisi accurata delle difficoltà della sinistra politica in tutto il mondo e del parallelo insorgere di movimenti “populisti” giungendo alla conclusione che destra e sinistra sono categorie politiche che hanno perso gran parte del loro significato e che il dibattito politico dei prossimi anni sarà piuttosto tra “forze dell’apertura” contrapposte alle “forze della chiusura”, senza che ciò implichi alcun giudizio morale sulle une o sulle altre.
L’analisi di Ricolfi non punta a dimostrare il distacco tra la sinistra e la base sociale che essa tradizionalmente rappresentava fino a circa metà degli anni 70 del novecento, ma cerca di indagare le ragioni e i fattori che hanno determinato questo fenomeno in tutto il mondo occidentale.
Il ragionamento si sviluppa in tre parti e un epilogo. La prima parte è dedicata a confutare lo schema proposto da Norberto Bobbio, una delle figure più care nel pantheon della sinistra italiana, nel famoso e fortunato saggio “Destra e Sinistra” del 1994. Nell’epoca in cui il distacco con i ceti popolari era già ampiamente avvenuto, quel libricino è all’origine del “cortocircuito logico che ha permesso alla sinistra di non comprendere quello che nel frattempo era diventata, nonché di prolungare il proprio atteggiamento di superiorità morale verso la destra.”
La seconda parte contiene una sintesi della storia economica degli ultimi quarant’anni. Se il periodo tra il ’46 e il ’75 è da considerare l’età dell’oro per la sinistra del mondo occidentale (crescita dei redditi, innalzamento dei livelli di istruzione, incremento generalizzato dei consumi, allargamento del welfare) negli anni successivi per via di ripetuti shock petroliferi, stagflazione e crisi fiscale dello Stato la situazione cambia irreversibilmente. Le trasformazioni sociali (scomparsa del tradizionale mondo popolare, raccontata ad esempio da Pasolini) economiche (fiammata liberista degli anni 80, globalizzazione, recessione prolungata) e politiche (fine della guerra fredda, comparsa di nuovi attori sulla scena internazionale, terrorismo islamico, flussi migratori) modificano completamente la natura dei partiti di sinistra, che spesso salgono al governo abbagliati e frastornati dal successo del liberismo sfrenato dell’era Thatcher e Reagan, abbandonano gradualmente la difesa dei ceti più deboli della società, si convertono al mercato e diventano il riferimento dei “ceti medi riflessivi”, colti e urbanizzati che ormai inseguono solo ideali di progresso “politicamente corretti” come i diritti dei gay, le quote rosa, il linguaggio sessista, la fecondazione assistita, il testamento biologico, i diritti degli animali, etc.
In Italia, ad esempio, l’origine di questa parabola si colloca negli anni della politica del “compromesso storico” promossa da Berlinguer (altro mito della sinistra colpito dalla critica di Ricolfi) che ha determinato l’arrocco a difesa degli strati forti della classe operaia garantiti da sindacati e statuto dei lavoratori, rinunciando ad interessarsi del vasto mondo dei disoccupati, sottoccupati e irregolari, un mondo senza protezioni su cui si fondava la sopravvivenza dei padroncini, artigiani e commercianti che costituivano la linfa vitale della DC.
Nella terza parte si indagano le origini del moderno populismo, ovvero della reazione dei ceti popolari al “tradimento” della sinistra, divenuta in gran parte “riformista” e ad un mondo che si presenta senza alcun sogno di “sol dell’avvenire”, ma piuttosto con la prospettiva di una lunga notte, di competizione sfrenata, assenza di crescita, insicurezza economica, fisica, sociale. Ricolfi propone un modello matematico nel quale tende a dimostrare che crisi economica, paura del terrorismo e interazione tra queste due variabili siano all’origine della forte domanda di protezione che è alla base di ogni populismo, sia che nasca con matrice di destra (più preoccupazione verso i flussi migratori) che con matrice di sinistra (preoccupazione verso gli interessi del grande capitale e verso le ingerenze economiche degli organismi sovranazionali). Inoltre sostiene che la domanda di protezione dei nuovi ceti popolari (sostanzialmente i perdenti della globalizzazione e gli abitanti delle periferie) si basa su evidenze oggettive e misurabili, di fronte alle quali la sinistra ha finora avuto una atteggiamento “negazionista”. La sinistra stessa d’altro canto si è strutturalmente modificata: mentre quarant’anni fa aveva il problema di aggregare qualche colletto bianco alle tute blu (da qui l’espansione verso il settore pubblico, la scuola, le università),oggi ha il problema opposto di trovare qualche operaio (o disoccupato o precario) che si aggiunga alle proprie fila composte prevalentemente da impiegati, insegnanti e funzionari pubblici. La stessa attenzione che la sinistra dedica agli immigrati e alle politiche di accoglienza, rivelerebbe il disperato bisogno che la sinistra ha di un baluardo contro il naufragio della propria identità. Senza immigrati, la sinistra non avrebbe più alcun segno visibile della propria vocazione ad occuparsi di chi sta in basso nella scala sociale.
La conclusione è che la ribellione dei ceti popolari parte da lontano (secondo alcuni studiosi la crisi della sinistra in America inizia nel secondo dopoguerra; in Italia è negli’80 che nasce il fenomeno degli operai con tessera CGIL che votano Lega Nord) e ai giorni nostri si è trasformata in insofferenza e aperta ostilità verso il “politicamente corretto”, che in alcuni casi è degenerato nel “follemente corretto”. La sinistra di governo viene perciò travolta dalla protesta contro l’establishment e contro l’assenza di senso di realtà che caratterizza le élites benpensanti a cui essa non solo si è totalmente assimilata, ma a cui ha fornito un modello culturale fatto di indulgenza, perdonismo, empatia, calore umano, sostanzialmente un’etica della generosità con cui la cultura “liberal” cerca di mitigare le proprie spinte individualiste.
Invece nell’ampia minoranza di persone che abita nel mondo di sotto, preoccupata più della sopravvivenza che dell’autorealizzazione, si fa strada l’idea che “il fondamento di ogni identità e di ogni diritto non è il singolo individuo, ma è la comunità cui il singolo appartiene alla nascita… E’ alla comunità che spetta difendere e preservare i propri costumi, la propria lingua, i propri modi di vita; è la comunità che ha il dovere di tutelare e promuovere il benessere dei suoi membri; è la comunità l’unica titolare del diritto di escludere o includere chi voglia entrarvi dall’esterno”.
Il dibattito futuro dunque sarà tra forze dell’apertura e forze della chiusura. In ognuno dei due schieramenti ci sarà ancora, come pallido ricordo della sinistra e destra novecentesche, una distinzione tra chi è maggiormente propenso ad aprire ai capitali e chiudere alle persone o viceversa, ma il dibattito prevalente sarà tra l’insieme di forze (che siano di origine liberale o della sinistra riformista) interessate a cogliere le opportunità derivanti da una sempre maggiore apertura e interconnessione in tutti i campi, contrapposte alle forze (che siano eredi dei conservatori o della sinistra antagonista) prevalentemente concentrate sui rischi e sulla domanda di protezione che sale da chi è escluso da quelle opportunità.
Ricolfi, par di capire, propende per una saggia terza via: tra chi vorrebbe gettare ponti e chi pensa ad innalzare muri, sembra che apprezzi chi preferisce costruire porte. Perché le porte si possono aprire o chiudere, a seconda del momento e delle necessità.
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Botteghe Oscure
Viaggio molto interessante nel Partito Comunista Italiano nel periodo della sua massima forza elettorale e della sua capacità di influenza nella società italiana.
Un “mistery”, una storia a cui partecipano personaggi fittizi e reali e che incrocia fatti realmente accaduti a vicende totalmente inventate.
Lodovico Festa, ex dirigente del PCI milanese e successivamente co-fondatore de “il Foglio”, ci mostra dall’interno il funzionamento di un sistema che, molto prima di trasformarsi in una “giocosa macchina da guerra” e perciò affondare e disperdersi mestamente in tanti rivoli, fu un caso impressionante di stato nello Stato, una struttura di potere efficientissima e capillarmente ramificata, proiettata verso obiettivi politici forti, e in grado di interloquire alla pari e riservatamente con altre strutture di potere del nostro Paese come la Chiesa Cattolica, le forze dell’ordine, i giornali, e di condizionare interi settori della società civile come la scuola, le università, la cultura.
Con il pretesto di narrare l’indagine parallela (della polizia e del partito) sull’omicidio di una militante alla fine del 1977 (pochi mesi prima che con il caso Moro in Italia cambiassero molte cose) l’autore ci accompagna nel suo vecchio mondo, permettendoci di osservare in presa diretta ciò che finora potevamo soltanto immaginare. Vengono mostrate, tra le altre cose, la complessità e l’ambiguità, l’idealismo e la doppiezza, la potenza e i germi del successivo decadimento, la disciplina e la passione, il culto per l’efficienza e la riservatezza, la precisione e il tatticismo e soprattutto la fitta rete di relazioni, che permetteva di dialogare senza chiasso con tutti e su tutto. Una grande storia indubbiamente, che merita rispetto e che suscita inquietudine.
Avesse scritto un saggio, sarebbe stata probabilmente una mattonata che ti dovevi fermare a metà del titolo. Invece Festa ci porta dentro le cose, e ce le fa vivere attraverso i funzionari, i sindacalisti, gli intellettuali, i giornalisti, gli imprenditori, le cooperative, gli ex-partigiani, gli infiltrati, i faccendieri, le spie, i pensionati, i circoli Arci, i semplici militanti. Si concede anche qualche consapevole anacronismo perché, come spiega nella nota finale, è “interessato a ricordare più le atmosfere, gli ambienti, le sequenze, le connessioni psicologiche (forse non inverosimili) che la precisa scansione degli avvenimenti”.
In questo modo riesci a digerire le oltre cinquecento pagine del romanzo (forse con qualche ripetitività di troppo verso la fine) impari parecchio e ti diverti pure.
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The evil and the good, living side by side
Giallo ambientato a Milano, dove nella primavera 2017 avvengono degli strani omicidi nei quali sopra il corpo della vittima viene misteriosamente deposto un sasso. Massoneria? Islamisti? Terroristi? E le vittime? Cos’hanno in comune, quali vite hanno vissuto, quali sono stati i loro affetti, affanni, affari e segreti?
La verità ha molte facce, maschere, sembianze, travestimenti. C’è la famelica verità giornalistica, degli opinionisti e degli editorialisti per cui ogni fatto è la conferma di una teoria, il pretesto per la sferzata quotidiana a qualche comodo bersaglio, l’occasione per frenare l’emorragia di vendite e di lettori. C’è la perfida verità del gossip, della maldicenza e dell’osceno commercio di sentimenti di cui pullula lo show business. C’è l’ambigua verità dell’ideologia, che spesso riempie le menti più deboli fino a confonderle e, per mezzo di ingannevoli certezze, trasfigura falsamente anche le azioni più abiette. C’è l’ingarbugliata verità giudiziaria, dei verbali di polizia e delle sentenze: una matassa di fili di cui si perde quasi sempre il capo, o la coda, o un tratto più o meno lungo, dunque una verità sempre incompleta, sbiadita e innaturale. C’è la rassegnata verità degli ultimi, di quelli hanno che sempre saputo che gli ultimi resteranno sempre ultimi e non si lasciano fagocitare da nient’altro che da questa unica amara verità. E infine ci sono i fatti, nudi e crudi, senza additivi, ricette, commenti e spiegazioni.
Con “Torto marcio” Alessandro Robecchi scrive una storia facendo un inevitabile uso di cliché da romanzo poliziesco, con l’aggiunta di un evitabile (ma per la verità più contenuto) uso di cliché sociologici e la popola dei suoi personaggi ricorrenti: l’autore televisivo Monterossi, il sovrintendente di polizia Carella, il vice sovrintendente Ghezzi. Ci offre anche una topografia di Milano spaccata a metà, tra i vincenti, che hanno avuto tutto, e gli ultimi, che hanno perso tutto, o non hanno mai avuto niente, né mai l’avranno. Salvo poi scoprire che gli estremi si toccano, per certi tratti si confondono, prima di dividersi tra chi è destinato a “due lire bastarde e spavento” e chi invece potrà permettersi i migliori studi, un buon matrimonio, una bella casa in centro, soldi, fama, potere.
Mi sono molto piaciuti quasi tutti i personaggi della storia, soprattutto quelli dei ceti più popolari, che danno immediatezza e spontaneità alla narrazione. Mi ha colpito la bizzarria di alcuni, tipo il ladro imbranato che però sa riconoscere al volo le opere di Balla e Depero. La signora Ghezzi mi ricorda, non so perché, la signora Maigret. Monterossi e Ghezzi ci propongono infine l’elogio dall’alternativo: ci raccontano tutta la bellezza, la difficoltà e l’amarezza della condizione di chi vorrebbe tanto essere normale, ma nell’acqua in cui è costretto a nuotare gli tocca andare sempre controcorrente. Pesci fuor d’acqua e fuori dal tempo, che anche quando fanno centro e ottengono una vittoria, scoprono che ha un sapore ancora più aspro e amaro della sconfitta.
Il romanzo si chiude significativamente sulle note di Bob Dylan:
Most of the time/I'm halfway content/Most of the time/I know exactly where it all went/I don't cheat on myself/I don't run and hide/Hide from the feelings/That are buried inside/I don't compromise/And I don't pretend/I don't even care/If I ever see her again/Most of the time
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Mal di vivere
Joseph Lambert, all’età di nove anni, ebbe un gran mal di denti. “Il dentista gli aveva dato due compresse bianche, probabilmente un calmante, e poiché dopo pranzo il dolore era tornato a farsi sentire, molto forte, lui le aveva buttate giù tutte e due”.
Poi andò a riposare in giardino, sotto un tiglio, in uno stato fluttuante tra sogno e realtà, nel quale le sensazioni fisiche si dissolvevano e galleggiando lo cullavano regalandogli un senso di pace morboso e gratificante. “Che fosse il caldo, il torpore che segue al pranzo o l’effetto delle compresse… Fatto sta che continuava a sentire dolore alla guancia sinistra, ma non si poteva più chiamarlo dolore, trasfigurato com’era in piacere, in una sorta di voluttà, la prima, insomma, che avesse conosciuto.”
Quel ragazzino divenne un uomo sanguigno, energico, muscoloso , dai lineamenti marcati e il naso grosso e tozzo come suo padre, un muratore che con la forza delle braccia, schiena curva e sudore aveva creato un’impresa con officine, magazzini, uffici, dipendenti e svariati cantieri nella zona. Joseph portò nuove idee e sviluppò ulteriormente l’azienda paterna con mani sicure, fiuto ed esperienza. Eppure per tutta la vita continuò a rincorrere quella dolce dissoluzione nel nulla, quel torpore e quel mal di vivere che sperimentò per la prima volta a nove anni, a causa di un banale mal di denti, di un caldo dopo pranzo e di due compresse. Lo fece con l’alcol e soprattutto lo fece con le donne.
Al contrario dei suoi amici del caffè Riche, con i quali si ritrovava per il bridge e per qualche buon bicchiere, Joseph non sentiva il bisogno di dissimulare i suoi numerosi tradimenti coniugali, anche quelli più squallidi con prostitute. Non che li esibisse con ostentazione, ma nemmeno provava quell’imbarazzo che spinge a rifugiarsi nell’ipocrisia.
L’alcol, le donne, la voluttà erano il suo modo di dire no alla provincia, alla noia, ai doveri, alle responsabilità, alle anime belle, ai parenti soffocanti, alla domestica bigotta e rancorosa, ai due fratelli, un insopportabile sgobbone precisino e un alieno flaneur sparito in qualche circolo intellettuale a Parigi. La voluttà era la sua grande forza di attrazione, il magnete che lo richiamava costantemente verso l’abisso.
Una sera Joseph sorprese la sua efficientissima ed enigmatica segretaria Edmonde sdraiata sullo schienale reclinato, con il vestito alzato fino al ventre, una mano in mezzo alle cosce e un impercettibile movimento di dita. Rimase a guardarla fino al momento dell’orgasmo, notando le narici contrarsi e “il labbro superiore rialzarsi scoprendo i denti in una smorfia di sofferenza che non somigliava per niente ad un sorriso”.
Da quel momento Edmonde diventò, unica tra le tante amanti, la perfetta complice con cui condividere il suo insanabile mal di vivere.
La complicità dell’anima ebbe occasione e necessità di trasformarsi in complicità nel male quando l’incessante corsa verso il danno e la catastrofe giunsero alla meta finale, che non poteva essere più straziante: un pullman con quarantotto bambini a bordo esce di strada, si schianta e si incendia. Quarantasette bambini morti, più due maestre e l’autista, una bambina che lotta tra la vita e la morte e un solo responsabile: Joseph Lambert alla guida della sua Citroen con la mano sinistra, la mano destra immersa tra le bianche cosce della sua obbediente segretaria.
E’ da qui che parte la storia, da una tragedia che avrebbe potuto trasformare Joseph ed Edmonde negli amanti maledetti già visti in Teresa Raquin. Avrebbe potuto, ma in questo caso il percorso è un altro e si appoggia sull’enigma Edmonde, un personaggio inquietante che non si dimentica facilmente, e a cui serviva tutta la fantasia perversa e misogina di Simenon per prendere forma e vita.
Nei confronti di Joseph invece, nonostante l’indicibile gravità della tragedia provocata, tendiamo ad essere inspiegabilmente indulgenti e ad assecondare in parte il suo istinto auto assolutorio. “Non sono colpevole”, scrive lui ad un certo punto, ma poi ci ripensa, troppo difficile da spiegare, occorrerebbe essere capaci di srotolare quella matassa ingarbugliata che ha iniziato a formarsi tanti anni fa, in un assolato pomeriggio trascorso da un ragazzino con un acuto mal di denti.
Con questo romanzo sono tornato a frequentare, dopo tanto tempo, il vecchio Simenon. E ancora una volta sono rimasto colpito dalla perizia consumata di questo grande narratore. Con pochi tratti sapienti, riesce a costruire un quadretto vivo e credibile di una cittadina di provincia, con i suoi bar, i suoi circoli, le fattorie, i salariati, i notabili, le famiglie, le prostitute, le maschere antiche e sinistre di coloro che vivono ai margini del villaggio. In centocinquanta pagine veloci ci rende partecipi dell’inquietudine di un’anima, degli arrovellamenti che seguono un misfatto e del mistero che circonda coloro a cui incautamente affidiamo la nostra salvezza. E ci dimostra, con i fatti e non con astratte teorie, quanto siano inutili le raccomandazioni e gli avvertimenti premonitori di chi in un modo o nell’altro ci vuole bene (“stai attento”, “prenditi cura di te”) quando siamo in preda di un’insostenibile e terrena “cupio dissolvi”.
Ecco perché, se amiamo i libri, non possiamo non dirci riconoscenti a Simenon: i lettori gli devono gratitudine per le ore di piacevole ozio regalate da tante pagine che non ambiscono ad entrare nell’Olimpo o nel Parnaso della Letteratura, ma ci divertono per lo sguardo intelligente sull’umano mondo . Gli scrittori, e soprattutto gli aspiranti tali, mi auguro continuino a vedere in Simenon un grande, grandissimo maestro.
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Se siete all'esordio con questo autore, forse è meglio iniziare con qualche altra opera (ma poi non è detto)
Anni di gesso
Nonostante un incipit tra i meno accattivanti che io ricordi (due pagine in linguaggio volutamente notarile che fanno da prologo) “La simmetria dei desideri”è un romanzo caldo, accogliente, coinvolgente, che dà tanto e dispiace moltissimo finire.
Si parla degli “anni di gesso”, come più volte vengono definiti dall’autore, ovvero quel periodo tra i venticinque e i trenta durante il quale la vita inizia a ingabbiarsi in un corso definito, si compiono scelte importanti e le amicizie devono fare i conti con la perdita dell’incertezza spensierata e con i nuovi legami famigliari.
I protagonisti sono quattro ragazzi israeliani nati e cresciuti ad Haifa, ma trasferitisi a Tel Aviv per inseguire le tipiche aspirazioni di indipendenza, libertà e vita nella grande metropoli. Non c’è una vera e propria trama, ma solo alcuni punti di riferimento che fanno da filo conduttore. Anche lo stile è originale, apparentemente inconcludente, ma in realtà capace di avvolgerti con cerchi concentrici e di procedere un po’ avanti negli avvenimenti e un po’indietro con i ricordi, divertendo e non annoiando, e mettendo in risalto le caratteristiche di una bellissima amicizia, nella quale è bandita ogni reticenza e si rivelano con sincerità le cose belle e quelle brutte, il divertimento e la noia, il chiasso e il silenzio, l’avventura e la paura, il gioco e la fatica, l’amore e il tradimento, l’ammirazione e l’ invidia, gli scherzi, i litigi, il cazzeggio, la presenza, la lontananza, e soprattutto l’esserci sempre e comunque per il tuo “fratello”.
Il racconto procede calmo, coerentemente con il self-control di Yuval, il componente del quartetto che racconta in prima persona, riuscendo ugualmente a sorprenderti, come il flusso della vita. Il coach di scrittura creativa di Yuval lo rimprovera per il silenzio riguardo all’epoca in cui si svolgono gli eventi. “Descrivi i cambiamenti nei tuoi personaggi, ma ignori quasi completamente i cambiamenti drammatici avvenuti nel tempo e nel luogo di cui racconti”. Yuval giustamente si ribella e rivendica invece come titolo di merito aver lasciato sullo sfondo, come pallida eco, i rumori dell’intifada, degli attentati, delle bombe, le immagini del servizio militare, dei territori occupati, dei posti di blocco. Tutto questo si intravede ma è fuori dal romanzo, il lettore lo sa e anche per questo percepisce un’unione ancora più salda tra i quattro amici, rafforzata dal contesto drammatico in cui vivono.
A proposito di quartetto, di contesto drammatico e di geometrie. Nella serie TV Braccialetti Rossi, un personaggio teorizza che per formare un gruppo sono indispensabili: il leader, il bello, il furbo e l’imprescindibile. E naturalmente la ragazza. Nel nostro caso sappiamo che Churchill è il leader (anche chi non ha letto il romanzo può immaginare che quel soprannome non è dovuto a sigari o doppio mento, ma ad altre caratteristiche), Yuval (l’io narrante), è l’imprescindibile, ovvero il membro del gruppo senza il quale il gruppo stesso si sfalderebbe. Glielo dice chiaramente Churchill: tu sei il collante, lo sei sempre stato. Senza di te, Tel Aviv è un sacco di cose brutte, con te è casa. Yaara è naturalmente la ragazza. Ofir, per i suoi riccioli e per la facilità con la quale cattura lo sguardo delle ragazze dovrebbe essere il bello. Per esclusione, Amichai dovrebbe essere il furbo. Ma, per le caratteristiche del personaggio, lo definirei piuttosto il saggio (e meno male perché i parallelismi troppo perfetti tolgono poesia).
Non toglie affatto poesia invece la simmetria a cui allude il titolo del libro: alla fine lo ricorderete come un romanzo tenerissimo, che non fa nulla per sedurvi, eppure vi attrae per un forte profumo di autenticità, quella stessa autenticità indispensabile nelle vere amicizie.
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Momenti di gloria
Il primo libro che ho letto di Marco Malvaldi non è uno dei suoi celebri romanzi gialli, ma un libricino nel quale l’ex ricercatore pisano ci intrattiene con grande verve su altre due sue grandi passioni: lo sport e la scienza.
E’ una lettura gradevole, nella quale la difficoltà delle teorie scientifiche è surclassata dal toscanissimo umorismo dell’autore e la pesantezza degli esperimenti è oscurata dai numerosi aneddoti e ricordi di Olimpiadi, Mondiali di calcio e competizioni varie.
Si parla di fisica, matematica, neuroscienza, psicologia, statistica, ma anche della “maledetta” di Andrea Pirlo, del “tiki taka” del Barcellona, di Dick Fosbury, di tuffi dal trampolino e di tennistavolo.
Insomma, Malvaldi ci offre persino qualche copertura intellettuale per le nostre ore trascorse sul divano a guardare lo sport in tv. Anzi fa di più, arrivando a sostenere un collegamento tra il nostro interesse per le gare sportive e l’evoluzione della specie.
Non è che si capisca proprio tutto al primo colpo, e spesso l’autore gigioneggia ricercando l’effetto “oh”, ma non è escluso che per qualcuno queste pagine costituiscano uno spunto interessante per successivi approfondimenti.
In definitiva, un libro furbetto ma simpatico, che a me è servito per avvicinarmi ad uno scrittore sul quale finora ho letto opinioni molto contrastanti.
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Nessuno mi può giudicare
“I ragazzi Burgess” è un piacevole romanzo di Elizabeth Strout, rilassante come guardare una commedia holliwoodiana anni ’50 alle cinque del pomeriggio.
Il prologo, nel quale due vedove, madre e figlia, amabilmente conversano e rievocano il passato, scostando indietro le tende per guardare le betulle, dà il tono all’intera narrazione, come se l’autrice volesse ammorbidire l’impatto degli eventi più drammatici, stemperandoli nella luce tiepida del suo stile confortevole.
Seguendo i personali ricordi delle due amabili signore, si fa velocemente amicizia con Jim, Bob e Susan Burgess, si conoscono i rispettivi coniugi e anche Zachary, il ragazzo ignorantello e impaurito che dà impulso alla storia e ne sostiene la trama fino almeno a metà.
Nella prima parte i personaggi sono vivi e credibili, pur riconducendosi ciascuno a qualche archetipo del cittadino americano, e sono ben inseriti in tematiche culturali e sociali appena tratteggiate, per non disturbare troppo i personaggi in primo piano, eppure rese con buona efficacia.
Da metà in poi, il romanzo ha una svolta, il motore iniziale della storia rallenta e si spegne e rimangono i personaggi, soli e nudi e senza maschera. “Nessuno mi può giudicare” potrebbe essere il titolo di questa seconda parte o, come la vedova più anziana afferma nel prologo, “nessuno conosce mai veramente qualcuno”.
L’eroe abile, disinvolto e pragmatico della prima parte, quello attento ai bisogni e alle debolezze umane (per prendersene cura, nel caso dei propri familiari, oppure per sfruttarli a proprio vantaggio, nel caso di avversari e ostacoli nella battaglia per la vita), il self made man che non sopporta i gretti razzisti ma è ugualmente allergico alle ipocrisie dei moralisti di professione e infastidito dal fanatismo del “politically correct”, l’uomo fuggito dall’ambiente chiuso del Maine e che riesce a non farsi fagocitare dalla Grande Mela, il professionista di successo, il marito invidiato, il padre che tutti vorrebbero avere ha un suo lato oscuro. Non sorprende che ci sia, perché ce lo aspettavamo e avevamo messo in conto che potesse essere esattamente “quello”. Sorprende piuttosto che questa scoperta abbia il potere di mandare in frantumi il personaggio e buona parte del mordente della storia.
Il romanzo funziona ancora, perché a questo punto il lettore è stato saldamente agganciato all’amo, però non c’è più la naturale scioltezza dell’avvio.
Una volta chiuso e rimesso il libro al suo posto sullo scaffale, ci capiterà di ripensare a Jim, Bob, Susan, Hellen, Pam e Zach come a persone incontrate in una lunga e piacevole vacanza, che ci hanno fatto divertire, ci hanno confidato qualche segreto e resi partecipi di qualche angoscia, senza tuttavia risultare mai invadenti, né noiosi. Tutti insieme ci hanno confermato che gli Stati Uniti d’America sono un posto dove è molto complicato nascere, crescere e vivere. Insomma, ce n’è di che rimanere soddisfatti, alle cinque del pomeriggio, tra un biscottino e l’altro, con il sole che filtra delicato dalle tende, mentre fuori il vento accarezza le betulle.
“Che cosa farò, Bob? Non ho più una famiglia”.
“Sì che ce l’hai”, rispose Bob. “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto parte ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia”.
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Un giorno dopo l'altro
“Un giorno dopo l’altro” è (anche) il titolo di un romanzo di Carlo Lucarelli, quando ancora si divertiva con gli abbinamenti tra romanzi e canzoni.
Ma non sto recensendo Lucarelli, bensì Massimo Carlotto, e “Il fuggiasco” è il racconto, un giorno dopo l’altro, di come vive un “latitante per caso”.
Non stiamo parlando di un criminale incallito, un membro di qualche associazione a delinquere o gruppo terroristico, che deve mettere in conto lunghi periodi di vita clandestina, in perenne stato di allerta, braccato da forze dell’ordine e bande rivali. Come” il fuggitivo” cinematografico, il fuggiasco di cui si parla è un uomo normale a cui capita di vivere una storia che a raccontarla sembra un film.
In questo suo primo “romanzo”, che romanzo non è, ma ne ha tutto il profumo, Carlotto non segue un ordine cronologico, ma procede per temi e argomenti: i travestimenti, il cibo, il lavoro, la polizia, i rapporti con il variegato mondo degli esuli, dei clandestini, degli “irregolari”, gli amori, il carcere, i processi.
Per chi conosce “il caso Carlotto”, uno dei più incredibili e stupefacenti casi giudiziari della Repubblica Itaiana, una volta iniziato a leggere questo libro non sarà facile smettere. Almeno per me è stato così.
A tutti gli altri consiglio di informarsi un minimo prima di iniziare. Però mi chiedo anche l’effetto che può fare questa lettura a coloro (quanti?) che alla voce “Massimo Carlotto” abbinano esclusivamente la definizione di “principale esponente del noir mediterraneo”.
Lo stile spumeggiante dell’autore ci sostiene nel proposito di leggere a oltranza, fino ad uno sfinimento che tarda ad arrivare. Più leggere, ironiche e forse anche un po’ di maniera le pagine “parigine” della storia, e più cupe, gravi, drammatiche, le parti ambientate a Città del Messico. Molto può dipendere dalle personali esperienze e conoscenze, ma per quel che mi riguarda, il Messico di queste pagine difficilmente lo dimenticherò.
Infine, è’ molto difficile commentare questo libro senza parlare della vicenda giudiziaria del suo autore, mi sembra anche un tantino ipocrita. Eppure me ne astengo, perché questo non è un sito di dibattito politico, bensì letterario. Dico soltanto che per me questa vicenda giudiziaria è stato un pensiero fisso, che non mi ha mai abbandonato per tutte le pagine, pur essendo citata marginalmente (il tema è l’esperienza di un latitante, più che di un imputato).
Qualsiasi siano le tue idee sul “caso Carlotto”, dopo questa lettura saranno rafforzate. Se prima eri indignato, lo sarai ancora di più, se eri dubbioso, sarai ancora più perplesso, se provavi disgusto, compassione, angoscia, sconforto, il tuo stato d’animo si ripresenterà più acuto di prima. Non è libro scritto per convincere, semmai per dividere.
Chi considera la lettura parte della vita e non un modo di evaderne, in queste pagine troverà pane per i suoi denti.
“Non mi interessa una nuova vita, Bulmero. Mi interessa quella che avevo prima”.
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FUGA Y MISTERIO
Per essere felici bisogna avere anche fortuna. Ma molte persone non sono fatte per la felicità e sembrano nate per vivere in un perenne stato di malessere. Per loro non è la fortuna che conta, non sarebbero nemmeno capaci di approfittarne, non la vedrebbero passare o si girerebbero dall’altra parte. A rendere più accettabile e più dolce la vita di queste persone sono sufficienti “piccoli colpi di fortuna”, quelle lievi increspature del destino che pur non potendo risarcirle dei colpi subiti, possono però deviare la loro traiettoria di perdenti e offrire un po’ di consolazione, di pace, di lenta scoperta di molti “perché”.
Non si può dire nulla della trama di questo bellissimo romanzo senza incorrere negli spoiler. Claudia Piñeiro ha scritto una storia in cui sensibilità e mistero si fondono perfettamente e sarebbe un peccato rovinare la suspence che la scrittrice usa per accompagnare il lettore nel viaggio alla scoperta dei sentimenti e delle emozioni molto intime, molto femminili, della protagonista.
Posso solo darvi degli indizi e assicurarvi che prenderete in simpatia “la donna danneggiata”, apprezzerete “la gentilezza degli estranei”, volerete tra Boston e Buenos Aires e guarderete con molta apprensione i treni. Inoltre, ogni libro parla di altri libri. Questo è pieno di citazioni, di rimandi, di probabili fonti di ispirazione per l’autrice e di altrettanti inviti alla lettura: Le bambine restano (Alice Munro), Un tram chiamato Desiderio , Una donna spezzata , Frammenti di un discorso amoroso, Wakefield (N. Hawthorne).
Pur non avendo ancora letto nulla della Munro, giunto a pagina 162 di questo romanzo ero pronto a scommettere che l’idea,lo spunto iniziale fosse stato dato alla Piñeiro dal racconto del premio Nobel 2013, cui è anche dedicata l’epigrafe iniziale: “ Questo dolore acuto. Diventerà cronico. Cronico vuol dire che perdurerà anche se forse non sarà costante. Può anche voler dire che non ne morirai. Non te ne libererai ma non ti ucciderà. Non lo avvertirai in ogni istante però non passerà molto tempo prima che torni a farti visita. E imparerai alcuni trucchi per mitigarlo o tenerlo a bada, cercando di non distruggere ciò che tanto dolore ti è costato”.
Ringrazio molto Anna Maria Balzano che mi ha consigliato questo libro. I libri parlano sempre di altri libri, ma in genere prestiamo più ascolto ai consigli delle persone intelligenti cui vogliamo bene.
“E sorrido rendendomi conto che nonostante sia morto continua ad accompagnarmi, a fare le cose per me, non dall’aldilà in cui per altro non credo, ma cose che ha lasciato già fatte qui, in questo mondo, prima di andarsene, e riesco a vederle soltanto adesso”.
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Prendi la tristezza in mano,soffiala nel fiume
La strana biblioteca è una favola di Murakami Haruki che, nell’edizione italiana, è illustrata da Lorenzo Ceccotti. Una settantina di pagine scritte a caratteri grandi, con lo stile semplice e un po’ enigmatico di tutte le fiabe, intervallate da numerose inquietanti illustrazioni. Una lettura di pochi minuti che libera una gran quantità di immagini, ci si mette più tempo a riflettere sul suo possibile significato che a leggerla.
C’è una biblioteca, c’è un bambino, e c’è il male. Nella biblioteca, nel labirinto degli infiniti mondi che si parlano, si intrecciano e si rincorrono, le tenebre possono essere rischiarate dalla luna nuova, si possono fare incontri con le più tenere creature dei tuoi sogni, e si può sperare che il cane feroce che ti terrorizza e ti mangerà vivo sia invece attaccato e annientato dal tuo piccolo storno. E quando uscirai dal labirinto delle pagine, il male rimarrà prigioniero lì dentro e nessuno ti farà domande, né ti chiederà spiegazioni.
Nel mondo reale non è così, la sofferenza e la solitudine si dissolvono con molta più fatica. “Quando sono solo, il buio intorno a me si fa molto profondo. Come in una notte di luna nuova”. Il mio piccolo storno rimarrà sempre un uccellino, non incontrerò mai l’uomo pecora e nessuna ragazza dalla pelle splendente come la luna verrà a sedersi vicino a me.
Come sarebbe bello se la tristezza e il dolore potessero sempre essere rinchiuse tra le pagine di un libro….
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Scimmiottando i gourmet: boccone amaro, ma con retrogusto apprezzabile ...
Il giudizio è fatalmente influenzato da un po' di reverenza verso il più volte quasi-Nobel
Quattro amici e una ragazza
E’ proprio vero che l’adolescenza ti lascia addosso cicatrici di cui porterai per sempre il segno.
Quando pensi che di quel mondo lontano ti sono rimaste soltanto una manciata di foto sbiadite, qualche copertina di LP che conservi nostalgicamente come un cimelio e un pugno di amicizie su FB, ci pensano i figli a riportarti indietro nel tempo, a ribollirti nei contorcimenti di questa età tenerissima e violenta, nella quale sembra che ti devi giocare tutto, e tutto è buio cieco oppure luce accecante, ti senti un dio oppure l’ultimo degli esseri viventi, giudichi spietatamente gli altri e te stesso, e per ogni capovolta dell’umore è sufficiente un brufolo in più, un appuntamento mancato, uno sguardo che indugia due secondi invece di uno.
E mentre guardi stralunato i tuoi figli che con violenza e ferocia ti riportano in quella foresta di emozioni, non ti passa nemmeno per la testa di chiederti: “ma io ero davvero così?” perché troppa è la preoccupazione che passino indenni questo guado, che la sfida che incoscientemente lanciano al destino li fortifichi e non li atterri e preghi che l’impulso autodistruttivo sia una febbre che li vaccini per sempre verso quelle fragilità che incombono su di loro come pericolosi e oscuri cavalieri neri.
Il regno degli amici è un avvincente romanzo che parla di quell’età bellissima e maledetta. Dove “l’amore e l’amicizia si sfidano come su un ring”, per usare le stesse parole di Raul Montanari. Quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo. Non andavano al bar i quattro protagonisti della storia, ma in una catapecchia sulla Martesana, uno di quei luoghi, “di quelle pieghe del mondo – per citare nuovamente l’autore – che spesso nelle città si trovano vicino alle ferrovie e vicino all’acqua”.
Romanzo che per i primi due terzi procede leggero tra umorismo e ironia, mentre nel finale vira decisamente sul drammatico perché ogni uomo ha “un’essenza poetica, un’esistenza comica e una fine tragica” e se scrivere è sempre un atto di dissenso verso il mondo, maturità è anche descrivere la vita in tutte le sue sfaccettature, senza spegnere la rabbia, ma senza trascurare il resto.
Un incontro fortunato, con questo romanzo e con questo autore, una storia ruvida, che ti lascia l’amaro in bocca, quel che ci vuole per qualche boccone indigesto che talvolta nella vita ci capita di dover ingoiare.
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Il sogno di Caio Lucilio Augias
Nella sua lunga carriera di giornalista, scrittore e conduttore televisivo, Corrado Augias ci ha portato in giro per il mondo, svelandoci i segreti delle grandi città (Parigi, Londra, New York), con lucide inchieste ci ha interessati a importanti casi di cronaca giudiziaria (Telefono Giallo), ha scritto lui stesso qualche noir (il delitto e il mistero evidentemente lo intrigano assai), ha portato i libri e la cultura sul piccolo schermo (Babele).
Da qualche anno si sta dedicando a inchieste, viaggi e ricostruzioni sul pianeta Gesù, utilizzando un po’ tutte le abilità sviluppate nei lavori precedenti.
“Le ultime diciotto ore di Gesù” è una fiction, come spiega Augias stesso, intendendo il termine nel suo significato etimologico (dal latino fingere: figurarsi, immaginare, supporre, ipotizzare) estendendolo un po’: sognare, “perché qualunque storia è almeno in parte una bugia – o un sogno”.
Tutti sappiamo che la storia di Gesù è storia rivelata solo in parte, è storia di chi ama e vuole essere scoperto, lasciando sufficienti segni per credere e altrettanti per respingerlo. L’intelletto non può arrivare a sciogliere ogni dubbio, come non ci si può innamorare con la sola forza della ragione. Le luci e le ombre possono però essere usate per figurarsi una scena, per tentare di descriverla e raccontarla. Si può usare il realismo crudo del Caravaggio nelle “Morte della Vergine” oppure la maestosità dei sontuosi mosaici bizantini: stessi personaggi, stesse scene, ma rappresentazioni diverse, racconti diversi.
Il racconto, la fiction, il sogno di Augias è interessante e ben costruito. La credibilità è lasciata al giudizio del lettore e probabilmente non è più di tanto un obiettivo dell’opera. C’è comunque molta ricerca, rigore, studio, attenzione, amore per i dettagli. Chi conosce l’autore non può aver dubbi al riguardo. Le sue fonti spaziano dai Vangeli canonici a quelli apocrifi, dai rotoli di Qumràn alle storie di Flavio Giuseppe e la narrazione rimanda ogni tanto a qualche importante riferimento filosofico-letterario (Dostoevskij, Bulgakov, Seneca, Epicuro, Lucrezio).
Augias cerca di ricostruire quella manciata di ore che trascorrono dall’arresto nel Getsemani alla morte sulla croce, passando attraverso due processi (religioso e politico) e la flagellazione. Letto da una prospettiva unicamente storica e umana, la storia di Gesù è anche un caso giudiziario con molti lati oscuri. Non sono chiare le accuse, le prove, i testimoni. L’intensa, complessa, controversa ed enigmatica personalità dell’imputato obbliga a spostare l’attenzione sugli altri personaggi: innanzi tutto Ponzio Pilato e i gran sacerdoti, ma anche il tetrarca Erode Antipa con la sua corte corrotta, il fariseo Nicodemo, il traditore Giuda Iscariota.
Su di loro si cercano testimonianze, citazioni, aneddoti, riscontri. I personaggi di fantasia (il leale centurione Kyrillos, l’ambiguo consigliere Nikephoros) servono per portarci dentro la storia, farcela vivere in 3D, oppure (lo scrittore Lucilio) per trasferirci le probabili personali inquietudini dello stesso Augias.
Giuseppe e Maria, totalmente umanizzati e privati di ogni connotazione mistica, danno vita e colore a una libera interpretazione dell’ambiente domestico nel quale Gesù è nato e cresciuto.
Nonostante l’imminente festività della Pasqua ebraica, il clima entro il quale si avverano le antiche profezie è fosco, intorbidito dalla decapitazione di Giovanni il Battista. Fioriscono i complotti, i tranelli, i tradimenti, i sotterfugi, i calcoli opportunistici, le debolezze, le vigliaccherie. Tutto contribuisce a rendere plastico il concetto che proprio per l’eterna inadeguatezza umana Gesù salì sulla croce.
Un uomo si trova suo malgrado al centro di queste trame malsane: il procuratore romano Ponzio Pilato che, dando credito al giudizio di Filone d’Alessandria, Augias rappresenta come un malmostoso, collerico, ulceroso e grezzo militare, infastidito dall’ennesima grana che gli tocca risolvere in quella lontana, infida e riottosa provincia dell’Impero.
Pilato è preoccupato. Ha già commesso gravi errori. A Roma lo tengono d’occhio, sa che un altro passo falso gli sarebbe fatale: la competizione è spietata, i nemici lo incalzano, i benefattori sono lontani e ormai disinteressati alla sua sorte. Per giunta, sua moglie Claudia Procula lo tormenta con oscuri presagi e sembra inspiegabilmente sensibile alla sorte di questo profeta pazzo e sventurato. I gran sacerdoti gli hanno teso una trappola, scaricandogli la responsabilità di mandare a morte un innocente. Come venirne fuori?
Un’ultima annotazione. Un libro come questo non poteva escludere completamente l’ambito spirituale. La stessa rappresentazione storica, umana e terrena dei fatti sarebbe stata deformata, perché ogni singolo atto o parola che riguarda Gesù è intrisa di spiritualità. Alcuni personaggi (Nicodemo, Giuda, gli Esseni) coprono l’ambito culturale e di testimonianza di questo aspetto. Il suo lato esistenziale è invece affidato a due anime inquiete: Claudia Procula e soprattutto lo scrittore Caio Quinto Lucilio, dietro al quale fa capolino, forse, lo stesso Augias.
Lucilio è uomo colto e sensibile, mosso da pietas, capisce, si interroga, riflette. Non gli piacciono le risposte e le soluzioni di comodo, pur nella consapevolezza che su di esse si regge il governo del mondo.
Nauseato dalla conclusione di questa storia, Lucilio lascerà Gerusalemme, tornerà a Roma e con gli anni seppellirà ogni giovanile speranza di resurrezione dopo la morte, non aspettandosi altro che il ritorno a madre natura, nella cui infinita immensità è dolce naufragare.
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Tzaddik per sempre
Fin dalle origini della tradizione chassidica, il tzaddik era il capo della comunità, un uomo particolarmente devoto, sapiente e sensibile, che la gente seguiva con fiducia e a lui si rivolgeva per ogni problema. I chassidim riconoscevano nello tzaddik un vincolo sovrumano tra loro e Dio.
Come spesso succede quando i movimenti spontanei, guidati da uomini particolarmente carismatici, si cristallizzano e diventano istituzioni, anche nel chassidismo ci furono abusi. La carica di tzaddik divenne spesso ereditaria, molti tzaddikim vivevano come monarchi orientali, le comunità divennero clan chiusi e dogmatici che, anche per il tramite di barbe, riccioli e vestiti scuri con le frange, si illudevano di fermare il tempo alla Polonia del diciottesimo secolo.
Ogni aspetto estraneo allo studio del Talmud era un potenziale pericolo e si composero liste di cose lecite e di cose proibite, molti libri vennero messi al bando e si diffuse la pratica dei matrimoni combinati fin dalla più tenera età. Studiare le materie ebraiche in lingua ebraica anziché in yiddish era considerato un peccato inaudito, perché l’ebraico era la Lingua Santa e usarlo normalmente in classe era una profanazione del Nome di Dio.
Quando il movimento sionista iniziò a propugnare uno Stato ebraico in Palestina, trovò nelle comunità chassidiche uno strenuo avversario, perché non si ammetteva una patria ebraica che non avesse al centro la Torah, non doveva quindi esserci una patria ebraica fino all’avvento del Messia.
Tutto questo può essere classificato come fanatismo? Certamente. Eppure anche un ebreo liberale, pur non condividendo affatto queste scelte e questi comportamenti, può affermare che “il fanatismo d’uomini dello stampo del rabbino Saunders ci ha conservati in vita durante duemila anni di esilio”. La chiave sta nella precisazione: uomini “dello stampo di”, non uomini qualunque.
Le ultime, sconvolgenti quindici pagine di “Danny l’eletto” gettano una luce nuova su tutto il romanzo e rivelano che ci può essere un’infinita tenerezza nella dura roccia che protegge e custodisce le radici della pianta cresciuta con fatica al suo interno. Se ci si ferma alla superficie, si sperimenta solo il lato duro, ruvido, sgradevole, e anche violento, di uno stile di vita incomprensibile e inaccettabile.
Ma scavando in profondità (e per questo occorre che ci siano delle profondità, quindi l’integralismo non è per tutti) si può scoprire un sorprendente ed inesauribile pozzo di sensibilità, comprensione, amore ed empatia. Si può scoprire che dietro veti, bandi e proibizioni si nasconde la consapevolezza che essi saranno tutti abbattuti e che è ineluttabile che le regole formali, le prescrizioni, i codici siano prima trasgrediti e poi abbandonati. Nel frattempo, con severità, disciplina e rigore ben oltre ogni limite comprensibile, avranno forgiato un’anima, avranno formato un uomo.
Quest’uomo potrà anche tagliarsi i riccioli, la barba, smettere gli abiti scuri e le frange, ma rimarrà per sempre profondamente un tzaddik, un giusto, un sapiente, un caritatevole, un uomo che anche nella confusione delle strade del mondo non perderà mai la propria.
“Danny l’eletto” ci parla dell’amicizia di due ragazzi ebrei newyorkesi, alla fine della seconda guerra mondiale. Reuven è figlio del professor Malter, un ebreo colto e di larghe vedute, sostenitore e promotore del sionismo. Daniel invece è figlio del rabbino Saunders, uno tzaddik di grande carisma, stimato, e rispettato da tutti.
Danny, destinato ad ereditare la carica del padre, è un ragazzo eccezionalmente intelligente, curioso e sensibile. Divora di nascosto letture “proibite”, stringe amicizie pericolose eppure non osa mettere in discussione né l’autorità del padre, né il severo (forse anche crudele) sistema di vita entro cui è cresciuto.
Non si tratta solo di una grande romanzo sull’amicizia: il libro ci parla anche di padri e di figli, di silenzi e di incomunicabilità, di parole dette in silenzio, di canali di comunicazione incredibilmente tortuosi, che devono farsi strada tra le complessità dell’anima.
E’ un libro che invita anche a riflettere, noi apparentemente liberi, liberali, laicissimi, aperti e democratici. Ci invita a non fermarci all’aspetto sgradevole e aspro della roccia, a scavare in profondità, oltre le idee e i comportamenti che ci sembrano incomprensibili, arcaici, ottusi e bigotti. Troppo facile denigrarli, rifiutarli, rispondere al fanatismo con altrettanto fanatica superficialità. L’istinto è quello, ed è naturale. Infatti, anche l’amicizia tra Reuven e Danny nasce da uno scontro, dall’odio persino. Ma poi i due ragazzi fanno leva sulle proprie qualità e da quella contrapposizione nasce una grande amicizia, un legame solido, un ponte tra due mondi apparentemente incomunicabili.
Non dovremmo mai dimenticare che il dialogo è sempre possibile. A due condizioni: che si abbia la voglia e la capacità di scavare, e che sotto la superficie ci sia qualcosa.
Crescere un figlio nel dolore e nel sacrificio, imporre a sé e agli altri privazioni e sofferenze, continueranno a sembrarci un prezzo inaccettabile per forgiare un carattere. Ma chi vive in un mondo protetto da barriere sa e si aspetta che esse siano superate prima o poi, sa che quel mondo si dissolverà e si mescolerà con altri mondi.
Forse è proprio su questo che si fonda il dialogo: la capacità di guardare avanti, pur senza dimenticare la validità delle proprie ragioni e restando intimamente fedeli alle proprie radici
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Formidable!
Alfredo Panzini, Dizionario Moderno, 1908, a proposito dell’aggettivo formidabile: “usare questo aggettivo per cose da poco, risente della maniera enfatica francese (formidable)”
La settimana scorsa, in spiaggia, finalmente nell’ozio più totale dopo un anno molto faticoso, ho letto le 760 pagine del “formidabile” Joël Dicker. Cito la spiaggia e il bisogno fisico di ore di tutto riposo non a caso: la scelta si è rivelata perfetta per quel contesto. Anche perché, come è stato scritto da qualcuno, 700-800 pagine sono il peso ideale per trattenere l’asciugamano in una giornata di vento.
Ho letto i numerosi commenti pubblicati su questo sito e mi sembra che, a parte una discreta quota di entusiasti e una piccola minoranza di detrattori, prevale un consenso cauto e moderato, che loda lo stile veloce e la trama avvincente, pur nella consapevolezza di evidenti limiti (ampio ricorso a cliché da serie televisive, personaggi inconsistenti, banalità di varia natura).
Questo è anche il mio parere.
La trama scorre leggera, non essendo intralciata dai personaggi, che sono privi di qualsiasi spessore, totalmente funzionali all’azione. E poiché l’azione passa attraverso diverse sorprese e capovolgimenti di scena, anche i personaggi subiscono analoga trasformazione, senza che l’autore si sia preoccupato di renderla minimamente credibile.
Al “formidabile” interessa unicamente costringere il lettore a voltare pagina dopo pagina. E, complice la noia, la spiaggia, il caldo afoso, la stanchezza, ci riesce maledettamente bene.
Come ha dichiarato in diverse interviste, Dicker ha deliberatamente utilizzato cliché facilmente riconoscibili per catturare l’attenzione e creare un effetto simile a quello di alcune serie televisive che inizi a vedere per noia, poi per curiosità, poi ne diventi dipendente e non te ne stacchi più.
La quarta di copertina evidenzia il commento di Marc Fumaroli, storico francese, classe 1932, non certo tenero con le contaminazioni dell’arte con il marketing, che parla di “adrenalina letteraria”.
In effetti, gli aspetti più leggeri e semplicistici di quest’opera non urtano al punto di farti abbandonare la lettura. Io sono stato tentato un paio di volte, ma poi ho desistito, forse perché non avevo con me un altro volume in grado di trattenere altrettanto efficacemente l’asciugamano.
Gli elementi più indigesti e più sgradevoli al mio palato sono stati la cornice del “coaching” letterario e il deprimente tormentone amoroso. Su questi aspetti, tocca entrare nel merito.
Marcus Goldman, protagonista del romanzo e proiezione dell’autore, diventato “il formidabile” ai tempi del liceo perché sceglieva astutamente di misurarsi in competizioni dove poteva vincere facile, è uno scrittore che ha pubblicato un romanzo che ha venduto due milioni di copie ma poi cade vittima della sindrome da pagina bianca. Si rivolge al suo amico e professore di università Harry Quebert, che trent’anni prima aveva pubblicato “Le origini del male”, romanzo di grandissimo successo. Quebert risulterà poi il principale indiziato dell’omicidio della quindicenne Nola Kellergan, avvenuto proprio nell’anno di pubblicazione di “Le origini del male”. Tra il maestro e l’allievo si instaura un sodalizio che fa da cornice alla storia vera e propria, e mentre l’uno acquista forza, dell’altro si scoprono sconcertanti debolezze capitolo dopo capitolo, ognuno dei quali viene aperto da un insegnamento, una pillola di saggezza offerta secondo la più scontata retorica “american style”.
Il tormentone amoroso è invece davvero imbarazzante. Il trentaquattrenne Quebert e la quindicenne Nola vivono una storia d’amore dalla quale entrambi non si riprenderanno mai più, l’una perché muore, l’altro perché da quel momento vivrà soltanto di ricordi. Apprendo da altri commenti che c’è una esplicita citazione di “Lolita” per il fatto che Quebert è solito scrivere ossessivamente il nome N O L A scandendo le lettere, come avveniva nell’opera di Nabokov (che non ho letto).
Su un tema così urticante come una relazione tra un uomo adulto e un’ingenua (?) ragazzina, l’autore avrebbe dovuto decidere la prospettiva da cui raccontare e attenersi a quella. Invece, a causa del totale asservimento dei personaggi alla trama, e con lo scoperto intento di piacere a tutti, la storia tra Quebert e Nola viene raccontata con diversi stili, dal romantico-melenso (in piena zona Harmony, con i gabbiani, la danza sotto la pioggia, la vacanza nel resort di lusso, la musica lirica) al retorico-tragico-adolescenziale-maledetto (con qualche pagina involontariamente comica), al sordido-scabroso (la dolce e tenera fatina del paese che apre la patta ad un poliziotto e si esibisce disinvoltamente in un rapporto orale), al malinconico-filosofico-esistenziale (la caduta, i ricordi, il senso di colpa, l’espiazione). Risultato? I personaggi meno credibili del romanzo sono proprio i due principali. Si possono perdonare i cliché finché riguardano i personaggi di supporto, il poliziotto burbero buono, l’editore squalo, l’avvocato cinico, la cameriera che sogna Hollywood, il riccone potente circondato da un losco alone di mistero. Un po’ più difficile è passar sopra le improvvise trasformazioni dei due personaggi chiave: il cambio di maschera motivato sempre troppo frettolosamente e superficialmente di sicuro colpisce, ma un po’ disorienta. Tanto che la domanda principale non è: chi ha ucciso Nola (facendo il verso a “chi a ucciso Laura Palmer” di Twin Peaks), ma piuttosto: chi era veramente Nola?
Lo stesso dicasi per l’ondivago professor Quebert, che impartisce lezioni da un pulpito che non avrebbe diritto ad occupare, si erge a coach di scrittura e di vita, ma fallisce tutte le prove in cui la vita gli chiede di dimostrare un briciolo di maturità, forza d’animo, coraggio, rettitudine.
Forse era proprio questo l’intento dell’autore: sulla scia di precedenti illustri, nella narrativa, come nel cinema e nelle serie TV, voleva forse descrivere la provincia americana come un luogo di personaggi meschini, sciatti, un luogo dove tutti sanno un pezzo di verità ma nessuno parla, tutti sono colpevoli di qualcosa o hanno qualcosa da nascondere, tutti avrebbero potuto uccidere Nola Kellergan e tutti sarebbero stati capaci di farlo, tanto che alla fine non importa nemmeno chi è l’effettivo autore dell’omicidio.
C’è un’aria malsana che avvolge ogni cosa, i personaggi sono pallide ombre e nessuno, nemmeno la vittima, è veramente innocente. In fondo, tutti sono vittima di qualcosa, se non altro di essere nati e vissuti nella provincia americana.
Di fronte a tutto questo, un ragazzetto presuntuoso e fortunato arrivato da New York in cerca di ispirazione, secondo uno dei più collaudati plot hollywoodiani si impone come l’eroe pulito, onesto e integerrimo, riscattando i suoi poco onorevoli trascorsi di antipatico “formidabile”. Trent’anni di omertà spazzati via da un improvvisato investigatore di primo pelo: spettacolo!
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Io, senza saperne spiegare le ragioni, credo che potrebbe piacere agli amanti dei legal thriller, alla Scott Turow per esempio. Però se non avete ancora letto Presunto Innocente, lasciate perdere Quebert e leggete quello!
Alla fine della giornata, il piacere di raccontare
“Un’idea di felicità”, di Luis Sepulveda e Carlo Petrini è innanzi tutto una bella idea.
Un dialogo tra due persone che hanno qualcosa da dire. Dialogo prima diretto, nella forma di una conversazione ricca di spunti di interesse. Poi prosegue con un confronto a distanza: lo scrittore cileno apre con sette idee per il futuro (su felicità, letteratura, sviluppo, condivisione, nutrimento e politica) e il fondatore di Slow Food e Terra Madre risponde sugli stessi temi (solo sostituendo la letteratura con la gastronomia).
Si parte dal comune apprezzamento per la lentezza, tema dell’ultimo libro di Sepulveda e concetto essenziale e fondativo di Slow Food. Lentezza come fonte di piacere, saggezza, efficienza. L’idea che la felicità si fondi essenzialmente sulla rete, sull’apertura agli altri, sulla valorizzazione delle diversità, senza le quali le identità appassiscono e muoiono.
Entrambi accettano molto volentieri l’etichetta di utopisti e visionari (non per nulla sono entrambi classe 1949, piena generazione ’68) ma rivendicano con orgoglio che solo con una robusta dose di utopia si possono realizzare cambiamenti concreti. E quanto a visione sul futuro, si fidano più dei poeti che di scienziati, economisti e politici.
Ciò che rende affascinante la narrazione di entrambi, e che la fa uscire dalla pura affabulazione fine a se stessa, è che l’uno e l’altro hanno fatto cose importanti nella loro vita, sono stati in modi diversi due rivoluzionari, e le loro idee sono un corpo unico con le esperienze maturate e i progetti futuri.
Sepulveda fece parte della guardia personale di Salvador Allende, è stato esule in vari paesi, combattente sandinista in Nicaragua, attivista di Greenpeace, ospite per sette mesi degli suar, una popolazione amazzonica, amico del presidente dell’Uruguay Pepe Mujica. Petrini, muovendo da Bra, nel cuneese, e dall’ARCI, ha creato un movimento che, tra Slow Food e Terra Madre coinvolge circa un milione di persone sui temi del cibo e dell’agricoltura e sulla loro importanza per la cultura, la salute, l’ambiente e per un mondo più giusto.
Fare bene e con passione il proprio mestiere, riscoprire l’antica sapienza contenuta nel lavoro manuale, artigiano, contadino, non avere paura di vivere in una decorosa povertà, rifiutando le chimere di chi promette il benessere e poi ti costringe alla fame, sono tra i tanti punti di vista che, otre a qualche tratto biografico, accomunano i due personaggi.
Sepulveda svela il contenuto che lo ispirò per la scrittura di alcune sue celebri opere. Petrini sviluppa le sue idee rifacendosi soprattutto al progetto di Terra Madre, “un modello slow che imprime cambiamenti repentini”. Due testimoni straordinari di come la cultura possa farsi vita e la vita farsi cultura. Contro i mastri parolai che cianciano con stile (o anche no) senza contenuti.
“Il momento più importante per l’umanità si ripete ogni giorno, moltiplicandosi, in maniera anonima. Ed è quando alla fine della giornata la famiglia, grande o piccola, si siede a tavola per godere di un’esperienza semplice come mangiare qualcosa che è stato fatto con amore, qualcosa che ha una storia alle spalle. Anzi più di una. Ogni pasto, per quanto semplice, contiene una molteplicità di storie… E’ il momento del giorno ce preferisco, il pasto serale. Qui il gruppo minimo che è la base primordiale di ciò che si chiama umanità si siede a tavola e partecipa alla piccola, enorme narrazione che è il meraviglioso racconto della giornata trascorsa.”
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Cinema 58
Convincente e di ottima fattura l’ultimo romanzo di Jonathan Coe, un’opera minore di qualità, molto adatta a momenti di sana evasione e di relax.
Più che una spy story, si ha l’impressione di immergersi in una commedia anni ’50 alla Cary Grant, con un pacifico protagonista che viene improvvisamente catapultato suo malgrado in complicati intrighi internazionali e soprattutto in imprescindibili e ancora più pericolosi love affaires. D’altra parte Jonathan Coe è un raffinato cinefilo, che ama inserire nelle sue opere moltissimi riferimenti e rimandi al grande schermo.
L’ambientazione è perfetta, curata e credibile in ogni dettaglio. Nella prima parte ci si sente così avvolti dall’atmosfera British della vecchia Inghilterra che viene voglia di sfogliare le pagine tenendo a portata di mano toast imburrati e tazzine di tè.
La scena si sposta successivamente a Bruxelles, durante la prima Esposizione Universale organizzata dopo il secondo conflitto mondiale, terminato da soli tredici anni. L’Expo nell’anno in cui entrano in vigore i Trattati di Roma e viene fondata la Comunità Economica Europea è l’occasione per voltare pagina: si vuole gettare un ponte verso il futuro e si sceglie come tema “Valutazione del Mondo per un mondo più umano”. Simbolo di Expo 58 è l’Atomium, una costruzione in acciaio che rappresenta gli atomi di un cristallo di ferro. Grandi speranze venivano riposte nella scienza, nella tecnologia nucleare, nel progresso. Alla vetrina di Expo ogni Stato voleva fare bella figura, mettere in mostra la sua cultura e le sue eccellenze. Tra i visitatori c’era un clima di effervescente eccitazione e le Grandi Potenze muovevano le loro pedine, si studiavano e si controllavano reciprocamente. Expo 58 ebbe oltre 40 milioni di visitatori. Un americano del Texas bivaccò tre giorni davanti all’ingresso per non perdere l’occasione di essere il primo ad entrare.
Lasciata la sua tranquilla normalità a Londra, (un monotono impiego ore 9-17, una moglie ansiosa con bimba piccola, una mamma saggia e un vicino ficcanaso) Thomas Foley, il nostro protagonista che viene definito come un incrocio tra Gary Cooper e Dirk Bogarde è pronto ad entrare nella sua avventura da cinematografo: un gustoso intreccio tra una parodistica spy story, inquietudini sentimentali e promesse di trasgressione.
L’ironia, la capacità di fare sul serio senza prendersi sul serio e il sapiente dosaggio di attendibilità e di parodia mi sembrano gli elementi che maggiormente caratterizzano questo romanzo: ci si gusta un’atmosfera da Bulli e Pupe senza cadere in banali déjà vu, mentre la spy story è costellata da un’innumerevole serie di macchiette e stereotipi, tanto più divertenti quanto più volutamente e ricercatamente scontati. Ma Jonathan Coe si diverte con il lettore che crede di saperla lunga, come il gatto fa con il topo: ogni sorpresa sembra quella definitiva, in ogni pagina abbiamo la sensazione di avere sotto controllo la situazione e attendiamo soltanto di planare su ciò che pensiamo un approdo già ampiamente annunciato, quand’ecco che siamo sorpresi da un guizzo imprevisto, un colpo di coda inaspettato, una nuova rivelazione, fino all’ultima pagina.
E adesso cosa ci vediamo, Notorius, Intrigo Internazionale o Caccia al ladro?
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Buona la seconda (lettura)
Alla fine mi è piaciuto. Parto da questa considerazione banale, che per me è anche l’arrivo di un percorso abbastanza travagliato.
Non mi è piaciuto subito questo romanzo vincitore del Campiello 2014: l’ho dovuto abbandonare dopo cento pagine, leggere qualcosa nel frattempo, riprendere vincendo lo scetticismo, ricominciare daccapo e farmi conquistare pagina dopo pagina, versando anche qualche lacrima nel finale, segno che emotivamente mi aveva ormai catturato.
Morte di un uomo felice è la storia di Giacomo Colnaghi, magistrato impegnato nelle indagini sul terrorismo rosso, nome di fantasia ispirato però ad alcuni casi realmente esistiti di uomini eroicamente normali, “eroi borghesi” per richiamare un titolo che ha aperto la strada a un filone affollato e fortunato a cavallo tra narrativa e testimonianza.
Giacomo Colnaghi viene assassinato nel 1981, lo stesso anno di nascita dell’autore, Giorgio Fontana. Non deve essere stato facile cercare di documentarsi su un periodo che non si è vissuto, ma del quale esiste ancora una memoria molto nitida e precisa in tante persone. Diciamo quindi subito che l’ambientazione è uno dei punti di debolezza di questo romanzo. Gli anni settanta possono essere descritti in tanti modi, ma non c’è dubbio che chi li ha vissuti si ricorda una caratteristica su tutte: erano anni iperpoliticizzati.
Tutto era intriso di politica, anche le cose che con la politica c’entravano poco o nulla: l’arte, il cinema, la musica, la letteratura, l’amore, lo sport, la scuola, la cronaca, l’economia, il lavoro, la religione, tutto.
Questo non emerge più di tanto nel romanzo, dove la nota che spicca è piuttosto il profumo di pulito e di ordine che si respira nelle case delle suore, semplicità, scherzi da prete, un po’ di noia, battute da sagrestia, Bernanos e riflessioni morali lontane anni luce dagli slogan virulenti e primordiali degli anni di piombo.
Colnaghi è un cattolico di sinistra, figlio di un partigiano ucciso dai fascisti, quelli veri, ma è anche un uomo che si interroga e vuole capire, partendo dalla sua storia di figlio, di padre, di marito, di cristiano praticante.
Il personaggio funziona, alla grande, e alla lunga si impone e fa scivolare il contesto in un secondo piano molto sfocato. Gli ambienti che frequenta, la sua storia personale, i suoi tormenti, la sua normale quotidianità sono un’alternativa valida, sana e pulita a percorsi molto più chiassosi e superficiali, che hanno goduto, e in qualche modo continuano a godere, di ampia popolarità mediatica.
Nel tentativo di darci una rappresentazione “viva” del protagonista, Fontana attinge forse un po’ troppo insistentemente alle proprie esperienze di studente fuori sede: le Ferrovie Nord (l’autore e il suo personaggio sono di Saronno), l’appartamentino a Lambrate, la bicicletta, la topografia minima dei luoghi dove si mangia “un panino stupendo”, la trattoria sui Navigli, le passeggiate notturne e solitarie nelle vie del centro, il bar di periferia.
Non riesce ad andare molto più in là, né ad immedesimarsi veramente nella psicologia di un uomo che si avvia alla mezza età: gli fa fumare la pipa (gesto totalmente fuori linea rispetto agli tratti del protagonista), gli crea dialoghi da sbadiglio con la moglie e un’astinenza sessuale prolungata. Stop. Funziona meglio con la madre, con il figlio e con gli amici, rapporti che il trentenne Fontana descrive in modo meno impacciato, trovandosi maggiormente a suo agio.
E allora perché funziona il protagonista e la sua storia? Vista dall’esterno, appare un po’ posticcia e stiracchiata, costruita su spunti un po’ scontati (il magistrato e il terrorista che partono dallo stesso ambiente sociale, frequentano entrambi l’oratorio e poi approdano a scelte di vita opposte) e su riflessioni non particolarmente originali (lo Stato che tradisce la Resistenza, i terroristi rossi che ne sporcano il nome e ne usurpano gli ideali) ma l’esterno non è il punto giusto dove posizionarsi. Ciò che inizialmente mi sembrava un ostacolo a proseguire nella lettura, successivamente l’ho interpretato come il segno di una scrittura ancora un po’ acerba, di una maturità ancora non raggiunta, nell’ambito di un’opera nell’insieme bella, utile ed efficace.
Il romanzo funziona nel momento in cui si capisce che non si tratta di un libro sugli anni di piombo.
Funziona quando si capisce che si tratta di una storia intima, che ci parla della difficoltà dei figli ad essere all’altezza dei padri, del paradosso per cui la normalità finisce spesso per diventare il vero eroismo, della difficoltà che le persone libere hanno ad esprimere se stesse, perché la loro indipendenza rischia continuamente di essere strumentalizzata da chi (la stragrande maggioranza) ha una concezione più tribale della vita, del lavoro, della società.
Da questa prospettiva riacquistano un senso i dialoghi scontati, i frammenti di piatta quotidianità che altrimenti sembrerebbero indice di scarsa fantasia e di scrittura esangue. Invece, silenziosamente e inaspettatamente, Giacomo Colnaghi e suo padre Ernesto, il partigiano Beppo la cui storia viene raccontata in parallelo a quella del figlio, riescono a conquistarti, ti ci affezioni, probabilmente li ricorderai bene e a lungo.
Il romanzo nasce da un interrogativo sulla giustizia, sul modo di fare giustizia, di essere magistrato.
L’autore lo dichiara nella nota finale: "questo libro forma un dittico ideale con il precedente Per legge superiore." Un dittico sulla giustizia. Applicare le leggi in modo cinico e notarile oppure spellarsi mani e piedi per cercare un diverso senso di giustizia, andare incontro a numerose frustrazioni e magari rimetterci la vita. Un interrogativo valido, importante, una grande questione su cui riflettere, ma anche il peccato originale del romanzo, che in certe parti risulta un po’ imbrigliato dai suoi stessi schemi.
In definitiva un’opera interessante, consigliabile, e uno scrittore da seguire nelle sue prossime prove.
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C'era una volta, nelle lontane terre del nord ...
L’imperatore di Portugallia è un romanzo scritto nel 1914 da Selma Lagerlöf (1858-1940), importante scrittrice svedese che vinse il premio Nobel nel 1909.
Jan, un povero bracciante che vive con la moglie Kattrinna in un luogo sperduto della Scandinavia, diventato inaspettatamente padre, si scopre un fortissimo attaccamento alla sua unica figlia, Klara Gulla.
Sul tema di questo grande amore, si sviluppa una storia apparentemente semplice e tuttavia precisa, nitida, intensa e ricca di emotività.
La forza dell’amore paterno, così grande e potente, diventa follia, cecità, chiaroveggenza, trasfigura una realtà troppo brutta per essere sopportata e la trasforma in sogno e poesia.
Capitoletti brevi, personaggi appena stilizzati, atmosfera fiabesca (siamo nella terra dei Troll) caratterizzano questo interessante e godibile romanzo, ma si avverte anche un profumo di nordica severità luterana, qualche nota agrodolce di moralismo didascalico alla De Amicis (in fondo il libro è stato scritto in un’epoca che non aveva ancora conosciuto due guerre mondiali e la frantumazione dei valori compiuta dal “secolo breve”) e, volendo esagerare, una pallida eco di un Re Lear, meno grandiosamente tragico, più tenero e mansueto, eppure a suo modo indimenticabile.
Ad avvolgere tutto ci sono le forze della natura, i boschi, il freddo e la luce delle terre del nord.
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Tradito dalla vita
Il giudice istruttore Ivan Il'i? Golovin aveva tutte le caratteristiche dell’uomo di successo, brillante, vincente, di quelli che scivolano con disinvolta leggerezza lungo il corso vita, azzeccando tutte le mosse, senza mai affliggersi con falsi problemi e apparentemente senza mai incontrare seri ostacoli o accadimenti in grado di far perdere loro quella forza sobria e tranquilla che li caratterizza e che li rende così influenti, rispettati, temuti, invidiati.
Ci sa fare fin da giovane Ivan Il’ic, compagnone con gli amici, attento alle relazioni con i superiori, gentile e cortese con i subalterni,capace di commettere azioni che “gli avevano fatto provare ribrezzo di sé mentre le commetteva”, senza tuttavia provarne vergogna o rimorso troppo a lungo. Insomma un uomo fatto per il potere e il successo nella vita, nel lavoro, nella società. Persino con le carte, la sua spensieratezza, la sua finezza di ingegno e la capacità di controllare le emozioni lo portavano ad essere un vincente naturale.
E le passioni, i sentimenti di Ivan Il’ic erano moderati e temperati come si conviene all’uomo votato al prestigio sociale e al massimo decoro. (“Decoro” è la parola forse più ripetuta nella prima parte del racconto, con una sottolineatura via via più maliziosa e polemica). Ivan Il’ic non esita ad abbandonare gli amici appena si apre una buona opportunità di carriera e a sposarsi non per amore, non per convenienza, ma perché tutto sommato era arrivato il momento giusto, la fanciulla era piacente e innamorata e il partito non era così male: insomma, con leggerezza, come con tutte le altre mosse, e con la convinzione che anch’essa sarebbe stata la scelta giusta.
Ma quella vita nella quale Ivan Il’ic scivolava così leggero e spensierato, poco alla volta gli costruì intorno alcune trappole mortali. La prima trappola che riuscì a insidiare il “decoro” della sua vita fu il matrimonio. Scenate, crisi di gelosia, insulti: la materialità, la volgarità, la concretezza della vita iniziava a farsi varco e a incidersi per la prima volta nella sua carne. Ivan Il’ic trovò rapidamente la via per recuperare, se non la serenità, almeno un’allegra piacevolezza di vivere, tuffandosi nel lavoro e prendendo quel po’ di buono che gli offriva la vita domestica, scartando ed aggirando abilmente problemi, crisi e borbottamenti.
La seconda trappola gli fu preparata dal rango sociale conquistato senza grande fatica, per semplice inclinazione e talento naturale: rango che imponeva un tenore di vita dispendioso, difficile da mantenere a lungo senza progredire ulteriormente nella carriera, nei guadagni, nel potere. Imparò così che la scalata verso il successo non ha mai una fine, non ci si può mai sentire appagati, mai sazi, mai distratti.
La terza trappola fatale Ivan Il’ic la trovò sul posto di lavoro, dove falsi amici, colleghi e rivali lo “fregarono” sottraendogli un posto a cui egli aveva diritto. Episodio che per la prima volta gi fece conoscere il sapore dell’ingiustizia, della sconfitta, del tradimento.
Furono questi i colpi mortali che atterrarono Ivan Il’ic, portandolo all’epilogo svelato fin dal titolo del racconto? Assolutamente no. Un vincente che si rispetti deve essere anche fortunato e infatti un inaspettato colpo di fortuna capovolge la situazione e riporta il nostro eroe sugli allori.
Fu proprio in questo momento di esaltazione più violenta ed autentica, quella del riscatto dopo la sconfitta, quella che ti illude di essere invincibile e immortale, che la vita riservò a Ivan Il’ic la sua vera trappola mortale, la sua inspiegabile, perfida e indecente carognata.
All’apogeo del suo successo, caduto e istantaneamente risollevato (metaforicamente e letteralmente, come scoprirà il lettore) Ivan Il’ic iniziò la sue veloce corsa verso la malattia, il disfacimento fisico, la morte. Con uno spietato realismo che a tratti ricorda Emile Zola, Tolstoj descrive l’agonia fisica e psicologica di un ex vincente, l’uomo che sembrava avere tutto e che si accorge di non avere mai avuto niente, l’uomo che non doveva morire mai e che si accorge di non avere mai autenticamente vissuto.
Tutta la seconda parte del racconto (una settantina di pagine in totale) è la descrizione minuziosa della caducità e della consapevolezza, del primo vero percorso di conoscenza compiuto da Ivan Il’ic, che per la prima volta si lascia sopraffare dalle emozioni negative, dalla rabbia, dalla delusione, dallo sconforto, dalla paura e tuttavia scopre la vacuità delle apparenze, la fitta trama di ipocrisie e di inganni di cui è intessuta la vita sociale, la rapacità dell’animo umano, e infine, cosa inaudita prima della malattia, la debolezza, la solitudine, la necessità di tutti gli esseri umani di essere veramente amati, capiti, aiutati, coccolati.
Tra tutte le persone che circondano l’Ivan Il’ic malato e poi morente ce n’è solo una in grado di vedere senza fingere, di capire, di donargli gesti di autentico e concreto conforto: è il servo Gerasim, addetto alle mansioni più umili e più ripugnanti. Familiari, amici, dottori, colleghi, parenti lo vedono soltanto come un “problema”, un fastidio di fronte al quale recitare una commedia che proseguirà anche dopo la sua morte.
Mentre tutta la prima parte del racconto, quella dell’ascesa e della leggerezza è costantemente dominata dall’ideale del “decoro”, la seconda parte è intensa, brutale, quasi oscena nel vivisezionare le emozioni e dominata dall’incredulità e da una domanda a cui si è certi di non poter dare una risposta: perché? Perché succede questo? Che senso ha la vita, perché si muore, che significato ha il dolore?
Io sono la mia morte, quando finisce la vita, finisce la morte. L’unico istante di vera vita di Ivan Il’ic è l’istante in cui incontra la morte?
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La morte di Ivan Il’ic è dunque opera scritta in un periodo che si può definire di impegno “militante” per Tolstoj, un periodo in cui l’intento artistico era subordinato ai suoi ideali di vita. La tensione morale che era già largamente presente nei grandi romanzi come Guerra e Pace e Anna Karenina, prende decisamente il sopravvento sulla creazione artistica. E dove c’era ancora un po’ di indulgenza e comprensione (anche per i generali inetti che si pavoneggiano e mandano a morire le truppe, anche per il nemico Napoleone Bonaparte, anche per la sventurata Anna Karenina) rimane solo la denuncia impietosa, la disperata ricerca di senso, la spiritualità spogliata di qualsiasi orpello mondano.
Indubbiamente un capolavoro, ma personalmente preferisco il Tolstoj dei decenni precedenti, quello che non giudicava ancora così severamente il mondo, quello dei grandi affreschi storici e sociali, quello in cui l’artista prevaleva sul vate austero e adamantino.
Non me ne vogliano i dotti e gli integerrimi
Quelli che conoscono Beppe Viola e quelli che no
“Mio padre è stato anche Beppe Viola” è un bel ritratto di un uomo pieno di ironia, di genio, di capacità di improvvisazione, scritto con amore da una figlia cui capitò di perdere il padre troppo presto.
Beppe Viola, indimenticabile giornalista sportivo, morì per un ictus il 17 ottobre 1982, a quarantadue anni, dopo la partita Inter-Napoli a cui stava lavorando. Ricordo ancora, dopo oltre trent’anni, il commosso articolo-necrologio che gli dedicò Gianni Brera, e che ho ritrovato in rete:
“Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli… Povero vecchio Bepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato in una corsa. Tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva uno humour naturale e beffardo, un’innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per avere chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto per questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore…”
Marina Viola ci avvisa: “questo non è un libro su Beppe Viola. E’ un libro su mio padre, quello che mi sgridava quando la facevo fuori dal vaso, quello che mi firmava le giustificazioni, quello che veniva in vacanza con me, che leggeva il giornale sulla poltrona.” Il suo omaggio e saluto al papà ci mette in contatto con la straripante personalità di un personaggio che era Beppe Viola anche tra le mura domestiche, genio e sregolatezza sempre, che si trattasse di commentare una partita di calcio, scrivere una canzone con Jannacci, la sceneggiatura di un film, un testo per Teo Teocoli o per Cochi e Renato, scommettere su un cavallo, far arrivare in ritardo Bruno Pizzul alla sua prima telecronaca, intervistare Gianni Rivera su un tram con i passeggeri che si muovono intorno, coinvolgere la figlia di nove anni nell’intervista televisiva a Umberto Tozzi e concludere tutti e tre alla mensa della Rai, spedire a casa da sola a sei anni, da San Siro a viale Argonne un’altra figlia “rea” di eccessiva incompetenza calcistica.
Quest’ultimo episodio merita una citazione: “Anche Anna dovette tornare a casa da sola, una volta che aveva appena sei anni: fu quando lui decise di portarla a vedere una partita di calcio a San Siro, che non è propriamente vicino a via Sismondi. Lei era ovviamente gasatissima, e fingendo di voler imparare le regole del gioco gli chiese: "Ma quello che corre vestito di nero, di che squadra è?". Mio padre non rispose neanche: si alzò, afflitto, la scortò fino all’uscita dello stadio. "Là in fondo c’è la metropolitana, arrangiati. Ci vediamo a casa” .
Sul lavoro non tollerava sciatterie, e arrivava a multare chi usava parole retoriche come “sfrecciare” o espressioni inappropriate come “ginocchio in disordine”, il centrocampista va a battere”, “il tiro si spegne”. Del resto, erano i tempi in cui raccontare lo sport era ancora materia umanistica, coltivata da uomini come Sergio Zavoli, Gianni Brera, Oreste del Buono.
Il ritratto di Beppe Viola, la storia di personaggi come il padre marconista e la madre Cicchinina, la rumorosa compagnia degli amici del bar Gattullo e del Derby è anche il ricordo di una Milano che oggi è difficile riconoscere, di famiglie vissute sempre nello stesso piccolo reticolo di strade attorno a via Lomellina, vacanze in Liguria, il tram la mattina presto, le botteghe, il vicinato, il quartiere.
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Prestate fede ai vostri occhi
Cosa c’è dietro l’abiura che nel 1633 Galileo Galilei pronuncia davanti all’Inquisizione? Niente, solo ciò che si vede e che è immediatamente comprensibile senza dietrologie: semplice paura del dolore fisico.
Bertolt Brecht ci consegna in questo dramma un ritratto realistico e materiale dello scienziato pisano che dialoga con il popolo, è afflitto da preoccupazioni economiche, non è privo di scaltrezze e senso pratico, beve vino, apprezza la buona tavola, scrive le sue opere in volgare anziché nel latino dei dotti, strapazza e si fa strapazzare dalla sua governante, ma soprattutto ha davanti a sé l’evidenza di una nuova era destinata a cambiare il mondo e tuttavia deve dissimulare l’eccitazione e barcamenarsi tra pericoli, trappole e fastidi di ogni genere.
Nel corso delle quindici scene, dove c’è spazio anche per battute di spirito e passaggi divertenti, si scivola dalla commedia al dramma, per giungere infine ad un interrogativo sul ruolo degli scienziati nella società.
Brecht prima ci fa familiarizzare con il sanguigno scienziato accompagnandoci nel tinello di casa sua, lontano da cattedre, muffa e polvere. Poi ce ne mostra la grandezza, soprattutto nella rivoluzionarietà delle sue scoperte e nella sua lotta senza speranza contro le forze della conservazione (Galilei: “Signori, ve ne prego in tutta umiltà: prestate fede ai vostri occhi”. Matematico: ”Caro Galilei, ho ancora l’abitudine, anche se possa apparirvi antiquata, di leggere ogni tanto Aristotele: e, ve ne assicuro, quando lo leggo, credo ai miei occhi!”). Facciamo il tifo, trepidiamo, ci immedesimiamo, vorremmo che andasse a Roma e li stendesse tutti e poi, di fronte al suo cedimento, ci rifugiamo nel complottismo (l’avrà fatto per continuare a studiare! Per continuare a scrivere libri!) e rifiutiamo di usare gli occhi, rinnegando il suo insegnamento.
Bertolt Brecth vuole dirci che l’umana debolezza di Galilei è gravata di una grande responsabilità. La colpa di cui Galileo si è macchiato abiurando, secondo il grande drammaturgo, è di aver svuotato la scienza del suo significato sociale, di averla rinchiusa nel recinto delle dispute tra specialisti, fuori da ogni controllo e coinvolgimento popolare, e dunque libera di accettare ogni condizionamento e compromesso con il potere.
Brecht scrive la terza e ultima versione di Vita di Galileo dieci anni dopo il lancio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, ognuno dei quali ha costruito un potente apparato scientifico, militare e accademico per affermare la propria supremazia sul mondo. In Galileo egli vede l’autore del peccato originale che pesa sulla coscienza di ogni successiva generazione di scienziati. “La bomba atomica, come fenomeno tecnico non meno che sociale, è il classico prodotto terminale delle sue conquiste scientifiche e del suo fallimento sociale” (Bertolt Brecht, Note alla Vita di Galileo).
Nella prima versione, completata in esilio nel 1938, Brecht rappresenta l’abiura di Galileo come un’astuzia per poter continuare a lavorare senza essere molestato dai suoi persecutori . Si tratta di un pensiero rivolto agli antinazisti rimasti in patria, perché continuino a vivere senza farsi scoprire sotto Hitler. Ma dopo gli orrori della guerra e in piena corsa verso il baratro delle superpotenze vincitrici, Brecht ci toglie ogni speranza.
L’ex allievo Andrea ancora si illude e dice al suo maestro: “Volevate guadagnar tempo per scrivere il libro che solo voi potevate scrivere. Se foste salito al rogo, se foste morto in un’aureola di fuoco, avrebbero vinto gli altri”.
E Galileo: “Hanno vinto gli altri. E un’opera scientifica che possa essere scritta da un uomo solo, non esiste”.
“Ma allora perché avete abiurato?”
“Ho abiurato perché il dolore fisico mi faceva paura”.
Con l’abiura, Galileo si conquista la possibilità di continuare a studiare per assecondare una sua personale voglia, un suo privato vizio e di ciò prova vergogna, consegnandosi sconfitto alla storia: “Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.”
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The Ghost of Tom Joad
Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare.
Una tempesta di polvere, un disastro ecologico di grandi proporzioni, favorito da decenni di avido sfruttamento della terra.
Un esodo, una massiccia migrazione, che dalle terre inaridite conduce migliaia di famiglie verso una speranza di lavoro, cibo, sopravvivenza.
Un sistema finanziario e bancario che per sopravvivere deve continuare ad alimentarsi anche quando la terra diventa sterile per umana insipienza e ingordigia, anche quando gli uomini non hanno di che mangiare e pagare le tasse, anche quando le famiglie digiunano e non hanno più casa.
Un muro compatto di funzionari, impiegati, operai, commercianti, piccoli risparmiatori, pensionati e poveri diavoli: per sfamare se stessi e le loro famiglie seguono senza colpa le fredde leggi di un sistema in base al quale gli appetiti servono unicamente ad alimentare nuovi e più grandi appetiti e dove chi si accontenta non gode, ma soccombe e lascia spazio al più forte, al più fortunato, al più ingordo, al più veloce.
Una terra ricca e fertile, un’agricoltura che è diventata commercio e industria e poi finanza. Un mondo di benessere che attrae, che richiama, che ha bisogno di braccia, tante braccia, e più sono e meno costano, dunque occorre chiamare uomini, donne e bambini da lontano, molto lontano, abbagliati dal miraggio e disposti a tutto.
Una moltitudine in movimento che varca confini e occupa spazi, che ha fame e non ha soldi, che è primordiale nei suoi bisogni e dunque appare rozza, brutale, sporca, minacciosa, infetta.
Una comunità sotto assedio, che teme per il proprio lavoro, la propria casa, la propria salute, la propria sicurezza, le proprie donne, la propria identità e il timore diventa paura e la paura diventa odio e l’odio diventa pregiudizio e l’ignoranza propaga il pregiudizio, l’odio, la paura.
Chi ha paura cerca una difesa. Contro la sporcizia, contro le malattie, contro la criminalità, contro il pericolo venuto da lontano. Occorre stringersi, unirsi, armarsi, vigilare, respingere.
E c’è, soprattutto, l’inesorabile legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, il delicato meccanismo che per essere mantenuto tonico ed efficiente deve fondarsi sullo spreco, sulla deliberata distruzione di parte del raccolto per tenerne alto il prezzo.
Ma sacrificare i frutti della terra in nome del dio denaro, mentre gli uomini non hanno di che sfamarsi, significa commettere azione empia verso la terra e verso gli uomini. E‘ una ubris che aspetta di essere risarcita, e infatti i grappoli d’uva lasciata marcire sui tralci diventano grappoli d’ira, collera, furore.
Ora possiamo riaprire gli occhi. Dove abbiamo visto tutto questo?
Queste immagini, queste scene che potrebbero essere cronaca del XXI secolo fanno da sfondo e da ambientazione ad un grande romanzo scritto settantacinque anni fa e ancora in grado di competere in attualità, forza e incisività con tante inchieste, ricerche o riflessioni contemporanee.
John Steinbeck scrisse Grapes of Wrath nel 1939, dopo aver studiato la condizione di vita dei contadini dell’Oklahoma a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quelli che seguirono la Grande Depressione e sconvolti dalla Dust Bowl, il cataclisma che li fece migrare in massa verso ovest, alla disperata ricerca di lavoro.
La storia della famiglia Joad, del suo viaggio della speranza lungo la Route 66 vuole riassumere e rappresentare l’epopea di un’intera generazione di agricoltori e favorire la denuncia di “un’economia che uccide” , come dice Papa Francesco. Se “Nutrire il pianeta, energia per la vita” (tema di Expo 2015) ci sembra un obiettivo oggi tanto utopico quanto urgente e necessario, è segno che in questi decenni ancora tante famiglie Joad in ogni parte del globo hanno intrapreso con diverse fortune il loro viaggio della speranza.
Pagine che scorrono veloci, parole che pungono, personaggi che rimangono impressi. Tra tutti, mi piace ricordare due donne. L’immensa Ma’, vero centro di gravità della famiglia, titanica e bellissima nel suo impossibile sforzo di tenere unita la famiglia e nel difenderne valori e dignità, e la piagnucolosa Rose of Sharon, a cui spetta l’onore della scena finale del romanzo, perché anche i deboli talvolta trovano nelle avversità qualche occasione di riscatto.
Storia che scava, che colpisce, che ispira (John Ford, Woody Guthrie, Bruce Springsteen) e che continuerà a parlarci a lungo. “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti … dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì …. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì … e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito … be’, io sarò lì”.
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Non dimenticarsi di Abele
Spingendo la notte più in là è uno di quei libri che ogni tanto fa bene leggere. Mescolando cronaca e storie famigliari, a partire dalla propria, ci parla di chi ha pagato il prezzo più alto degli “anni di piombo”. Le pagine ripercorrono in fretta quel periodo, soffermandosi con delicatezza sulle vittime, sul dolore lasciato, sugli orfani e sulle vedove, senza indugiare più del dovuto, giusto il tempo di stabilire un contatto umano, una vicinanza, un’intima solidarietà.
Parlare delle vittime e delle loro famiglie, occuparsi di loro, ricordarle è una scoperta relativamente recente. Per lunghi anni il centro della scena è stato occupato dai rei, dai colpevoli o presunti tali, dagli assassini, verso cui si scaricano le nostre reazioni emotive più forti e che si prestano maggiormente ad analisi socio-psicologiche più o meno valide e a strumentalizzazioni politiche, ideologiche, mediatiche. Nei confronti delle vittime ha invece prevalso spesso l’imbarazzo, il disagio rivestito pudicamente di rispetto, e infine l’oblio.
Ma un po’ alla volta sono sorte iniziative, si sono costituite associazioni, si sono scritti libri e dunque adesso si può dire che, dopo essersi a lungo occupati di Caino, da qualche tempo ci si sta interessando anche di Abele, pur in proporzioni ancora molto diverse.
Mentre su Caino siamo sempre pronti a radicalizzare le nostre idee, a dividerci e scontrarci, a dare giudizi netti quanto spesso frettolosi e superficiali, su Abele invece esitiamo, siamo più turbati, non troviamo le parole, i gesti, gli sguardi.
Spingendo la notte più in là parla anche di pacificazione, però autentica e non di facciata come quasi sempre avviene. Più condizionati dalla sociologia e dalla politica che guidati da attenzione alle relazioni umane, spesso tendiamo a equiparare la “pacificazione” ad un colpo di spugna sui reati, ad un indebolimento del confine tra la ragione e il torto e al pieno reinserimento sociale dei colpevoli, termine che qualche volta si vorrebbe persino sostituire con il semplice “sconfitti”.
Incredibilmente troppo spesso ci si dimentica che una pacificazione autentica imporrebbe di chinarsi prima di ogni altra cosa verso le vittime, evitare che si riaprano ferite che faticano a rimarginarsi, occuparsi prima dei loro sentimenti e poi dei “diritti” del reo.
Come non esiste pena possibile o risarcimento possibile per la soppressione di una vita umana (le leggi stabiliscono dei limiti convenzionali dettati dal grado di civiltà e cultura giuridica raggiunto) così una vera riconciliazione non può avvenire per semplice procedura burocratica. I provvedimenti più o meno liberali che possono essere adottati dallo Stato sono una cosa ben diversa dal superamento delle barriere per proprio moto dell’animo. E le barriere possono essere superate, sembra suggerire il libro di Calabresi, ristabilendo innanzi tutto la verità senza opacizzarla, riconoscendo il male provocato senza cercare giustificazioni, trovando il coraggio di piangere lo stesso pianto della vittima, su un’unica sponda, non due pianti diversi su sponde diverse.
E’ giusto che uno Stato liberale e un sistema giuridico non vendicativo aiutino i rei a voltare pagina. Ma per parlare di ritorno alla normalità e di riconciliazione occorre che la pagina riescano a voltarla anche le vittime. Leggendo il bel libro di Calabresi ci si rende conto che mentre i primi sono accompagnati nel loro percorso da una folla fin troppo numerosa di supporter e di curiosi, le vittime sono lasciate spesso sole e devono trovare da sé l’energia, la voglia e il coraggio di guardare avanti.
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C'è chi dice no
Herman Melville pubblicò il racconto “ Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street” nel 1853, nel periodo più nero della propria parabola di scrittore. Moby Dick, uscito due anni prima, fu stroncato dalla critica, che lo definì incomprensibile, assurdo e pieno di “metafisica tedesca”. Ancora peggio andò con il romanzo “Pierre o delle ambiguità”.
E’ vero che Melville, quasi presagendo il suo insuccesso, durante la stesura di Moby Dick aveva teorizzato che “chi non ha mai fallito in qualche campo, quell’uomo non può essere grande. Il fallimento è la vera prova di grandezza”. Questa profezia non gli portò fortuna: di lì a pochi anni, Melville abbandonò completamente la narrativa, si arrabattò come poté per mantenere la famiglia e sfogò la sua vena artistica e contemplativa nella poesia, nei viaggi e nell’arte.
La trama di Bartleby lo scrivano è presto detta. In uno studio legale di Wall Street viene assunto un nuovo copista, di nome Bartleby. A differenza degli altri dipendenti dello studio, la cui produttività è piuttosto carente (per motivi diversi riescono ad essere lucidi ed efficienti soltanto mezza giornata) Bartleby si afferma subito come esempio di diligenza, decoro e discrezione. Tutt’altro che un indolente o un incapace, o un impostore. Ma entro pochi giorni succede un fatto inspiegabile, il primo di una serie di episodi che passo dopo passo fanno sprofondare la vicenda in un’enigmatica tragedia. E su quell’enigma per oltre un secolo si sono esercitate intere schiere di critici, di eruditi e di accademici a caccia di punteggi.
Succede che Bartleby, a sorpresa e inspiegabilmente, oppone una lunga serie di rifiuti tanto cortesi, quanto fermi, immotivati e irragionevoli a richieste che invece appaiono del tutto ragionevoli e sacrosante, e alla fine persino generose e caritatevoli. Bartleby, educatamente e cortesemente, non arretra, non cede e non accetta compromessi fino ad arrivare all’autodistruzione finale. In tanti hanno provato, ma nessuno è mai stato in grado di spiegare in modo risolutivo e definitivo la sua condotta. Melville ha giocato con il chiaroscuro, quasi volesse beffarsi dei critici che tante delusioni gli avevano procurato.
La scrittrice e filosofa Edith de la Héronnière, nel suo saggio “Ma il mare dice no”, colloca il grigio e insignificante Bartleby tra i personaggi letterari che le sono più cari, accanto ad Antigone, Cyrano, Oblomov, Cosimo di Rondò (il barone rampante) e altri, tutti accomunati da una rara capacità di dire di no.
L’esperienza quotidiana insegna che dire di no è infinitamente meno comodo, più rischioso e meno vantaggioso che dire di sì. Significa spesso opporsi a una lusinga, una promessa, un invito, un ordine, una minaccia, un’appartenenza. Significa escludersi, chiudere una porta, precludersi opportunità. Ancor più, con l’odierna demagogica manipolazione del “pensiero positivo”, chi dice no è automaticamente incluso nella categoria dei conservatori, dei menagramo, del vecchiume da rottamare, dei “gufi” (semplificazioni necessarie per chi ritiene di avere un grande progetto in testa e lo vuole realizzare; c’è solo da augurarsi che sia il progetto giusto).
Proviamo a ricordare le nostre esperienze personali. Ogni volta che abbiamo ricevuto un rifiuto, la nostra prima reazione è stata di trovarlo, in un modo o nell’altro e secondo le giuste proporzioni della specifica situazione, irragionevole (perché non ha accolto le NOSTRE ragioni) o irritante (perché ci ha dato una piccola, o grande, o grandissima delusione) oppure sconfortante (perché ha indebolito la nostra sicurezza sulla nostre capacità di persuasione o sulla nostra capacità tout court). Il no, anche se espresso nel modo più garbato, ci dispiace, è fastidioso e ci disturba. Qualche volta ci spaventa e ci impaurisce (e quando c’è paura, molto spesso c’è anche violenza, o prepotenza, o denigrazione).
Sentite la de la Héronnière: “No è una parola brutale. Non ha la rotondità del sì. Il suo colore, se mai dovessimo dargliene uno, sarebbe il nero, oppure il bianco della morte. Possiede connotazioni, per così dire, negative, ostili e redibitorie. Le immagini alle quali di solito si accompagna non hanno niente di simpatico: un muro, una porta sbattuta sul naso di chi resta fuori, un volto che si nega a chi lo guarda, una mano che afferra il braccio del bambino impedendogli di correre, di fare rumore, di ridere. Il no è la barriera, il rosso cartello segnaletico sbarrato di bianco esposto sulle strade, sulle porte, nei cuori. E’ una parola che ci riporta all’infanzia, ai suoi divieti, al lato oscuro dell’apprendimento che poi la vita si incarica di cancellare. Errore, impasse, senso vietato: parola di melassa e di catrame da cui la luce sembra ritrarsi. A chi di noi piace sentirsela dire?”
Chi dice no ci appare, sempre con la dovuta proporzione alla posta in gioco, una persona poco ragionevole, fondamentalmente ottusa, rigida, o almeno un tantino fredda, scostante, antipatica, poco interessata a noi.
Potremmo forse azzardare che il no pronunciato da una posizione di forza (ad esempio un superiore di grado) può far leva sulle emozioni negative che suscita in chi lo riceve ed essere persino usato come sadica dimostrazione di potere.
Il no pronunciato da posizioni di debolezza (ad esempio un sottoposto, come era Bartleby) corre invece il rischio di restare prigioniero dell’aura eroica che lo circonda e di arenarsi in un’intransigenza tanto sterile quanto masochistica o suicida.
In effetti, tra le numerosissime interpretazioni che furono date al racconto di Melville, ce ne furono alcune che lo leggevano come ribellione contro il pragmatismo utilitaristico e contro l’affannoso attivismo in voga a Wall Street. Altre al contrario vi individuavano il monito contro l’insostenibilità e lo sbocco suicida a cui avrebbero portato le tesi di Thoreau sulla resistenza passiva. (Henry Thoreau, autore di Walden- una vita tra i boschi, proprio in quegli anni aveva pubblicato il suo saggio “Disobbedienza Civile”).
E’ comunque indiscutibile che Bartleby lo scrivano, con la sua trama scarna e i suoi scialbi personaggi (ad iniziare dal protagonista, che paradossalmente rimane più in ombra degli altri) è una magnifica dimostrazione di come quelle due semplici lettere, unite a formare un’apparentemente innocua paroletta, siano in grado di scatenare una ridda di conseguenze imprevedibili ed incontrollabili.
Soprattutto perché cortese, ma ferma e irragionevole, quella frase “I would prefer not to” (che Gianni Celati traduce con: “avrei preferenza di no”) ci pone davanti all’abisso. E adesso? Ci chiediamo ancora increduli. Come giustamente osserva la de la Héronnière: “Il no di Bartleby pone chi lo circonda di fronte a se stesso. Con la sua inazione rivela l’inanità , ossia la stupidità di ogni azione. Con il suo silenzio dimostra l’inutilità di ogni parola. Con il suo rifiuto di lavorare getta una luce assurda sulla laboriosa agitazione dei suoi simili. La cosa più interessante, nel suo caso, sono le reazioni che suscita e che, a ben guardare, coprono l’intero arco dei sentimenti umani: dall’esasperazione alla voglia di uccidere, dal senso di colpa alla tenerezza, dal rimorso alla più profonda compassione. Come tutti i portatori di assoluto, questo piccolo uomo è uno specchio che ci rimanda sia alla nostra estrema umanità, sia alla nostra animalità”.
Nonostante verso la fine del racconto si trovi un indizio, l’unica nota biografica sul passato di Bartleby, che potrebbe orientare una possibile spiegazione, si è propensi a pensare che si tratti di una falsa pista, o di una spiegazione molto parziale. Cito sempre da Il mare dice no: “Qualcosa ci dice che per decifrarne il significato non dobbiamo abbordarla dal lato sociale o psicologico. Con Bartleby si entra nel campo della metafisica e può anche darsi che non esista una vera e propria spiegazione umana per l’atteggiamento di questo eroe. Intuiamo che il suo silenzio è gravido di una protesta rivolta non contro gli uomini o gli dèi ma contro la vita stessa. Se ci sconvolge è proprio perché ci conduce verso uno spazio dove gli argomenti affettivi, psicologici, sociali e religiosi non hanno più corso, ossia verso una sorta di aldilà”.
La capacità di Bartleby di incuriosirci, di commuoverci, di farci pensare e di interessarci nonostante il suo mesto grigiore, e di chiederci alla fine: “dove sta il trucco?” richiama un altro caso di “perdente di successo” della letteratura americana: il più recente e meno problematico Stoner. Anche la vicenda umana di quest’ultimo, guarda caso, è molto segnata da un “no” pesante da lui pronunciato, pur se privo di qualsiasi alone di mistero, ma questa è un’altra storia…
Chiudo segnalando che l’edizione del racconto curata e tradotta da Gianni Celati contiene anche un saggio dello stesso Celati, un elenco ragionato delle varie interpretazioni nel corso del tempo e una selezione delle lettere scritte da Melville nel periodo intercorrente tra la pubblicazione di Moby Dick e la pubblicazione di Bartleby lo scrivano. Tra di esse, anche quelle all’amico Nathaniel Hawthorne, a cui Moby Dick è dedicato.
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Una sacra insoddisfazione
Parafrasando l’espressione preferita che papà Chandal, il padre di Davita, usava per esprimere tutto il suo entusiasmo e il suo amore per la figlia, devo esordire subito così: “Questo sì che è un bel libro!”
Siamo negli anni Trenta del Novecento, alla vigilia della guerra civile in Spagna. In Europa infuria lo scontro tra opposte ideologie e si affermano i totalitarismi. La Grande Depressione ha sconvolto il mondo occidentale e appare come l’avvisaglia del crollo del capitalismo. Fascisti, nazisti e comunisti sembrano ormai contendersi le spoglie di un sistema finito. A caccia di facili capri espiatori, dilagano i pogrom, l’antisemitismo, il sospetto, il tradimento, le faide.
Ilana Davita è una bambina che vive a New York con sua mamma, un’ebrea polacca, e suo papà, rampollo di una facoltosa famiglia del Maine. Papà e mamma hanno già una bella fetta di orrore alle spalle, ma Davita non lo sa. Non ancora. Il suo sguardo si mantiene ad altezza di bambino, la sua vita scorre tranquilla tra gli energici abbracci del papà e le meditabonde attenzioni della mamma all’interno di mura domestiche che, soltanto, cambiano un po’ troppo spesso per via dei continui traslochi.
In casa viene spesso tanta gente estranea, e parlano, fumano e discutono fino a tarda ora. Non ci si capisce nulla, ma entro i confini della sua stanza c’è un mondo più interessante da decifrare, popolato dalla strega Baba Yaga, da cavalli che galoppano in riva al mare e da uccellini che vagano per il mondo inseguendo una musica misteriosa. E c’è un’arpa sempre appesa alla porta di ingresso, un’arpa eolia pronta ad accoglierla in ogni nuovo nido e a suonare ogni volta che qualcuno varca la soglia.
Papà e mamma sono comunisti. Lei dunque è un’ebrea, figlia di comunisti. La scuola e la strada ne rafforzano il carattere e il coraggio, senza farle perdere candore e innocenza. Papà e mamma hanno tante cose a cui pensare. Cose importanti. Papà è giornalista. Mamma è un’intellettuale. Entrambi vogliono cambiare il mondo. E fermare il fascismo, che è il grande nemico, il grande pericolo. Davita è un raggio di sole. Davita è la loro vita, ma la vita di papà e mamma è al servizio di una causa superiore e assoluta.
Tutto questo ancora Davita non lo sa, o meglio non lo può capire. Davita poco a poco compone il puzzle della sua vita e si imbatte in pezzi dai colori e forme più disparati: guerra e uccellini, Baba Yaga e castelli di sabbia, comunismo, fascismo, scioperi, proletariato, lavoro, giornale, riunioni. Ogni casella prima o poi andrà a posto, intanto lei osserva e mette da parte.
Una sezione importante del puzzle è occupata dalla religione e anche questa è divisa in tanti frammenti.
Papà e mamma hanno abbandonato le rispettive fedi cristiana ed ebraica, dunque Ilana Davita non riceve un’educazione religiosa. Ma la quotidianità è fatta di incontri e di piccole scoperte e Ilana Davita si apre con curiosità alle persone che osservano il Shabbos, accendono le candele di channukkah, celebrano la havdoloh, recitano il kaddish, frequentano la yeshiva, evitano di leggere i giornali goyshe, mangiano cibi kosher, studiano la Torah, festeggiano il Lag Ba’omer. Davita, e il lettore con lei, è attratta e un po’ intimorita da questi strani suoni, riti e melodie, da questi giovani pallidi e magri che vivono in modo così diverso da lei, da queste pratiche che le suonano altrettanto incomprensibili delle fumose riunioni politiche che impegnano i suoi genitori. Ilana Davita poco alla volta si accosta a questo mondo come se esplorasse una stanza piena di oggetti misteriosi. La curiosità la spinge a frequentare la sinagoga, a spiare nel buco del tramezzo che separa uomini e donne, a infrangere innocentemente le regole, a dare scandalo senza sentirsene in imbarazzo e poi chiedere candidamente mille “perché” a chi non si è mai fatto domande perché è stato allevato nel più cieco rispetto della Legge.
Chaim Potok ci mostra come ci si possa accostare alla religione con semplicità, al di fuori da ogni dogma, e quanto le Chiese, pur indispensabili per vivere pienamente ogni fede religiosa, possano apparire talvolta ottuse, inique e disumane. Le istituzioni, anche quelle religiose, talvolta soffocano gli ideali e lo spirito vitale su cui sono state fondate e che dovrebbero proteggere. Chi cresce nel più rigoroso rispetto di dogmi, leggi e apparati, quando si imbatte in una falla del sistema, ne ricava la cocente esperienza del tradimento e della delusione. E’ il caso della mamma di Ilana Davita, che dapprima sperimenta la più intransigente ortodossia religiosa e poi si forma lei stessa alla più osservante ortodossia comunista: tanta rigidità rende fragile il proprio universo, che quando viene colpito dal cuneo delle contraddizioni si sbriciola in mille pezzi. Davita invece segue naturalmente il corso delle cose, senza preconcetti, con interesse genuino e senza perdere mai il suo senso critico. E quando la vita colpisce duro, trova una corazza più duttile e resiliente ad incassare il colpo.
Questo romanzo, che temevo ostico e difficile, mi ha invece conquistato immediatamente per il tono semplice e sobrio e per la sua capacità di assumere la prospettiva di una bambina intelligente e sensibile, che cresce e si forma in un’epoca così travagliata. La prima parte è più lieve e quasi melodiosa. Man mano che la Storia entra nella storia, con il suo carico di lutti e di sciagure, o ci si addentra nel bosco fitto dei riferimenti di cultura ebraica, il ritmo si fa più lento e riflessivo, ma ormai ti sei appassionato ai personaggi e non vedi l’ora di aprire la porta di casa, far risuonare l’arpa e seguire con partecipazione la loro giornata.
Ho trovato bellissimo il finale. Tranquilli, niente spoiler.
Ilana Davita , che ha motivo di essere furiosa con il mondo, demoralizzata e sconcertata, riceve da zia Sarah, che presta materne cure ad anime e corpi, un prezioso consiglio da portare sempre con sè: “Sii insoddisfatta del mondo, ma nello stesso tempo rispettalo”.
Grazie a Sarah, Davita raggiunge una comprensione del mondo dei genitori che prima non poteva avere: “non lo sapevano, disse dolcemente, ma erano posseduti da una sacra insoddisfazione”.
E l’uccellino è ormai pronto, a malincuore, a spiccare il volo:
“Tenevo mia sorella, la cullavo dolcemente, annusavo i profumi della sua piccolezza – olio, talco e latte – e, in un momento di amarezza, pensai: Goditi la tua infanzia. Torneranno abbastanza presto a riprendertela”.
Un sincero grazie ad Emilio Berra, dal quale ho tratto la segnalazione di questo romanzo. Tra l’altro, ha perfettamente ragione a definirlo un romanzo “terapeutico”, capace di riconciliarti con la vita.
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